Reggia di Mida.

 

L'ho detto, che quella fu una bizzarra stagione per me. Il contrasto fra me e la matrigna non era che uno degli aspetti della grande guerra che, rapidamente, col rifiorire della primavera, sembrava essersi scatenata fra Arturo Gerace, e tutto il creato restante. Il fatto era che il ritorno della bella stagione in quell'anno per me si accompagnò, credo, col passaggio di quella età, che vien detta, dalle buone famiglie, età ingrata. Non m'era mai accaduto, prima, di sentirmi così brutto: nella mia persona, e in tutto quello che facevo, avvertivo una strana sgraziataggine, che incominciava dalla voce. M'era venuta una voce antipatica, che non era né più da soprano (come la mia di prima) né, ancora, da tenore (come la mia di dopo): pareva quella di uno strumento scordato. E tutto il resto, era come la voce. La mia faccia era ancora di un disegno piuttosto rotondo, liscia; e il corpo, invece, no. Il vestito di prima non m'entrava più, così che N., benché nemica, dovette occuparsi ad aggiustare per la misura mia certi pantaloni da marinaio che una sua amica bottegaia le dette a credito. E intanto io avevo l'impressione di crescere senza grazia, in una maniera sproporzionata. Le mie gambe, per esempio, in poche settimane erano diventate così lunghe da impacciarmi; e le mani mi s'erano fatte troppo grandi in confronto al corpo, rimasto magro e snello. Quando le chiudevo, mi pareva di portare i pugni di un brigante adulto, che non ero io. E non sapevo che fare, con quei pugni da assassino: avevo sempre voglia di menarli dovunque fosse, tanto che, se non me lo avesse impedito la superbia, mi sarebbe piaciuto di litigare col primo incontrato, magari con un capraro, con un bracciante, con chiunque. Invece, non attaccavo discorso né lite con nessuno; e anzi, più ancora di prima, se possibile, mi tenevo distante da tutti. In verità, mi sentivo un personaggio così stonato e maledetto che quasi avrei voluto andare a rinchiudermi in qualche tana, dove mi si lasciasse crescere in pace fino al giorno che, come già ero stato un ragazzino abbastanza bello, non fossi diventato un giovane abbastanza bello. Ma: andare a rinchiudermi! sì! una parola! come avrei sopportato di stare rinchiuso, quando mi sembrava d'avere addosso uno spirito infernale, che mi trasformava in una specie di animale selvatico, tutto il giorno alla caccia di non sapevo quale preda! La benignità della stagione inaspriva il mio umore: nell'inverno, nella tempesta sarei stato più contento. Le grazie primaverili dell'isola, che gli altri anni mi piacevano tanto, m'ispiravano quasi una rabbiosa ironia, mentre m'arrampicavo e ridiscendevo per quelle rocce e quei prati con le mie lunghe gambe, simile ad un camoscio o a un lupo, in una turbolenza continua che non trovava sfogo. In qualche momento, l'allegrezza trionfale della natura mi vinceva, trascinandomi a esaltazioni straordinarie. I fiori fantastici dei vulcani, che invadevano ogni pezzo di terreno incolto, sembravano spiegarmi per la prima volta certi motivi deliziosi della loro forma e dei loro colori, invitandomi a una festa gioiosa, cangiante... Ma subito mi riprendeva la solita collera sconsolata, resa più acre dalla vergogna di quel mio vano trasporto. Non ero una capra, o una pecorella, per saziarmi d'erbe e di fiori! E per vendicarmi, devastavo il prato, strappando i fiori, pestandoli ferocemente sotto i piedi.

La mia disperazione somigliava alla fame e alla sete, pur essendo cosa diversa. E dopo aver tanto sospirato di arrivare a una maggiore età, quasi rimpiangevo le mie età di prima: che cosa mi mancava, allora? niente. Avevo voglia di mangiare: e mangiavo. Avevo voglia di bere: e bevevo. Desideravo divertirmi: e me ne andavo sulla Torpediniera delle Antille. E l'isola, per me, che cos'era stata, finora? un paese d'avventure, un giardino beato! ora, invece, essa mi appariva una magione stregata e voluttuosa, nella quale non trovavo da saziarmi, come lo sciagurato re Mida.

Mi prendevano voglie di distruzione. Avrei voluto poter esercitare un mestiere brutale, per esempio, lo spaccapietre, per occupare il mio corpo, dal mattino alla sera, in una qualche azione futile e violenta, che mi distraesse, in qualche modo. Tutti i piaceri della bella stagione, che una volta mi bastavano, mi apparivano insufficienti, irrisori; e non c'era nessuna cosa ch'io facessi senza una volontà d'aggressione e di ferocia. Mi tuffavo nel mare con atti bellicosi, alla maniera d'un selvaggio che si butti sull'avversario stringendo un coltello fra i denti; e, nuotando, avrei voluto rompere, devastare il mare! Poi saltavo sulla mia barca, remando all'impazzata verso il largo; e là, nell'alto mare, mi davo a cantare disperatamente con la mia voce scordata, come se urlassi delle parolacce.

Al ritorno, mi stendevo sulla rena assolata, che somigliava a un bel corpo di seta, nel suo tepore carnale. Mi abbandonavo, quasi cullato, alla leggera stanchezza del mezzogiorno; e avrei voluto abbracciarmi con la spiaggia intera. A volte, dicevo tenerezze alle cose, come fossero persone. Incominciavo a dire, per esempio: - Ah, bella rena mia! spiaggia mia! luce mia! - e altre tenerezze più complicate, addirittura da pazzo. Ma era impossibile abbracciare il grande corpo della spiaggia, con la sua innumerevole sabbia vetrina, che sfuggiva fra le dita. Là presso, un mucchio d’alghe, macerate dai salino primaverile, mandava un odore dolce e fermentante, come di muffa sull'uva; e io, quasi fossi diventato una gatta, mi divertivo a mordicchiare, a sparpagliare furiosamente quelle alghe. Troppa era la mia voglia di giocare: con chiunque, magari anche con l'aria! E occhieggiavo al cielo, aprendo e richiudendo forte le palpebre. Il puro azzurro disteso su di me sembrava avvicinarsi, trapungendosi come un firmamento, poi incendiarsi in un gran fuoco unico, poi farsi nero d'inferno... Mi rivoltavo sulla rena ridendo: la vanità di questi giochi mi esacerbava.

Allora, ero preso da una compassione quasi fraterna di me stesso. Tracciavo sulla rena il nome: ARTURO GERACE aggiungendo E' SOLO; e ancora, di seguito, SEMPRE SOLO.

E più tardi, mentre risalivo verso casa con la certezza di non trovare, là, nient'altro che una nemica, mi assalivano, spesso, delle volontà infernali! Decidevo di afferrare la matrigna per i capelli, di buttarla in terra, e di picchiarla con quei miei pugni spropositati, gridandole: "Basta, con queste tue maniere maledette! Devi finirla!" Ma poi, alla presenza di lei, i miei propositi biechi fuggivano. Mi sentivo pieno d'imbarazzo e d'onta, come se là, nella cucina, non ci fosse più posto per me. La famosa panca, dove una volta amavo distendermi, s'era fatta troppo corta per la mia statura. Le mie gambe lunghe, la mia voce innaturale, le mie mani, m'ingombravano più che mai. E una sensazione sconsolata, disastrosa, m'invadeva: che le mie presenti bruttezze, e non altro, fossero la causa per cui N. mi scansava da sé!

Da vecchi, poi, lo so, simili tragedie risultano, più che altro, comiche; e se si vuole, adesso, a distanza anch'io ne rido. Ma bisogna riconoscere che non è facile passare le ultime frontiere di quella pessima età ingrata senz'aver vicino nessuno a cui confidarsi: né un amico, né un parente! Allora, per la prima volta nella mia vita, io sentii davvero tutta l'amarezza di esser soli. Incominciai a rimpiangere disperatamente la presenza di mio padre (egli mancava ormai da circa due mesi e mezzo: un intervallo inaspettatamente lungo, dopo quell'epoca durante la quale, come ho già detto, lo si rivedeva spesso sull'isola). Nella mia nostalgia, mi facevo, di lui, un ritratto romantico, e non troppo rassomigliante, devo dire. Dimenticavo assolutamente che fra noi non c'era mai stata nessuna confidenza. E che certe cose, a lui soprattutto, non avrei mai potuto né saputo confidarle. Dimenticavo perfino il suo contegno degli ultimi tempi, non certo incoraggiante per la conversazione.

Mi rappresentavo W. G. come una sorta di grande angelo affettuoso, il solo amico mio sulla terra: colui al quale potrei confessare, forse, tutte le mie ambasce, anche quelle inconfessabili, e che potrebbe capirmi, spiegarmi ciò che non capivo! Via via che quella mia perfida primavera maturava nel disordine e nel tormento (e doveva essere l'ultima primavera da me passata a Procida!), io mi attaccavo alla visione angelica di mio padre come all'unico rifugio sperato. Tutto ciò che rendeva inverosimile, utopistico, un simile sogno, io me lo nascondevo, ormai. Una speranza, a volte, indebolisce le coscienze, come un vizio.

E ricominciai, al modo di quand'ero ragazzino, benché per motivi differenti, ad aspettare ogni giorno Wilhelm Gerace. Mi trovavo fedelmente, ostinatamente sulla banchina, ad ogni arrivo del piroscafo da Napoli: finché, com'era inevitabile, un bel giorno egli ritornò. Giunse col secondo piroscafo del pomeriggio, che entrava in porto verso le sei. S'era alla metà di maggio, le giornate erano ormai lunghe, e, alle sei, durava ancora la piena luce solare.

 

 

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