CAPITOLO 4
Torniamo al treno arrancando, in silenzio. Nel corridoio davanti alla mia porta, Haymitch mi dà un colpetto sulla spalla e dice: — Poteva capitarti qualcosa di molto peggio, sai? — Si allontana verso il suo scompartimento, portandosi dietro la puzza di vino.
Una volta entrata nella mia camera, mi tolgo le pantofole inzuppate, l'accappatoio bagnato e il pigiama. Ce ne sono altri, nei cassetti, ma mi limito a strisciare tra le coperte del letto con addosso la sola biancheria. Fisso l'oscurità, pensando alla mia conversazione con Haymitch. Quello che ha detto è tutto vero, le aspettative di Capitol City, il mio futuro con Peeta, persino il suo ultimo commento è vero. Poteva capitarmi qualcosa di molto peggio di Peeta, certo. Però il punto non è questo. Una delle poche libertà di cui godiamo nel Distretto 12 è il diritto di sposare chi vogliamo o di non sposarci affatto. E adesso mi viene tolto anche questo. Mi chiedo se il presidente Snow insisterà perché abbiamo dei figli. Se li avremo, dovranno affrontare la mietitura ogni anno. E sarebbe un gran bel colpo vedere il figlio non di uno ma di due vincitori che viene scelto per l'arena, giusto? Ci sono già stati figli di vincitori, in gara. La cosa provoca sempre molta eccitazione e fa discutere sulle probabilità, per i membri di quella famiglia, di essere scelti. Ma succede troppo spesso per essere solo una questione di probabilità. Gale è convinto che Capitol City lo faccia apposta, che trucchi i sorteggi per aggiungere emozione a emozione. Visti i guai che ho causato, è probabile che tutti i miei figli avranno un posto assicurato agli Hunger Games.
Penso a Haymitch, che non è sposato, non ha famiglia e dimentica il mondo bevendo. Avrebbe potuto scegliere qualsiasi donna, nel nostro distretto. E ha scelto la solitudine. No, non la solitudine, sa troppo di pace. Somiglia più a una autoreclusione solitaria. L'ha fatto perché, essendo stato nell'arena, sapeva che era meglio restare solo piuttosto che rischiare di fare uno scambio? Di quel rischio, io ho avuto un assaggio quando chiamarono il nome di Prim, nel giorno della mietitura, e la guardai avviarsi verso il palco e verso la morte: come sorella, ho potuto rimpiazzarla, una possibilità che invece era negata a nostra madre.
Il mio cervello cerca freneticamente una via d'uscita. Non posso permettere che il presidente Snow mi condanni a una cosa simile, anche se questo volesse dire togliermi la vita. Prima di arrivarci, cercherei di scappare. Cosa potrebbero fare se io svanissi, semplicemente? Se scomparissi nei boschi e non ne uscissi più? Riuscirei a portare con me tutte le persone che amo, a iniziare una nuova vita nelle profondità dei territori disabitati? Altamente improbabile, ma non impossibile.
Scuoto la testa per schiarirmi le idee. Non è il momento di progettare fughe assurde. Devo concentrarmi sul Tour della Vittoria. Il destino di troppe persone dipende dalla qualità dello spettacolo che saprò offrire.
L'alba arriva prima del sonno e già Effie picchia alla mia porta. Mi vesto con le prime cose che trovo nel cassetto e mi trascino fino alla carrozza ristorante. Non vedo cosa cambi se non mi alzo presto, dal momento che questa è una giornata di viaggio. Ma poi salta fuori che il restauro di ieri serviva solo per portarmi alla stazione. Oggi il mio staff di preparatori mi riserverà il trattamento completo.
—Perché? Fa troppo freddo per mostrare qualcosa — brontolo.
—Non nel Distretto 11 — dice Effie.
Il Distretto 11. La nostra prima fermata. Avrei preferito iniziare da qualunque altro posto, non da questo, che è dove abitava Rue. Ma non è così che funziona il Tour della Vittoria. Di solito si comincia dal 12 e poi, in ordine decrescente, si arriva fino all'I, dopodiché c'è da Capitol City. Il distretto del vincitore viene saltato e tenuto per ultimo. Visto che il 12 allestisce le feste meno spettacolari - giusto una cena per i tributi e una manifestazione in piazza per la vittoria nella quale nessuno sembra divertirsi - è probabile che la soluzione migliore sia di farci partire il prima possibile. Quest'anno, per la prima volta da quando ha vinto Haymitch, l'ultima fermata del tour sarà appunto il Distretto 12, e Capitol City pagherà i festeggiamenti.
Cerco di godermi il cibo come mi ha detto Hazelle. È chiaro che gli addetti alle cucine desiderano farmi contenta. Hanno preparato i miei piatti preferiti, stufato di agnello con prugne secche, tra le altre ghiottonerie. Succo d'arancia e una brocca di cioccolata bollente mi attendono al mio posto a tavola. Perciò mangio molto, il pasto è ineccepibile, ma non posso dire che me lo godo. Sono anche seccata che non ci sia nessuno, oltre a me e a Effie.
—Dove sono tutti? — chiedo.
—E chi lo sa dov'è Haymitch — dice Effie. In realtà non mi aspettavo di vederlo, forse sta andando a letto adesso. — Cinna è rimasto sveglio fino a tardi per sistemare la tua carrozza-spogliatoio. Deve avere più di cento completi per te. I tuoi vestiti da sera sono favolosi. E lo staff di Peeta probabilmente sta ancora dormendo.
—E lui, non lo preparano? — chiedo.
—Non quanto te — ribatte Effie.
Cosa vuol dire? Vuol dire che mi tocca passare la mattina a farmi strappare peli mentre Peeta dorme fino a tardi. Non che ci avessi mai pensato granché, ma nell'arena qualcuno dei ragazzi aveva ancora i suoi peli, al contrario delle ragazze. Ora ricordo quelli di Peeta, mentre gli facevo il bagno nel torrente. Biondissimi alla luce del sole, dopo che fango e sangue erano stati lavati via. Solo il suo viso restava completamente glabro. Nessuno dei ragazzi aveva la barba. Eppure molti di loro erano abbastanza grandi da averla. Mi chiedo cosa gli abbiano fatto.
Se io mi sento uno straccio, i miei preparatori sembrano in condizioni anche peggiori, mentre scolano caffè e si spartiscono pilloline dai colori vivaci. Per quanto ne so, non si alzano mai prima di mezzogiorno, a meno che non si verifichi un'emergenza nazionale di qualche genere, come i peli delle mie gambe. Ero cosi contenta, quando sono ricresciuti. Come se fossero un segnale che le cose avrebbero potuto tornare alla normalità. Mi passo le dita sulla peluria morbida delle gambe e mi abbandono allo staff. Nessuno dei preparatori è in grado di ciarlare come al solito, perciò sento il rumore di ogni singolo pelo che viene strappato dal suo follicolo. Devo mettermi a bagno in una vasca piena di una mistura densa, dall'odore sgradevole, mentre il mio viso e i capelli sono impiastrati di creme. Seguono altri due bagni in intrugli diversi e meno ripugnanti. Mi depilano, mi strofinano, mi massaggiano e mi ungono fino a scorticarmi la pelle.
Flavius mi solleva il mento e sospira. — È un peccato che Cinna abbia detto niente modifiche.
—Sì, potevamo farti qualcosa di davvero speciale — incalza Octavia.
—Quando sarà più vecchia — interviene Venia in tono serio. — Allora dovrà lasciarcelo fare.
Fare cosa? Gonfiarmi le labbra come il presidente Snow? Tatuarmi il seno? Tingermi la pelle di fucsia e piantarci pietre preziose? Ritagliarmi motivi decorativi sul viso? Darmi artigli ricurvi? O baffi da gatto? Tutte queste cose, e anche di più, le ho viste sulla gente di Capitol City. Ma non hanno proprio idea di quanto appaiano mostruosi?
Il pensiero di essere abbandonata ai capricci modaioli del mio staff di preparatori non fa altro che aggiungersi alle sofferenze che si contendono la mia attenzione: il mio corpo maltrattato, la mancanza di sonno, il mio matrimonio obbligato, il terrore di non essere in grado di soddisfare le richieste del presidente Snow. Quando arrivo a pranzo, dove Effie, Cinna, Portia, Haymitch e Peeta hanno iniziato senza di me, mi sento troppo oppressa per fare conversazione. Stanno parlando entusiasticamente del cibo e di come dormono bene sui treni. Sono tutti pieni di eccitazione per il tour. Be', tutti salvo Haymitch. Lui si sta curando i postumi della sbronza e pilucca un muffin. Neanch'io ho molta fame, forse perché mi sono caricata di roba troppo sostanziosa stamattina, o forse perché sono così infelice. Giocherello con una tazza di brodo, prendendone solo una cucchiaiata o due. Non riesco nemmeno a guardare Peeta, il mio promesso sposo, anche se so che nulla di tutto questo è colpa sua.
Loro se ne accorgono, cercano di coinvolgermi nella conversazione, ma io mi limito a ignorarli. Per qualche ragione, il treno si ferma. Il nostro cameriere ci riferisce che non sarà solo una fermata di rifornimento. C'è un pezzo guasto che deve essere sostituito. Ci vorrà almeno un'ora. Questo mette in agitazione Effie, che tira fuori il programma e comincia a calcolare come il ritardo influirà su ogni evento per il resto della nostra vita. Alla fine proprio non ne posso più di sentirla.
— Non importa a nessuno, Effie! — scatto. Dalla tavola, tutti mi fissano, persino Haymitch, che pure dovrebbe stare dalla mia parte, visto che Effie lo fa impazzire con queste storie. Quell'atteggiamento mi mette sulla difensiva. — Sì, a nessuno! — dico, poi mi alzo ed esco dalla carrozza ristorante.
Di colpo il treno mi sembra soffocante e adesso ho la nausea. Trovo lo sportello d'uscita, lo apro di forza (facendo scattare qualche genere di allarme a cui non faccio caso) e salto giù, aspettandomi di atterrare sulla neve. Ma l'aria è tiepida e dolce sulla mia pelle. Gli alberi hanno ancora le foglie verdi. Quanto siamo andati a sud, in una giornata? Cammino lungo il binario, strizzando gli occhi contro il sole splendente, già pentita delle parole che ho rivolto a Effie. Non è certo colpa sua se mi trovo in questa situazione. Dovrei tornare indietro e scusarmi. La mia esplosione è stata il massimo della maleducazione, e l'educazione a lei sta molto a cuore. Ma i miei piedi continuano ad avanzare lungo il binario e oltrepassano la fine del treno, lasciandolo indietro. Un'ora di ritardo. Potrei camminare per almeno venti minuti e farcela ampiamente a rientrare in tempo. Invece, dopo circa duecento metri, mi lascio cadere a terra e rimango seduta lì, a guardare in lontananza. Se avessi un arco e delle frecce, andrei avanti?
Dopo un po', sento dei passi alle mie spalle. Sarà Haymitch che viene per darmi una strigliata. Non è che non la meriti, ma non voglio sentirla. — Non sono dell'umore giusto per una paternale — avviso il ciuffo di erbacce vicino ai miei piedi.
—Cercherò di essere breve. — Peeta si siede accanto a me.
—Pensavo fosse Haymitch — dico.
—No, lui è ancora lì che studia il suo muffin. — Guardo Peeta mentre si mette a posto la gamba artificiale. — Giornataccia, eh?
—No, non è niente — dico.
Inspira a fondo. — Senti, Katniss, volevo parlarti del modo in cui mi sono comportato sul treno. L'ultimo treno, voglio dire, quello che ci ha riportato a casa. Sapevo che c'era qualcosa tra te e Gale. Ero geloso di lui ancora prima del nostro incontro ufficiale. E non è stato corretto agire con te in base a qualcosa che è successo durante il reality show. Mi dispiace.
Le sue scuse mi colgono di sorpresa. È vero che Peeta mi ha completamente esclusa, dopo che gli ho confessato che il mio amore per lui durante gli Hunger Games era pura finzione. Ma non glielo rinfaccio. Nell'arena, ho recitato la scena dell'idillio fino in fondo. C'erano volte in cui non sapevo neppure cosa provavo per lui. Né lo so adesso, in realtà.
—Dispiace anche a me — dico. Non so bene per cosa, esattamente. Forse perché è probabile che io sia lì lì per annientarlo.
—Non c'è niente per cui tu debba dispiacerti. Lo facevi solo per tenerci in vita. Ma non voglio che andiamo avanti così, ignorandoci l'un l'altro nella vita di tutti i giorni e cadendo abbracciati nella neve quando c'è in giro una telecamera. Quindi penso che se io la smettessi di fare quello col cuore infranto, forse potremmo provare a essere amici — dice.
Con ogni probabilità, i miei amici finiranno tutti col morire, ma respingere Peeta non servirebbe a proteggerlo. — D'accordo — dico. La sua proposta mi fa sentire meglio. Meno falsa, in qualche modo. Sarebbe stato carino se me l'avesse fatta prima, quando ancora non sapevo che il presidente Snow aveva altri progetti e che la scelta di essere soltanto amici ci era ormai preclusa per sempre. Ma in ogni caso, sono felice che ci parliamo ancora.
—Allora, cosa c'è che non va? — chiede.
Non posso dirglielo. Giocherello con il ciuffo di erbacce.
—Be', partiamo da qualcosa di più elementare — dice. — Non è strano che io sappia che tu rischieresti la tua vita per salvare la mia, ma non... qual è il tuo colore preferito?
Un lento sorriso mi compare sulle labbra. — Il verde. E il tuo?
—Arancione — risponde.
—Arancione? Come i capelli di Effie? — mi sorprendo.
—Un po' meno carico — dice. — Più come... il tramonto.
Il tramonto. Me lo immagino subito: il sole calante e il cielo striato di tenui sfumature di arancione. Bellissimo. Mi torna in mente il biscotto con il giglio e, ora che Peeta mi parla di nuovo, almeno cerco di non raccontargli la storia del presidente Snow. Haymitch non vorrebbe. Sarà meglio che mi limiti alle chiacchiere.
—Sai, vanno tutti matti per i tuoi quadri. Mi spiace di non averli visti — dico.
—Be', ne ho una carrozza piena, sul treno. — Si alza e mi offre la mano. — Vieni.
È bello sentire di nuovo le sue dita intrecciate alle mie, non per finta ma per vera amicizia. Torniamo al treno mano nella mano. Alla porta, mi ricordo una cosa. — Devo prima scusarmi con Effie.
—Non aver paura di esagerare — mi dice Peeta con un sorriso.
Perciò, quando rientriamo nella carrozza ristorante, dove gli altri stanno ancora pranzando, presento a Effie delle scuse che io ritengo iperboliche ma che, nella sua testa, probabilmente riescono appena a compensare la mia violazione dell'etichetta. Effie le accetta con grande dignità, e ciò le fa onore. Dice che è chiaro che sono molto sotto pressione. E le sue osservazioni sulla necessità che qualcuno si occupi del programma durano meno di cinque minuti. Sul serio, me la sono cavata facilmente.
Quando Effie ha finito, Peeta mi guida attraverso alcune carrozze per farmi vedere i suoi quadri. Non so cosa mi aspettassi. Forse una versione più grande dei fiori sui biscotti. Ma questo è qualcosa di completamente diverso. Peeta ha dipinto gli Hunger Games.
Alcuni quadri non si capirebbero subito, a meno di non essere stati nell'arena con lui. L'acqua che sgocciola dalle fessure della nostra grotta. Il letto asciutto dello stagno. Due mani, le sue, che scavano in cerca di radici. Gli altri, invece, li riconoscerebbe chiunque. Il corno dorato chiamato Cornucopia. Clove che si sistema i coltelli all'interno della giacca. Uno degli ibridi, quello biondo e con gli occhi verdi che doveva essere Lux, che avanza ringhiando verso di noi. E poi io. Sono dappertutto. Arrampicata in cima a un albero. Intenta a stendere una camicia sulle rocce del torrente. Svenuta in una pozza di sangue. E c'è una scena che non riesco a collocare, in cui affioro da una foschia grigio argento che ha lo stesso colore dei miei occhi. Forse è così che mi vedeva quando aveva la febbre alta.
—Cosa ne pensi? — chiede.
—Li detesto — dico. Riesco quasi a sentire l'odore del sangue, della polvere, del mostruoso fiato dell'ibrido. — Io non faccio che andarmene in giro cercando di dimenticare l'arena e tu l'hai riportata in vita. Come fai a ricordare queste cose con tanta precisione?
—Le vedo ogni notte — mi spiega.
So cosa intende dire. Gli incubi - che già mi erano familiari prima dei Giochi - ora mi tormentano ogni volta che dormo. Ma il fedele incubo precedente, in cui mio padre saltava in aria nelle miniere, si è fatto raro. Al suo posto, rivivo variazioni sul tema di ciò che è accaduto nell'arena. Il mio inutile tentativo di salvare Rue. Peeta sul punto di morire dissanguato. Il corpo gonfio di Lux che mi si disintegra tra le mani. La spaventosa fine di Cato in mezzo agli ibridi. Questi sono i miei visitatori più assidui. — Succede anche a me — replico. — Ma aiuta? Dipingere gli incubi?
—Non lo so. Credo di avere un po' meno paura di andare a dormire la sera, o almeno mi dico che è così — risponde. — Però non se ne sono andati.
—Forse non se ne andranno mai. Quelli di Haymitch non l'hanno fatto. — Haymitch non lo dice, ma sono sicura che è questo il motivo per cui non gli piace dormire al buio.
—No, ma io preferisco svegliarmi con in mano un pennello piuttosto che un coltello — dice. — Li detesti davvero, allora?
—Sì. Però sono incredibili, sul serio — dico. Ed è vero. Ma non voglio più guardarli. — Vuoi vedere il mio, di talento? Cinna ha fatto un ottimo lavoro.
Peeta ride. — Più tardi. — Il treno ha un sobbalzo in avanti, e dal finestrino vedo la campagna che ci scorre accanto. — Forza, siamo quasi al Distretto 11. Andiamo a dare un'occhiata.
Percorriamo il treno fino all'ultima carrozza. Ci sono poltrone e divani, ma la cosa eccezionale è che si possono aprire i finestrini posteriori, e perciò si viaggia fuori, nell'aria pura, spaziando con lo sguardo sul paesaggio circostante. Immensi campi aperti con mandrie di mucche da latte che pascolano. È così diverso dalla nostra terra fitta di boschi. Rallentiamo leggermente, forse stiamo arrivando a un'altra fermata, ma davanti a noi si erge una recinzione. Alta una decina di metri, con temibili spirali di filo spinato in cima, fa sembrare uno scherzo quella che abbiamo al Distretto 12.1 miei occhi ispezionano rapidamente la base, lungo la quale sono disposte enormi piastre metalliche. Non sarebbe possibile aprirsi un varco, sotto quegli affari, né evadere per andare a caccia. Poi vedo le torri di guardia, posizionate a distanze regolari e munite di sentinelle armate, così fuori posto tra i campi di fiori selvatici che le circondano.
— È un po' diverso, qui — dice Peeta.
In effetti Rue mi aveva dato l'impressione che nel Distretto 11 le regole venissero imposte con maggiore severità. Ma non avrei mai immaginato niente del genere.
Le coltivazioni iniziano qui e si estendono fin dove l'occhio riesce a vedere. Uomini, donne e bambini che portano cappelli di paglia per proteggersi dal sole si raddrizzano, si girano dalla nostra parte e si concedono un attimo per distendere la schiena mentre guardano passare il treno. In lontananza vedo dei frutteti e mi chiedo se è lì che lavorava Rue, raccogliendo la frutta dai rami più sottili in cima agli alberi. Piccoli agglomerati di baracche (in confronto, le case del Giacimento sono abitazioni di lusso) spuntano qua e là, ma sono deserti. La stagione della raccolta deve richiedere le braccia di ogni individuo disponibile.
I campi continuano senza interruzione. Non riesco a capacitarmi delle dimensioni del Distretto 11. — Quanta gente pensi che ci viva, qui? — chiede Peeta. Scuoto la testa. A scuola ne parlano come di un distretto molto grande, tutto qui. Nessun riferimento a cifre precise sulla popolazione. I ragazzi che ogni anno vediamo in TV mentre aspettano la mietitura sono solo una piccola parte di quelli che vivono qui. Cosa fanno? Dei sorteggi preliminari? Selezionano in anticipo i tributi e fanno in modo che siano in mezzo al pubblico? Come ha fatto Rue a finire su quel palco, senz'altro che il vento a offrirsi di prendere il suo posto?
Comincio a stancarmi di questo posto vasto e sconfinato. Quando Effie viene a dirci che è ora che ci vestiamo, non sollevo obiezioni. Vado nel mio scompartimento e lascio che il mio staff di preparatori mi pettini e mi trucchi. Cinna entra con un grazioso abito arancione a motivi di foglie autunnali. Penso a quanto il colore piacerà a Peeta.
Effie riunisce Peeta e me e controlla un'ultima volta il programma della giornata. In alcuni distretti, i vincitori attraversano la città mentre gli abitanti applaudono. Ma nell' 11 - forse perché è tutto così sparso e una vera città non esiste, o forse perché, in tempo di raccolta, non vogliono sprecare lavoratori - la nostra apparizione pubblica è limitata alla piazza. Si svolge davanti al Palazzo di Giustizia, un'enorme costruzione in marmo. Una volta doveva essere una bellezza, ma gli anni ne hanno fatto scempio. Anche in TV si riesce a vedere il tetto pericolante e l'edera che inghiotte la facciata cadente. La piazza stessa è cinta da vetrine fatiscenti, la gran parte delle quali è abbandonata. Ovunque vivano i ricchi del Distretto 11, non è qui.
La nostra performance pubblica si terrà all'esterno, su quella che Effie chiama veranda: lo spazio piastrellato che sta tra le porte d'ingresso e la scalinata ed è coperto da un tetto sorretto da colonne. Io e Peeta verremo presentati, il sindaco del Distretto 11 terrà un discorso in nostro onore, e noi risponderemo, ringraziando, secondo il copione fornito da Capitol City. Se un vincitore ha avuto qualche alleato particolare tra i tributi morti, l'aggiunta di commenti personali è considerata una forma di buona educazione. Insomma, dovrei dire qualcosa su Rue, e anche su Thresh, ma ogni volta che a casa ho cercato di scrivere due parole su di loro, ho finito col ritrovarmi a fissare una pagina vuota. Mi riesce difficile parlare di loro senza commuovermi. Per fortuna Peeta ha qualcosina di pronto che, con poche modifiche, può valere per tutt'e due. Al termine della cerimonia, ci verrà consegnata una qualche targa, e potremo ritirarci nel Palazzo di Giustizia, dove ci verrà servita una cena speciale.
Mentre il treno entra nella stazione del Distretto 11, Cinna dà gli ultimi tocchi al mio abbigliamento, sostituendo il cerchietto arancione con uno color oro metallizzato e fissandomi al vestito la spilla con la ghiandaia imitatrice che portavo nell'arena. Non c'è alcun comitato di accoglienza sulla banchina, solo un drappello di otto Pacificatori che ci fanno salire sul retro di un camion blindato. Effie arriccia il naso quando lo sportello si richiude dietro di noi con un rumore metallico. — Si potrebbe pensare che siamo tutti criminali — dice.
Non tutti, Effie. Solo io, penso.
Il camion ci lascia dietro il Palazzo di Giustizia. Ci fanno entrare in fretta e furia. Sento il profumo di un eccellente pasto in via di preparazione, che però non copre l'odore di muffa e di marcio. Non ci hanno lasciato il tempo di guardarci intorno. Mentre ci precipitiamo all'ingresso principale, sento le prime note dell'inno provenire dalla piazza. Qualcuno mi aggancia un microfono. Peeta mi prende la mano sinistra. Il sindaco ci sta presentando, quando le imponenti porte d'ingresso si aprono con un lamento.
— Un bel sorriso! — dice Effie dandoci una leggera spinta. I nostri piedi cominciano a muoversi in avanti.
Ci siamo. È qui che devo convincere tutti di quanto sono innamorata di Peeta, penso. La solenne cerimonia è rigidamente pianificata, quindi non so bene come fare. Non è il momento dei baci, ma forse uno riesco a inserirlo.
C'è un applauso fragoroso, ma nessuna delle reazioni che abbiamo suscitato a Capitol City: gli evviva e le urla e i fischi. Attraversiamo la veranda ombreggiata fin dove finisce il tetto e ci fermiamo in cima alla grande rampa di scale marmoree, sotto un sole accecante. Quando i miei occhi si adattano alla luce, vedo che gli edifici della piazza sono stati ornati di bandiere che contribuiscono a celarne lo stato di abbandono. C'è una gran folla, eppure si tratta solo di una minima parte della gente che vive qui.
Come al solito, ai piedi del palco è stata allestita una tribuna speciale per le famiglie dei tributi morti. Sul lato di Thresh, ci sono solo una donna anziana con la schiena curva e una ragazza alta e muscolosa che immagino sia la sorella. Su quello di Rue... Non sono preparata alla famiglia di Rue: i genitori, che portano sul viso i segni di un dolore ancora recente; i cinque fratelli più piccoli, che le somigliano così tanto. Corporatura esile, luminosi occhi castani. Formano uno stormo di piccoli uccelli scuri.
L'applauso cessa e il sindaco tiene il discorso in nostro onore. Si presentano due ragazzine con grandi mazzi di fiori. Peeta pronuncia la sua parte di replica già preparata, e io scopro che le mie labbra si muovono per concluderla. Per fortuna mia madre e Prim me l'hanno fatta entrare in testa al punto che potrei recitarla nel sonno.
Peeta aveva scritto i suoi commenti personali su un cartoncino che però non tira fuori. In cambio parla nel suo modo semplice e accattivante di Thresh e di Rue, dicendo che riuscirono a sopravvivere fino a essere tra gli ultimi otto tributi in gara, che entrambi tennero in vita me, e di conseguenza lui, e che questo è un debito che non potremo mai ripagare. Poi esita prima di aggiungere qualcosa che non è scritto sul cartoncino, forse perché pensava che Effie gliel'avrebbe fatto togliere. — Non esiste un modo per rimediare alle vostre perdite. Però, come dimostrazione della nostra gratitudine, vorremmo che le famiglie dei due tributi del Distretto 11 ricevessero un mese delle nostre vincite ogni anno per l'intera durata delle nostre vite.
Gli spettatori non possono che restare senza fiato e mormorare tra loro. Ciò che ha fatto Peeta è senza precedenti. Non so nemmeno se sia legale. Neanche lui, probabilmente, e neppure l'ha chiesto. Le famiglie si limitano a fissarci, sotto shock. Le loro vite sono cambiate per sempre, quando hanno perduto Thresh e Rue, ma questa donazione le cambierà di nuovo. Un mese delle vincite di un tributo può tranquillamente provvedere a una famiglia per un anno. Finché noi vivremo, loro non avranno più fame.
Guardo Peeta e lui mi fa un sorriso triste. Risento la voce di Haymitch. "Poteva capitarti qualcosa di molto peggio". In questo momento mi riesce impossibile pensare che potesse capitarmi qualcosa di meglio. La donazione è perfetta. Per questo, quando mi alzo sulla punta dei piedi per baciarlo, non sembra per niente una forzatura.
Il sindaco fa un passo avanti e consegna a ciascuno di noi una targa così grande che per reggerla devo posare a terra il mazzo di fiori. La cerimonia è prossima alla conclusione, quando noto una delle sorelle di Rue che mi fissa. Deve avere circa nove anni e in pratica è la sua copia esatta, persino nel modo in cui sta in piedi con le braccia leggermente allargate. Malgrado la bella novità della donazione, non è felice. Anzi, il suo sguardo è pieno di rimprovero. È perché non ho salvato Rue?
No. E perché non l'ho ancora ringraziata, penso.
Un'ondata di vergogna mi percorre. La piccola ha ragione. Come posso starmene qui, muta e passiva, lasciando tutte le parole a Peeta? Se avesse vinto, Rue non avrebbe permesso che la mia morte non venisse commemorata. Ricordo la cura con cui la ricoprii di fiori, nell'arena, per assicurarmi che la sua perdita non passasse inosservata. Ma quel gesto non vuol dire niente, se non lo confermo adesso.
—Aspettate! — Mi faccio avanti incespicando, con la targa stretta al petto. Ho avuto il mio tempo per parlare, e l'ho esaurito, ma devo dire ancora qualcosa, perché il mio debito è troppo grande. E se anche avessi devoluto tutte le mie vincite alle famiglie, questo non scuserebbe il mio silenzio. — Aspettate, per favore. — Non so come cominciare, ma non appena ci riesco, le parole mi escono a precipizio dalle labbra come se le avessi dentro di me da molto tempo.
—Voglio esprimere tutta la mia gratitudine ai tributi del Distretto 11 — dico. Guardo le due donne sul lato di Thresh. — Ho parlato con Thresh solo una volta. Giusto il tempo perché lui mi risparmiasse. Non lo conoscevo, ma lo rispettavo. Per la sua forza. Per il suo rifiuto di partecipare agli Hunger Games se non alle sue condizioni. I Favoriti volevano che si unisse a loro fin dall'inizio, ma lui non l'ha fatto. E io l'ho sempre rispettato, per questo.
Per la prima volta l'anziana donna curva - la nonna di Thresh? - solleva la testa e la parvenza di un sorriso aleggia sulle sue labbra.
Adesso gli spettatori si sono fatti silenziosi, così silenziosi che mi chiedo come ci riescano. Devono essere tutti lì che trattengono il fiato.
Mi rivolgo alla famiglia di Rue. — Invece Rue mi sembra di conoscerla davvero, e lei sarà sempre nel mio cuore. Ogni cosa bella me la richiama alla mente. La vedo nei fiori gialli che crescono nel prato vicino a casa mia.
La vedo nelle ghiandaie imitatrici che cantano sugli alberi. E soprattutto la vedo in Prim, mia sorella. — La mia voce si è fatta incerta, ma ho quasi finito. — Grazie per i vostri figli. — Sollevo il mento per rivolgermi alla folla. — E grazie a tutti voi per il pane.
Rimango lì, sentendomi piccola e meschina, mentre migliaia di occhi sono puntati su di me. C'è un lungo silenzio. Poi, da qualche parte in mezzo al pubblico, qualcuno fischia il motivetto a quattro note con cui Rue riproduceva il canto della ghiandaia imitatrice. Quello che segnalava la fine della giornata lavorativa nei frutteti. Quello che nell'arena voleva dire essere al sicuro. Quando il motivo si conclude, ho individuato la persona che fischia, un vecchio avvizzito in tuta da lavoro e camicia di un rosso stinto. I suoi occhi incontrano i miei.
Ciò che accade poi non è per caso. È troppo ben eseguito per essere spontaneo, si verifica in totale simultaneità. Ogni singolo spettatore si preme sulle labbra le tre dita di mezzo della mano sinistra e le tende verso di me. È qualcosa che si fa nel Distretto 12, è l'ultimo saluto che io ho rivolto a Rue nell'arena.
Se non avessi parlato con il presidente Snow, questo gesto potrebbe farmi venire le lacrime agli occhi. Ma col suo ordine di calmare i distretti che ancora mi echeggia nelle orecchie, è una cosa che mi riempie di paura. Cosa penserà di questo saluto collettivo alla ragazza che ha sfidato Capitol City?
Il significato di ciò che ho fatto mi appare improvvisamente evidente. Non è stato intenzionale - volevo solo esprimere la mia gratitudine - ma ho provocato qualcosa di pericoloso. Un atto di dissenso da parte della gente del Distretto 11. E proprio il genere di cose che in teoria dovrei arginare!
Cerco di pensare a qualcosa da dire per attenuare quanto è appena successo, per negarlo, ma sento la leggera scarica di elettricità statica che segnala che il mio microfono è stato scollegato e che è subentrato il sindaco. Io e Peeta rispondiamo a un ultimo applauso. Mi guida di nuovo verso le porte, senza rendersi conto che qualcosa è andato storto.
Mi sento strana e devo fermarmi un attimo. Piccoli lampi di vivida luce mi danzano davanti agli occhi. — Stai bene? — chiede Peeta.
—Mi gira solo la testa. Il sole era così forte — rispondo. Vedo il suo mazzo di fiori. — Ho dimenticato i miei — mormoro.
—Te li prendo — dice.
—No, vado io — ribatto.
A quest'ora saremmo al sicuro all'interno del Palazzo di Giustizia se non mi fossi fermata, se non avessi dimenticato i miei fiori. E invece, dall'ombra cupa della veranda, vediamo tutto.
Due Pacificatori che trascinano in cima alla scalinata il vecchio che fischiava. Che lo costringono a inginocchiarsi davanti alla folla. Che gli piantano una pallottola in testa.