7

 

La Tanngrisnir

 

La nave di Wowbagger eseguì un redshift spostandosi dall’universo reale per penetrare nel misterioso onnistrato dello spazio oscuro. La visuale dagli oblò era così incredibilmente inaudita che un essere senziente medio sarebbe riuscito a tollerarne appena un paio di secondi, prima di cadere in catalessi o di sostituire la visione reale con qualche piacevole fantasticheria che avrebbe rivelato parecchio sul fantasticante in questione.

Ford Prefect arrossì.

«Goosnargh!» squittì, coprendo un oblò con la borsa. «Ho visto un bel po’ di cose nei miei giorni e anche nelle mie notti, ma quello lì laggiù... Quello è...» e fuggì via dal ponte, decidendo che c’erano momenti nella vita di un uomo in cui era meglio stare da soli che discutere del panorama dagli oblò, panorama che aveva un vago sospetto fosse sorto dai recessi remoti della sua mente, in particolare quelli concepiti in un pomeriggio d’inverno durante il festival di ValeCarne quando, vestito da Poll’orso, era rimasto intrappolato in una torre di sedie impilate, per essere salvato solo in un secondo momento da uno studente munito di tre gambe che gli aveva chiesto una ricompensa parecchio singolare.

“Qual è il suo problema?” si domandò Random. “Non vedo altro che un bel niente e poi ancora niente. Un’eternità di niente da vedere.”

«Sei fortunata» disse Bowerick Wowbagger. «Ci sono cose ben peggiori da vedere rispetto a un bel niente. Il nulla, per esempio.»

«Wow, questa è carina. Dovresti scrivere testi per i biglietti d’auguri.»

«Prova ad ascoltare, strana ragazzina. Potresti imparare qualcosa.»

«Da te? No grazie. Credo che preferirò restare stupida.»

«Il tuo desiderio è già stato esaudito.»

Random rizzò il pelo un pizzico in più di quanto non l’avesse già rizzato, cioè un tantino in più di uno spinoporco bacciformuso che ha appena fiutato un cane da caccia.

«Come osi, non sai chi sono io?»

«Un membro della Setta della Ridicolosità delle Farfuglianti Velme Fangose di Santraginus V?»

«Bah... ridicolo.»

«Oh, scusa, hai ragione. Setta del Ridicolo delle Farfuglianti Velme Fangose di Santraginus V.»

 

nota della guida Questa conversazione aveva degli elementi in comune con lo scambio di battute che accelerò la caduta della vera Setta della Ridicolosità delle Farfuglianti Velme Fangose di Santraginus V. La SDR al suo apice contava diverse decine di nomi in mailing list, ma l’intera organizzazione si autodistrusse in seguito a un botta e risposta avvenuto nel corso di una seduta del venerdì particolarmente litigiosa, quando il Tesoriere del Comitato, T’tal Ychune contestò il Presidente Oloon Yjeet in merito al nome della società. I verbali riportano quanto segue:

Yjeet: Il presidente dà la parola al Tesoriere Ychune.

Ychune: Mi oppongo. Ho già le mie parole, non me ne occorrono di altrui. Sei sempre lo stesso, cugino, adesso fingi pure di non conoscermi, ma un tempo svizzolavamo assieme fagottini di vorkle, o preferisci dimenticarlo?

Yjeet: Per favore, T’tal...

Ychune: Tesoriere Ychune, prego.

Yjeet (sospiro): Per favore, Tesoriere Ychune, non potremmo mantenere questa cosa sul piano della civiltà?

Ychune: Certo, sai tutto sulla civiltà, tu, non è vero? È stato molto civile da parte tua metterti a gironzolare la scorsa settimana dalle parti della mia fidanzata con un pugno di contraccettivi che ti avanzavano. Civilissimo.

Yjeet: Ti ho già spiegato.

Ychune (con una latrante risatina amara): Oh, certo, la storia del palloncino pieno d’acqua. Come dimenticare?

Yjeet: C’era un qualche concetto che intendevi presentare ufficialmente a questo consesso?

Ychune: Altroché, se c’era. Propongo che il nome della società sia modificato da Setta della Ridicolosità a Setta del Ridicolo.

Yjeet: Parli sul serio?

Ychune: Certo. La ridicolosità è un po’ superata, roba da farsa. Io credo che il ridicolo ci dia un tocco di maggiore austerità.

Yjeet: Austerità? Siamo una società che celebra la storia della commedia dell’assurdo sulle schede da collezione delle scatole di cereali per la prima colazione. Austerità. È ridicolo.

Ychune: Aha! Mi stai dando implicitamente ragione.

Yjeet (si alza di scatto): Yjenean ama me, non te. Devi accettarlo. E puoi tenerti la tua stupida società.

Ychune (alzandosi in piedi pure lui e tirando fuori un grosso machete che teneva chissà come nascosto nei pantaloncini corti a strisce regolamentari da comico): Non è stupida, è ridicola. Cosa ben diversa.

Il resto della trascrizione è reso illeggibile dalle macchie di sangue che hanno coperto l’inchiostro. Solo tre frasi restano ancora decifrabili nelle righe finali, e sono: “testati elettronicamente”, “e questi me li chiami pantaloncini da comico” e “altroché se gli elefanti sognano”. Traete da soli le vostre conclusioni.

 

Random incrociò le braccia e s’inclinò con tutto il corpo, come investita da un forte vento. «Lo so cosa stai pensando, Bowerick. Stai pensando che da un momento all’altro resterò a corto di cose da dire, ripiegherò su un “ti odio” e uscirò a passo pesante.»

«Stavo quasi sperando che il nostro battibecco si concludesse nella maniera tradizionale.»

«Non te la caverai così facilmente una seconda volta. Ho le paturnie di una pensionata e l’energia di un’adolescente, quindi posso stare a ribattere per tutto il giorno, se è questo che vuoi.»

Bowerick Wowbagger si strinse le dita alla base del naso. «Non hai idea di quanto sia lontano da ciò che desidero.»

Trillian si contorceva le dita mentre la lite cresceva d’intensità. Era così smarrita in fatto di autostima genitoriale, da non avere idea di come raggiungere quella vetta morale. Anche se a volte riusciva a coglierla fugacemente, come un escursionista miope coglie una collina avvolta nella nebbia di notte, non aveva idea di chi l’occupasse al momento, né di come scalarne i versanti, qualora le fosse capitato per caso di imbattervisi.

«Random» sbottò, ma cambiò subito tono. «Volevo dire: Random. Dolcemente, così: R-a-a-andom.»

«Che balbetti, mamma?»

Trillian sentì montare la vecchia animosità virtuale, ma la soffocò. «Voglio essere gentile con te, capire. Ma, balbettare? Balbettare, mia piccola Random? Sono più che una madre, sono tua amica. E non balbetto, mia cara.»

Random puntò su Trillian i suoi laser emo. «Davvero? A me pare che tu stia balbettando, adesso. Balbetti e volteggi. Non dovresti startene in giro da qualche parte a fare un servizio su una gara di bellezza per cani, in questo momento?»

Prima che Trillian avesse il tempo di selezionare una risposta da temperare con un po’ di compassione frutto di rimorso, Bowerick Wowbagger decise che per il momento ne aveva avuto abbastanza.

«Nave» disse. «Intuba la femmina più giovane.»

La bocca di un tubo trasparente scattò in giù dal soffitto, improvvisamente liquefattosi, e fluttuò sul capo di Random. Seguì i suoi movimenti, poi fuuumpò giù non appena il software predittivo ebbe individuato la posizione successiva dell’obiettivo.

Random fu racchiusa in un tubo isolato acusticamente e mandata a nanna con una zaffata di vibrante gas verdognolo. Il viso si contrasse in uno spasmo e poi assunse una strana espressione che Trillian impiegò qualche istante a identificare come un sorriso.

«Adesso piangerò» disse, guardando teneramente la figlia drogata e imprigionata. «Non vedevo da anni un sorriso simile. L’ultima volta fu quando Random venne nominata giudice junior alla scuola materna. Adorava consegnare quelle note di biasimo.»

«La ragazzina sta sognando. Posso mostrarti le registrazioni, se lo desideri» propose il verde capitano dell’astronave.

C’era una bolla d’ira che strozzava la gola di Trillian, che adesso aveva una ragione legittima per sputarla fuori.

«Come osi!» strillò, strabuzzando gli occhi, il mento proteso in avanti. «Hai sedato mia figlia.»

Wowbagger raccolse un piccolo frammento rosa da terra. «E le ho mozzato un dito.»

Trillian rantolò nella sua bolla d’ira. «Cosa? Che cosa hai fatto?»

«A essere precisi, è stata lei. Quel tubo ha dei bordi affilati, deve aver cacciato fuori il dito all’ultimo istante. Probabilmente per rivolgere qualche gesto osceno.»

«La mia bimba, la mia piccola bimba. Le hai affettato...»

Wowbagger gettò il dito verso il soffitto, che lo inglobò nel plasma. «Su, su. Non affettato. Affettare indica un intento preordinato. È stato tutt’al più uno sfortunato incidente.»

Trillian picchiò sul tubo con i palmi delle mani. «Arthur! Questo pazzo ci sta tagliuzzando la figlia!»

«Tagliuzzare mi sembra esagerato» disse Wowbagger, consultando il computer ultrasottile. «Il computer le ha già fatto ricrescere un nuovo dito.»

Trillian controllò. Era vero: un nuovo dito stava pian piano sbucando dal metacarpo di Random. Non c’era sangue, e la ragazzina non pareva assolutamente in difficoltà.

«Tua figlia è rilassata e sta dormendo» proseguì Bowerick Wowbagger. Sussultò alla vista di qualcosa sugli schermi. «Anche se forse sarà meglio che non ti mostri i suoi sogni. Sono vagamente matricidi.»

«Svegliala!» ordinò Trillian.

«Assolutamente fuori questione.»

«Svegliala subito.»

«Non credo proprio. È insopportabile.»

«E tu no, vero?»

Wowbagger ci pensò su, strofinandosi un pollice con l’indice com’era tradizione nel suo popolo.

 

nota della guida Il popolo di Wowbagger era persuaso che questa azione fosse solo un’antica diceria da concubine, fino a che alcuni scienziati non scoprirono delle sacche di inibitori naturali dell’adenosina collocate sotto i polpastrelli dei pollici. Una decisa grattata di pollice libera tanta energia quanto quella di cinque tazze medie di bevanda alla caffeina. Molti individui sviluppano una dipendenza da queste microeuforie e finiscono per trascorrere l’intera giornata a girarsi i pollici sul sofà.

 

«Credo che certe persone mi trovino insopportabile» ammise. «Ma sono pronto a scommettere che a nessuno piaccia quella ragazza, a meno che non sia obnubilato da legami familiari.»

«E così adesso sarei obnubilata?»

«Non riesco a immaginare un’altra ragione per la quale tu possa tollerare questa persona. È spregevole, almeno questo concedimelo.»

«Non ti concedo un bel niente!»

«Hai sentito con che tono mi parla? Con che tono si rivolge anche a te?»

Le guance di Trillian erano in fiamme. «Abbiamo avuto i nostri problemi. Si tratta di problemi nostri. Adesso libera mia figlia.»

Wowbagger trasalì al pensiero. «Che ne diresti se la mettessi nella stiva per un po’? Potrei chiedere al computer di sciogliere un po’ di nicotina dalle pareti dei suoi polmoni.»

«Non osare metterla nella stiva!» strillò Trillian, resistendo a un forte impeto di battere il piede. E poi: «Nicotina? Fuma?».

«Da qualche anno, secondo i dati in mio possesso.»

«Fumare! Ma dove l’ha trovato il tempo per fumare? Non credo di averla mai vista respirare tra una sfuriata e l’altra.»

«Stiva? Dai.»

Trillian era tentata. «No. No, una raschiatina ai polmoni, quella magari sì.»

Bowerick ondeggiò le mani davanti ad alcuni sensori e il tubo di Random fu disseminato di tremolanti fasci laser.

«Dovrà sudare via il catrame per qualche giorno. Potrebbe provare un po’ di nausea.»

«Bene. Le servirà di lezione. Fumare!»

Bowerick protese la mano su un tavolino di gel amorfo e ne trasse una tazza di tè.

«Credo che dovremmo lasciarla lì dentro fino a che non avremo raggiunto la nebulosa. Nessuno soffrirà, e tutti ci guadagneranno.»

Wowbagger aveva modi ammalianti, e Trillian finì per dimenticare il dito mozzato. Dopotutto, Random stava benissimo. A dirla tutta, ancora meglio che benissimo. Era nuova di zecca.

«No... non posso. Posso?»

Wowbagger si strinse nelle spalle. «A quanto ho potuto evincere, sei ben lontana dall’essere la madre del secolo, che vuoi che cambi qualche giorno di lontananza in più?»

E proprio lì la malia finì.

«Come diavolo ti permetti! Cafone di un alieno verde.»

«Siamo nello spazio profondo, dunque a essere precisi nessuno è un alieno qui.»

«Non hai idea di quello che ho passato. Non sei nella posizione di potermi giudicare!»

Era questo il punto della conversazione in cui Arthur se la sarebbe filata alla chetichella in cerca di un indispensabile ma non ben definito oggetto conservato in qualche posto irraggiungibile. Persino Ford avrebbe rivolto uno sguardo al viso di Trillian e avrebbe capito che era il momento di chiudere il suo orifizio da cocktail. Ma Wowbagger, che aveva coltivato per millenni il desiderio di morire, puntava d’istinto la sua prua verde verso le situazioni pericolose.

“È improbabile” disse il suo subconscio. “Ma magari questa donna terrestre, questa donna terrestre indubbiamente attraente, potrebbe essere in grado di arrecare qualche grave lesione fisica.”

Beata illusione.

«In realtà, ho decisamente idea di quello che hai passato. Il computer ha sondato i tuoi ricordi. Ho tutto in un file.»

«Hai rovistato fra i miei ricordi?»

«Certamente. Vi stavo caricando a bordo della mia nave. Potevate essere chiunque, magari degli attentatori stragisti. Magari!»

«Non ne avevi alcun diritto.»

«Oh, eccoci ai discorsi da giornalista. Che ne è stato del “Non le daremo noie, signor Wowbagger”?»

«Ti ho chiesto di caricare a bordo qualche autostoppista, non di rimuovere i ricordi dalle nostre menti.»

«Ancora una volta, stai usando il verbo sbagliato. Non è stato utilizzato alcuno strumento invasivo che rimuovesse alcunché.»

Trillian strinse i pugni così forte che le falangi le scricchiolarono.

«Pedante imbecille smanceroso!»

«Ah, sì. Avevo dimenticato di quanto voi terrestri siate... foste... forme di vita poco evolute in fatto di ingiurie. Cosa mi dirai adesso? Bricconcello birichino?»

«Oh, so fare di molto meglio.»

«Davvero? Dovrò prendere il mio taccuino. Sono sempre alla ricerca, sai.»

Trillian si dibatteva come un guerriero placcato da braccia invisibili. «Giusto, Wowbagger. Fa’ una lista di insulti, continua a lasciar passare la tua vita inutile arrecando dolore alla gente.»

«Come alternativa al trascorrere la propria esistenza lontani dalla propria figlia per raccontare il dolore della gente?»

«Se non altro non sono io a provocarlo, il dolore.»

«Davvero? Perché non chiedi alla ragazza nel tubo?»

Era una competizione alla stessa categoria di peso, e Bowerick ci stava prendendo gusto. Scagliò la tazza verso il soffitto e si offrì alla donna con tutto il suo impegno.

«Va’ avanti, su, Trillian Astra. Spara qualcosa che io non abbia già sentito un milione di volte.»

«Zarkati, Bowerick.»

«E questa come me la chiami? Una novità?»

«Pensi davvero che mi metta a sprecare il mio tempo per stupire qualcuno che ha mutilato mia figlia?»

«Credo di sì. Voi personaggi mediatici siete sempre in cerca di modi per impressionare l’universo. Prova a vedermi come spettatore.»

Quello di Trillian si sarebbe potuto scambiare per un sorriso; d’altro canto, stava mostrando i denti. «Uno spettatore? Non ho mai provato a coinvolgere spettatori della tua categoria demografica.»

«E quale sarebbe questa categoria?»

«La frangia dei pazzi estremisti. La brigata dei depressi solitari.»

«Una brigata di solitari?» disse Bowerick, con un ghigno.

«Non fai che nasconderti, Wowbagger. In questa nave, e dietro le parole. Sei un triste, derelitto, stupido uomo solo che spreca il dono incredibile che gli è stato fatto. Immagina le cose che avresti potuto compiere.»

Wowbagger non riuscì a sostenere il suo sguardo. «Io ho visto cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione... E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser... E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo... come lacrime nella pioggia.»

«Sei patetico.»

«Era uno dei miei film preferiti. Ho visto un bel po’ di film.»

«E insultato un bel po’ di gente.»

«Anche quello.»

«Tutto per un paio di elastici.»

«Zarkuti elastici... Adesso lo sanno tutti che quel culto degli elastici era solo una gran bufolazzata.»

«Avevi l’eternità e l’hai sprecata.»

Bowerick si lasciò ricadere contro la parete, scomparendo fino alla spalla. «Sì. È così, e voglio morire.»

«Anch’io.»

Bowerick fu sorpreso di sentire quelle parole, ma anche di quanto lo sorprendessero. «Vuoi morire anche tu?»

Trillian gli pose una mano sulla guancia liscia e verde. «No, sciocco. Voglio che tu muoia.»

«Finalmente, siamo d’accordo su qualcosa.»

Lei guardò dritto negli occhi verde smeraldo di Wowbagger.

«Ma quand’è che morirai?» chiese.

Bowerick era in circolazione da così tanto tempo da saper cogliere un varco, quando gli si presentava.

«Non molto presto» disse, e si protese a baciare Trillian Astra.

La donna fremette appena, ma non tanto quanto la ragazza nel tubo che aveva appena ripreso conoscenza.

 

 

Asgard

 

Era una cosa che titillava la fantasia divina degli AEsir, quella di sottoporre i mortali a imprese impossibili e poi mettersi su uno sgabello a godersi lo sciagurato principe o spasimante farsi in quattro per assecondare le richieste delle divinità. Uccidere il più feroce dei draghi era uno dei pezzi forti, e così scalare la torre più alta o attraversare il deserto più sconfinato. Qualunque cosa contenesse un superlativo. Le imprese più impossibili erano proprio quelle tanto vicine al possibile che il povero sventurato, costretto a correre in tondo, poteva quasi toccare con mano la vittoria ma la disfatta gli strisciava alle spalle finendo per somministrargli una dose fatale di morte raccapricciante.

Le imprese erano generalmente dispensate a gruppi di tre, così che il candidato potesse assaporare il successo alle prime due e addirittura alzare una cresta baldanzosa, cosa che ringalluzziva l’esultanza divertita degli dèi nel momento in cui, al termine della terza prova, il dio candidato infliggeva il colpo di grazia e le divinità si scambiavano l’allegro batticinque finale. Odino insisteva su regole jolly, così che il mortale potesse sempre avere una teorica possibilità di vittoria, ma nella storia di quelle imprese solo un uomo era riuscito a portare a termine tre prove senza morire in questo o quel punto. A dirla tutta, si era in realtà trattato dello stesso Odino in uno dei travestimenti umani di cui tanto andava fiero.

«Oooh» erano stati costretti a mormorare tutti gli altri dèi, ammirati. «Che sbalorditivo mortale che non ha per nulla l’aspetto di Odino.» E avevano anche dovuto fingere che fosse assolutamente non ridicolo il fatto che un mortale riuscisse a muoversi tanto veloce da non poter essere ripreso dalle telecamere, e che riuscisse a cambiare dimensioni a proprio piacimento.

“Uno dice, almeno farà qualche sforzo nella scelta del nome falso” aveva comunicato telepaticamente Loki a Heimdallr. “Dico, Wodino. Insomma!”

Zaphod Beeblebrox era riuscito a negoziare da tre prove a una sola, e ciò significava in sostanza che avrebbe fallito e sarebbe morto due prove prima, cosa che, entro i confini della barriera di ghiaccio, non avrebbe potuto produrre un effetto traumatico su nessun altro oltre a Zaphod Beeblebrox stesso.

Il Presidente Galattico si ritrovò a sbandare lateralmente mentre si precipitava lungo il Ponte dell’Arcobaleno.

“Sono totalmente sbilanciato, senza Cervello Sinistro” comprese. “Ed è sbilanciato anche il respiro.”

Inspirava a tutta forza, ma solo una frazione dell’aria riusciva a penetrargli fino ai polmoni.

“Ho una perdita da qualche parte.”

In realtà non c’era alcuna perdita, era solo che i polmoni di Zaphod erano abituati a essere alimentati da una coppia di trachee, mentre adesso ce n’era una sola e doveva fare doppio lavoro. Non era di grande aiuto il fatto che la miscela di ossigeno e anidride carbonica fosse un po’ troppo ricca di quest’ultima rispetto alle necessità della gran parte dei mortali, e così più Zaphod si avvicinava alla superficie del pianeta, più la mente gli si annebbiava.

«Complimenti al sottocaldano!» gridò, perché gli parve appropriato.

E per quanto possa apparire una frase senza senso impastocchiata da un citrullo dalla mente rincitrullita, caso volle che questa particolare frase fosse la parola d’ordine del giorno per i cannoni a pressione di Helheimr collocati al di sotto delle miniere d’acciaio di Asgard. Cosa che avrebbe potuto non contare nulla, se i deliranti enunciati di Zaphod non fossero stati raccolti dalle onde spurie della telefonata di Heimdallr a Odino e ritrasmesse fino all’auricolare senza fili di Hel, la Signora di Helheimr. E anche così, nessuna azione sarebbe stata intrapresa in assenza del tonf-o-codice d’emergenza, una complessa serie di colpetti noti solamente ai pezzi grossi di Asgard, colpetti che andavano battuti fisicamente sulla vena d’acciaio che scorreva nella pietra di Hliòskjàlf, il gigantesco trono e torre d’avvistamento di Odino, giù fino a Helheimr. Ciononostante, dal momento che l’acciaio di Asgard aveva nelle sue molecole una piccola quota di magia divina, c’era un certo grado di comunicazione tra la vena e qualsiasi metallo ne fosse stato estratto, per esempio il ponte. E mentre Zaphod percorreva a gran velocità il Bifrost, le protuberanze squagliate dei suoi tacchi percuotevano il ponte accompagnando ogni passo con uno scroscio di battiti e tonfi; battiti e tonfi che coincidevano perfettamente con il tonf-o-codice d’emergenza dei cannoni a pressione di Helheimr.

Cosa quantomai improbabile. Quarantasette milioni a uno. Ma una cosa da nulla per chiunque o cosunque si trovasse sotto l’impronta della corona imbobinodiscendente di coincidenza e serendipità della Propulsione a Improbabilità Infinita.

Il senso dell’equilibrio di Zaphod fu ulteriormente sballonzolacchiato dai cicloni in miniatura che s’incuneavano attraverso il tunnel di pseudoatmosfera tamburellandogli alla testa e sulle spalle.

“Lo spostamento d’aria dei draghi” comprese. “Le bestiole sono vicine.”

Se il senso dell’equilibrio di Zaphod era un po’ scombussolato, tutti gli altri sensi vennero violentemente assaliti dall’approssimarsi dei draghi alle sue spalle. Si levavano nell’atmosfera reale, con improbabile grazia, i lunghi colli che ondeggiavano a ogni battito d’ali, zaffatine di fuoco che erompevano allegre dalle narici. Numerose teste ricoperte di scaglie gli si affacciarono alla coda dell’occhio, ma le creature non parevano avere la benché minima fretta di farlo precipitare giù dal ponte.

“Stanno giocando con me. Maledetti lucertoloni volanti.”

«Buonasera, signori» gridò, spompato. «Non c’è possibilità di comprare la vostra collaborazione, mi chiedevo? Avrei un gran bel replicatore sulla nave. Tutto quello che volete. Qualunque cosa vi venga in mente.»

Il drago munito di più corna si avvicinò in picchiata per fare da portavoce al gruppo.

«Tutto quello che vogliamo?» disse con voce simile a carne risucchiata attraverso un collo di bottiglia. «Wow. Okay. Fammi pensare. Potremmo risparmiarlo, no, ragazzi?»

«Certo.»

«Massi.»

«Perché no?»

Era un inizio incoraggiante, si disse Zaphod.

«Dunque, cosa vorreste? Ditemi cosa posso fare per voi.»

Il drago con le corna mordicchiò un lembo di pelle che gli pendeva dal naso.

«Potresti farci entrare tutti, nella nave?»

«Certo che sì» sbuffò Zaphod, senza fermarsi un attimo a pensare se la cosa fosse davvero possibile.

«E potresti trasportarci in un nuovo mondo? Un mondo giovane e brulicante di vita?»

«Non c’è problema. Me ne vengono in mente almeno una dozzina, e dei due questo è il mio cervello stupido.»

Il drago gli discese più vicino, tanto che le fiammate azzurre delle sue narici di salamandra gli bruciacchiavano i capelli.

«E potremmo sterminare dalla prima all’ultima creatura del pianeta?» sospirò ringhiando.

«E gli alberi» gli gridò uno dei compagni. «Vogliamo abbrustolire pure gli alberi, tanto per divertirci.»

«E gli alberi» disse il drago portavoce. «Persino i draghi hanno bisogno di qualche svago.»

Zaphod era meravigliato della sua capacità di correre parlando. «Cosa stavi dicendo, prima degli alberi?»

«Sterminare tutti e... ah, deporre le uova sui loro cadaveri. È una cosa molto importante per noi. Potresti organizzare la cosa, piccolo mortale?»

«In che punto dei cadaveri?» chiese Zaphod, per amor di conversazione.

«Oh, solite cose. Cavità, solchi. Le orbite oculari sono perfette.»

E nonostante non credesse di potercela fare, Zaphod non badò alle fitte ai polmoni e affrettò il passo.

“Perché ti ficchi sempre in queste situazioni, imbecille?” si rimproverò in silenzio. “Hai almeno idea del motivo per cui sei finito qui?”

No, non ce l’aveva. Il motivo gli sarebbe tornato alla mente non appena avesse avuto un secondo per pensarci. Se mai avesse avuto quel secondo.

 

 

Giù nelle budella di Asgard marciva un megacubo ultraprofondo di trattamento delle acque di scolo alimentato a magma. Al di sotto di questo e un pizzico a destra, in quello che poteva essere ragionevolmente definito il retto di Asgard, sorgeva la regione conosciuta con il nome di Niflheim. All’estremità più bassa di Niflheim, in quello che poteva ragionevolmente definirsi lo sfintere interno di Asgard, sorgeva Helheimr.

Hel, la Signora di suddetto sfintere, riposava su una pila di cuscini di interiora di serpente gonfiate disposti sul suo trono, e carezzava la stola di cucciolo di drago che portava al collo.

«Che ne pensi della mia nuova stola?» chiese a Móòguòr, il suo demone familiare, che al momento aveva preso la forma di un’aquila gigante.

Móòguòr strinse gli occhi. «Credo sia ancora vivo, dolcezza.»

Hel torse l’esile collo del drago con un’incuranza che tradiva una grande esperienza.

«Ora che ne pensi?»

«Non saprei» miagolò Móòguòr, che era sempre stato un po’ troppo meschino per essere un mangiacadaveri. «Sembra un po’ troppo... inanimato.»

D’un tratto Hel si tirò su rapida a sedere in un turbinio squittente di cuscini.

«Mi è arrivata u... è la... co-co-cosa» balbettò, spingendosi l’auricolare più in fondo nell’orecchio.

Móòguòr si rizzò sugli artigli. «Cosa, dolcezza? Ti è arrivata cosa?»

«La parola d’ordine, da Odino.»

«Quale? Quella che dice “cambia il filtro della fognatura”?»

«No, no, sciocco uccellacelo. “Complimenti al sottocaldano.” È la parola chiave per i cannoni a pressione. Siamo sotto bombardamento.»

Móòguòr si piccò per l’attacco personale, ma decise per il bene del pianeta di lasciare momentaneamente marcire la cosa.

«Su, su, dolcezza. Aspetta. Non è il caso di lasciarsi andare agli isterismi. Non dovresti aspettare una sorta di conferma?»

Hel si tamponò la fronte con un avambraccio peloso. «Sì. Sì, certo che sì, amico caro. Il tonf-o-codice d’emergenza. Perdonami per averti definito uno sciocco uccellacelo.»

«Oh, non fa nulla» disse Móòguòr, bonario. «Fai un lavoro che ti mette sotto pressione.» Dentro di sé, giurò di aumentare le dosi quotidiane di veleno. Magari non sarebbe arrivato ad ammazzare quella strega, ma almeno l’avrebbe fatta contorcere sul gabinetto per mezza giornata.

Il sorriso sollevato di Hel si paralizzò non appena il tonf-o-codice d’emergenza cominciò a vibrarle per tutto il corpo attraverso il trono d’acciaio sul quale stava seduta.

«Cos’è?»

«Chiudi il becco, idiota. Sto contando i tonfi.»

Móòguòr si lisciò le penne per qualche istante, mentre la sua padrona contava.

«Guerra!» disse infine Hel, balzando in piedi. «Asgard è in guerra. Finalmente è giunta la mia occasione per uscire da questo merdaio e risalire in superficie. Se le mie difese dovessero servire a risolvere la faccenda, allora addio, disgustosa fossa di falliti.»

«Fallito chi, io?»

Hel alzò gli occhi al cielo. «Sei troppo suscettibile per essere un mangiacadaveri. Scalda i cannoni.»

«Quali cannoni? Non tutti, vero?»

«Certo, tutti.»

«A cos’è che devo sparare?»

«Non al ponte, sul ponte c’è Heimdallr. A ogni altra cosa in movimento!» bestemmiò la diavolessa. «Potremmo al massimo perderci qualche drago, ma ci sono degli alieni all’interno della barriera.»

“Disgustosa fossa di falliti” pensò torvo Móòguòr, aprendo una finestra sul suo computer da polso. “Se non altro riconosciamo l’esistenza della tecnologia, quaggiù. Se non altro non ci affidiamo ad arcaiche telefonate e tonf-o-codici.”

«Guarda che so leggere telepaticamente i tuoi pensieri!» gracchiò Hel. «Stai pensando qualcosa su tende e torte!»

Móòguòr attivò i cannoni con un paio di clic sul suo schermo.

“Dio ci aiuti” pensò. “Ma non gli dèi che abbiamo qui. Qualcun altro che sia un po’ meno...”

Il mangiacadaveri non completò il pensiero, nell’eventualità che a Hel venisse un improvviso ritorno di telepatia.

 

 

Zaphod era quasi completamente spompato, e quel po’ di fiato che gli restava gli pizzicava i polmoni con un formicolio di aghi e spilli. I draghi volteggiavano intorno al ponte, adesso, erano almeno una dozzina, si spintonavano a vicenda con spallate giocose, si mordicchiavano le code. Scagliavano sfere infuocate accanto all’obiettivo, svellendo pezzi di ghiaccio dal ponte.

“Epperò” pensò Zaphod. “Rimasto ucciso mentre combatteva contro dei draghi a Asgard. Niente male come modo per tirare le cuoia. Meglio che scivolare su una pozzanghera e cascare dentro un buco. Sarebbe un peccato se non riuscissi a farcela fino a quel muro.”

Muro. Ma Dionah Carlinton-Housney non aveva detto qualcosa su un muro?

 “Raggiungere quel muro sarà il mio obiettivo a breve termine” decise Zaphod con la stessa vagonata di raziocinio privo di fondamento tipica di gran parte delle decisioni che gli avevano cambiato la vita. “Fosse l’ultima cosa che faccio in vita mia, raggiungerò quel muro.”

Due sobbalzi dopo, le gambe gli cedettero e si ridusse a trascinarsi per il ponte in una raspata a tre mani.

«Muro, dannazione» gracchiò. «Muro.»

Il draghi lo trovarono buffo e uno di loro tirò fuori un telefonino da sotto una scaglia per chiamare i suoi amici del weekend.

«Sul serio, devi vedere questo idiota, Brucey. Ti ricordi quel tizio con le gambe di legno? Quello che abbiamo acceso come una torcia? Questo qua è ancora più ridicolo. Vieni qui, subito.»

“Altri draghi. Frugo.”

Le bestie batterono le ali e si tuffarono dentro il tunnel di pseudoatmosfera, strattonando gli abiti di Zaphod con i loro piccoli artigli affilati.

«Su, questa è una giacca presidenziale ufficiale. Non lo sapete chi sono, lucertoloni?»

Il Bifrost sobbalzò all’impatto dei passi da gigante di Heimdallr che correva allegro per il ponte, il sogghigno più ampio di quello del losco sindaco di Optimisia con gli innesti dentali subito dopo aver vinto al lotto planetario, il giorno del suo compleanno, e aver scoperto che il suo principale rivale in amore delle scuole superiori era stato appena tradito e che quel procedimento giudiziario a suo carico era stato ritirato.

«Non ce l’hai fatta» disse la divinità, gli occhi ingigantiti dalle lenti color arancio degli occhiali da sci.

«Sono graduati?» s’incuriosì Zaphod.

«Non hai portato a termine la tua impresa, Beeblezopp.»

«È Beeblebrox» gridò il Presidente Galattico, frustrato. «Magari non te ne sarai reso conto, ma ogni volta che pronunci male il mio nome, mi ferisci. Sono una persona positiva, ma per qualche motivo mi ferisce molto. Non è affatto divertente.»

«Io lo trovo divertente, Bubbolbroz» disse Heimdallr, facendo ricorso ai poteri di proiezione vocale da dio per trasmettere i suoi commenti ai draghi, che ridacchiavano sputando palle di fuoco e dandosi pacche con le ali. «Che ne dite, miei splendidi cuccioletti?»

«Dico che è uno spasso, questo sbufolazzone» rispose un maschio alfa a strisce rosse che svolazzava sopra il ponte, le zampe posteriori che ciondolavano, cosa più difficile di quanto non sembri. «Se vuoi sapere come la penso, capo, pronunciare male il nome dì questo mortale è proprio come...»

Altri suoni giunsero dalla sua bocca, ma non furono parole vere e proprie, solo stridii e una manciata di consonanti iniziali che sarebbero probabilmente diventati parolacce prima che il dolore sopprimesse qualsiasi ordine in arrivo dal lobo parietale del suo cervello.

«Ma che...» disse Heimdallr, prima di spalancare la bocca. L’alfa a strisce rosse era semplicemente esploso in una fiammata al plasma, colpito sul posteriore da una sorta di missile.

«Wow» disse Zaphod. «Mi sono sempre chiesto cosa succede quando un drago trattiene il fiato.»

Un altro drago fu colpito, alla spalla, e precipitò roteando verso la superficie del pianeta, lasciandosi dietro una scia di fumo simile a macchie d’inchiostro nero-blu.

«Non reagisci?» chiese Zaphod. «Non hai quella roba, tipo la reazione ultrarapida? O è una cosa che hanno solo le divinità principali?»

Heimdallr si sentì punto sul vivo.

«Volate, miei cari» gridò. «Nascondetevi sulla superficie.»

I draghi sciolsero le formazioni di volo e si dispersero in cerca di riparo più lontani che potevano da qualsiasi cosa stesse attaccando la compagnia. Per rapidi che fossero, in molti non riuscirono a sottrarsi alle virate dei missili spiralanti che incombevano all’orizzonte del pianeta distaccandosi dalla formazione ogniqualvolta si fissavano su un obiettivo.

Heimdallr contrasse il corno e fece una chiamata d’emergenza a Helheimr.

«Hel? Siamo sotto attacco qui!»

«Lo so» disse la diavolessa. «Non preoccuparti, ho inviato qualche dozzina di testate nella vostra direzione. Riesci a vedere il nemico?»

Heimdallr era famoso per la sua capacità di mantenersi all’erta senza aver mai bisogno di dormire. Nelle taverne della Scandinavia si era soliti raccontare che il dio era capace di osservare l’erba che cresceva e di sentire una foglia che cadeva alla sponda opposta dell’oceano. Ma quello era stato tanto tempo prima, adesso Heimdallr ogni tanto se la squagliava per andare a farsi un pisolo dopo una bella tazza di marocchino e, era risaputo, si perdeva il suono dell’intero autunno.

«Non li vedo. Solo dei missili che arrivano dall’emisfero sud.»

Hel uhmmmmò. «Emisfero sud, dici. Non lungo la campata del Bifrost?»

«No. La sto guardando adesso. Da sud, decisamente.»

«Non vedi nessun alieno? Magari dei tizi verdi, con laser e roba simile?»

Heimdallr strizzò lo stelo del Gjallarhorn fino a farlo cigolare. «No. Nessun zarkuto alieno, okay? Solo grappoli di siluri azzurri dalla scia rosa. Un po’ come i nostri, se ben ricordo.»

«No, no» disse Hel con il tono di una ragazzina colpevole che blocca la mamma davanti alla porta della stanzetta piena di ragazzi e di droghe, gioielli rubati e musica fatta suonare all’incontrano. «Non possono essere come i nostri. I nostri lasciano una scia rossa. Rosso chiaro, qualcuno lo chiamerebbe color pulce.»

Heimdallr ruggì mentre un altro dei draghi veniva colpito. «Non m’importa di come lo chiamerebbe qualcuno. Abbattili. Sei in grado di farlo?»

«Ehm, sì. Credo. Il computer ha... eh... isolato la loro frequenza, perciò dovremmo essere in grado di inviare un segnale di autodistruzione, cosa che sto facendo... adesso.»

I missili restanti esplosero in lampi di colore rosa e bianco elettrico, rotelle e pistoni tonfarono sulla superficie gelata.

«Ben fatto» disse Heimdallr, le lacrime di sollievo che gli rigavano le guance abbronzate. «Odino sarà lieto di sapere della tua grande impresa di oggi.»

«Sì? Glielo vuoi dire? Splendido. Certo, avrei potuto distruggere quei missili molto prima, se fossero stati davvero i nostri missili, perché avevo già quelle frequenze. Quindi ovviamente non erano i nostri missili, e perché mai avrebbero dovuto esserlo?, ma semmai qualcuno dovesse chiedere, non lo erano. Qualcuno tipo Odino, per esempio. Non nostri. Capito?»

Heimdallr era sul punto di rispondere, quando si accorse che Zaphod Beeblebrox aveva scoperto nuove riserve di energia e correva più rapido che poteva verso il muro.

“Se arriva a scalarlo, sarò costretto a negoziare.”

Nonostante questa verità e le recenti perdite subite dalla sua brigata di draghi, sul viso di Heimdallr si era dipinto un sorriso. Beeblebrox aveva quasi raggiunto il muro, ma quel “quasi” gli sarebbe bastato tanto quanto un flibuzzo poteva bastare per attività che richiedessero l’uso dei pollici: aprire bottiglie, per esempio, o suonare il liuto o magari chiedere un passaggio. Il betelgeusiano avrebbe anche potuto starsene lì immobile, per quello che contava. Niente poteva superare un dio nello spazio reale. Persino a un solo passo di distanza, Beeblebrox era come a un anno luce dal muro con indosso una giacca di piombo e stivali al neutronio.

“Acciuffa Beeblebrox” pensò Heimdallr, e prima che gli impulsi elettrici contenenti il concetto avessero avuto il tempo di spegnersi, già aveva preso Zaphod per la collottola e l’aveva sbattuto contro il muro.

«Non so cos’è che hai fatto ai miei amati draghi. Di qualunque cosa si sia trattato, non ti aiuterà adesso.»

Zaphod si sentiva come se un mammiferoide gli si fosse sdraiato sul petto. E per giunta non un mammiferoide simpatico e vegetariano che s’era seduto per errore e se ne sarebbe andato via non appena avesse sentito la sua voce. No, un crudele mammiferoide mutante carnivoro che aveva disubbidito ai consigli dei genitori e del branco e aveva preso la decisione di intenerire la preda saltellandoci su con le chiappe prima di divorarsela.

«Sciocco mammiferoide mutante» sbuffò Zaphod, stordito dalla corsa e dall’anidride carbonica inalata.

Il pugno di Heimdallr strinse una nocca. «È così? Sono queste le ultime parole del famoso Presidente Bibliobrioche?»

Zaphod si ricordò di una cosa. «Non sono l’unico che ha un soprannome, vero?»

Il dio ebbe uno spasmo nervoso. «Di che parli?»

«Non provare a negarlo. Ce l’avete tutti, tipo un nomignolo segreto. Thor me ne parlò una volta durante la tournée, dopo un’esibizione all’aria aperta in una cava a Zentalquabula. Eravamo così smartellati, non immagini quanto. Baciai un silagestriano.»

«Bugiardo» sibilò Heimdallr.

Zaphod si piccò. «Non ne vado fiero, ma baciai quel silagestriano, altroché, e pure il suo addestratore.»

«Nessun mortale può conoscere i nostri soprannomi. È vietato. Tu menti.»

Il viso liscio ed enorme di Heimdallr era a metri di distanza da Zaphod. La sua ira scintillava nell’aria intorno a loro e Gjallarhorn brillava di un rosso rovente di potere divino. Zaphod studiò tutto ciò e disse: «Mentire? Io? Stiamo cominciando a offendere, eh? Non faccio che ripetere quello che mi ha detto Thor. Ambasciator non porta pena, eccetera».

«Non pronunciarlo. Ti avverto, mortale!»

Persino Zaphod comprendeva l’assurdità di quella minaccia. «Altrimenti cosa? Mi farai qualcosa di male, tipo mandarmi draghi, o stritolarmi la testa?»

Heimdallr si disse che sarebbe stata un’ottima cosa stritolargli la testa prima che Zaphod fosse riuscito a tirar fuori il nomignolo, ma un’improvvisa tensione lo paralizzò per un momento fondamentale. E la capacità di sfruttare i momenti fondamentali era una delle poche aree di specializzazione di Zaphod, ove le altre erano la celebre tecnica del Big Bang, la preparazione a tre mani del Gotto pangalattico e un sistema di asciugatura a testa in giù che dava al suo ciuffo quel molleggio extra.

«Su, Racchetta Piegata, mollami» disse. «Mollami.»

E Heimdallr lo mollò. Non ebbe scelta, perché era stato pronunciato il suo nomignolo divino. Il dio arretrò di una decina di passi e poi si voltò di spalle, piccato.

«Se ad Asgard qualcuno... chiunque... mi chiama Racchetta Piegata, sono costretto ad ammansirmi. Dannata Racchetta Piegata... Che razza di nome divino sarebbe?» borbottò, scalciando dei blocchi di ghiaccio sulla parete del tunnel di pseudoatmosfera, dando luogo a una precipitazione localizzata sulla superficie sottostante del pianeta. «Loki lo suggerisce e, ovviamente, Odino lo trova divertente. Loki dice: “Guarda Heimdallr laggiù sulla pista da sci, con quella sua vecchia racchetta piegata”. E il Capo ride tanto che per poco non s’inghiotte la barba. E così da quel giorno è tutto un Racchetta Piegata di qua, Racchetta Piegata di là. Avevo un appellativo grandioso. Ero l’Occhio di Asgard. Ma pare sia troppo complicato da pronunciare dopo qualche boccale extra, e così adesso sono la stramaledetta Racchetta Piegata.» Le spalle del titanico dio sussultarono ripetutamente, e visto da dietro aveva tutta l’aria di qualcuno in preda a un piagnucolio autocommiserante.

«Ehi, su» disse Zaphod, alzandosi in piedi. «Perché quel muso lungo? Ci sono tante cose belle nella tua vita.»

«E che cos’ho di bello? Sono bloccato qui su questo stupido ponte con una manciata di rettili per amici.» Batté un piede, diffondendo un’onda di tremore per tutto il Bifrost. «Lo sai cosa stanno facendo lì dentro proprio in questo istante? Lo sai?»

«Be’, no, io...»

«Ammucchiate!» gridò Heimdallr. «Ammucchiate vecchio stampo. E guarda me, qui a dar la caccia ai mortali. Potrei essere lì dentro, tutto cosparso di resina di jartle, immerso fino al collo ne...»

«Okay, amicone grosso, ci sono un paio di immagini che riesco a cogliere persino io senza bisogno di farle fluttuare più di tanto in nessuna delle mie due teste.»

«Loki ha due palazzi. Due! Con tutti i brutti tiri che ha fatto. E siede al tavolo di Odino. E perché? Perché? Perché conosce qualche barzelletta.» Heimdallr si voltò, i baffi umidi, lo sguardo disperato. «Dannate barzellette! Io sto qui a far la guardia al pianeta, hai presente?»

Zaphod infilò la terza mano in tasca. «Sai cosa vedo qui?»

«Cosa?» disse Heimdallr, il labbro inferiore prominente che proiettava un’ombra.

«Vedo un eroe.»

«Non trattarmi con condiscendenza, Bubb... Beeblebrox.»

Zaphod diede una pacca sulla coscia del dio. «Non ti sto trattando con condiscendenza, sciocchino. È quello che sei, un eroe vero. E in tutto l’universo ce ne sono solo una dozzina. Io, tu, e altri quattro.»

Heimdallr annuì in modo che fu appena percettibile, nonostante quel mento così sporgente. «Sarà. Comunque Odino non la pensa così.»

Zaphod si alzò sulle punte dei piedi. «Credi che Odino possa sentirmi in questo momento?»

«Probabilmente no, da dentro il tunnel. A meno che non si metta apposta in ascolto.»

«Be’, allora, perdonami se te lo dico, ma Odino non ti merita. Anzi, dirò di più. Forse Odino dovrebbe guardarsi dentro e chiedersi: “Chi dovrebbe stare seduto al mio fianco adesso? Un briccone pusillanime? O il mio leale guardiano? Sono convinto che a molta gente piacerebbe sentire la risposta”.»

«“Pusillanime?” Lo pensi davvero? “Molta gente?”»

«Saremo anche mortali, ma non siamo stupidi. La gente ti apprezza, Heimdallr. Ti adorano.»

«Forse una volta...»

«Adesso. Ancora. Non sai che esiste un culto di Heimdallr su Algol? Quei primati solari non ne avranno mai abbastanza di te.»

«Davvero? Algol, hai detto?»

«E sulla Terra eri, be’, un dio. Statue dappertutto.»

Heimdallr fece un risolino. «Già, la Terra. A loro piaceva tanto questa cosa del corno.» Gli occhi gli si inumidirono e per un momento il Dio della Luce si rivide a fare i bis in Scandinavia, finché non capì d’un tratto che Zaphod stava giocando con le sue debolezze.

«No» sbottò il dio, asciugandosi il naso. «Basta così. Fine. Niente negoziazioni con gli umani.»

«Sei obbligato. Conosco il tuo nome segreto.»

«Oh, certo, infierisci ancora. È una cosa davvero meschina, persino da parte tua.»

Zaphod gli strinse due delle sue mani sul fianco. «Invoco il tuo nome segreto e rivendico il mio diritto a entrare, Heimdallr Dio della Luce, altrimenti noto come l’Occhio di Asgard.»

Heimdallr sbuffò, non in tono infelice, e sollevò Gjallarhorn. Batté su una sezione del muro e l’intero edificio si sbriciolò riducendosi in polvere, polvere che volteggiò nell’atmosfera gracchiando: «Sono libero! Libero finalmente. Heimdallr, bastardo».

«Sono costretto a lasciarti entrare» disse il Dio della Luce. «Thor sarà di certo ad affogare i dispiaceri al Pozzo di Urd; abita praticamente lì, negli ultimi tempi. Potrai bere una birra con lui, se te lo concede.»

«Una birra» disse Zaphod. «Un sorsetto appena.» Se Cervello Sinistro avesse potuto interpretare il suo pensiero, gli sarebbe sfuggita un’amara risata e avrebbe commentato dicendo che le probabilità che Zaphod Beeblebrox desse “un sorsetto appena” erano tante quante di ricevere da un criceto una risposta corretta a una semplice domanda.