Gli eccellenti Condottieri.
Costante ci aveva lasciato, per la sera, del coniglio arrostito, e delle patate cotte nell'olio; ma cercando negli altri vani della credenza, trovammo un pacco di pasta acquistata alla bottega, un vaso di conserva e un pezzo di formaggio, ed essa dichiarò che con questi ingredienti potevamo avere per cena anche la pasta condita. Quindi, rovistando nella cucina, essa ritrovò pure qualche fascina secca, una secchia di carbone, e i fiammiferi; e tutta contenta decise che intanto avrebbe subito acceso il fuoco, e messo su la pentola dell'acqua, aspettando mio padre per buttare giù la pasta. Poi mi ripeté la medesima preghiera che m'aveva già fatto prima al piano di sopra: di non lasciarla sola, in questa casa ancora sconosciuta per lei. E allora io mi sdraiai là sulla panca, dopo aver preso dal cassetto un libro che in quell'epoca leggevo sempre in cucina mentre mangiavo. Però, in quella serata così insolita, non avevo molta voglia di leggere; e rimasi in ozio, appoggiato sui gomiti col libro davanti, senza nemmeno aprirlo.
La sposa, preparandosi ad accendere il fuoco, si mise a cantare, e io mi riscossi all'udire la sua voce, che, nel canto, si faceva più agra e selvaggia. Ella andava su e giù dalla cassetta delle fascine al focolare, con delle mosse avventate e fiere; aggrottava le ciglia, e aveva assunto un'espressione rissosa. Pareva che, per lei, l'accensione del fuoco fosse una specie di guerra, o di festa.
Non avendo trovato nessuna ventola in cucina, si dette a soffiare lei medesima sui carboni, con grande energia; e io mi rammentai di una illustrazione delle Crociate, in cui si vedeva il vento Aquilone, rappresentato come un arcangelo ricciuto, nell'atto di soffiare su una flotta. A furia di soffi, i carboni finalmente furono accesi; e allora lei, per animare la fiamma, alzò con le due mani il lembo davanti della propria gonna, e prese a sbatterlo furiosamente, come una ventola, innanzi alla bocca del focolare. S'alzò un grande scoppio di faville, ma lei seguitò a sventolare la gonna con la foga violenta d'una ballerina gitana, e intanto cantava a gola spiegata, dimenticandosi d'ogni timidezza, come fosse sola, e nella sua casa di Napoli.
Non cantava con abbandono sentimentale, ma con una asprezza infantile, spavalda; con certe note acute che richiamavano qualche amaro canto animalesco: forse di cicogna, di uccelli nomadi sui deserti. I carboni ormai divampavano, ed essa, riabbassata la gonna, andò all'acquaio, e versò l'acqua nella pentola, senza smettere di cantare. Di una di quelle sue canzoni (erano canzoni in lingua italiana, non in dialetto napoletano e del tutto nuove per me) rammento ancora un verso, che lei pronunciava nel seguente modo:
Forse ogni apascia già pronto ha il pugnal.
Incuriosito, le domandai che cosa volesse dire apascia (non avevo ancora mai sentito parlare degli apaches e delle gigolettes che poi ho ritrovato in altre centinaia di canzoni), ed essa mi rispose che veramente non lo sapeva nemmeno lei. Mi spiegò poi che quasi tutte le canzoni che conosceva le aveva imparate ascoltando il radiogrammofono d'una sua vicina di casa. Era una, quella, che aveva fatto molti soldi nel commercio, e poteva permettersi certe spese. Però, era una brava cristiana! ogni volta che accendeva la radio, la apriva al massimo: e in tal modo, tutti quanti, nel vicolo, standosene pacifici davanti alla soglia di casa loro, potevano ascoltare le canzoni.
Fra questi discorsi, avendo terminato i suoi preparativi, la sposa venne a sedersi in terra presso la mia panca. Osservò il libro che, ancora chiuso, era rimasto lì dinanzi a me, e faticosamente, alla maniera dei mezzo analfabeti, ne compitò il titolo:
LE VI-TE DE-GLI ECCEL-LEN-TI CON-DO-TT-IE-RI
- Le vite degli eccellenti Condottieri! - ripeté. E mi guardò ammirata, come se, per il solo fatto di leggere un libro simile, io stesso meritassi il rango di condottiero eccellente. Quindi mi domandò se mi piacesse di leggere. Risposi:
- Eh! si capisce! certo che mi piace!
Allora, mortificata, ma tuttavia con una sorta di rassegnazione fatalistica (come chi riconosca un fatto su cui non c'è speranza né rimedio), essa mi confessò che a lei, invece, il leggere non piaceva: tanto che quand'era piccerilla e andava a scuola piangeva ogni mattina solo a rivedersi il libro davanti. Di classi, a scuola, era arrivata a terminare la seconda, e poi aveva smesso.
A casa sua, a Napoli, i libri c'erano: c'era un grande romanzo, che le aveva dato la sua comare, e in più i libri di studio di sua sorella, che faceva la terza. Ma lei, fino da piccerilla, aveva concluso che la lettura dei libri era solo una penitenza, senza nessun frutto. A lei pareva che dentro i libri ci fosse solo una confusione di parole. A che valevano tutte quelle parole là stese, morte e confuse, su una carta? Oltre alle parole, lei in un libro non ci capiva nient'altro. Ecco tutto quello che arrivava a capirci: delle parole!
- Tu, - io le dissi, - parli come Amleto.
Avevo letto, in traduzione italiana, la tragedia di Amleto (oltre a quelle di Otello, di Giulio Cesare e di re Lear), e disapprovavo assolutamente la condotta di questo personaggio.
- Chi è Amleto? - essa domandò.
Con una smorfia sprezzante le risposi: - Un buffone, - e a questa mia risposta ella dette in uno scroscio di risa un po' nervose. Non capii subito perché ridesse tanto; ma presto mi resi conto che la qualifica di buffone, da me data ad Amleto, essa, come naturale conseguenza dei miei discorsi, se l'era presa anche per se. A tale idea, anch'io mi abbandonai a ridere. Poi ridivenni serio, e le spiegai:
- Amleto era un buffone, e il perché lo so io. Ma tu non hai niente a fare con lui: hai capito? Lui era il Principe di Danimarca I
Vidi che, a simile rivelazione, il suo volto esprimeva un riguardo considerevole; e allora esclamai, risoluto:
- Non fare quella faccia servile! La maggior parte dei re e dei principi sono tutti dei buffoni.
Questa era una delle conclusioni più recenti alle quali io ero arrivato; e mi avvidi che non potevo annunciarla alla mia ignorante ascoltatrice senza aggiungere qualche spiegazione adatta:
- Non basta mica possedere un trono, - le dissi, - per meritare il titolo di re! Un re dev'essere il primo valoroso di tutto il suo popolo. Per esempio: Alessandro il Macedone! Lui fu un vero re! Lui, - aggiunsi con una certa invidia, - era il primo di tutto il suo popolo, non solo per il valore, ma anche per la bellezza! Era di bellezza divina! Aveva dei capelli biondi, fatti a ricci, che parevano un bell'elmo d'oro!
Essa mi ascoltava, al solito, con profonda attenzione e rispetto. Osservò, ammirata: - Tu sei più guaglione di me e capisci tante cose! - Io proseguii, spazientito per quella sua parola guaglione:
- Ma di re come lui ce ne stanno pochi! E quelli che accettano il titolo di re, senza avere la stessa bravura di lui, sai che cosa sono? sono dei fetenti senza onore, degli usurpatori del comando!
- Certo, chi sta al comando deve fare bene più degli altri, -ella assentì umilmente, con voce timida, - perché se chi sta in alto non dà l'esempio, come si può mantenere, questo mondo?
Indi aggiunse, dopo una meditazione:
- Ma così va! pure chi sta in alto, non sempre si ricorda di pagare il suo debito al Signore! Anche i potenti si sbagliano, mica solo i disgraziati. Eh, non sono tanti i cristiani che tengono la giusta coscienza. Per questo il Figlio di Dio, lassù nel cielo, cammina ancora con la ghirlanda di spini; e la sua passione, chi sa quando sarà finita!
Così dicendo, sospirava, come una fantastica monachella, sulle pene millenarie di quell'iddio infelice (i suoi riccetti accompagnavano, dondolando, le sue deplorazioni). E senza ricordare che parlava a un ateo, mi guardava con occhi confidenti e fraterni, come se le sue Certezze Assolute concordassero con le mie!
Io mi limitai, tuttavia, in risposta, a sogguardarla con espressione tollerante. E ripresi, seguitando il mio ragionamento interrotto:
- La colpa è pure delle popolazioni! Si vede proprio chiaro, a leggere la Storia Mondiale, e anche a guardare certi paesi! che una massa di gente non conosce l'unica speranza della vita, e non capisce il sentimento dei veri re. Per questo si può vedere perfino che i più bei valorosi stanno isolati, come dei feroci corsari. Nessuno li accompagna, fuorché la loro fedele scorta, o magari un solo amico, che li segue sempre e li difende con la sua persona: l'unico che conosce il loro cuore! Il resto della gente sta divisa da loro, come un branco di vili catturati, buttati in fondo alla stiva della nave grandiosa!
- La nave grandiosa, - (l'avvertii a questo punto), - sono parole che t'ho detto per fare un simbolo di poesia. Questi qua non sono discorsi materiali. La nave sarebbe: l'onore della vita!
Fra simili spiegazioni, m'ero drizzato, sedendomi a cavallo della panca. Era la prima volta che svelavo a una persona umana i risultati delle mie solitarie meditazioni. La sua espressione era assai grave, quasi religiosa. Rimasi un poco in silenzio, considerandola ogni tanto con brevi occhiate prima di decidermi a parlare ancora; e alla fine le dissi:
- L'ideale di tutta quanta la storia mondiale sarebbe questo: che i veri re s'incontrassero con una popolazione del loro stesso sentimento. Allora, potrebbero fare qualsiasi azione magnifica, potrebbero mettersi a conquistare perfino il futuro!
«A uno non basta la contentezza di essere un valoroso, se tutti quanti gli altri non sono uguali a lui, e non si può fare amicizia. Il giorno che ogni uomo avrà il cuore valoroso e pieno d'onore, come un vero re, tutte le antipatie saranno buttate a mare. E la gente non saprà più che farsene, allora, dei re. Perché ogni uomo, sarà re di se stesso!!
Quest'ultima idea - altisonante e grandiosa - suonò nuova ai miei stessi orecchi, giacché m'era nata in quel preciso minuto, come niente, discorrendo, senza che mai l'avessi pensata prima; e me ne rallegrai, fra me, come di una vera scoperta filosofica, degna di un primario pensatore! A un'occhiata, potei accorgermi che il viso della mia ascoltatrice, come un devoto specchio, s'era illuminato, anch'esso, di un'ammirazione raggiante! E allora, accendendomi di nuova foga, proclamai, con baldanza e sicurezza:
- Io voglio leggere tutti i libri di scienza e di vera bellezza: mi farò istruito come un grande poeta! E per il resto, quanto a forza, per quella sono a posto: posso fare qualsiasi esercizio, ho incominciato a addestrarmi da quando avevo sette o otto mesi. Ancora un paio d'estati, e voglio vedere chi ce la fa, contro di me: si presentasse pure un campione internazionale! Poi, alla prima occasione, devo imparare l'uso delle armi, e avvezzarmi a combattere. Appena avrò l'età, io, dovunque si combatte, andrò volontario, per fare la mia prova! Voglio compiere delle azioni gloriose, da fare imparare il mio nome a tutti quanti! Questa parola: Arturo Gerace si deve conoscere per tutti i paesi!
Essa incominciò a ridere di un piccolo riso incantato, fanciullesco, mirandomi con una fede assoluta: come se io fossi uno dei suoi fratelli, disceso a raccontarle le prodezze che fa l'Arcangelo Michele in Paradiso.
Allora, non esitai più a farle sapere anche i miei progetti più gelosi e ambiziosi: e non soltanto quelli a cui credevo ancora, in coscienza, come a cose attuabili; ma pure quelli leggendari, che avevo meditato da ragazzino, e che non potrebbero avverarsi mai. Io adesso, alla mia età, non ignoravo più che certi miei antichi progetti erano favole; ma glieli dissi lo stesso, ben sapendo che lei, tanto, m'avrebbe creduto.
- Beh, e poi, - incominciai, - quando sarò diventato il primo valoroso, proprio come un vero re, sai che farò? Andrò coi miei fedeli a conquistare le popolazioni, e insegnerò a tutta la gente la vera bravura! e l'onore! A tutti quei disgraziati, svergognati, glielo farò capire io, quanto sono ignoranti! C'è un mucchio di gente, che, appena nasce, si prende paura, e rimane sempre con la paura di tutte le cose! Io voglio spiegare a tutti quanti la bellezza del valore, che vince la misera viltà!
«E una delle imprese che farò, sarà questa. Prossimamente, come t'ho detto, mio padre e io ce ne andremo assieme lontano, per molto tempo, finché un giorno ci vedono sbarcare qua a Procida, a capo d'una superba flotta. Tutta la gente ci acclama, e i Procidani, col nostro esempio, si fanno i più bravi eroi di tutte le nazioni, come i Macedoni; e anche molto alteri, e signorili, come fossero fratelli a mio padre. Saranno nostri fedeli, e ci seguiranno nelle nostre azioni. Per prima cosa, andiamo all'assalto del Penitenziario, a liberare tutti i carcerati; e in cima alla fortezza issiamo una bandiera con una stella, che si vedrà per tutta quanta la marina intorno!
«L'isola di Procida sarà tutta imbandierata, come una bella nave: diventerà meglio di Roma!
Qua, in aria di sfida, io la fissai in volto. Difatti, in seguito al parere da lei espresso in carrozza, poche ore prima, circa i galeotti e le galere, esisteva tuttora una questione sospesa, su questo punto, fra noi due! Ma sul suo volto, adesso, il mio sguardo non trovò altro che una solidarietà esultante, come se ella già fosse impaziente di vedere la mia bandiera sventolare sulla rocca dell'isola, e già se ne promettesse una gran festa di canti e balli! Allora, a conclusione dei miei discorsi, io ripresi a dire, battendo la copertina degli Eccellenti Condottieri col rovescio della mano:
- Questo qui non è un libro di racconti inventati, è proprio storia vera, è scienza! I condottieri storici, pure i più famosi come Alessandro di Macedonia, non erano persone fatate (le persone fatate sono favole); erano persone uguali alle altre in tutte le cose, fuorché nei pensieri! Uno, per principiare a essere come loro, e anche meglio di loro, deve prima tenere nella mente certi veri, grandi pensieri... E questi pensieri, io li so!
- Che pensieri...? - interrogò essa, intenta.
- Beh, - io le confidai dopo qualche esitazione, corrugando i cigli, - il primo pensiero, il massimo di tutti, è questo: Non bisogna importarsene della morte!
Così, ormai, le avevo svelato perfino la famosa reticenza del mio famoso Codice: la più spavalda, cioè, e la più difficile delle mie Certezze Assolute (e anche la mia suprema, più segreta incertezza!) Essa approvò, in tono grave:
- Questa, è la prima verità -. E aggiunse:
- Che ce la insegna pure Iddio.
Ma, a questo punto, io quasi non la ascoltavo più. Ero pieno di una tale soddisfazione, che non avevo più pazienza di stare a discorrere.
Sbuffai. Subitamente, la cucina mi pareva una prigione. Avrei voluto essere nel pieno dell'estate, di mattina, sulla spiaggia, e arrampicarmi sulle rocce, tuffarmi, rivoltarmi nell'acqua; ero preso da una voglia impaziente di giocare e di fare prodezze. D'un tratto mi volsi a lei con impeto: - Guarda! - le gridai. E sfilatemi le scarpe, rapido presi la rincorsa dalla parete opposta verso l'inferriata della finestra, alta forse due metri da terra. In un balzo solo fui aggrappato con le mani a una delle sbarre di mezzo; e quasi nel medesimo istante, con una spinta impetuosa delle gambe e di tutto il corpo, mi portai coi piedi fra due sbarre più alte, arrovesciando indietro il collo. Da questa posizione, potei scorgere lei, fra tutti i suoi riccioli, che applaudiva estasiata.
Provavo un senso di estrema felicità. Eseguita una specie di capriola, mi ritrovai sospeso con le mani all'inferriata, e mi divertii a fare lo spiritoso con volteggi e altalene; quindi esclamai:
- Guarda! la bandiera!
E afferrandomi alle sbarre con una sola mano, forzai coi muscoli del braccio, fino a protendere il corpo in fuori, come un vessillo. Mantenni questa posa per vari secondi, alla maniera d'un virtuoso che tiene la nota; alla fine, mi lasciai cadere giù a terra, e di qua, avventandomi, partii di corsa in un grande salto, come attraverso un ponte aereo, e piombai dritto e a piedi uniti sulla tavola, tre o quattro metri più in là.
Essa mi contemplava come se io fossi balzato non su una tavola di cucina, ma sulla tolda di una nave conquistata; e io, trascinato dal mio slancio, mi sentivo oramai quasi un mozzo leggendario, che volava con destrezza fantastica dal cassero, alle torri, alle vedette! Feci così mostra di altri vari esercizi simili, tutti assai ammirati da lei.
Alla fine, ritornai presso di lei, e mi sedetti in terra. Avevo i piedi nudi, perché, le calze, erano fra quegli indumenti di cui mio padre e io facevamo spesso a meno. Le mie scarpe giacevano là sul pavimento, a poca distanza da me; allungando il piede, io ne afferrai una fra l'alluce e il medio, e con fierezza dissi:
- Guarda! ho il piede prensile.
Essa ammirò questa mia capacità non meno delle altre mie bravure precedenti; e io le spiegai che solo da poco tempo, con l'esercizio, avevo acquistato una simile capacità. Qui a Procida, soggiunsi, da quando ero nato, io facevo la vera vita del marinaio. E un marinaio, secondo una sentenza da me letta in un libro d'avventure, deve possedere l'agilità della scimmia, l'occhio dell'aquila e il cuore del leone!
Le raccontai poi la storia, letta da ragazzo, di un pirata che aveva perduto entrambe le mani in combattimento, e, da allora, al posto degli arti mancanti portava sempre due pistole cariche, strettamente legate ai moncherini. Egli aveva imparato a sparare le sue pistole premendone il grilletto col piede, e aveva acquistato una mira infallibile, tanto che nel romanzo veniva menzionato sempre come il Monco Infernale, o anche Lo Sterminatore del Pacifico.
- Quante cose sai! - ella osservò, con umiltà devota; poi, levando la testa come se cantasse, esclamò in un sorriso felice, impulsivo: - Quando sarai diventato uguale a un re, ti verremo tutti a onorare. Io ci porterò pure mia madre e mia sorella! ci voglio portare tutto il Pallonetto! e tutta Chiaia! e tutta Napoli!
Rimase a fantasticare un momento, e aggiunse, quasi in segretezza: - Ci credi, Artu'? quando tu dici quel tuo pensiero, che vuoi diventare uguale a un re, a me pare di vederti, come fosse già proprio vero, naturale: vestito magnificamente, con una bella camicia di seta, coi bottoncini d'oro, e il manto, e la corona d'oro, e tanti begli anelli preziosi...
- Eh! - io la interruppi, con superba noncuranza, - che vai pensando? La corona e il manto eccetera!!! Si dice questa parola: re, e tu pensi subito ai re titolati! I re che dico io sono re speciali, che non vanno vestiti da buffoni come dici tu.
- E come vanno vestiti? - ella domandò interdetta, ma tuttavia curiosa.
- Vanno vestiti senza curarsi, come gli pare! - io dichiarai pronto. Indi subito, senza doverci pensare troppo, precisai: -D'estate, con un paio di pantaloni e una camicia qualsiasi, magari pure stracciata e sbottonata... e... così... un fazzoletto fiorato al collo... E d'inverno, con una giacca qualsiasi, per esempio, a quadri... insomma, sportiva!
Ella sembrava un poco delusa; ma, dopo un momento, i suoi occhi mi rimirarono con ingenua dedizione, e disse convinta, tentennando il capo:
- Eh, tanto, tu, seppure ti vesti da pezzente, sembri un principino lo stesso...
Io non risposi, rimanendo a labbra serrate, per mostrare indifferenza; quand'ecco, là per là, d'un tratto uscii a ridere, tanto quel complimento mi faceva piacere.
Di li a poco, si udì il passo di mio padre che scendeva le scale; e il più misterioso di tutti ricomparve fra noi.
Si vide allora che l'acqua della pentola, bollendo da un pezzo, era per metà evaporata, senza che noialtri due ce ne accorgessimo; e le braci s'erano quasi consunte. Questo fatto ritardò la cena, e, nell'attesa, mio padre incominciò a bere del vino d'Ischia, che era il suo preferito. Egli s'era levato dalla siesta riposato, e di umore ridente, e pareva contento, come a un gioco, di cenare noi tre assieme, nel Castello dei Gerace. Questa sua allegria esaltò tutti: e la serata prese un'aria di grande festa.