Immacolatella.
Dal momento stesso che lasciava Procida, mio padre per me ridiventava una leggenda! L'intervallo che avevamo trascorso insieme, quasi ancora presente, quasi ancora dimora mia, tutto acceso, oscillava ancora un poco, incerto, innanzi a me, per affascinarmi amaramente con la sua grazia spettrale; poi, come il Vascello Fantasma, si dileguava con rapidità vertiginosa, girando su se stesso. Una specie di vapore sfavillante, e degli echi di voci frantumate, piene di baldanza virile e d'irrisione, erano tutto quello che ne rimaneva. Esso appariva già un evento fuori delle ore, e fuori della storia di Procida: forse non perduto, ma inesistito! Ogni segno del passaggio di mio padre nella nostra casa: l'incavo della sua testa sul guanciale, un pettine sdentato, un pacchetto vuoto di sigarette, mi parevano annunci miracolosi. Come il Principe, al trovare la pantofolina d'oro di Cenerentola, io mi ripetevo: ma dunque, esiste!
Dopo le partenze di mio padre, nella Casa dei guaglioni, Immacolatella mi girava sempre intorno, preoccupata della mia svogliatezza, incitandomi a giocare e a dimenticare il passato. Quante commedie faceva quella pazza! Saltava in aria e si gettava in terra come una ballerina. Anche si trasformava in un buffone: io ero il re. E vedendo che io non m'interessavo a lei, s'accostava impaziente, domandandomi coi suoi occhi marrone: "Che pensi in questo momento? Si può sapere che hai?" Come le donne, che quando un uomo è serio, spesso lo credono malato; oppure s'ingelosiscono, perché i suoi pensieri gravi sembrano, a loro, un tradimento della loro futilità.
Io, come si farebbe con una donna, la scansavo dicendo: -Lasciami in pace un po'. Voglio pensare. Certe cose tu non le capisci. Va' a giocare per conto tuo; ci rivediamo dopo -. Ma era ostinata, non poteva convincersi; e alla fine, davanti ai suoi giochi indiavolati, io ero ripreso dalla voglia di giocare e di indiavolarmi insieme a lei. Avrebbe avuto il diritto di vantarsi; ma era un cuore allegro, senza vanità. Mi riceveva con un trionfo meraviglioso, che pareva un galoppo finale, pensando che la mia serietà di prima io l'avessi finta per fare una figura, come nella tarantella.
Si dirà: parlare tanto d'una cagna! Ma io, quand'ero un ragazzino, non avevo altri compagni che lei, e non si può negare ch'era straordinaria. Per conversare con me, aveva inventato una specie di linguaggio dei muti: con la coda, con gli occhi, con le sue pose, e molte note diverse della sua voce, sapeva dirmi ogni suo pensiero; e io la capivo. Pur essendo una femmina, amava l'audacia e l'avventura: nuotava con me, e in barca mi faceva da timoniere, abbaiando quando c'erano ostacoli in vista. Mi seguiva sempre, quand'io giravo per l'isola, e ogni giorno, ritornando con me sui viottoli e nelle campagne già percorsi mille volte, s'infervorava, come se fossimo due pionieri in terre inesplorate. Quando, attraversato il piccolo stretto, sbarcavamo nell'isoletta deserta di Vivara, che è a pochi metri da Procida, i conigli selvatici fuggivano al nostro arrivo, credendo ch'io fossi un cacciatore col suo cane da caccia. E lei li inseguiva un poco, per il gusto di correre, e poi tornava indietro da me, contenta di essere una pastora.
Aveva molti innamorati, ma fino all'età di otto anni non fu mai incinta.