Il giorno seguente, io mi svegliai alle prime luci. Mio padre e la sposa dormivano ancora, il tempo era bellissimo. Io me ne andai in giro, e tornai a casa che era già mattino alto.

Girai dietro alla casa, dalla parte della cucina; e attraverso i vetri della porta-finestra, vidi che in cucina c'era lei, sola, e intenta a preparare la pasta sul piano sgombro della tavola. Aveva versato dei tuorli in mezzo a un mucchietto di farina, e li sbatteva energicamente con le dita. Essa non mi aveva scorto, e io mi arrestai dietro i vetri, stupito al notare quanto era mutato il suo aspetto, dalla sera avanti.

Come aveva potuto avvenire, in un intervallo così breve, una trasformazione tanto strana! Essa aveva la stessa maglia rossa del giorno prima, la stessa gonna, le stesse ciabattelle; ma era diventata irriconoscibile per me. Tutto ciò che, ieri, faceva la sua grazia ai miei occhi, era svanito dalla sua persona.

Anche oggi, seguendo il capriccio di mio padre, essa portava i capelli sciolti: ma i suoi ricci in disordine, che ieri parevano una ghirlanda favolosa, oggi le davano invece un'apparenza scomposta e plebea; e la loro nerezza, a contrasto col pallore del suo viso, le aggiungeva un che di fosco. Un pallore pesante, pieno di mollezza, aveva scacciato dalle sue guance il colore candido di ieri; e sotto gli occhi le sue orbite, che ieri per la loro delicatezza intatta m'avevano fatto pensare ai petali d'un fiore, erano segnate da un alone scuro, guastate. Ogni tanto, mentre lavorava la pasta, essa si scostava col braccio i capelli dalla fronte; in quest'atto, levava un poco le palpebre, e il suo sguardo, ch'io ricordavo così bello, si lasciava intravvedere, velato, animalesco, e vile.

A rivederla, adesso, mi vergognavo d'aver potuto, il giorno prima, trattarla con tanta confidenza, e abbandonarmi fino al punto di dirle i miei segreti! Sulla panca, dimenticato, c'era ancora il mio libro degli Eccellenti Condottieri; e quella vista rincrudì la mia onta. Con rabbia aprii la porta-finestra, e allora, finalmente, essa mi vide. Una luce di contentezza e di amicizia rischiarò il suo volto, e con un dolce sorriso mi disse:

- Artu'?

Ma io, senza rispondere al suo saluto, la guardai duramente, come quando un estraneo, e un inferiore, si permette con noi delle familiarità non accordate. Immediatamente, l'espressione confidente e felice cadde dalla sua faccia. Il suo sorriso si spense, e la vidi guardarmi con un'aria strana: delusa, interrogativa e selvaggia, ma non, tuttavia, umiliata, e senz'ombra di preghiera. Io non le dissi nemmeno una parola; e preso di sulla panca il mio libro, me ne andai.

In seguito, durante quella giornata, e nei giorni successivi, sfuggii la sua presenza, rinunciando pure alla compagnia di mio padre piuttosto che dividerla con lei. Le parlavo solo se vi ero proprio costretto, e in queste rare occasioni i miei modi erano così freddi e scostanti da farle ben capire che lei era meno di un'estranea, per me. Ferita da questo mio contegno, di cui non sapeva darsi motivo, essa mi rispondeva in una maniera rapida e forastica, guardandomi a malapena con certe occhiate ombrose. Ma a volte, per lo più la sera, quando tutta la nostra famiglia si trovava raccolta, mi faceva qualche timido sorriso propiziatorio, oppure sembrava domandarmi umilmente con gli occhi quale fosse la colpa che le aveva fatto perdere la mia amicizia. In questi momenti, io provavo addirittura ribrezzo della sua persona. Soprattutto, mi ripugnava la sua bocca, che, al pari del suo viso, non era più la stessa del primo giorno. S'era fatta di un colore rosa esangue, e si schiudeva nei respiri, con una espressione di mollezza e di stupidità.

Mio padre, in quei giorni, se la traeva sempre dietro per l'isola, tutte le ore stavano assieme; e io non li accompagnavo mai nelle loro passeggiate e sempre evitavo di trovarmi con loro. Il tempo si manteneva bello e, seguitando le usanze di quando vivevo in solitudine, io per solito uscivo alla mattina, con un grosso pezzo di pane e formaggio, e non rientravo fino a buio. Mi portavo appresso anche un libro, e, quando ero stufo di vagabondare, me ne andavo al Caffè del Porto, quello tenuto dalla vedova che preparava il caffè alla turca nella cuccuma di smalto.

Infatti in quel periodo io disponevo di soldi (novità assolutamente straordinaria), perché mio padre, prima di partire per le sue nozze, la mattina che aveva riscosso dal colono, mi aveva regalato cinquanta lire. Con in tasca il mio capitale inusitato, che per me era una somma enorme, io ordinavo perentoriamente alla vedova un caffè con l'anice; e gettatole, in anticipo, il denaro sul banco, senza più degnarla di nessun discorso andavo a sedermi in un angolo della bottega, dove rimanevo a leggere finché ne avevo voglia. A quell'ora, l'unico avventore del Caffè ero io; e la vecchia o sonnecchiava, o si dedicava a lunghissimi solitari con le carte. Ogni tanto, io, con l'aria torva e sprezzante di un fuorilegge, estraevo il famoso accendisigari di Silvestro, senza il bollo statale, e, sebbene purtroppo non si accendesse per mancanza della pietrina, lo facevo scattare ostentatamente. Leggendo, poi, tenevo sempre in mostra sul tavolino del caffè un pacchetto di sigarette Nazionali, che avevo acquistato di recente, ma che, tuttavia, lasciavo intatto: difatti, in passato, talvolta avevo tratto qualche boccata di fumo dalle cicche di mio padre, e giudicavo il tabacco assai nauseabondo.

Sul far della notte, la vedova accendeva sul banco una lampaduccia, e, a quella luce, seguitava i suoi solitari. La fiamma del candelotto, accesa dinanzi al ritratto del marito defunto, rosseggiava con un effetto quasi sinistro nella mezza tenebra della bottega; e allora, io veramente mi sentivo superbo. Mi pareva sul serio d'essere un bandito dei mari, dentro una losca bettola di avventurieri: forse in un qualche villaggio del Pacifico, o negli angiporti di Marsiglia.

Ma, poiché la scarsa illuminazione non mi permetteva di leggere, a un certo punto mi seccavo, e, senza salutare nessuno, lasciavo la bottega, e risalivo nella notte verso la Casa dei guaglioni.

Appena rientrato, trascurando di cercare gli sposi, andavo dritto a chiudermi in camera mia; e allora, incominciava a invadermi un sentimento di solitudine, quale non avevo mai conosciuto nel passato. Perfino mia madre, la bella canaria d'oro delle favole, che, un tempo, mi veniva incontro al primo richiamo, adesso non mi soccorreva più. E la peggior cosa era questa: che non per infedeltà sua, essa mi mancava. Ero io stesso che, d'un tratto, avevo perduto ogni volontà di cercarla, negando la sua persona misteriosa. La mia miscredenza, che un tempo aveva risparmiato l’isola, adesso relegava anche lei sotto terra, fra gli altri morti che non sono più niente e non hanno nessuna risposta da dare. Seppure talvolta ero tentato dalla nostalgia di lei, subito mi dicevo crudamente: "Che ci pensi a fare. Essa e MORTA.

Attraversavo, così, dei momenti difficili. Ma, anche in simili momenti, preferivo tuttavia starmene solo, piuttosto che trovarmi con gli sposi. La sola occasione in cui ci si ritrovava assieme tutti e tre, era la sera, a cena.

La matrigna aveva inaugurato questa novità, a casa nostra: che si mangiava ogni sera una cena calda, e il fuoco, in cucina, era acceso a tutte le ore della giornata. Questa era, a dire la verità, l'unica riforma da lei portata nel nostro ordinamento domestico. Per il resto, non essendo una grande massaia, essa si limitava a tirare le coperte sui letti, e a spazzare ogni tanto, in modo assai sommario, seppure con grande energia, la cucina e le stanze. E così, per fortuna, la nostra casa si manteneva, all'incirca, uguale a prima, col suo sudiciume storico e il suo disordine naturale.

Il nostro Costante, adesso che c'era la sposa, aveva rinunciato con molta soddisfazione alle proprie incombenze di cuoco e di servo, ritornando alla sua vita di contadino. Difatti, per accudire alla nostra casa, bastava lei; egli compariva da noi soltanto una o due volte la settimana, per portarci la frutta e altri prodotti del podere.

All'ora di cena, mio padre mi chiamava a gran voce, e io scendevo abbasso. Dopo quell'unica, festosa serata del primo giorno, adesso le nostre cene comuni si svolgevano piuttosto silenziose. La matrigna stava sempre timorosa e in soggezione davanti a mio padre; ma, a differenza del primo giorno, adesso, quasi involontariamente, gli si faceva accosto ogni minuto, e addirittura finiva a metterglisi stretta vicino. Mio padre, a volte, la lasciava stare, senza badarle; e a volte, importunato, la scansava; ma, come ho detto, in quei giorni non si separava mai da lei.

Dopo cena, andavamo tutti a coricarci. Per solito, io li precedevo, raggiungendo in fretta la mia camera, dove, chiuso l'uscio, senza neppure accendere la luce, m'infilavo subito sotto le coperte. Di là, non tardavo a udire il suono dei loro passi nel corridoio, e il rumore d'un uscio che si richiudeva su di loro; e istintivamente mi serravo gli orecchi coi pugni, per timore di riudire, dalla loro stanza, quel grido. Non me ne spiegavo il motivo: ma avrei preferito veder apparire di fronte a me una bestia feroce, piuttosto che riudirlo.

 

 

L'isola di Arturo
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