Il galletto.
Allora ricominciai a correre peggio che all'andata, senza più occuparmi della vecchia. Non mi curavo d'altro, ormai, che di tornare subito là. Volevo arrivare a tempo, almeno, a dire a N. poche ultime parole, se ancora essa poteva sentirmi per un istante. Quali parole sarebbero state, m'era impossibile predirlo: forse, fidavo in una ispirazione estrema, in una specie di capriccio improvvisato, così sublime da riscattare, in un'unica frase, tutte le parolacce e altre fandonie che le avevo detto; e da bastare quale spiegazione fra me e lei, per l'eternità! Correvo, difatti, verso il nostro castello, come se, per me e per lei, una eternità fosse in gioco: e fosse custodita proprio dentro quella frase misteriosa, gentile, che ad ogni costo io dovevo dirle, almeno davanti alla morte. Son curioso di sapere che frase poi intendessi dirle, perché a quel tempo ancora non capivo niente (e capisco forse adesso?); ma ero certo che avrei parlato, sebbene, in quell'ultimo tratto di strada, di tutte le possibili parole esistenti non ne ricordassi che una: Nunziatella. Ripetevo dentro di me questa parola Nunziatella con lo stesso ritmo disperato dei miei passi. E tutto il resto era oscurato, non udivo né vedevo più nulla. Rammento che i prati sotto casa nostra, nel passare, non mi si mostrarono com'erano: mi sembrò di attraversare una specie di piazza enorme, rovinata e forestiera. E insieme, ebbi la sensazione che, se N. fosse morta, io qua sull'isola e anche fuori, per qualsiasi parte me ne andassi, non avrei più trovato altro che sempre quella miserabile piazza di calcina, ferro e pietre: senz'anima né pensiero per me.
Il portoncino era aperto, e il lume acceso nell'androne, com'io li avevo lasciati uscendo. Appena fui sulle scale, udii dal piano di sopra, il gridare d'una creatura appena nata. La voce di lei non s'udiva più. E, arrivato alla soglia della stanzetta, vidi, per prima cosa, lei, di spalle, stesa immobile sotto le coperte, e il letto macchiato di sangue. Pensai: "E’ finita!" e credo che la mia faccia divenne terrea, mi sentii mancare i ginocchi. In quel momento, il pianto della creatura, che aveva coperto il rumore dei miei passi, si quietò un poco, ed essa dovette avvertire la mia presenza. Levò appena appena la testa, girandola verso di me: era pallida, ma viva! e un sorriso di segretezza e allegria favolosa le trasfigurava la faccia: - Artù! - mi disse, - è nato! è nato, Carminiello Arturo!
Costui riprese a gridare; io gli gettai un'occhiata, ma lei se lo teneva accosto al corpo sotto la coperta, così che intravidi soltanto una testolina biondastra. Con voce debole, confusa e ansiosa, essa intanto mi allontanava dal letto e dalla stanzetta, e mi richiedeva di Fortunata; e io ritornai già a precipizio incontro alla vecchia:
- Avanti, corri! - la rimbrottai fieramente, scontrandola che arrivava nell'androne, - tu viaggi col treno merci!
Risalito di sopra dietro alla vecchia, io, dal corridoio dove m'ero fermato, ebbi il tempo di vederla che, appena entrata nella stanzetta, subito, essa faceva per prendere su dal letto il guaglione. Ma Nunz., quasi volessero rubarglielo, pronta lo difese col braccio, e gettò su di lei uno sguardo geloso e torvo (non molto diverso dallo sguardo ch'era balenato nei suoi occhi il giorno dell'arrivo, quand'io volevo ritoglierle di mano la borsa delle gemme; o da quello che m'aveva dato poche sere avanti, al momento di dichiararmi: Io, però, non ti lascerei partire!)
- Eh, di che avete paura? - fece la mammàna, prepotente, coi suoi modi sommari e militareschi, - non ve lo guasto mica! -Allora Nunz. rise, vergognandosi, e lo cedette.
A questo punto, io, stomacato dalla vista di quell'essere appena nato, che strillava con la bocca senza denti, mi ritrassi dal corridoio nella mia camera; ma lasciai, però, l'uscio socchiuso, in modo da udire quanto avveniva di là, perché sospettavo che la vecchia, con le sue mani di boia, potesse ancora far qualche male a N., o addirittura ammazzarla. Il suo passo felpato e potente rintronava per la casa, mentre essa s'indaffarava nella stanzetta, e passava e ripassava nel corridoio, movendosi sicura, come se ancora fosse pratica del nostro castello, dopo circa una quindicina d'anni che non ci veniva più. Un paio di volte, mi giunse la voce di N. che le dava istruzioni, ma così bassa, indebolita, che a mala pena distinsi le parole. Quanto a colei, secondo il solito, si esprimeva soltanto con autorevoli borbottii, oppure oracoli pomposi. E la sola persona con cui si compiacque di conversare, fu il fratellastro. Intesi che, per lavarlo e vestirlo, essa si portava con lui in una camera fuori uso, ch'è proprio di rimpetto alla stanzetta; così che, attraverso gli usci spalancati, Nunz. dal suo letto poteva assistere all'operazione. E mentre lei, nel letto, aspettava il momento di riavere vicino a sé il ragazzino, la vecchia, di là, nell'accudirlo, pareva tenere con lui una specie di conferenza privata, come se soltanto con lui s'intendesse, e le restanti persone della famiglia non fossero altro che comune tappezzeria: - Voi, - gli diceva la sua grossa. voce, in accento cerimonioso e affascinato, - dovete pesare di sicuro più di quattro chili. Siete bello assai. Proprio un bel maschio -. E a queste parole si udì la vocina di N., dalla stanzetta, ridere, tutta compiaciuta.
- E che belle carni, - seguitava a dire, nell'altra camera, la mammàna, - voi siete un colosso, siete una festa di rose e fiori. E siete uscito solo con la bravura vostra, da voi stesso bello bello, come un coniglio. Che voi v'imparerete a camminare da voi stesso, senza le dande, e le femmine s'impazziranno d'amore per voi; e canterete come il tenore Caruso. Che bei capelli, che già vogliono fare i ricci. E tenete già i cigli intorno agli occhi! per comparire, vi siete già adornata la bellezza vostra! Voi parete una rosa ricamata d'oro. E che belle coscette. Che bel culetto, tenete. E come vi chiamate?
Dall'altra stanza, la vocina rispose, per lui:
- Carmine Arturo.
- Ah, così, con due nomi, vi chiamate! Pur io mi chiamo con due nomi: Fortunata e Emanuella.
- Ma lui, - precisò dall'altra stanza la vocina, con qualche enfasi, - si chiama pure Raffaele e Vito.
Qua io, sentendomi morire dalla stanchezza, mi distesi e m'addormentai. Un paio di volte, nella notte, mi ridestò il gridare prepotente della creatura; ma udendo subito, in risposta, il bisbiglio di N., mi riaddormentai contento, nel pensiero che essa era viva. Quel bisbiglio, portato al mio uscio socchiuso dall'aria silenziosa, mi si faceva assai vicino, da sembrarmi che fosse sul mio guanciale. Verso l'alba, mi giunse da un giardino di fuori il canto di un galletto; e allora, senza aprire gli occhi, fra un dormiveglia indovinai l'isola che si schiariva incominciando dall'ultima striscia del mare, fino alle spiagge di rena coi monticelli di alghe diacce. E i diversi colori delle case, i bei giardini pieni d'aranci, di limoni e di dalie. Poiché Nunz. non era morta, anelavo di tornare a correre vittorioso sulle mie terre, come un Gran Valvassore che abbia riavuto il suo feudo!
Il mio corpo si lasciava contento al sonno, ma il mio cuore aspettava l'ora di alzarsi con un misto di allegria, di consolazione e di curiosità. E nemmeno allora io non capivo nulla; non sapevo prevedere i dispiaceri, il tormento, che già gli altri giorni futuri mi preparavano.