CAPITOLO 1

Stringo il thermos tra le mani, anche se il calore del tè si è ormai dissolto nell'aria gelida. I miei muscoli sono contratti per combattere il freddo. Se in questo momento comparisse una muta di cani selvatici, le probabilità di riuscire ad arrampicarmi su un albero non sarebbero a mio favore. Dovrei alzarmi, muovermi, massaggiarmi le membra irrigidite. E invece rimango seduta, immobile come il masso che sta sotto di me, mentre l'alba comincia a rischiarare i boschi. Non posso lottare contro il sole. Posso solo osservarlo con un senso di impotenza mentre mi trascina in una giornata che temevo da mesi.

A mezzogiorno saranno tutti nella mia nuova casa, al Villaggio dei Vincitori. I giornalisti, le troupe televisive, persino Effie Trinket, la mia vecchia accompagnatrice, arriveranno da Capitol City al Distretto 12. Mi chiedo se Effie porterà ancora quella stupida parrucca rosa o se, per il Tour della Vittoria, sfoggerà qualche nuovo, strano colore. Ci saranno anche altri ad attendermi. Il personale di servizio che soddisferà ogni mia richiesta durante il lungo viaggio in treno. Uno staff di preparatori che mi farà bella per le apparizioni pubbliche. Il mio stilista e amico Cinna, autore degli splendidi costumi che hanno indotto il pubblico a notarmi sin dall'inizio degli Hunger Games.

Se dipendesse da me, cercherei di dimenticarli del tutto, gli Hunger Games. Di non parlarne proprio. Di fingere che siano stati solo un brutto sogno. Ma il Tour della Vittoria lo rende impossibile. Strategicamente piazzato a metà tra due edizioni del reality show, è il modo in cui Capitol City mantiene l'orrore vivo e presente. Non solo noi dei distretti siamo obbligati a ricordare ogni anno il ferreo controllo del potere di Capitol City: siamo obbligati a festeggiarlo. E quest'anno io sono una delle star dello spettacolo. Dovrò viaggiare da un distretto all'altro, starmene in piedi davanti a folle plaudenti che nel loro intimo mi detestano, guardare dall'alto i volti di coloro che ho privato dei figli...

Il sole insiste nel voler sorgere, perciò mi impongo di alzarmi. Tutte le mie articolazioni si lamentano e la gamba sinistra è rimasta addormentata tanto a lungo che devo camminare avanti e indietro per parecchi minuti prima che riacquisti sensibilità. Sono rimasta nei boschi tre ore, ma non ho catturato un bel niente, visto che non ho fatto alcun vero tentativo di cacciare. Per mia madre e per Prim, la mia sorellina, non ha più importanza. Ora possono permettersi di comprare la carne dal macellaio in città, anche se a tutte noi piace molto di più la selvaggina appena abbattuta. Ma il mio migliore amico Gale Hawthorne e la sua famiglia contano sul bottino di oggi, e io non posso deluderli. Inizio il percorso di un'ora e mezza che servirà a ispezionare le nostre trappole. Quando andavamo a scuola, nel pomeriggio avevamo il tempo di controllarle tutte, e di cacciare e raccogliere e tornare in città per fare i nostri baratti. Ma adesso che Gale è andato a lavorare nelle miniere di carbone, e io non ho niente da fare tutto il giorno, il lavoro è passato a me.

A quest'ora Gale avrà timbrato il cartellino di entrata, compiuto il pauroso tragitto in ascensore nelle profondità della terra, e starà lavorando e sudando su un filone di carbone. So com'è, là sotto. A scuola, come parte della nostra formazione, ogni anno la mia classe doveva visitare le miniere. Quando ero piccola, era solo sgradevole. Le gallerie claustrofobiche, l'aria viziata, l'oscurità che ti opprime da ogni lato. Ma dopo che mio padre e molti altri minatori rimasero uccisi in un'esplosione, mi fu quasi impossibile impormi di salire sull'ascensore. La gita annuale divenne per me una fonte di enorme ansia. Per due volte mi sentii così male aspettando quell'evento che mia madre mi tenne a casa pensando che avessi l'influenza.

Penso a Gale, che si sente vivo solo nei boschi, con l'aria fresca e la luce del sole e lo scorrere dell'acqua limpida. Non so come faccia a sopportarlo. Be', sì che lo so. Lo sopporta perché è l'unico modo che ha per dar da mangiare a sua madre e a suo fratello e sua sorella più piccoli. E mentre io mi ritrovo piena di denaro, più che sufficiente a sfamare entrambe le nostre famiglie, lui non accetta un soldo. Gli riesce difficile persino lasciarmi procurare la carne, anche se lui avrebbe di sicuro rifornito regolarmente mia madre e Prim, se io fossi stata uccisa durante gli Hunger Games. Continuo a dirgli che è lui a fare un favore a me, perché starmene seduta con le mani in mano tutto il giorno mi farebbe andare fuori di testa. E comunque non porto mai la selvaggina a casa sua quando c'è lui. Il che non è difficile, visto che lavora dodici ore al giorno.

Ormai l'unico momento in cui riesco a vedere Gale è la domenica, quando ci troviamo nei boschi a cacciare insieme. È ancora il giorno più bello della settimana, ma non è più come prima, quando potevamo raccontarci tutto. Gli Hunger Games hanno rovinato anche questo. Continuo a sperare che, col passare del tempo, recupereremo la nostra spontaneità. Ma una parte di me sa che è una speranza vana. Non si può tornare indietro.

Ricavo un ottimo bottino dalle trappole: otto conigli, due scoiattoli e un castoro che nuotando è finito in un arnese di filo metallico inventato da Gale. Lui è una specie di genio con le trappole. Monta lacci su rami curvi e flessibili, mettendoli in equilibrio con delicati meccanismi a scatto, in grado di sollevare le vittime fuori dalla portata dei predatori, intreccia e piazza ceste per i pesci impossibili da evitare. Mentre vado avanti a risistemare con cura le trappole, so che non riuscirò mai a eguagliare il suo talento nel bilanciare i pesi e il suo istinto nel trovare il punto esatto in cui passerà la preda. È più che esperienza. È un dono naturale. Come la mia capacità di colpire un animale nel buio quasi completo e di abbatterlo con una sola freccia.

Quando torno alla recinzione che circonda il Distretto 12, il sole è ormai alto. Come sempre, mi fermo un attimo ad ascoltare, ma non c'è alcun ronzio che segnali la presenza di corrente lungo la rete. Non c'è quasi mai, anche se in teoria la rete dovrebbe essere elettrificata a tempo pieno. Striscio sotto il varco ai piedi della recinzione e sbuco nel Prato, a un tiro di schioppo dalla mia casa. La mia vecchia casa. Possiamo tenerla ancora perché ufficialmente è l'abitazione assegnata a mia madre e mia sorella. Se morissi in questo istante, loro dovrebbero ritornarci. Ma, al momento, sono tutt'e due felicemente installate nella nuova casa al Villaggio dei Vincitori, e io sono l'unica a usare la tozza casetta in cui sono cresciuta. Per me è quella la mia vera casa.

Ora ci vado per cambiarmi i vestiti. Per sostituire la vecchia giacca di pelle di mio padre con un cappotto di lana finissima che mi sembra sempre troppo stretto sulle spalle. Per lasciare i miei morbidi scarponi da caccia e rimpiazzarli con un paio di costose scarpe che mia madre ritiene più adatte a una persona del mio prestigio. Ho già nascosto arco e frecce in un tronco cavo nel bosco. Anche se il tempo passa, mi concedo qualche minuto per sedermi in cucina. Ha un che di abbandonato, senza fuoco nel focolare e senza tovaglia sulla tavola. Rimpiango la mia vecchia vita in questa casa. Faticavamo a tirare avanti, ma sapevo qual era il mio mondo, sapevo qual era il mio posto nel tessuto fittamente intrecciato che costituiva la nostra vita. Vorrei poter tornare a quel periodo, perché a posteriori mi appare molto più tranquillo, ora che sono ricca e famosa ma detestata dalle autorità di Capitol City.

Un lamento alla porta sul retro esige la mia attenzione. Apro e trovo Ranuncolo, il vecchio gatto scarruffato di Prim. La casa nuova gli sta antipatica quasi quanto a me, e se ne va sempre via, quando mia sorella è a scuola. Non ci siamo mai molto amati, ma ora c'è questa cosa che ci lega. Lo faccio entrare, gli do da mangiare un pezzo di lardo di castoro e per un po' lo gratto persino tra le orecchie. — Sei orrendo, lo sai, vero? — gli dico. Ranuncolo mi dà dei colpetti alla mano per avere altre carezze, ma è tempo di andare. — Forza, su. — Lo sollevo con una mano, afferro la bisaccia con l'altra e vado fuori, sulla strada. Il gatto si divincola e con un balzo scompare sotto un cespuglio.

Le scarpe mi stringono in punta e scricchiolano mentre percorro la strada grigia. Se taglio per i vicoli e attraverso i cortili raggiungo la casa di Gale in pochi minuti. Sua madre Hazelle, china sull'acquaio della cucina, mi vede dalla finestra. Si asciuga le mani sul grembiule e sparisce per venirmi incontro sulla porta.

Mi piace, Hazelle. La rispetto. L'esplosione che uccise mio padre si prese anche suo marito, lasciandola con tre figli e un bambino che stava per nascere da un giorno all'altro. Una settimana dopo aver partorito, era già per strada a cercare lavoro. Le miniere non erano una scelta plausibile, con un neonato da accudire, e lei riuscì a farsi dare la biancheria da lavare da alcuni commercianti della città. A quattordici anni, Gale, il figlio maggiore, divenne il principale sostegno della famiglia. Si era già iscritto per avere le tessere, il che dava diritto a una piccola fornitura di cereali e olio in cambio di più nomine nel sorteggio dei tributi. Oltre a questo, già allora era abilissimo nel piazzare trappole. Ma tutto ciò non bastava per mantenere una famiglia di cinque persone, non senza che Hazelle si consumasse le dita fino all'osso su quell'asse da lavare. D'inverno le sue mani si arrossavano e si screpolavano così tanto che sanguinavano al minimo sfregamento. E sanguinerebbero ancora, se non fosse per un balsamo preparato da mia madre. Però sia Hazelle sia Gale sono decisi a evitare che gli altri ragazzi - il dodicenne Rory, Vick che ha dieci anni, e la piccola Posy, che ne ha quattro - non debbano mai iscriversi per avere le tessere.

Hazelle sorride nel vedere la selvaggina. Prende il castoro per la coda, sentendone il peso. — Ci verrà un bello stufato, con questo. — A differenza di Gale, non ha problemi col nostro accordo di caccia.

— E anche una buona pelle — replico. Si sta bene qui con Hazelle, a valutare i pregi della selvaggina, come abbiamo sempre fatto. Mi versa una tazza di tè alle erbe attorno alla quale intreccio riconoscente le dita gelate. — Sai, stavo pensando che quando torno dal tour potrei portare Rory con me, qualche volta. Dopo la scuola. Per insegnargli a cacciare.

Hazelle annuisce. — Sarebbe bello. A Gale piacerebbe farlo, ma ha solo la domenica a disposizione, e credo che gli piaccia riservarla a te.

Non riesco a impedire che il rossore mi invada le guance. È stupido, certo. Quasi nessuno mi conosce meglio di Hazelle. E conosce il legame che ho con Gale. Sono sicura che un sacco di gente credeva che un giorno ci saremmo sposati, anche se a me non è mai passato per l'anticamera del cervello. Ma questo era prima degli Hunger Games. Prima che il tributo mio compagno, Peeta Mellark, dichiarasse di essere follemente innamorato di me. Quell'idillio divenne una strategia fondamentale per la nostra sopravvivenza nell'arena. Solo che per Peeta non era solo una strategia. Non so bene cosa fosse per me. Però adesso so che Gale ci ha sofferto. Mi si stringe il cuore quando penso che, nel Tour della Vittoria, io e Peeta dovremo presentarci di nuovo come innamorati.

Mando giù il tè anche se è troppo caldo e mi allontano dalla tavola. — È meglio che vada. Devo rendermi presentabile per le telecamere.

Hazelle mi abbraccia. — Goditi il cibo.

— Altro che! — dico.

La mia fermata successiva è il Forno, dove ho sempre fatto il grosso dei miei affari. Anni fa era un magazzino di stoccaggio del carbone, poi è caduto in disuso ed è diventato un punto di ritrovo dei commerci illegali, fino a trasformarsi in mercato nero a tempo pieno. Se attira soggetti un po' discutibili, allora è il mio ambiente, credo. Cacciare nei boschi intorno al Distretto 12 viola almeno una dozzina di leggi ed è punibile con la morte.

Anche se i frequentatori del Forno non ne parlano mai, io sono in debito con loro. Gale mi ha raccontato che Sae la Zozza, la vecchia che propina la zuppa, aveva avviato una colletta per sponsorizzare me e Peeta durante gli Hunger Games. In teoria sarebbe dovuta essere una faccenda che riguardava solo il Forno, ma molti ne avevano sentito parlare e diedero il loro contributo. Non so con precisione di che cifra si trattasse, e comunque il costo dei doni per l'arena era esorbitante. E per quanto ne so, ha fatto la differenza tra la vita e la morte.

Mi sembra ancora strano aprire la pesante porta d'ingresso portando una bisaccia vuota, senza avere niente da barattare, e sentire il peso della tasca piena di monete. Cerco di passare dal maggior numero possibile di bancarelle, distribuendo i miei acquisti di caffè, focaccine, uova e olio. E in aggiunta compro tre bottiglie di liquore bianco da una donna con un braccio solo. Si chiama Ripper, ed è rimasta vittima di un incidente in miniera, ma è stata abbastanza sveglia da trovare un modo per restare in vita.

I superalcolici non sono per la mia famiglia. Sono per Haymitch, che è stato il mentore mio e di Peeta durante il reality show. È scontroso, violento e ubriaco per la maggior parte del tempo, ma ha fatto il suo dovere e anche di più, visto che grazie a lui, per la prima volta nella storia, hanno permesso che fossero due tributi a vincere. Quindi mi importa poco chi sia Haymitch, sono in debito anche con lui. E per sempre. Mi sto procurando il liquore bianco perché qualche settimana fa ne è rimasto senza, in vendita non ce n'era, e così ha avuto una crisi d'astinenza, e tremava e insultava cose spaventose che solo lui riusciva a vedere. Ha spaventato a morte Prim, e a essere sinceri non è stato molto divertente nemmeno per me vederlo in quello stato. Da allora faccio scorta di superalcolici, nel caso gli vengano a mancare di nuovo.

Cray, il capo dei Pacificatori, si acciglia quando mi vede con le bottiglie. È un uomo anziano, con ciocche di capelli argentati pettinate di lato sopra il viso rosso. — Quella roba è troppo forte per te, ragazza. — E lui lo sa bene. Dopo Haymitch, Cray beve più di chiunque io abbia mai incontrato.

— Oh, mia madre la usa per le medicine — dico, in tono indifferente.

—Be', per uccidere, uccide — ribatte lui, e con un rumore secco mi porge una moneta per una bottiglia.

Quando arrivo alla bancarella di Sae la Zozza mi siedo sul bancone e ordino un po' di zuppa, a occhio e croce un miscuglio di zucca e fagioli. Mentre mangio, si presenta un Pacificatore di nome Darius e ne compra una scodella. Per essere un tutore della legge, è uno dei miei preferiti. Non fa mai pesare la sua autorità ed è sempre pronto alla battuta. È sulla ventina, probabilmente, ma non sembra più vecchio di me. C'è qualcosa nel suo sorriso, nei capelli rossi che sparano in ogni direzione, che gli dà un'aria da ragazzino.

—Non dovresti essere su un treno? — mi chiede.

—Mi vengono a prendere a mezzogiorno — rispondo.

—E non dovresti avere un aspetto migliore? — chiede con un bisbiglio ad alta voce. Non posso fare a meno di sorridere alla sua presa in giro, a dispetto del mio umore. — Magari un nastro nei capelli o roba del genere? — Con la mano mi dà un colpetto alla treccia e io lo caccio via.

—Non preoccuparti. Quando avranno finito di sistemarmi sarò irriconoscibile — dico.

—Bene — ribatte. — E vediamo di mostrare un po' di orgoglio per il distretto, tanto per cambiare, eh signorina Everdeen? — Scuote la testa con finta disapprovazione rivolto verso Sae la Zozza e se ne va a raggiungere i suoi amici.

—Rivoglio indietro quella scodella — gli grida dietro Sae la Zozza, ma non sembra troppo arrabbiata, visto che sta ridendo. — Gale viene a salutarti? — mi chiede.

—No, non era nella lista — dico. — L'ho visto domenica, però.

—Penso che avrebbe dovuto farla lui, la lista. Per il fatto che è tuo cugino e tutto il resto — ribatte lei in tono beffardo.

È solo una delle bugie ideate da quelli di Capitol City. Quando io e Peeta restammo tra gli otto sopravvissuti degli Hunger Games, inviarono dei giornalisti per scrivere articoli sulla nostra vita privata. Chiesero dei miei amici, e tutti indicarono Gale. Ma non sarebbe stato accettabile, non con l'idillio che stavo mettendo in scena nell'arena, che Gale risultasse il mio migliore amico. Era troppo bello, troppo maschio, e nient'affatto disposto a sorridere e a fare il carino per le telecamere. Però ci somigliamo, e un bel po'. Abbiamo quell'aria "da Giacimento". Capelli lisci e scuri, pelle olivastra, occhi grigi. Così qualche genio fece di lui mio cugino. Non lo seppi finché non arrivammo a casa, sulla banchina della stazione, e mia madre disse: — Tuo cugino non vede l'ora di vederti! — Allora mi girai e vidi Gale e Hazelle e i bambini che mi aspettavano. Cos'altro potevo fare, se non collaborare?

Sae la Zozza sa che non siamo parenti, ma c'è gente che ci conosce da anni che sembra averlo dimenticato.

—Non vedo l'ora che tutta questa storia sia finita — sussurro.

—Lo so — dice Sae la Zozza. — Ma prima di arrivare alla fine bisogna passarci. Meglio se non fai tardi.

Una neve leggera comincia a scendere mentre procedo verso il Villaggio dei Vincitori. Dista circa ottocento metri a piedi dalla piazza del centro città, ma sembra un altro mondo. E una zona separata, costruita intorno a una bellissima area verde punteggiata di arbusti in fiore. Ci sono dodici case, ognuna delle quali è abbastanza grande da contenerne dieci come quella in cui sono cresciuta. Nove sono ancora vuote, come sono sempre state. Le tre abitate appartengono a Haymitch, a Peeta e a me.

Le case in cui vivono Peeta e la mia famiglia emanano un caldo bagliore di vita. Finestre accese, fumo dai camini, mazzi di grano colorati a tinte vivaci sulle porte d'ingresso per l'imminente Festa del Raccolto. La casa di Haymitch, invece, malgrado le cure dell'addetto alla manutenzione, trasuda abbandono e trascuratezza. All'ingresso mi preparo, sapendo che sarà uno spettacolo disgustoso, poi spingo la porta ed entro.

Subito mi si arriccia il naso per lo schifo. Haymitch si rifiuta di lasciar entrare qualcuno a pulire e fa da sé un pessimo lavoro. Nel corso degli anni, gli odori di liquore e vomito, cavolo bollito e carne bruciata, vestiti non lavati ed escrementi di topo si sono mescolati in un tanfo che mi fa lacrimare gli occhi. Avanzo a fatica in mezzo a un caos di cartacce, vetri rotti e ossa gettati a terra fin dove so che troverò Haymitch. E seduto al tavolo della cucina, le braccia allargate sul piano di legno, il viso in una pozza di liquore, e russa a tutto volume.

Gli do un colpetto sulla spalla. — Tirati su! — dico ad alta voce, perché ho imparato che non esiste un modo gentile per svegliarlo. Il suo russare si interrompe un momento, quasi interrogativamente, poi riprende. Lo spingo più forte. — Tirati su, Haymitch. È il giorno del tour! — Apro la finestra con uno sforzo, inspirando a fondo l'aria pulita di fuori. Sposto i piedi in mezzo all'immondizia sul pavimento, dissotterro una caffettiera di stagno e la riempio d'acqua. Il fornello non è del tutto spento e riesco a indurre i pochi carboni ardenti a produrre una fiamma. Poi verso un po' di caffè macinato nella caffettiera, abbastanza per essere sicura che la bevanda ottenuta sarà buona e forte, e metto il tutto sul fornello.

Haymitch è ancora privo di sensi. Visto che nient'altro ha funzionato, riempio un catino di acqua gelata, glielo scarico in testa e mi scanso con un balzo. Dalla gola gli esce un verso gutturale da animale. Salta su calciando la sedia tre metri più indietro e brandendo un coltello. Ho scordato che quando dorme ne tiene sempre uno stretto in mano. Avrei dovuto strapparglielo dalle dita, ma avevo troppe cose per la testa. Vomitando una bestemmia, per qualche istante squarcia l'aria di urla prima di tornare in sé. Si asciuga il viso con la manica della camicia e si gira verso il davanzale dove mi sono appollaiata, casomai dovessi svignarmela da lì alla svelta.

—Cosa fai? — chiede sputacchiando.

—Mi hai detto di svegliarti un'ora prima che arrivino le telecamere — rispondo.

—Cosa? — dice.

—Idea tua — ribadisco.

Sembra ricordare. — Perché sono tutto bagnato?

—Non riuscivo a svegliarti — replico. — Senti, se volevi farti coccolare, avresti dovuto chiederlo a Peeta.

—Chiedermi cosa? — Il semplice suono di questa voce mi stringe lo stomaco in un nodo di emozioni spiacevoli, come senso di colpa, tristezza e paura. E nostalgia. Potrei dire che c'è anche un po' di quella, sì, solo che la troppa concorrenza le impedisce di imporsi.

Peeta si avvicina al tavolo, con la luce del sole che dalla finestra accentua i riflessi della neve fresca sui suoi capelli biondi. Sembra forte e sano, così diverso dal ragazzo sofferente e affamato che ho conosciuto nell'arena, e ormai ci si accorge a malapena che zoppica. Mette sul tavolo una pagnotta di pane appena sfornato e tende la mano a Haymitch.

—Chiederti di svegliarmi senza farmi venire la polmonite — dice Haymitch a Peeta, tralasciando la faccenda del coltello. Si toglie la camicia sudicia, scoprendo una canottiera altrettanto sporca, e si asciuga con la parte rimasta asciutta.

Peeta sorride e bagna il coltello di Haymitch col liquore bianco di una bottiglia che sta sul pavimento, ne pulisce la lama con un lembo della camicia e affetta il pane. Peeta ci rifornisce tutti di roba appena sfornata. Io caccio. Lui cuoce. Haymitch beve. Ognuno di noi ha il suo sistema per mantenersi occupato, per tenere a bada il pensiero del tempo come fosse un avversario degli Hunger Games. È solo dopo aver passato a Haymitch il fondo crostoso della pagnotta che lui mi guarda per la prima volta. — Ne vuoi un pezzo?

—No, ho mangiato al Forno — dico. — Grazie, comunque. — La voce non sembra neanche la mia, tanto è formale. Proprio come lo è stata ogni volta che ho parlato con Peeta dopo che le telecamere hanno smesso di filmare il nostro felice ritorno a casa e siamo tornati alla nostra vera vita.

—Non c'è di che — replica freddamente lui.

Haymitch getta la camicia da qualche parte in mezzo al disordine. — Brrr. Voi due dovrete fare un bel po' di riscaldamento, prima che inizi lo spettacolo.

Ha ragione. Il pubblico si aspetta la coppia di piccioncini che ha vinto gli Hunger Games. Non due persone che si guardano a stento negli occhi. Ma tutto quello che dico è: — Fatti un bagno, Haymitch. — Poi, ruotando su me stessa esco dalla finestra, mi lascio cadere a terra e attraverso il Prato diretta a casa.

La neve ha cominciato ad attecchire e lascio una scia di orme dietro di me. Quando arrivo alla porta d'ingresso mi fermo un attimo per scuotermi le scarpe prima di entrare. Mia madre ha sgobbato giorno e notte per rendere tutto perfetto per le telecamere, perciò non è il momento di imbrattare i suoi pavimenti scintillanti. Non ho nemmeno messo piede in casa, che lei è già lì e mi prende per un braccio come per fermarmi.

—Niente paura, me le tolgo — dico, lasciando le scarpe sullo zerbino.

Mia madre fa una strana risata ansimante e mi toglie dalla spalla la bisaccia. — È solo neve. Hai fatto una bella passeggiata?

—Passeggiata? — Sa che sono stata nei boschi per metà della notte. Poi vedo l'uomo in piedi dietro di lei, sulla soglia della cucina. Una sola occhiata al vestito su misura e ai tratti chirurgicamente perfezionati mi basta per capire che viene da Capitol City. Qualcosa non va. — Somigliava più a una pattinata. Sta diventando davvero scivoloso, là fuori.

—Qui c'è qualcuno che vuole vederti — dice mia madre. Il suo viso è pallido e riesco a sentire l'ansia che sta cercando di nascondere.

—Pensavo che non arrivassero prima di mezzogiorno. — Fingo di non accorgermi della sua agitazione. — Cinna è arrivato prima per aiutarmi a prepararmi?

—No, Katniss, è... — inizia mia madre.

—Da questa parte, prego, signorina Everdeen — dice l'uomo. Indica il corridoio con un gesto. È bizzarro essere scortati in casa propria, ma non mi va di fare commenti.

Mentre vado, lancio a mia madre un sorriso rassicurante da sopra la spalla. — Probabilmente altre istruzioni per il tour — dico.

Hanno continuato a spedirmi stupidaggini di ogni tipo riguardo al mio itinerario e al protocollo da osservare in ogni distretto. Ma mentre mi avvio verso la porta dello studio, una porta che fino a questo momento non ho mai visto chiusa, la mia testa comincia a lavorare freneticamente. Chi c'èl Cosa vogliono! Perché mia madre è così pallida !

—Entri pure — dice l'uomo di Capitol City che mi ha seguito lungo il corridoio.

Giro la maniglia di ottone lucido e faccio un passo all'interno. Il mio naso registra odori contrastanti di rose e di sangue. Un uomo piccolo e coi capelli bianchi che mi sembra vagamente di conoscere sta leggendo un libro. Alza un dito come per dire — Mi dia un attimo. — Poi si volta e il mio cuore perde un colpo.

Sto fissando gli occhi da serpente del presidente Snow.