In camera mia.

 

Il giorno dopo, infatti, mio padre partì. La matrigna e io lo accompagnammo al piroscafo. Ritornando indietro dal molo, io mi separai da lei, e presa un'altra strada me ne andai solo in giro per la campagna.

In passato, nessuna delle altre partenze di mio padre, per quanto crudeli, m'aveva ancora mai turbato come questa. Sebbene non vi fosse nessun motivo di dubitare del suo ritorno (giacché, prima o poi, sempre egli ritornava nell'isola), io provavo un rimpianto disperato e ultimo, come se il nostro saluto di poco prima, sul molo, fosse stato un addio! Anche questo saluto, come tutti gli altri nostri precedenti, era stato senza baci. Il desiderio bambinesco che m'aveva sorpreso il giorno avanti non era stato esaudito. Ma del resto, un tale desiderio oggi, mi pareva futile. M'invadeva una solitudine arida; e dal fondo di questa solitudine, sentivo risalire l'angoscia innaturale da me conosciuta il giorno avanti per la prima volta. Di non sapere il destino.

Il tempo era tornato bello come una primavera, e io non rincasai fino a buio. Entrando per la porta-finestra, trovai in cucina la matrigna che, secondo la sua abitudine, cantava accendendo il fuoco; e questa sua spensieratezza mi parve sconveniente. Fino a poche ore prima, io m'ero sdegnato contro di lei perché stava sempre appresso a mio padre, come una cagna, rubandolo a me. E adesso, invece, le rivolsi, in cuor mio, rampogne amare, perché non si rattristava d'esser separata dallo sposo. Mi venne un cupo istinto di punirla; e, mentr'essa apparecchiava la tavola, le rammentai, con cattiveria:

- Eh, adesso che mio padre è partito, dovrai imparare a dormire sola, la notte!

Evidentemente, essa non aveva ancora fermato il suo pensiero su questa prova inevitabile che l'aspettava. La vidi infatti mutar viso e spaurirsi come se soltanto le mie parole gliela richiamassero alla memoria. (Questo era uno dei tanti segni dell'infanzia che tuttora perdurava in lei: che la sua immaginazione, sempre abbastanza pronta per le favole e simili cose puerili, si mostrava, talora, piuttosto tarda invece per tutto quanto poteva annunciarle pena o avversità. Si sarebbe detto ch'ella si fidava ingenuamente dei giorni, e che attribuiva ad essi una specie di benevolenza coscienziosa: come se anche il tempo avesse un cuore cristiano).

Durante la cena, che durò pochi minuti, ella non fece più udire la sua voce, tanto era impensierita. Io mangiai rapidamente, senza rivolgerle parola, e subito dopo me ne andai a letto. Ero stanco di quella giornata inquieta, e avevo un gran sonno. Come facevo spesso durante la stagione fredda, non persi neppure tempo a spogliarmi, togliendomi soltanto le scarpe; e, appena fui coricato, di colpo m'addormentai.

Ma non era forse passata nemmeno un'ora, quando fui riscosso da piccoli colpi febbrili all'uscio della mia camera, e dalla voce della matrigna, sommessa e disperata, che dietro l'uscio chiamava: - Artù! Artù! - Non saprei dire, in quel mio primo sonno di un'ora, che sogni avessi fatto; dovevo, però, aver viaggiato a chi sa quali distanze, e m'ero perfettamente dimenticato di lei. Senza capir nulla, insonnolito, mi levai a sedere accendendo la luce vicino al letto, e in quello stesso momento, aperto l'uscio, essa comparve sulla soglia tutta sconvolta: - Artù, io tengo paura, - disse con un filo di voce.

Aveva tutta l'aria d'esser fuggita di corsa dal suo letto, cacciata dallo spavento, così come si trovava: in sottabito, e senza scarpe. Ai piedi, aveva soltanto le sue solite calzine di lana tutte bucate, che soleva mettersi anche per dormire. E l'acconciatura notturna dei suoi capelli, tutti legati in un solo ciuffo in cima al capo, mi ricordava la coroncina di penne ricciute di cui vanno ornati certi uccelli tropicali.

Come tornai alla realtà, la fissai con occhi sdegnosi e forastici. Non era la prima volta che la vedevo così, in sottabito; m'era già avvenuto, i giorni precedenti, di vederla di sfuggita così, che attraversava il corridoio o s'aggirava in camera di mio padre. Ed essa non s’era affatto nascosta alla mia presenza, e aveva serbato delle maniere tranquille e naturali: giacché non le pareva vergogna di mostrarsi in sottabito a un ragazzino di quattordici anni. Irritava, questo suo contegno!

- Non era nell'intenzione mia di svegliarti, Artù, - essa si dette a spiegarmi con le labbra smorte - ... io mi sforzavo di dormire... ho recitato pure le preghiere di Santa Rita perché m'aiutasse a addormentarmi... ma non ce la faccio... tengo troppa paura a dormire sola... senza nessun altro cristiano nella stanza...

E adocchiando sospettosa verso il corridoio spento, s'inoltrò un poco nell'alone della mia lampada, quasi a cercare protezione contro il buio. Ma io, accigliato e sprezzante, non la invitai a sedersi, né ad entrare; e rimase in piedi, appoggiata allo stipite dell'uscio, come una serva.

Il sottabito le lasciava scoperte le spalle gracili, di un colore bianco bianco, povero e gentile. E il petto, che la stoffa disegnava come fosse ignudo, mi si rivelava, nella sua misteriosa, matura pesantezza, così tenero e vulnerabile, da darmi un senso di pena. Con una acutezza bizzarra mi rappresentai il terribile male ch'essa sentirebbe se qualche crudele la ferisse là in petto... Simile tormento irreale m'ingombrò la fantasia per alcuni istanti. E mi pareva quasi incredibile che un essere come lei, così inerme, vulnerabile, ignorante, stupido, potesse andare per il mondo senza ferirsi...

- Tieni più di sedici anni, - le dissi, con una smorfia di compatimento supremo, - e non sei nemmeno capace a dormire sola la notte. E pretendi pure di fare la donna anziana, come se gli altri fossero ragazzini, vicino a te! Mi faresti ridere! Una persona, quando ha una certa età, con certe paure fa proprio ridere! Eh! guarda gli altri, se si spaventano a dormire per conto loro!

- Le altre donne, - si scusò con una voce sperduta, umile, -da maritate dormono con lo sposo...

- Da maritate. Ma prima di maritarsi? e quando lo sposo parte in viaggio? Con chi dormono, allora? Con nessuno!

- Eh, no, con nessuno! Dormono con la madre, con la sorella! coi fratelli e il padre! con la famiglia loro, dormono! ogni cristiano, a questo mondo, dorme con la famiglia sua!

Ed essa mi supplicò di lasciarla dormire nella mia camera, sul canapè, almeno per questa sera soltanto. Da domani in poi, avrebbe imparato a dormire sola, ma stasera, di là, s'era sentita quasi tramortire, perché era la prima volta in vita sua che si trovava in una stanza di notte senza nessun parente vicino, e così, in una sola volta, non poteva abituarcisi. Col tempo, magari, si sarebbe abituata.

A malincuore, dovetti adattarmi a ospitarla per questa notte. Essa andò per un momento nell'altra stanza, a prendervi le sue coperte, e ne tornò correndo a precipizio, e trascinando le coperte per terra, pallida, come se fuggisse da un incendio. Alla vista del suo straordinario terrore, mi venne in mente un sospetto fantastico; e mentre, rincuorata, essa si concava sul canapè, le domandai se, per caso, non le fossero apparsi veramente, di là, l'Antenato del Castello, e i perfidi guaglioni suoi paladini... Ella scosse il capo, quasi offesa che io le facessi discorsi così futili: - Credi che io non lo sappia, - disse, - che quelle sono favole di tuo padre? Però si capisce, - soggiunse con sincerità coscienziosa, - uno, quando si trova solo in una stanza, di notte, si mette paura anche delle favole.

Spensi la lampada, ma non ritrovai sonno tanto presto. Era la curiosità a tenermi sveglio: mi domandavo se il sonno delle femmine è uguale a quello dei maschi, se per esempio anche le donne nel dormire respirano alla stessa maniera degli uomini, russando come loro. Non avevo mai assistito al sonno di una donna, mentre che avevo veduto parecchi uomini dormire, e tutti russavano, seppure in modo diverso. Il mio servo Costante, per esempio, russava con delle note così forti e prolungate, da somigliare a una sirena. E il russare di mio padre, invece, era un suono leggero, spiritoso e voluttuoso, simile alle fusa dei gatti.

Passarono alcuni minuti, e ancora, dal canapè, non si udiva nulla, nemmeno il più lieve russare. Forse, ella non s'era ancora addormentata? Chiamai con voce sommessa: - Ehi, tu, dormi? - Nessuna risposta: dunque, essa dormiva.

Di lì a un momento, anch'io mi addormentai, e ebbi un sogno.

Mi pareva di nuotare in una grotta profonda, ombrosa. Mi tuffavo, per impadronirmi di un bell'alberello di corallo che avevo scorto sul fondo; e, allo strappo, con orrore vedevo l'acqua tingersi tutta di sangue.

Mi riscossi, e, nel momento stesso che riaprivo gli occhi, istintivamente accesi la luce, con l'idea confusa di dovere accorrere in. qualche luogo, per impedire non so quale delitto, o tragedia... Ma nella realtà, invece, tutto era tranquillo, e dinanzi a me, sul divano, la matrigna era immersa in un sonno profondo, tanto da non ridestarsi alla luce improvvisa della lampada, che le batté in pieno sul volto. Il primo istante, la sua presenza in camera mia mi parve un enigma, ma poi subito mi si schiari la memoria, e la osservai incuriosito. Dormiva un po' rannicchiata per adattarsi alla misura del divano, tutta inviluppata nelle coperte fino al mento, e il suo viso aveva un'espressione di assenza e di candore. I suoi silenziosi respiri le lasciavano sulle labbra una freschezza umida e tenera, e anche il colore che le tingeva le guance pareva nascere da questa ingenuità del suo fiato. Si sarebbe detto ch'essa non sognava nulla, nel sonno lasciava pure quei pensieri semplici che aveva da sveglia, diventava ancora più semplice. E non viveva più con la mente, ma solo coi respiri, come i fiori. Io riconobbi sul suo volto quell'aria favolosa che essa aveva il giorno del suo arrivo, e che il giorno dopo era già guastata. Le strisce delicate delle sue orbite, che un giorno solo era bastato a sciupare, stavano nascoste sotto i lunghi cigli pietosi. Il ciuffo dei suoi riccioli, sul guanciale, sembrava proprio la corolla spampanata d'un grande fiore nero.

Essa mi apparve più graziosa che da sveglia. Forse, la famosa bellezza delle donne, di cui parlavano i romanzi e le poesie, si svelava appunto nel sonno, durante la notte? A rimanere svegli fino al mattino, forse, si sarebbe potuta vedere la matrigna diventare bella, stupenda come una signora di fiaba? Queste mie supposizioni naturalmente non erano serie, erano cose che io inventavo per divertirmi. Ma tuttavia, poco dopo, mentre mi riassopivo, esse mi si mischiarono a una specie d'ansietà. Provavo la sensazione che in camera mia vi fosse un essere forestiero, soggetto a metamorfosi strane.

Mi riaddormentai, senza ricordare di spegnere la luce, e non fu un sonno pieno, profondo: tanto è vero che, anche in sogno, mi ritrovai nella mia camera, con la matrigna che dormiva sul divano, come nella realtà. In sogno, essa mi pareva cattiva, infame: s'era insinuata nella mia camera con un inganno, fingendosi un ragazzo come me, vestita di una camicina che le cadeva sul petto liscia liscia, quasi che sotto non avesse forme di donna. Ma io avevo indovinato lo stesso che era una donna, e non volevo donne con me, in camera mia. Avanzavo contro la dormiente armato di un pugnale, per punirla della sua impostura, e la sbugiardavo aprendole la camicia sul petto, così da scoprire le sue mammelle candide, rotonde... Essa gettava un grido. Non era nuovo, ai miei orecchi, questo grido: lo avevo già udito, non ricordavo più quando, né dove. E non conoscevo nessun altro suono altrettanto orrendo, capace di scuotermi l'animo e i nervi come questo.

Mi ridestai di soprassalto, accaldato e in sudore come fossimo d'estate. Con gli occhi offesi dalla luce della lampada, intravvidi la mia ospite che dormiva tranquilla, nella medesima posa di prima, e m'assalì un odio sfrenato, insensato: - Svégliati! - le gridai d'un tratto, scendendo dal letto e scuotendola per le spalle, - devi andartene dalla stanza mia! hai capito? vattene dalla stanza mia!

La vidi levarsi dalle coperte, sbigottita, mostrando le sue spallucce nude, la forma del suo petto, e la odiai ancora più rabbiosamente. Fui invaso dall'assurda brama che essa fosse davvero un ragazzo uguale a me, per fare a pugni con lui finché la mia ira non fosse sazia. La sua debolezza di donna, che mi vietava di sfogare la mia ira sulla sua persona, era, in quel momento, ciò che più m 'inferociva.

- Perché non ti copri, schifosa? - le gridai, - perché non ti vergogni di me?! Voglio che ti vergogni di me!

Ella mi fissò con occhi pieni di stupore e d'innocenza, poi si guardò lo scollo del sottabito, e arrossì. E non avendo là nessuno straccio da coprirsi, vergognosa incrociò sul petto le sue braccia puerili.

I suoi occhi ritornavano su di me confusi, incerti, come se non mi riconoscessero. Ma tuttavia, e questo mi esasperava, nonostante il mio odio, e le mie villanie, essa non aveva paura di me. In fondo alle sue pupille ancora rimaneva (e sempre vi era rimasta, attraverso tutti quei giorni), una specie di interrogazione fiduciosa: quasi che la mia inimicizia non bastasse mai a farle dimenticare un unico pomeriggio che io le ero stato amico; e lei credesse ancora a quell'Arturo! Invece, doveva capire che quell'Arturo, per lei, non esisteva più; e che quel pomeriggio, per me, era un'onta; io volevo sradicarlo dal tempo.

Una aridità spietata, che voleva saziarsi di negazioni e di crudeltà, mi soffocava la voce: - E qua nella stanza mia non ti ci voglio, hai capito? - le ripetei, - vàttene! Tu mi porti dei sogni maligni e... sei una sporca pezzente, sei brutta, hai i pidocchi...

Ella s'era ritratta fin sulla soglia dell'uscio, rimasto aperto da prima; aveva preso un'aria fosca e imbronciata, e io credetti che finalmente fra noi si frapponesse una inimicizia irrimediabile. Allora provai la volontà acuta, anzi il piacere, d'infierire; e agguantato il suo guanciale, le sue coperte, glieli buttai fuori nel corridoio; poi brutalmente richiusi l'uscio su di lei.

Per un poco, seguitarono a farmisi udire, di dietro l'uscio, dei respiri affannosi e spaventati: "Piange perché ha paura del buio", mi dissi con aspra soddisfazione. Infine cessò ogni rumore. E il giorno dopo scopersi ch'ella se n'era andata a dormire nella stanzetta attigua alla mia, dove un tempo dormiva Silvestro. Evidentemente, in quel vano minuscolo, e non così isolato come la camera di mio padre, si sentiva meglio protetta contro la solitudine e le tenebre. Là essa trasportò, dalla stanza dove le aveva messe il primo giorno, tutte quante le immagini delle sue Madonne, che dispose sulla cassa da pasta, sulla sedia e sul davanzale, tutte intorno alla brandina, come una guardia del corpo destinata a vegliare sul suo sonno. E là, da allora in poi, si ritirò a dormire ogni sera, durante le assenze di mio padre.

 

 

L'isola di Arturo
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