sua attenzione risaliva verso piazza Venezia.
"Ah, mio caro" diss'egli a Franz, "non avete visto quel calesse
pieno di contadine romane?"
"No."
"Ebbene, vi assicuro che ci sono delle graziose signore."
"Quale disgrazia che siate mascherato mio caro Alberto!" disse
Franz. "Sarebbe stato il momento di rifarvi di tutti i vostri
sconcerti amorosi."
"Oh" rispose egli, metà ridendo, metà convinto, "spero bene che il
carnevale non trascorrerà senza qualche allettante avventura."
Ad onta della speranza di Alberto, tutto il giorno passò
senz'altra avventura, che l'incontro due o tre volte rinnovato del
calesse che portava le contadinelle romane: in uno di questi,
fosse caso o studio, la maschera cadde dal volto d'Alberto, ed
egli approfittò di quella congiuntura per prendere quanti fiori
poté, e gettarli nel calesse.
Senza dubbio una delle graziose signore che Alberto indovinava
sotto il costume da contadina fu colpita da questa galanteria, e
quando le due carrozze tornarono ad incontrarsi, gettò un mazzetto
di violette nella carrozza dei due amici.
Alberto si precipitò a raccoglierlo, e siccome Franz non aveva
alcun motivo di credere fosse a lui diretto, lasciò che se ne
impadronisse.
Alberto lo appuntò vittoriosamente in petto, e la carrozza
continuò il corso trionfante.
"Ebbene" disse Franz, "ecco il principio di un'avventura."
"Ridete quanto volete" rispose, "ma credo veramente di sì; perciò
non lascio più questo mazzetto."
"Per Bacco, lo credo bene!" confermò Franz ridendo. "E' un segnale
di riconoscimento."
Lo scherzo prese ben presto il carattere della realtà: quando,
sempre condotti dalla fila, Franz ed Alberto incontrarono di nuovo
la carrozza delle contadine, quella che aveva gettato il mazzetto
ad Alberto, batté le mani vedendo che lo aveva messo in petto.
"Bravo! mio caro, bravo!" disse Franz. "Ecco che la cosa si
prepara a meraviglia. Volete che vi lasci? Avete più piacere di
restare solo?"
"No" disse, "non imbrogliamo le cose: non voglio farmi
accalappiare come uno stupido alla prima occasione, per un
convegno sotto l'orologio come diciamo al ballo dell'Opéra. Se la
bella contadina ha volontà di spingere la cosa più innanzi, la
ritroveremo domani, o piuttosto lei troverà noi; allora mi darà
segno, e vedrò ciò che mi converrà fare."
"Invero, mio caro Alberto" disse Franz, "siete saggio come Nestore
e prudente come Ulisse, e se la vostra Circe giunge a trasformarvi
in una bestia qualunque, bisognerà che sia molto destra e
possente."
Alberto aveva ragione: la bella sconosciuta aveva deciso senza
dubbio di non spingere le cose più in là quel giorno; perché
quantunque facessero ancora diversi giri, non rividero più la
carrozza che cercavano con attenzione, e che sicuramente era
sparita per una delle vie traverse.
Allora ritornarono al palazzo Ruspoli. Il conte era sparito col
domino turchino; le due finestre parate col damasco giallo
continuarono però ad essere occupate da persone senza dubbio da
lui invitate.
La medesima campana che aveva suonato l'apertura della mascherata,
suonò il ritiro: la fila del Corso si ruppe al momento, e in un
attimo tutte le carrozze disparvero per le strade traverse. Franz
ed Alberto erano in quel momento dirimpetto alla via delle
Muratte; il cocchiere sfilò senza dir niente, giunto alla piazza
di Spagna si fermò davanti all'albergo. La prima cura di Franz fu
d'informarsi del conte, per esprimergli il dispiacere di non
essere andato in tempo a riprenderlo; ma Pastrini lo tranquillò
dicendogli che il conte di Montecristo aveva ordinata un'altra
carrozza per lui, e che questa era andata a prenderlo alle quattro
al palazzo Ruspoli.
Era inoltre incaricato da parte sua di offrire ai due amici la
chiave del suo palco al teatro Argentina.
Franz interrogò Alberto sulla sua disponibilità; ma questi aveva
grandi disegni da mettere in esecuzione prima di pensare ad andare
a teatro: per cui, invece di rispondergli, s'informò se Pastrini
avesse potuto procurargli un sarto.
"Un sarto! E per che farne?" domandò l'albergatore.
"Per farci da oggi a domani degli abiti da contadini romani più
eleganti che sia possibile."
Pastrini scosse la testa.
"Farvi da oggi a domani due abiti?" gridò. "Questa è, domando
perdono a Vostra Eccellenza, una vera domanda alla francese. Due
abiti quando da oggi a otto giorni non trovereste certamente un
sarto che vorrebbe attaccarvi sei bottoni ad un gilè, quand'anche
li pagaste uno scudo l'uno."
"Bisogna dunque rinunciare a procurarsi gli abiti che desideravo?"
"No, perché li troveremo belli e fatti. Lasciate a me la cura, e
domani quando vi sveglierete, troverete una collezione di
cappelli, di vestiti e di calzoni di cui rimarrete soddisfatto."
"Mio caro" disse Franz ad Alberto, "rimettiamoci al nostro
albergatore; egli ci ha di già provato che è un uomo pieno di
risorse, pranziamo dunque tranquillamente e dopo il pranzo andiamo
a vedere l'Italiana in Algeri."
"Si, ma pensate Pastrini che il signore ed io annettiamo la più
alta importanza ad avere gli abiti che vi abbiamo domandati."
Pastrini assicurò un'ultima volta i suoi ospiti che non avevano ad
inquietarsi di niente, e che sarebbero stati serviti a seconda dei
loro desideri. Alberto e Franz dopo ciò risalirono per levarsi gli
abiti da pagliacci.
Alberto nello spogliarsi custodì con molta cura il mazzetto di
viole, questo era il segno di riconoscimento per l'indomani.
I due amici si misero a tavola; ma, pranzando, Alberto non poté
fare a meno di osservare la netta differenza fra i meriti
rispettivi del cuoco di Pastrini, e di quello del conte di
Montecristo.
La verità costrinse Franz a confessare ad onta delle prevenzioni
che sembrava avere contro il conte, che il paragone non era
vantaggioso per il cuoco di Pastrini. Alla frutta un domestico
venne ad informarsi a quale ora desideravano la carrozza.
Alberto e Franz si guardarono, temendo realmente di essere
indiscreti.
Il domestico li capì:
"Sua Eccellenza il conte di Montecristo fa sapere loro di avere
disposto perché la carrozza restasse sempre agli ordini delle Loro
Signorie; potranno perciò usarne liberamente, senza essere
indiscreti."
I giovani decisero di approfittare fino alla fine della cortesia
del conte ed ordinarono di mettere in ordine mentre si cambiavano
gli abiti gualciti e sporchi per i giochi a cui avevano preso
parte nella giornata. Dopo questa cautela, passarono al teatro
Argentina, dove presero posto nel palco del conte.
Durante il primo atto la contessa G. entrò nel suo palco.
Il primo sguardo lo diresse dalla parte dove la sera prima aveva
visto il singolare sconosciuto; vide subito Franz ed Alberto nel
palco di colui sul conto del quale aveva espresso a Franz, appena
ventiquattro ore prima, una strana opinione. Diresse il suo
occhialino su di lui con tanta assiduità, che Franz capì sarebbe
stata una crudeltà ritardare di soddisfare la curiosità di lei.
Così profittando del privilegio accordato agli spettatori dei
teatri italiani, che consiste nel convertire il teatro in una sala
da ricevimento, i due amici lasciarono il palco per presentare i
loro omaggi alla contessa.
Appena entrati nel palco la dama fece un segno a Franz di mettersi
al posto d'onore, ed Alberto questa volta si pose accanto a lei.
"Ebbene" disse, accordando appena a Franz il tempo di sedersi,
"sembra che non abbiate avuto niente di più urgente che fare
conoscenza col nuovo lord Ruthwen... Eccovi i migliori amici del
mondo!"
"Senza essere inoltrati, quanto dite, in una reciproca amicizia"
rispose Franz, "non posso negare di aver abusato tutto il giorno
della sua gentilezza."
"Come, tutto il giorno?"
"In fede mia, questa è la vera parola che conviene. Questa mattina
abbiamo accettata da lui una colazione; durante tutto il tempo
delle maschere abbiamo girato il Corso nella sua carrozza; e
finalmente questa sera veniamo allo spettacolo nel suo palco."
"Voi dunque lo conoscete?"
"Sì e no!"
"Come mai?"
"Questa è una lunga storia."
"Che voi mi racconterete?"
"Essa vi farà paura."
"Ragione di più..."
"Aspettate almeno che abbia uno sviluppo."
"Sia così: amo le storie complete. Intanto com'è che vi siete
trovati a contatto? Chi vi ha presentato a lui?"
"Nessuno; al contrario, si è fatto presentare a noi ieri sera,
dopo che vi ho lasciata."
"Per mezzo di chi?"
"Oh, mio Dio, con un mezzo molto triviale, con quello del nostro
albergatore."
"E' dunque alloggiato all'albergo Londra?"
"Non solo nel medesimo albergo, ma nello stesso piano."
"E come si chiama? Dovete certo conoscerlo di nome."
"Perfettamente: il conte di Montecristo."
"Non è un nome di famiglia antica."
"No, è il nome dell'isola che ha comprato."
"Ed egli è conte?"
"Conte toscano."
"Ci adatteremo a questo come agli altri" riprese la contessa che
era di una delle più grandi ed antiche famiglie delle vicinanze di
Venezia. "E che uomo è?"
"Domandatene al visconte de Morcerf."
"Voi sentite, signore, vengo rimessa al vostro giudizio..."
"Saremmo incontentabili, se non lo trovassimo gentile" rispose
Alberto. "Un vecchio amico non avrebbe fatto più di quello che ha
fatto, e ciò con tanta grazia, delicatezza e cortesia, che fanno
conoscere in lui un vero uomo di mondo."
"Attento!" disse la contessa ridendo. "Vedrete che il mio bel
vampiro non sarà che un qualche nuovo arricchito che vuol farsi
perdonare i suoi milioni. E lei. l'avete veduta?"
"Chi, lei?" domandò Franz ridendo.
"La bella greca di ieri sera."
"No, credo di aver inteso il suono della sua "guzla", ma è rimasta
perfettamente invisibile."
"Vale a dire, quando voi dite invisibile, mio caro Franz" disse
Alberto, "è soltanto per fare il misterioso. Per chi avete dunque
preso quel domino turchino alla finestra parata di damasco bianco
del palazzo Ruspoli?"
"Il conte dunque aveva una finestra al palazzo Ruspoli?"
"Sì, siete passata per il Corso?"
"Sì, e chi non è passato per il Corso quest'oggi?"
"Avete osservate due finestre parate di damasco giallo, ed una di
damasco bianco con una croce rossa? Queste tre finestre erano del
conte."
"Davvero!? Dunque, è un nababbo? Sapete quanto costano tre
finestre come quelle per gli otto giorni del carnevale? ed
aggiungete nel palazzo Ruspoli che è nella più bella posizione del
Corso?". "Due o trecento scudi romani."
"Dite piuttosto due o tremila."
"Oh, diavolo."
"E' forse dalla sua isola che ritrae queste rendite?"
"La sua isola non gli frutta un baiocco."
"Perché dunque l'ha comprata?"
"Per fantasia."
"Dunque è un originale?"
"Il fatto è" disse Alberto, "che mi è sembrato molto eccentrico.
Se abitasse Parigi, se frequentasse i nostri teatri, vi direi, è
un triste dicitore che fa il dandy, o è un povero diavolo che si è
perduto nella moderna letteratura. In verità questa mattina è
venuto fuori con due o tre uscite degne di Didier o d'Antony."
In quel momento entrò una visita, e secondo l'uso Alberto dovette
cedere il posto all'ultimo arrivato; questo decise non solo il
cambiamento del luogo, ma anche dell'argomento.
Un'ora dopo i due amici tornavano all'albergo.
Pastrini si era già occupato dei loro abiti da maschera per
l'indomani, e promise loro che sarebbero stati soddisfatti della
sua intelligente alacrità.
L'indomani alle nove entrò nella camera di Franz con un sarto
carico di otto o dieci costumi da contadini romani. I due amici ne
scelsero due simili, e che andavano bene alla loro corporatura,
incaricarono l'albergatore di far cucire dei nastri a ciascuno dei
cappelli, e di procurar loro due di quelle belle sciarpe di seta a
righe traverse con colori vivi, di cui gli uomini del popolo sono
soliti cingersi la vita nei giorni di festa.
Alberto aveva fretta di vedere qual figura avrebbe fatta col nuovo
abito che si componeva di una giacca e un pantalone di velluto
turchino, di calze ad angoli ricamati, di scarpe con le fibbie e
di gilè di seta. Il giovane, del resto, non poteva che guadagnarci
con questo abito pittoresco e quando la sciarpa ebbe cinto gli
eleganti fianchi, quando il cappello leggermente piegato sopra un
orecchio, lasciò cadere un gran mazzo di nastri, Franz fu
costretto a confessare che i costumi hanno sovente una gran parte
nella superiorità fisica che si accorda ad alcuni popoli. I turchi
nei tempi addietro, tanto pittoreschi con le loro zimarre lunghe,
di colori vivi, non sono ora ributtanti coi soprabiti turchini
abbottonati, e la calotta greca che dà l'aspetto di una bottiglia
di vino con turacciolo rosso?
Franz si congratulò con Alberto, che rimasto in piedi davanti allo
specchio, sorrideva a se stesso con un'aria di soddisfazione, per
nulla equivoca.
In quel mentre entrò il conte di Montecristo.
"Signori" disse loro, "per quanto sia gradevole un compagno di
piacere, la libertà è ancora più gradevole. Vengo ad annunziarvi
che per oggi ed i giorni successivi lascio a vostra disposizione
la carrozza di cui vi siete serviti ieri. Il nostro albergatore vi
avrà detto che ne ho prese in fitto tre o quattro; voi dunque non
me ne private: usatene liberamente, sia per andare ai
divertimenti, sia per i vostri affari. Il nostro luogo di
convegno, se avremo qualche cosa a dirci, sarà il palazzo
Ruspoli..."
I due giovani volevano fare qualche osservazione, ma non avevano
alcuna buona ragione per rifiutare un'offerta che, d'altra parte,
gradivano assai, e finirono con l'accettare.
Il conte di Montecristo restò circa un quarto d'ora con loro
parlando di tutto con molta facilità. Era, come si è potuto
osservare, molto al corrente della letteratura di tutti i paesi;
inoltre le pareti delle sue camere provavano a Franz e ad Alberto
che era amatore di quadri.
Qualche parola senza pretesa, lasciata cadere di passaggio, provò
loro che non era estraneo alle scienze, e sembrava soprattutto che
si fosse particolarmente occupato di chimica.
I due amici non avevano la pretesa di restituire al conte la
colazione; sarebbe stata una cattiva burla offrirgli in cambio
della sua eccellente tavola, la cucina molto mediocre di Pastrini.
Glielo dissero francamente, ed egli ricevette le loro scuse come
un uomo che apprezzava la loro delicatezza.
Alberto era tanto rapito dalle maniere del conte, che, se non
fosse stato così fornito di scienza, lo avrebbe creduto un vero
gentiluomo. La libertà di disporre interamente della carrozza lo
ricolmava di gioia, aveva le sue mire sulle graziose contadinelle,
e siccome erano apparse il giorno innanzi in una elegantissima
carrozza, era ben contento di continuare a comparire alla pari con
loro.
All'una e mezza i due giovani discesero; il cocchiere e i due
servitori avevano avuto l'idea di sovrapporre alle loro pelli di
bestia le livree, cosa che dava loro un aspetto anche più
grottesco del giorno innanzi, e che procurò loro i rallegramenti
di Franz e di Alberto, il quale aveva attaccato sentimentalmente
all'occhiello della giacca il mazzetto di viole appassite.
Al primo suono della campana partirono, e si precipitarono nella
grande strada del Corso per la via Vittoria.
Al secondo giro un mazzetto di viole fresche partì da un calesse
carico di pagliaccine, e venne a cadere in quello del conte, e ciò
indico ad Alberto ed al suo amico, che le contadinelle del giorno
innanzi avevano cambiato costume; e fosse caso, o un sentimento
uguale a quello che aveva fatto mutare abiti ai due amici, che con
tutta galanteria avevano preso il loro costume, esse avevano preso
quello dei due compagni.
Alberto adattò il mazzetto di viole fresche al posto dell'altro;
ma conservò il mazzetto appassito in mano, e quando incontrò di
nuovo il calesse, lo portò amorosamente alle labbra, atto che
destò l'allegria non solo di quella che lo aveva gettato, ma anche
di tutte le sue pazze compagne.
La giornata non fu meno animata della precedente. Anzi è probabile
che un profondo osservatore vi avrebbe potuto riconoscere un
crescere di rumore e di allegria.
Un momento videro il conte alla finestra, ma quando la carrozza
ripassò era già sparito.
E' inutile dire che lo scambio di civetterie tra Alberto e la
pagliaccina dei mazzetti di viole durò tutta la giornata.
La sera quando rientrarono, Franz ritrovò una lettera
dell'ambasciata: gli veniva annunziato che il giorno dopo avrebbe
avuto l'onore di esser ricevuto da Sua Santità.
In tutti i suoi viaggi precedenti a Roma aveva chiesto ed ottenuto
lo stesso favore; e tanto per religione che per riconoscenza, non
aveva voluto mettere il piede nella capitale del mondo cristiano,
senza genuflettersi in rispettoso omaggio ai piedi di uno dei
successori di San Pietro, raro esempio di tutte le virtù: egli non
poteva dunque in quel giorno pensare al carnevale. Malgrado la
bontà di cui circonda la sua grandezza è sempre con un rispetto
pieno di profonda emozione che uno si appresta ad inchinarsi
davanti a questo nobile e santo vecchio.
Uscendo dal Vaticano, Franz ritornò direttamente all'albergo,
evitando ancora di passare per la strada del Corso. Portava con sé
un tesoro di pietosi pensieri ai quali sarebbe stata profanazione
il contatto delle folli allegrezze delle maschere.
Alle cinque e dieci minuti Alberto rientrò. Era al colmo della
gioia. La pagliaccina aveva ripreso il costume da contadinella, e
nell'incontrare la carrozza d'Alberto si era levata per un momento
la maschera...
Era graziosissima.
Franz fece i suoi complimenti ad Alberto che li ricevette come
persona che li riconosca dovuti.
Aveva osservato, diceva, da alcuni segni d'eleganza inimitabile
che la sua bella sconosciuta doveva appartenere alla più alta
aristocrazia. Quindi risolvette di scriverle l'indomani.
Franz mentre riceveva questa confidenza, osservò che Alberto
voleva chiedergli qualche cosa e tuttavia esitava a domandare.
Si disse pronto a fare per la sua felicità tutti i sacrifici che
fossero in suo potere. Alberto si fece pregare quanto esige
un'amichevole cortesia e quindi confessò a Franz che gli avrebbe
reso un sommo servigio abbandonando per l'indomani la carrozza a
lui solo.
Alberto attribuiva all'assenza dell'amico l'estrema bontà che
aveva avuta la bella contadina nell'alzare la maschera. Si capirà
che Franz non era tanto egoista per trattenere Alberto nel bel
mezzo di un'avventura che prometteva di riuscire ad un tempo
gradita alla sua curiosità, e lusinghiera per il suo amor proprio.
Conosceva abbastanza la poca segretezza del suo degno amico, per
esser sicuro che lo avrebbe tenuto al corrente di tutti i più
piccoli particolari della sua buona fortuna; e siccome, da tre o
quattro anni che percorreva l'Italia in tutti i sensi, non aveva
mai avuta l'occasione di cominciare neppure un simile intrigo per
conto suo, Franz non era dispiaciuto d'imparare come vanno le cose
in simili affari.
Promise dunque ad Alberto che l'indomani si sarebbe accontentato
di guardare lo spettacolo dalle finestre del palazzo Ruspoli.
Infatti il giorno dopo vide passare e ripassare Alberto. Aveva un
enorme mazzo di fiori, senza dubbio portatore del biglietto
amoroso.
Questa probabilità si cambiò in certezza, quando Franz vide il
medesimo mazzo, notevole per un giro di camelie bianche, fra le
mani della graziosa pagliaccina vestita di seta color rosa.
Così la sera non era più gioia, ma delirio.
Alberto non dubitava che la bella incognita non gli avesse
risposto con lo stesso mazzetto.
Franz ne prevenne i desideri dicendogli che tutto quel rumore lo
stancava, e che era risoluto ad impiegare la giornata seguente a
rivedere il suo album e a prendere annotazioni.
Del resto, Alberto non si era ingannato nelle sue previsioni: il
giorno dopo Franz lo vide entrare di slancio nella camera
scuotendo con trionfo un rettangolo di carta che teneva per uno
degli angoli.
"Ebbene, mi sono sbagliato?"
"Ha dunque risposto?" gridò Franz.
"Leggete."
Questa parola fu pronunziata con un tono di voce impossibile a
descriversi.
Franz prese il biglietto e lesse:
"Martedì sera, alle sette, discendete dalla carrozza dirimpetto
alla via dei Pontefici, e seguite la contadina romana che vi
strapperà il vostro moccoletto quando arriverete al primo gradino
della chiesa di San Gaetano. Abbiate cura perché lei possa
riconoscervi, di mettere un nastro color rosa sulle spalla del
vostro costume da pagliaccio.
Da oggi sino a tale momento voi non mi rivedrete più.
Costanza e discrezione."
"Ebbene!" disse a Franz, quando ebbe finita questa lettura, "che
ne pensate, mio caro?"
"Penso" rispose Franz, "che la cosa prende la piega di
un'avventura molto piacevole."
"Questo è pure il mio parere, ed ho gran timore che andrete solo
al ballo del principe T."
Franz ed Alberto avevano ricevuto quella stessa mattina l'invito
del celebre banchiere romano.
"State in guardia" disse Franz, "tutta l'aristocrazia sarà dal
principe e se la vostra bella sconosciuta appartiene realmente
alla nobiltà, non potrà fare a meno d'intervenirvi."
"Che v'intervenga o no, io conservo l'opinione che ho di lei"
continuò Alberto. "Voi avete il biglietto; sapete che meschina
educazione ricevono in Italia le donne del mezzo ceto; ebbene,
rileggete il biglietto, osservate il carattere e trovatemi uno
sbaglio di lingua o di ortografia."
"Voi siete dei predestinati..." disse Franz, nel rendere ad
Alberto per la seconda volta il biglietto.
"Ridete quanto vi piace, scherzate a vostro agio" rispose Alberto,
"io sono innamorato."
"Oh, mio Dio, voi mi spaventate!" gridò Franz. "Vedo bene che non
solamente andrò solo al ballo del principe, ma anche ritornerò
solo a Firenze."
"Il fatto è che, se la mia sconosciuta è amabile quanto è bella,
vi avverto che mi stabilisco a Roma per sei settimane almeno. Io
adoro Roma, e poi ho sempre avuto un trasporto straordinario per
l'archeologia."
"Ancora un altro o due di questi incontri, e non dispero di
vedervi membro dell'Accademia di belle lettere."
Senza dubbio Alberto si accingeva a discutere seriamente sui
diritti che poteva avere ad un seggio nell'Accademia, ma vennero
in quel momento ad annunziare che il pranzo era servito: l'amore
in Alberto non era contrario all'appetito; si affrettò dunque col
suo amico a mettersi a tavola, risoluto a riprendere la
discussione dopo il pranzo.
Dopo il pranzo fu annunziato il conte di Montecristo.
Da due giorni i due amici non lo avevano veduto. Un affare lo
aveva chiamato a Civitavecchia, almeno a quanto disse Pastrini.
Era partito la sera del giorno prima, e già era di ritorno da
un'ora.
Il conte fu squisito.
Sia che stesse all'erta, sia che l'occasione non svegliasse in lui
le fibre armoniose, che aveva già fatto risuonare due o tre volte
nelle sue parole si comportò da tutt'altro uomo.
Era per Franz un vero enigma.
Il conte non poteva dubitare che il giovane viaggiatore non lo
avesse riconosciuto, e tuttavia non aveva detto una sola parola
dopo il loro nuovo incontro, che potesse tradire di averlo veduto
altrove.
Per sua parte Franz, qualunque fosse la volontà di alludere al
loro primo incontro, il timore di far cosa sgradevole ad un uomo
che aveva ricolmato lui e l'amico di gentilezze, lo trattenne:
continuò dunque a mantenersi riservato come il conte.
Il conte aveva saputo che i due amici avevano prenotato un palco
al teatro Argentina e si era risposto che non ce n'erano. Perciò
portava loro la chiave del suo; almeno questo era l'apparente
motivo della sua visita.
Franz ed Alberto fecero qualche difficoltà, allegando il timore di
privarne lui; ma il conte rispose che andando quella sera al
teatro Valle, il suo palco al teatro Argentina sarebbe rimasto
vuoto.
Questa assicurazione risolvette i due amici ad accettare.
Franz si era un poco per volta abituato a quel pallore del conte,
che lo aveva tanto colpito la prima volta che l'aveva visto. Non
poteva fare a meno di render giustizia alla bellezza della sua
fronte severa, della quale questo pallore era il solo difetto o la
principale bellezza.
Vero eroe di Byron, Franz non poteva non solo vederlo, ma neppure
e pensare a lui, senza immaginarsi quel viso tetro sulle spalle di
Manfredi, o sotto la cotta d'armi di Lara. Egli aveva sulla fronte
quella piega che indica la presenza incessante di un amaro
pensiero, aveva quegli occhi ardenti che leggono nel più profondo
delle anime, quel labbro superbo sprezzante che dà alle parole
quell'incisività che le fa imprimere profondamente nella memoria
di chi ascolta.
Il conte non era più giovane, aveva quarant'anni almeno, ma ciò
nonostante si capiva che era fatto per dominare i giovani. In
realtà, per un'ultima somiglianza con gli eroi fantastici del
poeta inglese, il conte sembrava avere il dono
dell'affascinazione.
Alberto era incantato della fortuna condivisa con Franz,
d'incontrare un uomo simile.
Franz era meno entusiasta, tuttavia subiva l'influsso che esercita
un uomo superiore sugli spiriti di coloro che lo avvicinano. Egli
pensava al progetto, che il conte aveva già manifestato due o tre
volte, di andare a Parigi, e non dubitava che con le sue doti
personali, con quel volto magnetico e con la sua fortuna
colossale, avrebbe ottenuto un grande successo. Però non
desiderava trovarsi a Parigi quando egli vi fosse andato.
La serata fu passata come si passano ordinariamente a teatro in
Italia: non ad ascoltare i cantanti, ma a fare delle visite ed a
discorrere.
La contessa G. voleva ricondurre la conversazione sul conte, ma
Franz le annunziò che aveva qualcosa di più nuovo da narrarle, e
malgrado le dimostrazioni di falsa modestia alle quali si lasciò
andare Alberto, raccontò alla contessa l'avvenimento che da tre
giorni interessava i due amici.
Siccome queste tresche non sono rare né in Italia, né altrove,
almeno se si deve credere ai viaggiatori, la contessa non fece
minimamente l'incredula, e felicitò Alberto per un'avventura che
prometteva di terminare in modo assai soddisfacente.
Si lasciarono, promettendosi di ritrovarsi al ballo del principe
T. a cui era stata invitata tutta Roma.
La dama mantenne la parola: né il giorno dopo, né l'altro dette
segno ad Alberto di esistere.
Finalmente giunse il martedì, l'ultimo ed il più rumoroso giorno
del carnevale. Il martedì i teatri si aprono alle dieci del
mattino, perché dopo le otto della sera si entra in quaresima. Il
martedì tutti quelli che per mancanza di tempo, di entusiasmo, di
danaro non hanno preso parte alle precedenti feste si mischiano
all'ultimo baccanale, si lasciano trascinare dall'orgia, e
tributano la loro parte di rumore e di movimento al rumore ed al
movimento generale.
Dalle due alle cinque Franz ed Alberto stettero alla finestra del
Corso battagliando a pugni di confetti con le carrozze della fila
opposta, con le finestre, e coi pedoni che circolano fra i piedi
dei cavalli, fra le ruote delle carrozze, senza che accada mai in
mezzo a questa spaventosa mischia un solo incidente, una sola
disputa, una sola rissa.
Sotto questo rapporto gli italiani sono il popolo per eccellenza.
Le feste per essi sono vere feste.
L'autore di questa storia, che ha abitato l'Italia cinque o sei
anni, non si ricorda mai di avere veduta una sola solennità
turbata da uno di quegli incidenti che son corollario alle nostre.
Alberto trionfava col suo costume da pagliaccio. Aveva sopra una
spalla un nastro color rosa, le cui estremità cadevano al
garretto, per distinguersi da Franz, che aveva conservato il
vestito da contadino romano.
Più il giorno avanzava, e più il tumulto diveniva grande: non
c'era su tutto quel selciato, in tutte quelle carrozze, a tutte
quelle finestre, una bocca muta, un braccio ozioso; era un vero
uragano umano, composto di un tuono di grida, e di una tempesta di
confetti, di mazzetti d'aranci e di fiori. Alle tre l'esplosione
dei mortaretti tirati ad un tempo su piazza del Popolo e su piazza
Venezia, rompendo a grande stento quest'orribile tumulto, annunciò
che stavano per cominciare le corse.
Le corse ed i moccoli sono gli episodi particolari degli ultimi
giorni di carnevale.
Allo sparo dei mortaretti le carrozze rompono nello stesso punto
le file e voltano ciascuna nella strada traversa più vicina al
luogo dove si trovano. Tutte queste evoluzioni si fanno con una
meravigliosa rapidità, e senza che la polizia si occupi di
assegnare a ciascuna il suo posto, o di tracciare a ciascuna la
sua strada. I pedoni si ritirano contro il muro dei palazzi,
quindi si sente un rumore di cavalli e uno sguainar di sciabole.
Un plotone di gendarmi, che ne presenta quindici di fronte,
percorre al galoppo in tutta la lunghezza il Corso, che fa
sgombrare per dar posto alla corsa dei berberi. Quando il plotone
arriva a palazzo Venezia, il rumore di un'altra batteria di
mortaretti avvisa che la strada è libera. Quasi subito, in mezzo
ad un clamore immenso universale, inaudito, si vedono passare come
ombre sette o otto cavalli eccitati dalle grida di trecentomila
persone e dalle castagnette di ferro appuntate che loro balzano
sul dorso, poi il cannone di Sant'Angelo tira tre colpi, per
annunziare che il numero tre ha vinto. Subito senz'altro segnale
che quello, le carrozze si rimettono in movimento, rifluendo verso
il Corso, uscendo da tutte le strade come torrenti contenuti per
un momento, che si gettano tutti insieme nel letto del fiume che
alimentano, e l'onda immensa riprende più rapida che mai il suo
corso fra le due rive di granito.
Soltanto un nuovo elemento di rumore e di movimento si era
mischiato a questa folla: entrarono in scena i mercanti di
moccoli.
I moccoli o moccoletti sono ceri che variano dalla grossezza del
cero pasquale fino alla coda di un sorcio, e risvegliano negli
attori della grande scena, con cui termina il carnevale romano,
due opposte preoccupazioni:
1. Conservare acceso il proprio moccoletto;
2. Spegnere il moccoletto degli altri.
Avviene del moccoletto ciò che accade della vita degli uomini. Per
quanto è in potere loro, si adoperano a conservarla, e sebbene
certi che presto o tardi debba avere fine, tuttavia hanno indagato
e scoperto mille modi per reciderla e toglierla innanzi tempo: è
vero che per questa suprema operazione il diavolo non ha mai
mancato di venir loro in aiuto. Il moccoletto si accende
avvicinandolo ad un lume qualunque.
Ma chi potrà descrivere i mille mezzi inventati per spegnere il
moccoletto, i soffietti giganteschi, gli spegnitoi mostri, i
ventagli sovrumani? Ciascuno si sollecitò a comprare i moccoletti,
e Franz ed Alberto fecero come tutti gli altri.
La notte si avvicinava rapidamente, e già al grido: Moccoli!,
ripetuto dalle voci stridule degl'industriosi, due o tre stelle
cominciarono a brillare al di sopra della folla.
Fu come un segnale.
In dieci minuti, quarantamila lumi scintillarono, discendenti da
piazza Venezia a piazza del Popolo, e risalenti da quella del
Popolo a quella di Venezia. Si sarebbe detta la festa dei fuochi
fatui. Chi non ha veduto questa festa, è impossibile che se ne
possa formare un'idea. Supponete che tutte le stelle si stacchino
dal cielo, e vengano a formare sulla terra una danza insensata, il
tutto accompagnato da grida che orecchio umano non ha mai potuto
sentire sulla superficie del globo. E' particolarmente in questo
momento che non c'è più distinzione sociale. Il facchino attacca
il principe, questi il trasteverino, il trasteverino il borghese,
ciascuno soffiando, spegnendo, riaccendendo.
Se il vecchio Eolo comparisse in quel momento sarebbe proclamato
re dei moccoletti, ed Aquilone l'erede alla corona.
Questa corsa folle e fiammeggiante durò circa due ore. La strada
del Corso era rischiarata come in pieno giorno, si distinguevano i
lineamenti degli spettatori fino al terzo o quarto piano. Di
cinque minuti in cinque minuti Alberto guardava l'orologio:
finalmente segnò le sette. I due amici si ritrovavano a poca
distanza dalla via dei Pontefici; Alberto saltò fuori dalla
carrozza col suo moccoletto in mano.
Due o tre maschere vollero avvicinarsi per spegnerlo o per
toglierlo; ma da bravo lottatore, Alberto li respinse dieci passi
distanti da lui, continuando la sua corsa verso la chiesa di San
Giacomo. I gradini erano carichi di curiosi e di maschere che
lottavano per strapparsi il moccoletto dalle mani. Franz seguiva
con gli occhi Alberto, e lo vide mettere il piede sul primo
scalino, poi quasi subito una maschera che portava il ben
conosciuto costume della contadina dal mazzetto, allungò il
braccio, e gli tolse il moccoletto senza ch'egli facesse la più
piccola resistenza.
Franz era troppo lontano per sentire le parole che si scambiavano,
ma senza dubbio non furono ostili, poiché vide allontanarsi
Alberto tenendo sotto braccio la contadinella.
Per qualche tempo li seguì in mezzo alla folla, ma alla via del
Macello li perse di vista.
D'improvviso, il suono della campana che dà il segnale della fine
del carnevale si fece sentire, e nel medesimo istante tutti i
moccoli si spensero come per incanto. Si sarebbe detto che un solo
ed immenso colpo di vento li aveva tutti annientati. Franz si
trovò nell'oscurità più profonda.
Allora tutte le grida cessarono come se il soffio possente che
aveva spento i lumi, avesse portato via nel medesimo tempo il
rumore. Non s'intese più che il rotolar delle carrozze che
riconducevano le maschere alle loro case; non si videro più che
pochi lumi brillare dietro le finestre.
Il carnevale era finito!...
Capitolo 37.
LE CATACOMBE DI SAN SEBASTIANO.
Forse Franz non aveva mai provato in vita sua un'impressione così
rapida, un passaggio così improvviso dall'allegria alla tristezza,
quanto in quel momento; si sarebbe detto che per opera del soffio
di qualche demone della notte, Roma era stata cambiata in una
vasta sepoltura. Un caso aumentava ancora l'intensità delle
tenebre: la luna mancante non sorgeva che dopo le undici; e le
strade per le quali passava il giovane erano immerse nella più
profonda oscurità. Però il tragitto era corto, e in capo a dieci
minuti la sua carrozza, o per meglio dire quella del conte, era
davanti all'albergo Londra.
Il pranzo era pronto; ma siccome Alberto aveva avvertito che non
contava di tornare presto, così Franz si mise a tavola senza di
lui. Pastrini, che era abituato a vederli pranzare insieme,
s'informò della ragione dell'assenza di Alberto; ma Franz si
limitò a rispondergli che Alberto aveva dovuto recarsi ad un
invito ricevuto il giorno innanzi. Il subitaneo spegnersi dei
moccoletti, l'oscurità succeduta alla luce, il silenzio che aveva
sostituito l'immenso rumore, avevano impresso nello spirito di
Franz una certa malinconia non esente da inquietudine. Pranzò
taciturno, ad onta delle officiose premure dell'albergatore, che
entrò due o tre volte per sentire se gli bisognasse cosa alcuna.
Franz aveva stabilito di aspettare Alberto il più a lungo
possibile. Ordinò dunque la carrozza per le undici, pregando
Pastrini di mandarlo ad avvisare appena fosse tornato Alberto
all'albergo, qualunque potesse essere l'ora.
Alle undici Alberto non era ancora ritornato.
Franz si vestì, e partendo avvisò l'albergatore che avrebbe
passata la notte dal principe Torlonia.
La casa del principe Torlonia è una delle più belle case di Roma;
sua moglie è una delle discendenti della famiglia Colonna, e
disimpegna gli onori di famiglia in modo perfetto: le feste del
principe banchiere hanno celebrità europea. Franz ed Alberto erano
giunti in Roma con lettere di raccomandazione per lui, perciò la
prima domanda che il principe gli fece fu che fosse avvenuto del
compagno di viaggio.
Franz rispose che lo aveva lasciato pochi momenti prima che si
spegnessero i moccoletti, e lo aveva perduto di vista nella via
del Macello.
"Dunque non è tornato a casa?" domandò il principe.
"L'ho aspettato fino adesso" rispose Franz.
"E sapete dove sia andato?"
"Precisamente, no; ma credo si tratti di qualche cosa di simile ad
un convegno."
"Diavolo!" disse il principe. "E' un brutto giorno, o per meglio
dire una cattiva sera per far tardi... Non è vero, contessa?"
Queste ultime parole erano dirette alla contessa G., che giungeva
allora, e che passeggiava appoggiandosi al braccio del fratello
del principe, il duca di Bracciano.
"Io trovo al contrario che questa è una bellissima notte, e quelli
che sono qui non avranno a lamentarsi d'altro se non che passi
troppo presto."
"Ma io" riprese sorridendo il principe, "non parlo di quelli che
sono qui, essi non corrono altro pericolo che gli uomini
d'innamorarsi di voi, e le donne ammalarsi di gelosia vedendovi
così bella; parlo di coloro che corrono le strade di Roma."
"Eh, mio Dio, e chi volete che corra le strade di Roma a
quest'ora, se non quelli che vengono dal ballo?"
"Il nostro amico Alberto de Morcerf, signora contessa, che ho
lasciato mentre seguiva la sua bella incognita verso le sette di
sera" rispose Franz, "e che dopo non ho più rivisto."
"Come, non sapete dove sia?"
"Niente affatto."
"Ha con sé le armi?"
"E' vestito da pagliaccio..."
"Non avreste dovuto lasciarlo andare" disse il principe a Franz,
"voi che conoscete Roma meglio di lui."
"Sì, davvero! Sarebbe stato lo stesso che aver voluto fermare il
numero tre dei berberi che oggi ha vinto il premio della corsa"
rispose Franz. "E poi che volete che gli accada?"
"Chi lo sa? La notte è oscura, e il Tevere è molto vicino alla via
del Macello!..."
Franz sentì un fremito scorrergli per le vene, sentendo le idee
del principe e della contessa in accordo coi suoi timori
personali.
"Per questo ho avvisato l'albergatore che avevo l'onore di passare
qui la notte" disse Franz, "e debbono venire ad avvertirmi qui,
appena ritorna."
"Osservate" disse il principe a Franz, "ecco appunto un mio
domestico, che credo cerchi di voi."
Il principe non s'ingannava: appena il domestico ebbe scoperto
Franz si avvicinò a lui, e gli disse:
"Eccellenza, l'albergatore dell'hotel Londra vi fa avvertire che
alla locanda c'è un uomo che vi aspetta con una lettera del conte
di Morcerf."
"Con una lettera del conte!" gridò Franz.
"Sì."
"E chi è quest'uomo?"
"Non lo so."
"E perché non è venuto a portarmela qui?"
"Il messaggero non mi ha data alcuna spiegazione."
"E dov'è il messaggero?"
"E' partito appena mi ha visto entrare nella sala per cercarvi."
"Oh, mio Dio" disse la contessa a Franz, "andate presto. Povero
giovane: forse gli è accaduta qualche disgrazia."
"Vado subito..." disse Franz.
"Vi rivedremo per sapere le notizie?" chiese la contessa.
"Sì, se la cosa non è grave; altrimenti non posso prevedere ciò
che farò io stesso."
"In ogni evento, siate prudente" disse la contessa.
"Oh, state tranquilla."
Franz prese il cappello e partì in tutta fretta. Aveva licenziata
la carrozza, ordinandola per le due. Ma per fortuna la casa del
principe, che corrisponde da una parte sul Corso, e dall'altra
sulla piazza dei Santissimi Apostoli, è a dieci minuti di cammino
dall'albergo Londra.
Avvicinandosi all'albergo Franz vide un uomo ritto in mezzo alla
strada avvolto in un gran mantello: non dubitò che questi fosse il
messaggero d'Alberto; restò però meravigliato che gli rivolgesse
per primo la parola.
"Che volete, Eccellenza?" disse facendo un passo indietro come uno
che voglia tenersi in guardia.
"Non siete voi" chiese Franz, "che mi avete portato una lettera
del conte di Morcerf?"
"Vostra Eccellenza abita all'albergo di Pastrini?"
"Sì."
"Vostra Eccellenza è il compagno di viaggio del conte?"
"Sì."
"Come si chiama?"
"Il barone Franz d'Epinay."
"E' precisamente a Vostra Eccellenza che è diretta questa
lettera."
"Vi abbisogna risposta?" domandò Franz nel prendere la lettera
dalle sue mani.
"Sì, o almeno il vostro amico lo spera."
"Allora salite da me, che ve la darò."
"Sarà meglio che l'aspetti qui..." disse ridendo il messaggero.
"E perché?"
"Vostra Eccellenza lo capirà meglio quando avrà letta la lettera."
"Allora vi ritroverò qui?"
"Senza dubbio."
Franz entrò e per le scale s'imbatté in Pastrini.
"Ebbene?" gli domandò questi.
"Ebbene, che?" rispose Franz.
"Avete visto l'uomo che desiderava parlarvi per parte del vostro
amico?"
"Sì, l'ho veduto" rispose Franz, "e mi ha consegnata questa
lettera. Vi prego di fare accendere un lume nella mia camera."
L'albergatore dette ordine ad un domestico di precedere Franz col
lume.
Il giovane aveva osservata un'aria spaventata sul viso di
Pastrini, il che non aveva fatto che raddoppiargli la curiosità di
leggere la lettera d'Alberto: si accostò al candeliere, appena fu
accesa la candela, e piegò il foglio.
La lettera era scritta e firmata dalla mano d'Alberto.
Franz la lesse due volte, tanto era lontano dal figurarsi il
contenuto. Eccola riportata letteralmente:
"Mio caro amico,
appena avrete ricevuta la presente, abbiate la compiacenza di
prendere nel mio portafogli che troverete nel cassettino del mio
scrigno la credenziale: uniteci la vostra, se non basta. Correte
da Torlonia, e ritirate da lui sul momento quattro mila scudi, che
consegnerete al latore della presente. Preme grandemente che
questa somma mi giunga senza alcun ritardo. Non insisto di più,
contando su voi, come voi potreste contare su di me. vostro amico,
Alberto de Morcerf.
Post scriptum. Adesso credo ai banditi italiani.
Sotto queste righe erano scritte da mano sconosciuta le seguenti
parole:
"Se alle sei di mattina i quattro mila scudi non sono nelle mie
mani, alle sette il conte Alberto avrà cessato di vivere.
Luigi Vampa."
Questa firma spiegò ogni cosa a Franz, che capì l'avversione
mostrata dal messaggero a salire in camera: la strada gli sembrava
più sicura.
Alberto era caduto nelle mani di quel famoso capo di banditi, alla
cui esistenza non voleva credere.
Non c'era tempo da perdere: corse allo scrigno, l'aprì e nel
cassettino indicato ritrovò il portafogli, ed in esso la
credenziale di seimila scudi in tutto: ma Alberto ne aveva già
presi tremila.
Franz non aveva alcuna credenziale; domiciliando a Firenze, ed
essendo venuto a Roma per passarvi gli otto giorni del carnevale,
non aveva preso che un centinaio di luigi, e non gliene rimanevano
che appena cinquanta.
Gli mancavano dunque sette o ottocento scudi per poter riunire,
fra lui ed Alberto, la somma richiesta. E' vero che in simile
congiuntura Franz poteva calcolare sulla gentilezza di Torlonia.
Egli si disponeva dunque a ritornare al palazzo del principe senza
perdere un momento, quando d'improvviso gli venne alla mente una
felice idea...
Pensò al conte di Montecristo.
Stava per far chiamare Pastrini, quando questi si presentò alla
porta.
"Mio caro Pastrini, credete che il conte sia in casa?"
"Sì, Eccellenza, è entrato or ora."
"Avrà avuto tempo d'andare a letto?"
"Non credo."
"Allora suonate alla sua porta, ve ne prego, e domandate in nome
mio il permesso di potermi presentare a lui."
Pastrini si affrettò ad eseguire la commissione: cinque minuti
dopo rientrò.
"Il conte aspetta Vostra Eccellenza" disse.
Franz traversò il pianerottolo; un domestico lo introdusse dal
conte.
Era in un piccolo salotto che Franz non aveva mai visto, tutto
circondato da un divano; il conte gli venne incontro.
"Oh, qual buon vento vi conduce da me a quest'ora?" gli disse.
"Venite forse a chiedermi la cena? Per Bacco, sarebbe davvero una
bella gentilezza per parte vostra."
"No, vengo a parlarvi di un affare molto grave."
"Di un affare!" disse il conte fissandolo con quello sguardo
scrutatore che gli era proprio. "E di quale affare?"
"Siamo soli?"
Il conte andò alla porta, poi ritornò.
"Assolutamente soli..." disse.
Franz gli presentò la lettera d'Alberto.
"Leggete!" disse.
Il conte lesse la lettera.
"Ah, ah" fece egli.
"Avete veduto il post-scriptum?"
"Sì, lo vedo bene...
"Se alle sei di mattina i quattro mila scudi non sono nelle mie
mani, alle sette il conte Alberto avrà cessato di vivere.
Luigi Vampa."
"Che ne dite?" domandò Franz. "Avete la somma che vi viene
richiesta?"
"Si, meno ottocento scudi."
Il conte si accostò allo scrigno e ne trasse un cassettino pieno
d'oro.
"Io spero" disse a Franz, "che non vorrete farmi l'ingiuria di
rivolgervi ad altri."
"Vedete che sono venuto direttamente da voi..." disse Franz.
"Ed io ve ne ringrazio: prendete."
E fece segno a Franz di prendere nel cassettino.
"Ma è poi assolutamente necessario mandare questa somma a Luigi
Vampa?" chiese il giovane fissando a sua volta lo sguardo sul
conte.
"Diavolo, giudicatene voi stesso: il post-scriptum è preciso."
"Mi sembra che, se volete prendervi l'incomodo di pensarvi, forse
trovereste un mezzo per semplificare molto la faccenda..." disse
Franz.
"E quale?" chiese il conte meravigliato.
"Per esempio, se andassimo insieme a trovare Luigi Vampa, sono
sicuro che non vi negherebbe la libertà di Alberto."
"A me? Quale influenza volete che io abbia su questo bandito?"
"Non gli avete appena reso uno di quei favori che non si
dimenticano più?"
"E quale?"
"Non avete salvato la vita a Peppino?"
"Ah, ah" fece il conte, "e chi ve lo ha detto?"
"E che importa a voi questo? Io lo so."
Il conte rimase per un momento muto col sopracciglio aggrottato.
"E se io andassi a trovare Vampa, mi accompagnereste voi?"
"Se la mia compagnia non vi è sgradevole..."
"Ebbene, sia: la notte è bella; una passeggiata nella campagna
romana non può farci che bene."
"Bisognerà prendere armi?"
"Per far che cosa?"
"Denaro?"
"E' inutile. Dove si trova l'uomo che ha portato questo
biglietto?"
"Nella strada."
"Aspetta la risposta?"
"Sì."
"Bisogna sapere dove andremo: ora lo chiamerò."
"E' inutile, non ha voluto salire."
"Da voi forse, ma da me non farà nessuna difficoltà."
Il conte aprì la finestra del salotto che corrispondeva sulla
strada, e fischiò in un modo particolare. L'uomo dal mantello si
staccò dal muro cui era appoggiato e si avanzò fino al mezzo della
strada.
"Salite!" disse il conte col tono con cui si darebbe un ordine al
servitore.
Il messaggero obbedì senza indugio, senza esitazione, anzi con
sollecitudine.
Saliti i quattro scalini dell'andito, entrò nell'albergo, ed in
cinque secondi era già alla porta del salotto.
"Ah, sei tu, Peppino?" disse il conte.
Ma Peppino invece di rispondergli, gli si gettò alle ginocchia,
prese le mani del conte, e v'impresse a più riprese le labbra.
"Ah, ah" disse il conte, "tu non hai ancora dimenticato che ti ho
salvata la vita? E' singolare! Eppure sono già otto giorni."
"No, Eccellenza, non lo dimenticherò mai..." rispose Peppino,
coll'accento della più viva riconoscenza.
"Non mai? E' troppo lungo; però è ancora molto che tu lo creda.
Alzati e rispondimi."
Peppino gettò uno sguardo inquieto su Franz.
"Oh, oh, tu puoi parlare davanti a Sua Eccellenza" disse il conte,
"poiché è un mio amico. Voi permettete che vi dia questo titolo?"
disse in francese volgendosi a Franz. "E' necessario per
accattivarsi la fiducia di costui."
"Potete parlare in mia presenza, essendo un amico del conte."
"Alla buon'ora!" disse Peppino volgendosi al conte. "Vostra
Eccellenza m'interroghi, ed io risponderò."
"In che modo il conte Alberto è caduto nelle mani di Luigi?"
"Eccellenza, la carrozza del francese ha incrociata più di una
volta quella di Teresa."
"L'amica del capo?"
"Sì, il francese le ha fatto gli occhi dolci. Teresa si è
divertita a rispondergli; il francese le ha gettato dei mazzetti,
lei gliene ha ricambiati; e tutto ciò, s'intende, col consenso del
capo che era nella stessa carrozza."
"Come!" gridò Franz, "Luigi Vampa era nella carrozza delle
contadine romane?"