La grande gelosia.

 

Per me era uno strazio vedere come le azioni più semplici ch'egli faceva: per esempio, offrire una mollica di pane a un galletto, o agitare con entusiasmo un sonaglio, a lei parevano bravure splendide. E quando lui, che non aveva mai visto né conosciuto niente, scopriva qualche novità, come: l'esistenza dei conigli, oppure: che il fuoco brucia, lei, ogni volta, lo onorava come un grande pioniere. Appena c'era da vedere qualcosa di bello, subito essa era impaziente di mostrarlo a lui; sorgeva la luna, e subito lei correva a prenderlo in braccio, per portarlo davanti alla finestra, dicendogli: - Carminiè, guarda! guarda la luna! - Passava una barca a mare, e subito lei si rallegrava, sapendo che a lui piaceva di vedere camminare le barche. E appena pareva (secondo lei, almeno, e quelle altre femmine adulatrici) che lui, a modo suo, imparasse a distinguere col nome un oggetto, per esempio una sedia, il coro di tutte quelle femmine, assieme a lei, si dava a esclamare:

- Bravo! la sedia, sì! Bella, la sedia! Bella! bella! - con un tono pomposo e cerimonioso. Quasi che quella sedia, per il fatto (presunto, poi, da loro!) che lui la riconosceva col nome, fosse diventata all'improvviso una gentildonna di riguardo. Se però, supponiamo per ipotesi, capitava che lui si facesse male, urtando contro la sedia medesima, questa ridiscendeva a un rango infimo di delinquente, e veniva proclamata bruttissima, e maltrattata e bastonata senza pietà.

Io presi a farmi vedere sempre più spesso nella cucina, dove N. trascorreva con Carmine gran parte delle sue giornate. A tutti i momenti le comparivo davanti, e per obbligarla a notare la mia persona mi davo a camminare su e giù con aria quasi minacciosa, oppure mi buttavo disteso in terra sbadigliando, o rimanevo a lungo seduto a un passo da lei, fosco e superbo come un rimprovero vivente. Ma si sarebbe detto che, per lei, io ero diventato un corpo invisibile, o poco meno. Ripetute volte, in quelle sere, ostentai di spiegare sulla tavola le famose mappe dell'atlante, tracciandovi sopra, in lungo e in largo, risoluti segni di matita; ma senza nessun effetto. Essa sedeva vicino alla cesta di Carmine, canticchiando per lui, senza occuparsi delle mie faccende. Anche, spesso, io ripresi il libro degli Eccellenti Condottieri, fingendo di leggerlo giacché l'umore di dedicarmi alla lettura, non me lo sentivo). Ogni tanto, sceglievo apposta qualche passo più sorprendente, e lo leggevo ad alta voce, commentandolo con esclamazioni fragorose, enfatiche! Ma essa a malapena, distratta, mi domandava: - Che studi, Artù? - e subito tornava a Carmine, e lo scrutava preoccupata, credendo di averlo udito lamentarsi nel sonno.

Un giorno, cogliendo un momento ch'essa posava gli occhi su di me, presi una decisione e corsi alle sbarre del lucernario, facendo la bandiera e altri esercizi; e il risultato fu ch'essa esclamò:

- Carmine! guarda bello! guarda che cosa fa Arturo! - come s'io fossi un saltimbanco ai comodi di Carmine! per cui balzai subito giù in terra e uscii dalla cucina, fremente d'ira nascosta.

Stavolta, quasi mi giurai di lasciare quella maledetta col suo Carmine, e di considerarla anch'io un essere invisibile, assolutamente dimenticato. Ma sentii che, purtroppo, non potevo rassegnarmi a una tale idea: non foss'altro, perché dovevo punire questa donna. La accusavo, fra me, d'essere infame proprio come le solite matrigne, che, appena avuti i figli loro, buttano i figliastri da una parte. E mi sarebbe piaciuto d'imitare i figliastri ripudiati dei romanzi, allontanandomi dalla matrigna disumana, per andarmene alla ventura. Ma, ohimé, come facevo? ormai, che la sapevo infida, ero certo che partendo mi sarei cancellato fino dalla sua memoria: non sarei stato più nemmeno un figliastro, per lei, nemmeno un infimo parente. A ciò, non sapevo adattarmi; e progettavo, allora, di compiere qualche azione grandiosa, tale che, pure da lontano, ella dovesse per forza ammirarmi, e interessarsi a me. Per esempio, di aggregarmi a una spedizione aerea in partenza per il Polo... oppure di scrivere un poema così sublime, da diventare famoso fino in America, al punto che i Napoletani deciderebbero di erigermi un monumento sulla piazza del Porto... Quando poi, giunto al sommo del trionfo, vedessi lei in ginocchio dinanzi a me per l’ammirazione, mi ripromettevo di dirle: "Vattene dal tuo Carmine, adesso. Addio".

Ma simili progetti erano troppo incerti e remoti, per consolarmi, nell'impazienza delle mie delusioni quotidiane. Inoltre, queste delusioni medesime, con la loro crudeltà, mi tenevano più che mai incatenato all'isola. Giacché nell'isola c'era lei; e io non potevo fare a meno di starle vicino, non foss'altro che per testimoniarle, con la mia presenza, il nostro passato ormai tradito, e la sua infedeltà.

Adesso, imparavo che tanti poeti dicono il vero, affermando la poca costanza delle donne. E anche sulla bellezza delle donne, essi non mentono; però, fra tutte le donne famose, da essi celebrate, nessuna mi pareva degna di competere, in bellezza, con N. Ci vuol poco, difatti, io pensavo, a comparire belle, quando si hanno, come quelle là, oltre alle chiome d'oro, e agli occhi di pervinca, e al corpo di statua, ricevuti già dalla natura, per di più anche vesti di broccato, ghirlande e diademi! Ma avere, invece, un corpo senza nessuna beltà, anzi piuttosto malfatto, con povere forme grossolane; capelli, occhi mori; scarpacce ai piedi; vesti da stracciona: e, con tutto ciò, essere bella come una dea, come una rosa! ecco un vanto supremo di vera bellezza! E una tale bellezza non si può descrivere in una poesia, giacché le parole sono incapaci; nemmeno dipingere in un quadro, giacché non e cosa che si può fermare. Forse, una musica potrebbe servire meglio; e mi domando se, invece che un grande comandante, o un poeta, non mi piacerebbe, piuttosto, di diventare un musicista. Purtroppo, non ho mai studiato le note, e, pur possedendo una buona voce per cantare, conosco soltanto qualche canzonetta napoletana...

Perfino le bruttezze irrimediabili, ch'essa aveva, mi apparivano, adesso, delle grazie uniche, senza uguali; anzi, ero convinto che se per un futuro miracolo, d'un tratto, quelle sue bruttezze fossero state sostituite da altrettante perfezioni, la sua bellezza non ne avrebbe guadagnato, al contrario; e io avrei sempre rimpianto le sue sembianze presenti. A tal punto la giudicavo bella! e non mi sembrava possibile che tutta l'altra gente non dividesse il mio giudizio: tanto che pure il più semplice saluto, le parole più comuni che le venivano rivolte, a me sembravano omaggi riverenti, segni d'adorazione!

E se ripensavo che, fino a pochi mesi prima, questa madre bellissima mi aveva trattato come uno dei suoi parenti più cari, bramando i miei ordini come un onore, sospirando la mia compagnia, - mi ribellavo agli infami capovolgimenti della sorte! Sentivo che non potrei mai aver pace s'ella non ritornava a essere, verso di me, almeno uguale a com'era stata prima della fatale venuta del fratellastro; e tuttavia, non volevo a nessun costo tradire questa mia nostalgia ai suoi occhi. Studiavo, perciò, disperatamente, un mezzo che, senza scalfire il mio orgoglio, la costringesse a occuparsi di me, oppure a manifestare, una volta per sempre, la sua indifferenza irrimediabile verso Arturo Gerace.

 

 

L'isola di Arturo
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