L'attentato.

 

Adesso che aveva Carmine, dal mattino alla sera ella stava sempre a cantare e a ridere, tanto era beata; quando la sua bocca non rideva, ridevano i suoi occhi.

In poche settimane, era sbocciata in una bellezza inattesa, che appariva davvero un miracolo della felicità. Il suo antico pallore di rinchiusa era scomparso: eppure, ella viveva, non meno di prima, nel chiuso delle stanze. La sua carne aveva preso un colore rosa, ridente e florido; e nel suo corpo, le magrezze di una volta si erano colmate in una formosità gentile di donna. Insieme, però, s'era fatta più lunga e slanciata che non fosse ai nostri primi tempi; e camminava con più grazia, leggera sui piedini.

La mortificazione, che (forse fino dalla sua nascita povera) impacciava i suoi movimenti, d'improvviso era sparita: morbida come una gatta, essa accorreva alla voce di Carmine! E quando lo portava in braccio, non sembrava risentirsi di quel peso; anzi, tanto più, crescendo, egli pesava, e tanto più grande era l'onore per lei. Nel fiero portamento, la sua testa si gettava un poco indietro, festante al contrasto con quegli altri riccetti d'oro.

Portava sempre la stessa pettinatura a crocchia, che io le avevo insegnato; ma mezza disfatta, per causa di Carmine, il quale giocava di continuo coi suoi boccoli. Egli giocava coi suoi boccoli e con la sua faccia, con la sua catenina e col suo corpetto; e lei rideva, in una libertà impetuosa, fresca e selvaggia. Fin dalla mattina presto, io li udivo dalla mia stanza che subito appena svegli incominciavano a mischiarsi fra loro due in giochi e risate, dialogando alla loro maniera. Ascoltavo le parole che, per lodarlo, essa inventava meglio d'una poetessa; e nell'ascoltarle, un'amarezza mi correva per le vene. In certi momenti, quest'amarezza era tale, che quasi avrei voluto non esser nato.

Era l'ingiustizia, più che altro, che mi dava sui nervi: giacché a me, in tutta la mia vita, non era mai toccata la soddisfazione di sentirmi tanto adulare da qualcuno. Eppure anch'io, sebbene moro, e non biondo come costui, non ero brutto. Lo stesso mio padre l'aveva dichiarato più d'una volta, per esempio quella lontana sera che aveva detto, alla presenza di lei: È un bel ragazzino - non per niente è mio figlio!, e similmente, in passato, in diverse altre occasioni. Al massimo, però, le sue frasi erano state: Eh, dai, che lo sai benissimo di non esser brutto, oppure: Vediamo quanto ti sei fatto bello nella mia assenza. Beh, non c'è male, e così bastava. Niente di paragonabile con le lodi favolose ch'essa faceva al fratellastro, le quali, pure se a volte le uscivano sconclusionate, parevano forse per questo, anche più dolci. Adesso, più che mai capivo che soddisfazione sia, per un uomo, avere una madre.

Non solo essa lo complimentava e vezzeggiava di continuo; ma, assai spesso, discorreva con lui gravemente, come se lui, che non capiva nulla, la potesse capire; e le piccole risposte inarticolate ch'egli le dava, a lei bastavano. Ormai, essa aveva questa nuova compagnia, e nessun'altra compagnia le serviva più. Contenta di stare con lui, non si ricordava di nessun'altra persona. Da quando la stagione aveva cominciato a intiepidirsi, se lo portava in collo dovunque andasse, anche la mattina a fare la spesa, sebbene avesse già il carico della sporta; e lui si divertiva come se viaggiasse in carrozza attraverso chi sa quali meraviglie avventurose: forse reami, porti delle coste oceaniche, bazar delle gemme e dell'oro!

Certe volte, discorrendo con lui secondo il solito, essa fingeva apposta di disprezzarlo: - Siete brutto, sdentato, - gli diceva, eh, di te, che me ne faccio? Sai che faccio? Ti porto giù alla piazza, e ti vendo -. Allora io cercavo di raffigurarmi, come un sogno, il caso impossibile ch'essa veramente non volesse più saperne di lui, e lo vendesse come merce, lo buttasse via, lo consegnasse a una nave di pirati! Soltanto a rappresentarmi questo sogno nella mente, già provavo una certa soddi-sfazione, e quasi una parvenza di sollievo.

 

Ripensavo a quanto m'ero offeso il giorno ch'essa m'aveva proposto di chiamarla ma’ e tuttora riconoscevo d'aver avuto ragione a offendermi. Però, non mi sembrava giusto che, mentre io non avevo una madre, lei, invece, avesse un figlio. La mia invidia più intollerabile, poi, non l'ho ancora detta. Era questa: ch'ella gli dava dei baci. Troppi baci.

Non sapevo che ci si potesse dare tanti baci al mondo: e pensare che io non ne avevo dati né ricevuti mai! Guardavo quei due che si baciavano come si guarderebbe, da una barca solitaria nel mare, una terra inapprodabile, misteriosa e incantata, piena di foglie e di fiori. Essa a volte si abbandonava con lui agli stessi giochi pazzi che usano gli animali piccoli coi loro fratelli: afferrandolo, stringendolo e rivoltandolo, ma senza mai fargli il minimo male; e tutto finiva in innumerevoli baci. Gli diceva: - Tengo fame! ti mangio! - fingendo una ferocia di tigre, e invece lo baciava. E al vedere la sua bocca graziosa che si sporgeva a quei puri, beati bacetti, io mi ripetevo ch'è un'infamia questo mondo, dove qualcuno ha tanto, e qualcun altro, nulla; e mi sentivo pieno d'invidia, di trasporti e di malinconia.

Uscivo, e mi pareva che tutti in terra non facessero che baciarsi: le barche, legate vicine lungo l'orlo della spiaggia, si baciavano! il movimento del mare era un bacio, che correva verso l'isola; le pecore brucando baciavano il terreno; l'aria in mezzo alle foglie e all'erba era un lamento di baci. Perfino le nubi, in cielo, si baciavano! Fra la gente, là per le strade, non c'era persona che non conoscesse questo sapore: le donnette, i pescatori, gli straccioni, i ragazzi. Solo io non lo conoscevo; e mi venne una tale nostalgia di provarlo, che notte e giorno non pensavo quasi ad altro. Mi mettevo a baciare, per prova, magari la mia barca; o un'arancia che mangiavo, o il materasso su cui stavo disteso. Baciavo il tronco degli alberi, l'acqua che affiorava dal mare; baciavo i gatti che incontravo per la strada! E mi accorgevo di saper dare, senza che nessuno me lo avesse insegnato, baci dolcissimi, veramente belli. Ma al sentire contro le mie labbra nient'altro che una fredda polpa vegetale, o una corteccia rugosa, o un'amarezza salma; o al vedermi accanto il muso camitico d'una bestia, che fusava e poi d'un tratto se ne andava, piena di stravaganze, senza sapermi dire nulla; sempre più mi amareggiava il paragone con quella bocca santa, ridente, che, oltre a baciare, sapeva dire le più gentili parole umane!

Mi dicevo: anch'io, un giorno o l'altro, bacerò qualche persona umana. Ma chi sarà? quando? chi sceglierò, la prima volta? E mi mettevo a pensare a diverse donne viste nell'isola, o a mio padre, o a qualche ideale, futuro amico mio. Ma simili baci, al figurarmeli, mi parevano tutti insipidi, senza valore. Al punto che, per una specie di scaramanzia, volendo sperarne di più belli, li rifiutavo, anche soltanto nel pensiero, tutti. Mi pareva che non si potesse mai conoscere la vera felicità dei baci, se erano mancati i primi, i più graziosi, celesti: della madre. E allora, per trovare un poco di consolazione e di riposo, mi fingevo nella mente la scena di una madre che baciava un figlio con affetto quasi divino. E quel figlio ero io. Ma la madre, pur senza che io lo volessi, non somigliava alla mia madre vera, la morta del ritratto: somigliava a N. Questa scena impossibile si ripeteva molte volte nella mia fantasia, come in un teatro meraviglioso di mia proprietà. Io me ne compiacevo, fin quasi a illudermi; e quando poi, nella realtà, rivedevo N. baciare il fratellastro, costui mi pareva un intruso, che aveva preso il mio posto; e lei una traditrice. Provavo un rabbioso istinto di insultarli, di interrompere con brutalità il loro idillio; e soltanto l'orgoglio me lo impediva, mentre invano la mia ragione mi ripeteva: Che diritto ne avresti? Per orgoglio mi mostravo indifferente, mi sforzavo di non guardarli, mi allontanavo da loro; ma presto una volontà misteriosa mi richiamava là. Insieme con la gelosia, sentivo un amara curiosità di rimirare la grazia con cui lei baciava. E alla vista di quei baci, indovinavo, fino a sentirmelo sulle labbra, un sapore pieno di stranezza e di delizia, che non si uguagliava a nessun altro sapore della terra, ma si uguagliava miracolosamente a N. Non soltanto alla sua bocca, ma anche ai suoi modi, al suo carattere, e a tutta la sua persona!

Un giorno, entrando nella sua camera quando lei non c'era, fui tentato di baciare una sua veste. Me lo vietò il solito orgoglio: quasi che lei fosse una signora, e io un povero, che ricevevo un'elemosina da lei! Un altro giorno, però, vinto da una nuova tentazione, presi di sulla tavola di cucina un pezzo di pane già morso da lei, e lo addentai di nascosto. Ne provai un gusto di dolcezza furfantesca, e, al tempo stesso, di tante ferite: come quando si va a rapinare i nidi delle api.

Se almeno quell'altro, a cui toccavano tanti invidiati baci, fosse stato brutto, difettoso, io avrei potuto, in qualche modo, confortarmi, paragonandolo a me stesso. Invece, sempre più, da questo paragone, io mi sentivo avvilito, perché lui, più cresceva, e più s'imbelliva. Non solo aveva preso, si può dire, tutte le bellezze di mio padre, ma anche quelle poche di sua madre; e di bruttezze, per quanto uno avesse voglia di trovargliene, non ne aveva nessuna.

Quelle bellezze speciali di loro due, poi, non s'erano riprodotte in lui come in una copia; ma combinate in un modo inaspettato, che pareva una nuova invenzione originale, piena di fantasia. A parlare sinceramente, per quanto ho potuto vedere allora e in seguito, anche a Napoli, e per tutti i posti dove sono passato, io non ho mai visto nessun guaglione che fosse più carino di quel mio fratello.

E la sua bellezza era la mia persecuzione: anche quando mi trovavo solo, in tutte le ore della mia giornata, credevo di vedermela sventolare dinanzi agli occhi, come una bandierina bianca e celeste, celeste e oro, che intendesse provocarmi. Un giorno (mentre N. si trovava al piano di sopra, e lui dormiva nella sua cesta giù in cucina), provai una tale sete di vendetta contro di lui, che fui tentato di ucciderlo. Fra i pochi cimeli delle passate epoche rimasti nella casa, c'era, nello stanzone, un'antiquata pistola, di quelle che si caricavano con lo stoppaccio, ormai inservibile e arrugginita. Io concepii di usare il pesante calcio di quest'arma per colpire il mio nemico nel mezzo della fronte, con precisione e violenza, in modo da togliergli la vita con un sol colpo; e presa la pistola sotto il braccio, mi accostai alla cesta dove egli dormiva. Ma non mi sembrò leale di ammazzarlo a tradimento nel sonno; e quindi preferii, prima, di ridestarlo, solleticandolo un poco nel palmo della mano. Egli, a questo solletico, mosse le labbra in una smorfia piuttosto buffa, che mi fece ridere; al punto che la voglia di giocare con lui vinse, in me, l'altra voglia di ucciderlo. E seguitando a solleticarlo nel palmo della mano, negli orecchi e nel collo, mi detti a imitare al tempo stesso, con la voce, il verso di un qualche animale esotico e felino; finché lui, sperando forse di trovare in cucina, al suo risveglio, un piccolo leopardo, o qualche fauna simile, si mise a ridere nel sonno. Così tutto finì in un divertimento, e il mio assassinio andò in fumo.

Adesso, tutti questi fatti mi sembrano così ridicoli, che non riesco nemmeno a tenermi serio mentre li racconto, quasi narrassi delle barzellette favolose, e non delle realtà. Ma pensare: allora, invece, quanto me la prendevo!

 

 

L'isola di Arturo
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