Notte.
Un'ombra della dolce ilarità di pocanzi giocava ancora sulla bocca di mio padre; e io credevo di sentire il suo respiro, continuo e rassicurante come quello del mare. Il presente mi pareva un'epoca perenne, come una festa di fate.
La cena era terminata ormai da un pezzo, sebbene noi ci attardassimo a tavola. Mio padre aveva ancora del vino nel bicchiere, e seguitò ancora un poco a scherzare con noi, ma presto se ne stancò. Ogni tanto, si stirava le braccia, o traeva dei grandi sospiri, che in lui non erano segno di tristezza, ma, al contrario, di un piacere d'esistere profondo, e quasi amaro. A un certo punto, fece l'atto di allungare un braccio verso la sposa, per attirarla a sé. Ella si levò in fretta, e si scostò indietro, dicendo che doveva sparecchiare; e vidi riapparire nei suoi tratti quella paura, che sembrava per un poco essersi staccata da lei.
Con un'aria spaventata e zelante, mise due piatti uno sull'altro, e fece per avviarsi con essi all'acquaio; ma mio padre, senza alzarsi dalla sedia, la afferrò a volo intorno alla vita e imprigionandola col braccio la tenne accosto a sé.
- Dove vai? Sparecchiare! - le disse, - provvederà domattina la nostra servitù, a sparecchiare. Tu sei la signora Gerace, ricordati! e adesso sta per incominciare la nostra prima notte di nozze.
Senza osare dibattersi, ella guardava mio padre con occhi smarriti. Tremava visibilmente, e pareva proprio, in quei suoi grandi capelli, una bestiola selvatica dalla pelliccia nera, presa nella tagliola a tradimento.
- Hai paura, eh? hai paura della tua prima notte di nozze! - esclamò mio padre, prorompendo in una risata fresca, libera e senza pietà: - Resta qui. Non ti muovere -. E la serrò più forte al proprio fianco, divertendosi del suo spavento. - Hai ragione d'avere paura: lo sai, eh, quello che succede alle ragazze la loro prima notte di nozze! Ma il peggio, poi, Nunzià, è che assai di rado s'incontra un tipo di sposo cattivo come sono io. I soliti sposi sono degli ometti... No, è inutile che tenti di scappare, oramai; non puoi più salvarti, è finita!
Ella per istinto aveva incominciato a dibattersi debolmente, quasi illusa davvero di potersene fuggir via. E un simile tentativo disperato fece ridere mio padre ancora di più. – E’ finita! - egli ripeté, con asprezza fanciullesca, tenendola facilmente con un braccio solo, come in una morsa, - non sono più quei tempi che scappavi e ti nascondevi per non incontrarti con me: eh, non credere che me ne sia scordato, guagliò! te le farò pagare tutte, stanotte!
E in un modo minaccioso e spensierato prese a giocare coi boccoli di lei. Il suo volto s'era corruscato tradendo tuttavia una intima, festante malizia: - Già! - dichiarò, - essa mi rifiutava! Rifiutava di sposare un mio pari, questa pidocchiosa! Le prese perfino, da sua madre, perché rifiutava un simile partito, proprietario, fra l'altro, di un castello!
Attestando questi fatti, egli aveva assunto un'aria addirittura da tribuno, come se là, intorno alla tavola, ad ascoltarlo, ci fosse l'intero popolo, convocato per la punizione fatale della sposa.
Ella proclamò, perduta, con una vocina di pianto:
- Io... volevo farmi suora!
- Bugiarda! Confessa le cose come stanno! Tu volevi farti suora perché non volevi maritarti con me! Ti sei decisa a maritarti con me soltanto per ubbidienza a màmmeta! Dicevi che avevi paura di me! E se non sbaglio, qualcuno ti sentì dire pure che sono brutto! E vero, o no, eh? che mi trovi brutto? - Egli rideva con una grazia spavalda, inesprimibile; ed essa lo fissava coi suoi occhioni, che per lo sgomento sembravano farsi più neri, - come se lo trovasse brutto veramente.
- E adesso, preparati a pagarmele tutte, signora Gerace -. Si udirono rintoccare le ore dal campanile, ed egli guardò l'orologio al proprio polso: - Ah, sono le dieci! è tempo di andarcene a dormire... è notte. Ho sonno, Nunziatè, ho sonno... Nunziatè!
- E se la stringeva al cuore, senza, però, darle carezze, né baci, ma, all'opposto, quasi maltrattandola, e scompigliandole i capelli. Allora la paura, che per tutto il giorno l'aveva appostata, parve scendere su lei, come una nube enorme. Ella disse: - Io... prima di andare di sopra... bisogna chiudere i legni della porta-finestra.
- Va bene, chiudili, - disse mio padre, e inaspettatamente la lasciò andare. E, come se intendesse darle tregua, accese una sigaretta, aspirandone una prima boccata. Ma si trattava, a quanto pare, di una finta, usata da lui per il gusto di giocare, alla maniera del gatto. Ella si accingeva appena a sollevare il pesante paletto della porta con le sue manine agitate quando lui depose la sigaretta appena incominciata sul piatto e, levandosi dalla sedia, le disse bruscamente:
- Basta. Non t'occupare della porta! Lascia stare là!
In quel momento, a me parve di udire un frastuono ritmato, quasi che una cavalcata s'avvicinasse da qualche parte; e con meraviglia m'accorsi che era il mio cuore a battere a quel modo. Mio padre, in una specie di rabbiosa felicità, mosse verso la sposa e prendendola per il polso, col gesto di un ballerino le fece fare un mezzo giro su se stessa. I suoi occhi, che cercavano quelli di lei, avevano uno sguardo duro più ancora del solito; ma insieme c'era, in essi, una specie di affermazione impetuosa, incantevole, innocente. Forse pentito, o forse per impietosirla, egli le disse, raddolcendo la voce: - Non lo vedi, quanto sono stanco? E notte: andiamo a dormire! - Essa levò su di lui le pupille indifese: - Andiamo! Cammina! - le ingiunse egli con asprezza; e lei, ubbidiente lo seguì. Prima di varcare la soglia, volse indietro il capo, a guardare nella mia direzione; ma, preso da uno strano sentimento d'odio e di rabbia, io distolsi subito le pupille da lei.
Ero rimasto fermo in piedi, davanti alla tavola. Quando riguardai la soglia, essi erano già spariti dal corridoio, e si udivano i loro passi che salivano insieme la scala. Allora abbassai gli occhi, e al vedere le stoviglie e i bicchieri della cena, i resti delle vivande e del vino, provai un improvviso disgusto.
Restai ancora là, presso la tavola, senza muovermi, senza pensare a niente, e mi parve che trascorresse così un tempo lunghissimo; ma in realtà, quando mi mossi per recarmi di sopra a dormire, la sigaretta lasciata accesa da mio padre bruciava ancora sul piatto, fra le bucce d'arancia. Dunque, era trascorso appena qualche minuto! e a me quella giornata, e quella serata finite appena, sembravano invece, chi sa perché, lontane ormai di anni. Solo io, Arturo, mi ritrovavo ancora come prima, un ragazzino di quattordici anni; e dovevo aspettare ancora molte stagioni, avanti di essere un uomo.
Nel passare davanti alla camera di mio padre, udii di là dagli usci chiusi un concitato bisbiglio. Raggiunsi la mia camera quasi di corsa: provavo d'un tratto il sentimento incomprensibile e acuto di ricevere da qualcuno (che non sapevo tuttavia riconoscere), un offesa impossibile a vendicarsi, disumana. Mi spogliai in fretta; e mentre impetuosamente mi coricavo, involgendomi nelle coperte fin sopra il capo, mi giunse attraverso le pareti un grido di lei: tenero, stranamente feroce, e puerile.
A proposito, mi accorgo qua d'una cosa: che non soltanto, io non sapevo chiamarla per nome quando le parlavo; ma anche adesso raccontando di lei (il motivo, lo ignoro), non so indicarla col nome. C'è una difficoltà misteriosa, che mi proibisce queste sillabe così semplici: Nunziata, Nunziatella. E dunque, dovrò seguitare anche qua a chiamarla ella, o essa, o lei, o la sposa, o la matrigna. Se poi, per il bello stile, qualche volta fosse necessario nominarla, potrò forse, al posto del suo nome intero, mettere N., o magari anche Nunz. (Quest'ultimo suono mi piace abbastanza; fa pensare a un animale mezzo selvatico e mezzo domestico: per esempio una gatta, una capra).