L'inglese ricevette i suoi ringraziamenti colla flemma particolare

      alla sua gente,  e prese congedo  da  Morrel,  che  lo  ricondusse

      benedicendolo fino alla porta.

      Sulle scale incontrò Giulia: la ragazza sembrava discendere, ma in

      realtà lo aspettava.

      "Oh, signore!" disse giungendo le mani.

      "Signorina"  disse  lo  straniero,  "voi  un giorno riceverete una

      lettera firmata... Sindbad il marinaio.  Fate appuntino ciò che vi

      dirà   la   lettera   per  quanto  strana  vi  possa  sembrare  la

      raccomandazione."

      "Sì, signore" rispose Giulia.

      "Mi promettete di farlo?"

      "Ve lo giuro."

      "Basta così: addio signorina,  siate sempre  buona  e  savia  come

      siete ed ho fiducia che Iddio vi ricompenserà,  dandovi per marito

      Emanuele."

      Giulia mandò un piccolo grido, divenne rossa come una ciliegia,  e

      si tenne al cordone delle scale per non cadere.

      Lo straniero continuò il cammino, facendole un gesto di addio. Nel

      cortile  incontrò Penelon che teneva un rotolo di cento franchi in

      ciascuna mano,  e che sembrava non potersi  risolvere  a  portarli

      via.

      "Venite, amico mio" gli disse, "ho bisogno di parlarvi."

 

 

 

 

 

 

 

 

                                 Capitolo 30.

                               IL 5 SETTEMBRE.

 

 

      Questa  dilazione  accordata  dal  mandatario della casa Thomson e

      French al momento in cui Morrel meno se  lo  aspettava,  parve  al

      povero  armatore  uno  di quei ritorni di benessere che annunziano

      all'uomo la sorte essersi alfine stancata di perseguitarlo.

      Lo stesso giorno raccontò a sua figlia e ad Emanuele ciò  che  gli

      era  accaduto;  e  un  poco  di speranza,  se non di tranquillità,

      rientrò nella famiglia.  Disgraziatamente però  Morrel  non  aveva

      affari  soltanto  con la casa Thomson e French che si era mostrata

      tanto facile  ad  un  accomodamento;  com'egli  aveva  detto,  nel

      commercio si hanno corrispondenti, e non amici.

      Allorché  vi  pensava  profondamente,  non  comprendeva neppure la

      condotta generosa della casa Thomson e French verso di lui,  e non

      la  spiegava  che con questa riflessione superlativamente egoista,

      che questa Casa doveva aver detto: val meglio sostenere quest'uomo

      che ci deve quasi trecentomila franchi,  e avere questa  somma  in

      capo  a  tre  mesi,  che sollecitarne la rovina,  e avere il sei o

      l'otto per cento del capitale. Disgraziatamente, fosse odio, fosse

      accecamento, tutti i corrispondenti di Morrel non fecero la stessa

      riflessione.

      Le cambiali sottoscritte da Morrel furono  presentate  alla  cassa

      con  uno  scrupoloso  rigore,  e  grazie  alla dilazione accordata

      dall'inglese furono pagate pronta cassa da Coclite, che continuò a

      rimanere tranquillo.  Il solo Morrel  vide  con  terrore,  che  se

      avesse  dovuto rimborsare al 15 i centomila franchi di de Boville,

      e al 30 i trentaduemilacinquecento franchi  di  cambiali,  per  le

      quali,  come  per  quelle  dell'ispettore  delle  prigioni,  aveva

      ottenuta una dilazione,  sarebbe stato fin da quel  mese  un  uomo

      perduto.

      L'opinione  di  tutti i negozianti di Marsiglia era che Morrel non

      avrebbe  potuto  sostenere  tutti   i   rovesci   successivi   che

      l'opprimevano.  Fu  dunque  grande la meraviglia quando lo si vide

      compiere i pagamenti di fine mese coll'ordinaria esattezza.

      Ma non per questo ritornò la  fiducia  negli  animi,  e  in  molti

      predissero   che   alla  fine  del  mese  seguente  sarebbe  stato

      depositato il bilancio del disgraziato armatore.

      Tutto il mese passò in sforzi inauditi  da  parte  di  Morrel  per

      riunire  tutte  le  sue risorse.  In altri tempi le sue cedole,  a

      qualunque data,  erano prese con fiducia,  ed  anzi  richieste  da

      tutti.  Morrel  tentò  di negoziare delle cedole colla scadenza di

      novanta giorni, e trovò tutti i banchi chiusi.

      Fortunatamente, aveva qualche incasso sul quale contare,  e questo

      fu fatto: così si trovò ancora in condizione di far fronte ai suoi

      obblighi  quando  giunse  la  fine  di luglio.  D'altra parte,  il

      mandatario della casa Thomson e French non era più stato  visto  a

      Marsiglia.

      L'indomani  della  sua  visita  a  Morrel  era sparito: siccome in

      Marsiglia  non  aveva  avuto   a   trattare   che   col   sindaco,

      coll'ispettore delle prigioni, e con Morrel, così il suo passaggio

      non  aveva  lasciata  altra  traccia  che i ricordi diversi che ne

      conservavano queste tre persone.  In quanto ai marinai del Faraone

      sembrava  che  avessero ritrovato da impiegarsi,  poiché essi pure

      erano spariti. Il capitano Gaumard rimessosi dalla malattia che lo

      aveva trattenuto a Palma ritornò egli pure: esitò a presentarsi al

      signor Morrel;  ma questi saputo il suo arrivo,  andò in persona a

      trovarlo.  Il  degno  armatore  sapeva già dal racconto di Penelon

      della coraggiosa condotta tenuta dal  capitano  durante  tutto  il

      naufragio,  e  si sforzò di consolarlo.  Gli portò l'ammontare del

      suo soldo,  che il capitano Gaumard non avrebbe  certamente  osato

      andare a riscuotere.

      Quando Morrel discese la scala incontrò Penelon che saliva: aveva,

      a  quanto  sembrava,  fatto  un  buon  uso del denaro,  poiché era

      vestito tutto di nuovo.  Riconoscendo il suo  armatore,  il  degno

      timoniere  parve  molto  impacciato;  si  ritirò  nell'angolo  più

      lontano del pianerottolo,  masticando il  tabacco  e  girando  due

      grossi occhi spaventati,  non rispose che con una timida pressione

      alla stretta di mano che gli offerse Morrel  colla  sua  ordinaria

      cordialità.

      Morrel  attribuì  l'impaccio  di Penelon all'eleganza del vestito:

      era evidente che non era entrato di tasca propria in tanto  lusso;

      e chiaramente doveva essere già impiegato a bordo di qualche altro

      bastimento,  e  la vergogna gli veniva dal non avere,  se è lecito

      esprimersi così,  portato per  un  tempo  maggiore  il  lutto  del

      Faraone.

      Forse  si  recava  dal capitano Gaumard per metterlo a parte della

      sua fortuna,  e per  fargli  delle  offerte  da  parte  del  nuovo

      padrone.

      "Brava gente!" disse Morrel allontanandosi. "Possa il vostro nuovo

      padrone amarvi come vi amavo io, ed essere più felici di me!..."

      Passò  il  mese  di  agosto in tentativi,  senza posa rinnovati da

      Morrel, per rialzare il suo credito, o per aprirsene uno nuovo.

      Il 20 agosto si seppe a Marsiglia che Morrel  aveva  prenotato  un

      posto nella Valigia postale;  allora tutti opinarono che alla fine

      del mese si sarebbe depositato  il  bilancio,  e  che  Morrel  era

      partito  prima  per non assistere a quest'atto crudele,  delegando

      senza dubbio  il  suo  primo  commesso  Emanuele,  e  il  cassiere

      Coclite.  Ma  contro ogni previsione allorché giunse il 31 agosto,

      la cassa si aprì secondo il solito.

      Coclite apparve dietro l'inferriata,  tranquillo come il giusto di

      Orazio,  esaminò colla stessa attenzione le cedole che gli vennero

      presentate,  e pagò le tratte dalla prima all'ultima colla  stessa

      esattezza.

      Vennero  anche  presentati  due  rimborsi  previsti  da Morrel,  e

      Coclite li pagò con la puntualità propria  dell'armatore.  Nessuno

      ne  capiva  niente,  ed  i  profeti  di  cattive notizie,  con una

      particolare ostinazione,  rinviavano il fallimento  alla  fine  di

      settembre.

      Giunse  il primo del mese.  Morrel era atteso da tutta la famiglia

      colla più grande ansietà,  mentre  contavano  sull'esito  del  suo

      viaggio a Parigi come sull'ultima via di salute.

      Morrel aveva pensato a Danglars, divenuto milionario, ed un giorno

      suo  sottoposto,  perché  era stata la raccomandazione di Morrel a

      far entrare Danglars al servizio del banchiere spagnolo, presso il

      quale aveva cominciata la  sua  immensa  fortuna.  Si  diceva  che

      Danglars  era  possessore di sei-otto milioni,  e che godeva di un

      credito illimitato.

      Danglars senza levarsi uno scudo di tasca poteva  salvare  Morrel:

      non aveva che garantire un prestito, e Morrel era salvo. Morrel da

      lungo tempo aveva pensato a Danglars;  ma vi sono alcune istintive

      repulsioni che non sappiamo superare.  Aveva aspettato fino a  che

      gli era stato possibile,  prima di ricorrere a quest'ultimo mezzo.

      E   ne   aveva   avuta   ragione,    poiché   ritornava   oppresso

      dall'umiliazione e dal rifiuto.

      Al  ritorno  non  manifestò  alcun  lamento,  non  proferì  alcuna

      recriminazione; aveva stesa la mano amichevolmente ad Emanuele, si

      era chiuso nel suo ufficio del secondo piano,  ed aveva chiesto di

      Coclite. Le due donne dissero ad Emanuele:

      "Siamo perdute."

      Quindi  in  un breve conciliabolo tenuto fra loro,  convennero che

      Giulia avrebbe scritto al fratello,  in guarnigione  a  Nimes,  di

      venire sul momento.  Le povere donne sentivano di avere bisogno di

      tutte le loro forze per sostenere  il  colpo  che  le  minacciava;

      d'altra parte Massimiliano Morrel, quantunque nell'età di ventidue

      anni, aveva già una grande influenza su suo padre.

      Era un giovane deciso e abile.

      Al  momento  di  decidersi  per  la carriera,  suo padre non aveva

      voluto  imporgli  una  scelta  ma  aveva  consultato  il   giovane

      Massimiliano.

      Questi  aveva  detto  di voler seguire la carriera militare: aveva

      per conseguenza fatti degli  eccellenti  studi,  era  entrato  per

      concorso nella scuola politecnica,  e n'era uscito sottotenente al

      53  di linea.

      Dopo un anno che occupava questo posto,  aveva già la promessa che

      alla prima occasione l'avrebbero nominato tenente. Nel reggimento,

      Massimiliano  Morrel era citato come il più rigido osservatore non

      solo di tutti gli obblighi imposti al soldato, ma anche di tutti i

      doveri propri all'uomo, e non veniva chiamato con altro nome,  che

      con quello di stoico.

      Inutile  dire che la maggior parte di coloro che lo chiamavano con

      tal soprannome,  lo ripetevano per  averlo  inteso  dire,  ma  non

      sapevano che cosa volesse significare.

      La  madre  e  la  sorella  lo  chiamavano  in  loro  soccorso  per

      sostenerle nella grave situazione che presagivano.  Non  si  erano

      ingannate  sulla gravità di questi presentimenti perché un momento

      dopo che Morrel era entrato nel suo ufficio  con  Coclite,  Giulia

      vide uscire quest'ultimo pallido, tremante e col viso sconvolto.

      Volle  interrogarlo  quando  le  passò  accanto,  ma  il brav'uomo

      continuò a scendere la scala con una precipitazione  che  non  gli

      era solita, e si contentò di gridare alzando le braccia al cielo:

      "Oh  signorina,   signorina!   Quale  orribile  disgrazia,  e  chi

      l'avrebbe mai creduto!"

      Poco dopo,  Giulia lo vide risalire  portando  due  o  tre  grossi

      registri, e un rotolo di monete.

      Morrel consultò i registri,  aprì il portafogli,  contò le monete.

      Tutte le sue risorse ascendevano a sei o otto mila franchi; i suoi

      crediti,  realizzabili fino al giorno 5,  a quattro o cinque mila;

      ciò  che  formava  in  contante,   a  dir  molto,   un  attivo  di

      quattordicimila  franchi,  per  far  fronte  ad  una  cambiale  di

      duecentottantasettemilacinquecento franchi. Non era neppure lecito

      offrire una simile somma in acconto.

      Però quando Morrel scese per pranzare,  sembrava assai tranquillo:

      il che spaventò le due donne assai più di un  sommo  abbattimento.

      Dopo pranzo Morrel aveva l'abitudine di uscire;  andava a prendere

      il caffè al circolo dei Phocéens, o a leggere il "Sémaphore": quel

      giorno non  uscì,  risalì  nel  suo  ufficio.  Quanto  a  Coclite,

      sembrava completamente ebete.

      Durante una parte del giorno si era trattenuto in cortile,  seduto

      sopra una pietra, con la testa nuda sotto un sole di trenta gradi.

      Emanuele  cercava  di  tranquillizzare  le  donne,  ma  non  aveva

      sufficiente  eloquenza.  Il  giovane  era troppo al corrente degli

      affari per non sapere che  una  grande  catastrofe  era  imminente

      sulla famiglia Morrel.

      Venne la notte;  le due donne vegliarono nella speranza che Morrel

      scendendo dall'ufficio sarebbe passato da  loro;  ma  lo  intesero

      passare  dalla loro porta,  camminando sulla punta dei piedi,  per

      timore forse di esser chiamato: tesero le orecchie,  e udirono che

      entrò in camera sua, e si chiuse dal di dentro.

      La  signora  Morrel mandò sua figlia a dormire;  quindi,  mezz'ora

      dopo che Giulia si era ritirata,  si alzò,  si  tolse  le  scarpe,

      entrò  nel corridoio per vedere dalla serratura ciò che faceva suo

      marito; s'accorse allora d'un'ombra che si ritirava.

      Era Giulia che, inquieta anch'essa, aveva preceduta sua madre.

      La ragazza le andò incontro dicendole:

      "Scrive."

      Le due donne avevano avuto  lo  stesso  pensiero  senza  esserselo

      comunicato. La signora Morrel guardò per il buco della serratura.

      Infatti Morrel scriveva: ma ciò che non aveva visto la figlia,  lo

      notò la madre;  Morrel scriveva sopra una carta bollata.  Le venne

      la terribile idea che facesse il suo testamento;  rabbrividì e non

      ebbe forza di dire una parola.

      Il giorno dopo Morrel sembrava perfettamente tranquillo,  si fermò

      allo  scrittoio  come d'ordinario e discese a far colazione.  Solo

      dopo pranzo fece sedere la figlia vicino,  cinse  la  testa  della

      ragazza col suo braccio, e la tenne lungamente contro il petto.

      La  sera  Giulia  disse  a  sua  madre che per quanto in apparenza

      sembrasse tranquillo,  aveva notato che  il  cuore  di  suo  padre

      batteva  violentemente.  Nello stesso modo passarono gli altri due

      giorni.

      Il 4 settembre verso sera,  Morrel chiese a sua figlia  la  chiave

      del suo ufficio. Giulia rabbrividì a questa domanda che gli sembrò

      di cattivo augurio.

      Perché  dunque suo padre voleva questa chiave che lei aveva sempre

      custodito,  e che non le era mai stata tolta,  meno  nell'infanzia

      nei giorni in cui la si voleva castigare?

      La ragazza guardò Morrel.

      "Che  ho fatto di male,  padre mio" disse,  "perché mi riprendiate

      questa chiave?"

      "Niente,  figlia mia" rispose lo sventurato Morrel  a  cui  questa

      semplice domanda fece sgorgare dagli occhi il pianto, "nulla; solo

      ne ho bisogno."

      Giulia finse di cercare la chiave.

      "L'avrò lasciata in camera mia" mentì.

      Uscì,  ma  invece  di  andare nella sua camera,  discese e corse a

      consigliarsi con Emanuele.

      "Non restituite  la  chiave  a  vostro  padre"  disse  questi,  "e

      domattina, se è possibile, non lo lasciate solo un momento."

      Lei  cercò  invano  di interrogare Emanuele,  ma questi non sapeva

      altro, o non volle dire di più.

      Durante tutta la notte dal 4 al  5  settembre  la  signora  Morrel

      restò coll'orecchio contro la bussola,  fino alle tre del mattino;

      intese suo marito camminare con agitazione nella camera; solo dopo

      le tre si gettò sul letto.

      Le due donne passarono insieme il resto  della  notte.  Fin  dalla

      sera antecedente aspettavano Massimiliano.

      Alle otto Morrel entrò nella loro camera: egli era tranquillo,  ma

      gli si leggeva sul viso pallido e smunto l'agitazione della notte.

      Le donne non osarono chiedergli se aveva riposato bene.  Morrel fu

      affabile con sua moglie, più tenero con sua figlia di quel che non

      fosse  mai  stato:  non  si stancava di guardare ed abbracciare la

      povera ragazza.

      Giulia  si  ricordò  la  raccomandazione  di  Emanuele,   e  volle

      accompagnare  il  padre  quando  uscì,  ma  questi la respinse con

      dolcezza, dicendole:

      "Resta con tua madre."

      Giulia volle insistere.

      "Lo voglio" disse Morrel.

      Era la prima volta che diceva a sua figlia: "Lo  voglio!".  Ma  lo

      disse  con  tale  accento di paterna dolcezza,  che Giulia non osò

      opporsi. Rimase al suo posto, ritta, muta ed immobile.

      Pochi momenti dopo la porta si aprì, ed ella sentì due braccia che

      la stringevano ed un bacio sulla fronte.  Alzò gli occhi,  e mandò

      un'esclamazione di gioia.

      "Massimiliano, fratello mio!" gridò.

      A  queste  grida  la  signora  Morrel  accorse,  e si gettò fra le

      braccia del figlio.

      "Madre mia" disse il giovane guardando alternativamente la madre e

      la sorella, "che accade? La vostra lettera mi ha spaventato!"

      "Giulia" disse la signora Morrel facendo un segno al figlio,  "va'

      a dire a tuo padre che è giunto Massimiliano."

      La ragazza si lanciò fuori dell'appartamento; ma sul primo gradino

      della scala incontrò un uomo che teneva una lettera in mano

      "Non  siete  voi la signorina Giulia Morrel?" disse quest'uomo con

      accento italiano.

      "Sì" rispose Giulia balbettando, "ma che volete? Non vi conosco."

      "Leggete questa lettera" disse l'uomo presentandole il biglietto.

      Giulia esitava.

      "Ne va della salute di vostro padre!" disse il messaggero.

      La ragazza gli tolse il biglietto dalle mani,  poi l'aprì e  lesse

      con ansietà:

 

      "Portatevi  in questo medesimo punto ai viali di Meillan,  entrate

      nella casa n.  15,  domandate al portinaio la chiave della  camera

      del quinto piano;  entrate; prendete dall'angolo del caminetto una

      borsa di cordonetto di seta  rossa  e  recatela  subito  a  vostro

      padre.  E'  indispensabile che l'abbia prima delle undici.  Voi mi

      avete promesso di obbedirmi ciecamente; invoco la vostra promessa.

      Sindbad il marinaio."

 

      La ragazza gettò un grido di gioia,  volle interrogare l'uomo  che

      le aveva rimesso il biglietto, ma era già sparito.

      Riportò  allora  gli  occhi sul biglietto per leggerlo una seconda

      volta, si accorse che c'era un Post-scriptum. e lo lesse.

 

      "E' importante che adempiate questa missione in persona,  e  sola;

      se  verrete  in  compagnia  o  altri  verranno in vece vostra,  il

      portinaio vi risponderà che non sa ciò che volete dire."

 

      Questo post-scriptum fece una forte impressione alla giovane.

      Doveva temere qualche cosa?  Poteva esser questo una trappola  che

      le si tendeva?  La sua innocenza non le permetteva di sapere quale

      erano i pericoli che poteva correre una ragazza della sua età.  Ma

      non  c'è  bisogno  di  conoscere  i pericoli per temerli;  anzi si

      temono precisamente di più i pericoli che non si conoscono.

      Giulia esitò; risolvette di domandar consiglio,  ma per uno strano

      sentimento  non  lo  chiese,   a  sua  madre né a suo fratello,

      ricorse ad Emanuele. Ridiscese,  raccontò l'accaduto nel giorno in

      cui  il mandatario della Casa Thomson e French venne da suo padre,

      la scena della scala, ripeté la promessa che aveva fatta, e mostrò

      la lettera.

      "Bisogna andare signorina" disse Emanuele.

      "Andare?" mormorò Giulia.

      "Sì, vi accompagnerò."

      "Ma non avete letto che debbo andare sola?"

      "Sarete ugualmente sola,  vi aspetterò all'angolo della strada del

      Museo  e  se tardate in modo da farmi nascere qualche inquietudine

      verrò a raggiungervi, e, ve l'assicuro,  disgraziati coloro di cui

      avrete a lamentarvi!"

      "In  tal modo,  Emanuele" riprese esitando la ragazza,  "il vostro

      consiglio è che io accetti questo invito?"

      "Sì...  Il messaggero non vi ha detto che si tratta della salvezza

      di vostro padre?"

      "Ma che pericolo corre mio padre?" domandò la ragazza.

      Emanuele  esitò  un  momento,   ma  il  desiderio  che  Giulia  si

      risolvesse sul momento e senza ritardo la vinse.

      "Ascoltate" disse, "non è oggi il 5 settembre?"

      "Sì."

      "Oggi alle undici vostro  padre  deve  pagare  circa  trecentomila

      franchi."

      "Sì, lo sappiamo."

      "Ebbene"  disse Emanuele,  "egli non ne ha neppure quindicimila in

      cassa."

      "E allora che avverrà?"

      "Avverrà che se prima delle undici  non  trova  qualcuno  che  gli

      venga  in  aiuto,  vostro  padre  sarà  obbligato  a  mezzodì,  di

      dichiararsi fallito."

      "Ah, venite" gridò la ragazza, trascinando Emanuele.

      In quel mentre la signora Morrel aveva detto tutto a  suo  figlio.

      Il  giovane  sapeva  bene  che  in  conseguenza  delle  successive

      disgrazie capitate a  suo  padre,  erano  state  introdotte  molto

      modifiche  nelle spese di casa;  ma non sapeva che le cose fossero

      giunte a tal punto. Rimase annichilito;  ma subito si lanciò fuori

      dall'appartamento,   salì   rapidamente  le  scale,   credendo  di

      ritrovare il padre in ufficio; ma bussò invano.

      Mentre era alla  porta,  sentì  che  quella  dell'appartamento  si

      apriva, si volse e vide suo padre. Invece di risalire direttamente

      al suo ufficio, Morrel era rientrato nella sua camera, e ne usciva

      allora  soltanto;  egli  mandò  un  grido  di  sorpresa  scorgendo

      Massimiliano, poiché ne ignorava l'arrivo.

      Rimase immobile al suo posto,  strinse  col  braccio  sinistro  un

      oggetto  che  teneva  nascosto  sotto l'abito.  Massimiliano scese

      sollecitamente la scala e si gettò  al  collo  di  suo  padre;  ma

      d'improvviso si ritrasse,  lasciando soltanto la destra appoggiata

      al petto di Morrel.

      "Padre mio" disse, diventando pallido come la morte, "perché avete

      un paio di pistole sotto l'abito?"

      "Oh, ecco ciò che io temevo" disse Morrel.

      "Padre mio... padre mio! In nome del cielo" gridò il giovane, "che

      volete fare di queste armi?"

      "Massimiliano" rispose Morrel tenendo lo sguardo fisso sul figlio,

      "tu sei un uomo, ed un uomo d'onore, vieni, te lo dirò."

      E Morrel salì  con  passo  sicuro  fino  al  suo  ufficio,  mentre

      Massimiliano lo seguiva barcollando: aprì la porta, e la rinchiuse

      dopo  che  fu  passato  il  figlio,  quindi traversò l'anticamera,

      s'avvicinò allo scrittoio,  depose le  pistole  sull'angolo  della

      tavola,  e  mostrò  a  suo figlio colla punta del dito un registro

      aperto,  su esso era fedelmente trascritto lo stato  esatto  della

      situazione:      Morrel     doveva     pagare     fra     mezz'ora

      duecentottantasettemilacinquecento  franchi   ed   in   tutto   ne

      possedeva quindicimiladuecentocinquantasette.

      "Leggi!" disse Morrel.

      Il giovane lesse e rimase un momento annientato.

      Morrel non diceva una parola: che avrebbe potuto dire o aggiungere

      all'inesorabile decreto delle cifre?

      "E  voi  padre  mio,  avete fatto tutto il possibile per prevenire

      questa disgrazia?" disse dopo breve silenzio il giovane.

      "Sì" rispose Morrel.

      "Non contate su alcun rimborso?"

      "No."

      "Avete esaurite tutte le risorse?"

      "Tutte."

      "E fra mezz'ora..." aggiunse con voce cupa,  "il nostro nome  sarà

      disonorato?"

      "Il sangue lava il disonore" disse Morrel.

      "Avete ragione, padre mio, ora vi comprendo."

      Quindi stese la mano verso le pistole.

      "Ve n'è una per voi e un'altra per me" disse. "Grazie!"

      Morrel gli fermò la mano.

      "E tua madre... e tua sorella... chi le nutrirà?"

      Un fremito corse per tutte le membra del giovane.

      "Padre" disse, "pensate che con ciò che mi dite io possa vivere?"

      "Si,  te lo dico" riprese Morrel,  "perché questo è il tuo dovere;

      tu hai lo spirito tranquillo e forte,  Massimiliano...  tu non  se

      uno dei soliti uomini.  Nulla ti comando, nulla ti ordino; ti dico

      soltanto: Esamina la situazione come se tu vi  fossi  estraneo,  e

      giudicala da te stesso."

      Il  giovane  rifletté  un momento,  quindi l'espressione della più

      sublime rassegnazione passò nei suoi occhi;  solo si tolse con  un

      movimento triste e lento la spallina e la mozzetta, distintivi del

      suo grado.

      "Sta bene" disse tenendo la mano a Morrel,  "morite in pace, padre

      mio, io vivrò."

      Morrel fece un movimento per gettarsi alle ginocchia del figlio.

      Massimiliano lo accolse fra le braccia,  e per un  momento  questi

      due nobili cuori batterono l'un contro l'altro.

      "Tu sai che non è per mia colpa?" disse Morrel.

      Massimiliano sorrise.

      "So,  padre  mio,  che  siete  l'uomo  più  onesto  che  abbia mai

      conosciuto."

      "Sta bene,  è detto tutto: ora ritorna  da  tua  madre  e  da  tua

      sorella."

      "Padre mio" disse il giovane piegando un ginocchio, "beneditemi!"

      Morrel prese la testa di suo figlio fra le mani,  l'avvicinò a sé,

      e v'impresse molti baci dicendo:

      "Oh, sì, sì, ti benedico nel mio nome, nel nome di tre generazioni

      di uomini irreprensibili.  Ascolta dunque ciò che essi  ti  dicono

      colla  mia  voce:  l'edificio  che  la sventura ha distrutto,  può

      essere riedificato dalla divina Provvidenza.  Sapendomi  morto  in

      questo  modo,  i  più inesorabili avranno pietà di me;  a te forse

      sarà accordata una dilazione che a me sarebbe stata negata. Allora

      fa' che la parola infame non sia pronunziata;  mettiti  all'opera,

      lavora, ragazzo! lotta ardentemente e con coraggio! Vivete tu, tua

      madre,  e  tua  sorella  del puro necessario,  affinché giorno per

      giorno i beni di coloro che amo aumentino e fruttifichino  fra  le

      tue mani.  Pensa che sarà un bel giorno, un gran giorno, un giorno

      solenne quello della riabilitazione,  il giorno in cui,  da questo

      stesso  scrittoio  tu  potrai  dire: "Mio padre è morto perché non

      poteva fare ciò che ho fatto io,  ma è  morto  tranquillo,  perché

      morendo sapeva che io lo avrei fatto."

      "Oh,  padre mio,  padre mio" esclamò il giovane,  "se pure poteste

      vivere!..."

      "Se io vivo tutto è perduto;  se io vivo,  la premura si cambia in

      dubbio,  la pietà in accanimento;  se io vivo, non sono più che un

      uomo che ha mancato  alla  sua  parola,  che  ha  fallito  i  suoi

      impegni,  non  ho  più  infine  che  la bancarotta.  Se muoio,  al

      contrario, pensaci bene,  Massimiliano il mio cadavere è quello di

      un   onest'uomo   disgraziato.   Vivo,   i   miei  migliori  amici

      eviterebbero la mia  casa;  morto,  Marsiglia  intera  mi  seguirà

      piangendo  fino all'ultima mia dimora.  Vivo,  tu avresti onta del

      mio nome morto, puoi alzare la testa e dire ad alta voce: "Sono il

      figlio di colui che si è ucciso,  perché costretto  per  la  prima

      volta a mancare alla sua parola."

      Il  giovane mandò un gemito,  ma parve rassegnato.  Era la seconda

      volta che la necessità era accettata dal suo cuore,  ma non  dallo

      spirito.

      "Ora"  disse  Morrel,  "lasciami  solo  e  cerca di allontanare le

      donne."

      "Non volete rivedere mia sorella?" domandò Massimiliano.

      Un'ultima e sorda  speranza  il  giovane  la  riponeva  in  questo

      incontro, ecco perché lo proponeva.

      Morrel scosse la testa.

      "L'ho veduta questa mattina" disse, "e le ho detto addio."

      "Non  avete  alcuna  raccomandazione  particolare da farmi,  padre

      mio?" domandò Massimiliano con voce alterata.

      "Sì, figlio mio, una raccomandazione sacra."

      "Dite, padre mio."

      "La casa Thomson e French è la sola che per umanità,  o forse  per

      egoismo  (ma  non  sta a me leggere nel cuore degli uomini),  è la

      sola che abbia avuto pietà di me.  Il suo mandatario,  quello  che

      fra  dieci  minuti  si  presenterà  per  riscuotere  una tratta di

      duecentottantasettemilacinquecento  franchi,  non  dirò  mi  abbia

      accordata, ma mi ha offerta una dilazione di tre mesi; questa Casa

      sia  rimborsata  per  prima,  figlio  mio,  che  quest'uomo ti sia

      sacro."

      "Sì, padre mio" disse Massimiliano.

      "Ed ora,  ancora una volta,  addio" disse Morrel,  "va',  va';  ho

      bisogno  di restar solo.  Troverai il mio testamento nello scrigno

      della camera da letto."

      Il giovane rimase in piedi ed inerte,  senza avere  che  la  forza

      della volontà, ma non quella dell'azione.

      "Ascolta,  Massimiliano"  disse suo padre,  "supponi che io sia un

      soldato come te,  che abbia ricevuto l'ordine di dar la scalata ad

      un bastione, e che tu sapessi che vado incontro ad una certa morte

      nell'assalirlo, non mi diresti tu come mi dicevi poco fa: "Andate,

      padre mio, perché vi disonorereste restando, e val meglio la morte

      che l'onta?"

      "Sì,  sì" disse il giovane,  "sì" e stringendo convulsivamente tra

      le braccia il padre,  "coraggio padre mio!"  disse.  E  si  lanciò

      verso l'ufficio.

      Quando  il  figlio  fu  uscito,  Morrel rimase un momento in piedi

      cogli occhi fissi alla porta,  quindi tese la mano,  tirò la corda

      del campanello e suonò.

      Di lì a poco comparve Coclite. Non era più l'uomo di prima, questi

      giorni di consapevolezza lo avevano atterrato.  Il pensiero che la

      Casa Morrel sospendeva i pagamenti lo curvava  al  suolo  più  che

      altri vent'anni accumulati sul suo capo.

      "Mio  buon  Coclite"  disse  Morrel  con un accento di cui sarebbe

      difficile dire l'espressione, "tu resterai nell'anticamera. Quando

      verrà quel signore che venne già tre mesi fa... lo conosci?...  il

      mandatario della casa Thomson e French, verrai ad annunziarmelo."

      Coclite non rispose; fece un segno affermativo colla testa, andò a

      sedersi nell'anticamera ed aspettò.

      Morrel ricadde sulla sedia, gli occhi si volsero verso l'orologio:

      gli rimanevano ancora sette minuti in tutto. La lancetta camminava

      con una rapidità incredibile; gli sembrava vederla andare.

      Ciò  che  in  quel  momento passò nello spirito di quest'uomo che,

      giovane  ancora,   in  conseguenza  di  un   ragionamento   falso,

      quantunque tale non sembrasse, stava per lasciare tutto ciò che di

      più caro aveva al mondo, e per abbandonare una vita piena di tutte

      le  dolcezze  della  famiglia,  è  impossibile  poterlo  spiegare;

      sarebbe stato necessario essere presenti per averne un idea.

      La fronte era ricoperta di sudore,  e ciò  nonostante  rassegnata,

      gli occhi bagnati di lacrime, ma pur rivolti al cielo.

      La lancetta camminava sempre: le pistole erano cariche; allungò la

      mano,  ne prese una e mormorò il nome di sua figlia: depose l'arma

      mortale,  prese la penna e scrisse alcune parole.  Gli sembrava di

      non   avere   ancora   detto  abbastanza  addio  a  questa  figlia

      prediletta.  Ritornò a guardar l'orologio: egli non contava più  i

      minuti,  ma i secondi. Riprese l'arma colla bocca semiaperta e gli

      occhi fissi all'orologio: poi rabbrividì al rumore che faceva  nel

      caricare l'acciarino.

      In  quel  momento  un  sudore  più  freddo gli passò sulla fronte,

      un'ansia più mortale gli strinse il cuore;  intese la porta  delle

      scale  cigolare  sui  cardini,  aprirsi  quella  del  suo ufficio:

      l'orologio stava per battere le undici.

      Morrel non si volse,  aspettava che Coclite pronunciasse le fatali

      parole:  "Il mandatario della casa Thomson e French...".  Avvicinò

      l'arma alla bocca...  D'improvviso,  invece della voce di  Coclite

      intese  un  grido...  Era  la  voce  di  sua figlia...  Si volse e

      riconobbe Giulia... La pistola gli sfuggì di mano.

      "Padre mio!" gridò la ragazza ansante,  e quasi morente di  gioia.

      "Salvo! siete salvo!"

      E gli si gettò tra le braccia, alzando in alto colla mano la borsa

      di cordonetto di seta rossa.

      "Salvo? Figlia mia, che vuoi dire?"

      "Sì, salvo!... Guardate, guardate..." disse la ragazza.

      Morrel prese la borsa e rabbrividì, perché una lontana rimembranza

      gli   ricordava   che   quell'oggetto   gli  era  in  altro  tempo

      appartenuto.    Da   una   parte    c'era    la    cambiale    dei

      duecentottantasette   mila  cinquecento  franchi  già  quitanzata;

      dall'altra vi era un diamante della grossezza di una nocciola  con

      queste  tre  parole  scritte sopra un pezzo di pergamena: "Dote di

      Giulia".

      Morrel si passò la mano sulla fronte: credeva di sognare.

      Nel medesimo istante l'orologio batté le undici. Il martello batté

      per lui come se ciascun colpo venisse ripercosso sul suo cuore.

      "Raccontami, figlia mia" disse, "spiegati.  Dove ritrovasti questa

      borsa?"

      "Nella  casa  numero  15  dei  viali  di  Meillan  sull'angolo del

      caminetto di una meschina cameretta del quinto piano."

      "Ma..." gridò Morrel, "questa borsa non è tua."

      Giulia presentò allora a suo padre la lettera che  aveva  ricevuta

      la mattina.

      "E  sei  andata  sola  in  quella  casa?" disse Morrel dopo averla

      letta.

      "Emanuele mi ha accompagnata.  Doveva aspettarmi all'angolo  della

      strada del Museo, ma, cosa strana, al mio ritorno non c'era più."

      "Signor Morrel!" gridò una voce dalle scale. "Signor Morrel!"

      "Questa è la sua voce..." disse Giulia.

      Nel medesimo tempo entrò Emanuele col viso sconvolto dalla gioia e

      dall'emozione.

      "Il Faraone!" gridò, "il Faraone!"

      "Ebbene che Faraone? Siete pazzo, Emanuele? Sapete bene che colò a

      fondo."

      "Il Faraone!  signore,  il faro ha dato il segnale del Faraone! Il

      Faraone entra in questo momento nel porto."

      Morrel ricadde  sulla  sedia;  le  forze  gli  mancarono.  La  sua

      intelligenza   non   era   capace  ad  ordinare  questa  serie  di

      avvenimenti incredibili,  inauditi e favolosi.  Suo figlio entrò a

      sua volta.

      "Padre  mio"  gridò  Massimiliano,  "che  dicevate  dunque  che il

      Faraone era perduto? Il faro lo ha segnalato, ed entra in porto in

      questo momento."

      "Amici miei" disse Morrel, "se ciò fosse,  bisognerebbe credere ad

      un miracolo! Ma è impossibile! impossibile!"

      Tutto  ciò,  quantunque sembrasse incredibile,  era vero: la borsa

      che teneva in  mano,  la  cambiale  quitanzata,  ed  il  magnifico

      diamante.

      "Ah,  signore"  disse Coclite a sua volta,  "e che vuol dir questo

      'il Faraone!'?"

      "Andiamo,  figli miei" disse Morrel alzandosi,  "andiamo a vedere,

      che  il  cielo  abbia  pietà di noi!,  se questa non sia una falsa

      nuova."

      Scesero tutti: a metà delle scale li aspettava la signora  Morrel;

      la  poveretta  non  aveva avuto coraggio di salire.  In un momento

      furono alla Canebière. Una gran folla era sul porto.  Tutta quella

      folla  si  divise  per  lasciar  libero il passaggio alla famiglia

      Morrel.

      "Il Faraone! il Faraone!" si diceva da ogni lato, da ogni bocca.

      Infatti, cosa meravigliosa, inaudita, dirimpetto alla torre di San

      Giovanni un bastimento portava sulla poppa queste parole scritte a

      grandi lettere bianche:

 

      FARAONE: MORREL E FIGLI DI MARSIGLIA.

 

      Questo bastimento era assolutamente della stessa portata  e  della

      stessa forma dell'altro Faraone, ed era carico ugualmente d'indaco

      e di cocciniglia.  Gettò l'àncora,  ammainò le vele.  Sul ponte il

      capitano Gaumard dava gli  ordini,  e  Penelon  faceva  segnali  a

      Morrel.

      Non c'era più dubbio,  era la testimonianza dei sensi, e quella di

      diecimila  e  più  persone.   Mentre  Morrel  e  suo   figlio   si

      abbracciavano  fra  gli  applausi di tutta la città,  testimone di

      questo prodigio, un uomo,  il cui viso era per metà coperto da una

      barba  nera,   nascosto  dietro  il  casotto  di  una  sentinella,

      contemplava questa scena, mormorando queste parole:

      "Nobile cuore, sii felice,  sii benedetto per tutto ciò che ancora

      farai,  e  la  mia  riconoscenza  resti  nell'oscurità come il tuo

      beneficio!"

      E con un sorriso di gioia e di felicità,  abbandonò il luogo  dove

      si era nascosto,  e senza essere osservato da alcuno,  tanto erano

      tutti occupati dall'avvenimento della  giornata,  discese  una  di

      quelle piccole gradinate che servono di scalo, e chiamò:

      "Jacopo! Jacopo! Jacopo!"

      Allora un battello venne,  lo ricevette a bordo, e lo trasportò ad

      uno yacht riccamente addobbato,  sul ponte del quale  balzò  colla

      leggerezza  d'un  marinaio;  di là guardò ancora una volta Morrel,

      che piangendo di gioia distribuiva amichevoli strette  di  mano  a

      tutta  quella  folla,   ringraziando  con  uno  sguardo  singolare

      l'invisibile benefattore che gli sembrava dover cercare in cielo.

      "Ora" disse l'uomo sconosciuto, "addio bontà, addio umanità, addio

      riconoscenza... addio a tutti quei sentimenti che inteneriscono il

      cuore!"

      A queste parole fece un segnale,  e come se non avesse atteso  che

      ciò per partire, lo yacht prese immediatamente il mare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                 Capitolo 31.

                       L'ITALIA E SINDBAD IL MARINAIO.

 

 

      Verso il principio del 1838 si trovavano a Firenze due giovani che

      appartenevano  alla  società  più  elegante  di Parigi: uno era il

      visconte Alberto de Morcerf, l'altro il barone Franz d'Epinay.

      Avevano stabilito fra loro che  sarebbero  andati  a  passar  quel

      carnevale  a  Roma,  ove  Franz,  che  abitava  l'Italia da più di

      quattro anni, avrebbe fatto da cicerone ad Alberto.

      Ora,  siccome non è piccola cosa l'andare  di  carnevale  a  Roma,

      particolarmente quando non si vuole andare a dormire in piazza del

      Popolo,  o al Foro Romano,  essi scrissero a Pastrini proprietario

      dell'albergo Londra in piazza di Spagna  per  pregarlo  di  serbar

      loro un comodo appartamento.

      Pastrini  rispose che non aveva più che due camere ed un locale al

      secondo piano,  che lo offriva loro mediante la modica spesa di un

      luigi al giorno.

      I  due  giovani  accettarono.  Quindi  Alberto,  volendo mettere a

      profitto il tempo che gli rimaneva, partì per Napoli.

      Franz rimase a Firenze. Dopo aver goduto qualche tempo dei piaceri

      che procura la città dei Medici,  dopo aver lungamente passeggiato

      in  quell'Eden  che  vien  chiamato le Cascine,  dopo essere stato

      ricevuto da quegli  ospiti  magnifici  che  si  chiamano  Corsini,

      Montfort,  Poniatowski,  gli  prese fantasia,  essendo già stato a

      visitare la Corsica,  culla  di  Bonaparte,  di  andare  a  vedere

      l'isola d'Elba, questo luogo della forzata sosta di Napoleone.

      Una  sera  dunque  staccò  una  barchetta dall'anello di ferro che

      l'attraccava al porto di Livorno,  vi si sdraiò in fondo,  avvolto

      nel suo mantello, e disse ai marinai queste sole parole:

      "All'isola d'Elba!"

      La  barca  lasciò  il  porto  come  un  uccello lascia il nido,  e

      l'indomani Franz era a Portoferraio.  Traversò  l'isola  imperiale

      seguendo  tutte  quelle  tracce  che vi hanno lasciato i passi del

      gigante, e andò ad imbarcarsi a Marciana.

      Due ore dopo aver lasciata la terra,  la riguadagnò di  nuovo  per

      sbarcare  alla Pianosa,  ove veniva assicurato che avrebbe trovato

      una quantità di pernici rosse.

      La caccia fu cattiva;  Franz ammazzò a stento poche pernici magre,

      e  come  fanno tutti i cacciatori che si sono stancati senza alcun

      pro, risalì nella barca di assai cattivo umore.

      "Se Vostra Eccellenza volesse" gli disse il padrone  della  barca,

      "potrebbe fare una bella caccia."

      "E dove?"

      "Vedete quell'isola?" continuò il marinaio stendendo il dito verso

      mezzogiorno,  indicando una massa conica che usciva dal mare tinta

      di un bellissimo color indaco.

      "Ebbene, che cos'è quell'isola?" domandò Franz.

      "E' l'isola di Montecristo" rispose il livornese.

      "Ma io non ho licenza d'andare a caccia in quell'isola."

      "Vostra Eccellenza non ne ha bisogno; l'isola è deserta."

      "Oh, per Bacco,  un'isola deserta in mezzo al Mediterraneo,  è una

      cosa curiosa."

      "E naturale, Eccellenza. Quest'isola è un ammasso di scogli, ed in

      tutta  la  sua  estensione  non  vi  è  forse  un palmo di terreno

      coltivabile."

      "E a chi appartiene?"

      "Alla Toscana."

      "E qual selvaggina vi si trova?"

      "Migliaia di capre selvagge."

      "Che vivono leccando delle pietre?" disse  Franz  con  un  sorriso

      d'incredulità.

      "No,  ma  sfrondando  le  macchie,  i mirti,  e gli alti pruni che

      nascono tra i massi."

      "Ma dove dormirò?"

      "O a terra,  o  nelle  grotte,  o  a  bordo,  avvolto  nel  vostro

      mantello. D'altra parte, se Vostra Eccellenza lo desidera, potremo

      partir  subito  dopo  la  caccia:  sa  che noi navighiamo tanto di

      giorno quanto di  notte,  e  che  quando  non  lavorano  le  vele,

      lavoriamo coi remi."

      Rimanendogli ancora del tempo prima di raggiungere il compagno,  e

      non avendo più inquietudini per l'alloggio in Roma,  Franz accettò

      la proposta di rifarsi della sua prima caccia.

      Alla risposta affermativa,  i marinai si scambiarono alcune parole

      a voce bassa.

      "Ebbene,  che abbiamo di nuovo?"  domandò.  "Sarebbe  sopraggiunta

      qualche difficoltà?"

      "No"  rispose  il padrone,  "ma dobbiamo avvertirvi che l'isola di

      Montecristo è in contumacia."

      "E che significa questo?"

      "Vuol dire,  siccome Montecristo è  disabitata,  e  qualche  volta

      serve  di  fermata  a  contrabbandieri  e pirati che vengono dalla

      Corsica  e  dall'Africa,  se  qualche  segno  denuncia  il  nostro

      soggiorno  nell'isola,  saremo  costretti  al  nostro  ritorno  in

      Livorno, a fare una quarantena di sei giorni."

      "Diavolo! Questo cambia tutto: sei giorni! Sarebbe troppo."

      "Ma chi dirà che Vostra Eccellenza è stata a Montecristo?"

      "Oh, questo non importa."

      "Oh, ma non sarò io certamente..." grido Gaetano.

      "E neppure noi!" dissero i marinai.

      "In questo caso, andiamo a Montecristo."

      Il padrone comandò la manovra,  volse la  prua  sull'isola,  e  la

      barca si avviò da quella parte.

      Franz  lasciò  compiere l'operazione,  e quando ormai si era nella

      nuova rotta,  quando la vela fu gonfia dalla brezza,  e i  quattro

      marinai ebbero preso il loro posto,  tre davanti ed uno al timone,

      riannodò la conversazione.

      "Mio caro Gaetano" disse al padrone, "voi mi diceste,  credo,  che

      l'isola  di  Montecristo  serve  da  rifugio  a  contrabbandieri e

      pirati,   e  ciò  mi  pare  ben  altra  selvaggina  che  le  capre

      selvatiche."

      "Sì, Eccellenza, questa è la verità."

      "Sapevo esservi dei contrabbandieri,  ma credevo che dopo la presa

      di  Algeri,  e  la  distruzione  della  reggenza,   i  pirati  non

      esistessero più che nei romanzi di Cooper e del capitano Marryat."

      "Ebbene,  Vostra Eccellenza sbaglia.  Accade dei pirati come degli

      assassini,   che  quantunque  siano   creduti   sterminati,   pure

      aggrediscono tutti i giorni i viaggiatori fin sotto le porte delle

      città.  E' successo presso Velletri,  saranno appena sei mesi.  Se

      Vostra  Eccellenza  abitasse  a  Livorno,   come   facciamo   noi,

      sentirebbe  dire,  di  tempo  in tempo,  che un piccolo bastimento

      carico di mercanzie,  o un bel yacht inglese che era  aspettato  a

      Bastia,  a Portoferraio o a Civitavecchia,  non è più arrivato,  e

      non si sa che  ne  sia  avvenuto;  e  che  senza  dubbio  si  sarà

      sfracellato   contro  qualche  scoglio.   Ma  lo  scoglio  che  ha

      incontrato è una barca bassa e stretta,  montata  da  sei  o  otto

      uomini  che lo hanno sorpreso e saccheggiato in una notte oscura e

      tempestosa,  nei dintorni  di  un  qualche  isolotto  selvaggio  e

      disabitato,  non  diversamente  dagli  assassini  che  arrestano e

      spogliano una carrozza di posta all'angolo di un bosco."

      "Ma infine" riprese Franz sempre steso nella barca, "perché quelli

      ai quali accadono simili disgrazie non  fanno  le  loro  denunzie?

      perché  non  richiamano  su questi pirati la vigilanza del governo

      francese, sardo o toscano?"

      "Perché?" disse ridendo Gaetano.

      "Sì perché?"

      "Perché prima si trasporta dal  bastimento  o  dallo  yacht  sulla

      barca tutto ciò che vi è di meglio da prendersi;  quindi si legano

      mani e piedi a tutto  l'equipaggio,  e  si  attacca  al  collo  di

      ciascuno  una palla da ventiquattro,  poi si fa un bel foro,  come

      quello di un barile,  nella chiglia del bastimento  catturato,  si

      risale sul ponte, si chiude il boccaporto, e si passa sulla barca.

      In  capo  a  dieci  minuti il bastimento comincia a lamentarsi,  e

      gemere.  Un poco alla volta affonda.  Dapprima cala una delle  sue

      parti  poi la rialza,  quindi s'immerge di nuovo affondando sempre

      più.  D'improvviso scoppia  un  rumore  simile  a  quello  di  una

      cannonata:  è l'acqua che infrange il ponte.  Allora il bastimento

      si dibatte come  chi  sta  per  annegarsi,  divenendo  sempre  più

      pesante.  Ben  presto  l'acqua,  troppo  compressa  nelle  cavità,

      prorompe da tutte le aperture,  simile alle  colonne  liquide  che

      soffiano  dalle narici le gigantesche balene.  Finalmente manda un

      ultimo strepito,  fa un giro su se  stesso,  ed  affonda  scavando

      nell'abisso  una  vasta  tromba  che per un momento si aggira,  si

      ricolma a poco a poco, e finisce per cancellarsi del tutto,  tanto

      bene  che  in capo a cinque minuti non c'è che l'occhio di Dio che

      possa andare  a  discernere  nel  fondo  del  mare  il  bastimento

      sparito.  Comprenderete ora in qual modo il bastimento non ritorna

      in porto, e perché l'equipaggio non fa le sue querele?"

      Se  Gaetano  avesse  raccontata  la  cosa  prima  di  proporre  la

      spedizione,  è  probabile  che  Franz vi avrebbe pensato due volte

      prima  d'intraprenderla,   ma  la  barca  vogava  nella  direzione

      dell'isola,  e  gli  sembrò  che sarebbe stata una viltà ritornare

      indietro.

      Franz era uno di quegli uomini che non  corrono  mai  incontro  al

      pericolo,  ma che, se il pericolo viene innanzi a loro, conservano

      una prontezza d'animo inalterabile per  combatterlo;  era  uno  di

      quegli  uomini  di volontà fredda,  che guardano un pericolo nella

      vita  come  un  avversario  in  un  duello,  che  ne  calcolano  i

      movimenti, che ne studiano la forza, che indietreggiano spesso per

      prender fiato, e per non comparir vili, infine che, conoscendo con

      un  solo  sguardo  tutti  i  loro vantaggi,  ammazzano con un solo

      colpo.

      "Bah" disse, "ho traversato la Sicilia e la Calabria,  ho navigato

      due  mesi  nell'arcipelago,  e  non  ho  veduto  mai l'ombra di un

      bandito o di un pirata."

      "Non  ho  raccontato  tutto  questo  a  Vostra  Eccellenza"  disse

      Gaetano,  "per  farla  rinunciare  al progetto;  mi ha fatto delle

      domande, ed io ho risposto."

      "Sì,  mio caro Gaetano,  la vostra conversazione  è  attraente;  e

      siccome voglio goderne il più lungamente possibile, così andiamo a

      Montecristo."

      Frattanto  si accostavano rapidamente al termine del loro viaggio,

      il vento era favorevole,  e la barca faceva sei miglia l'ora.  Man

      mano che si avvicinavano,  l'isola sembrava sorgere gigantesca dal

      seno del mare e, attraverso l'atmosfera limpida degli ultimi raggi

      del giorno,  si distinguevano come le palle ammonticchiate  in  un

      arsenale,  gli scogli messi a piramide l'un sopra l'altro, e negli

      interstizi  di  quelli  si  vedevano  rosseggiare  le  macchie   e

      verdeggiare   gli  alberi.   In  quanto  ai  marinai,   quantunque

      sembrassero  perfettamente  tranquilli,   era  però  evidente  che

      stavano  all'erta,  e  che  i  loro  sguardi  scrutavano  il vasto

      specchio su cui navigavano,  e l'orizzonte,  soltanto popolato  da

      qualche barca peschereccia, le cui vele bianche si libravano, come

      allodole, sulla cima dei flutti.

      Erano  distanti  soltanto una quindicina di miglia da Montecristo,

      quando  il  sole  declinò  dietro  la  Corsica,  le  cui  montagne

      comparivano  a  destra,  delineando  nel  cielo il loro irregolare

      profilo, e mostrando ancora illuminata l'estremità di quella massa

      di pietre,  che pari al gigante Adamastor,  s'innalzavano  davanti

      alla barca.

      Poco per volta l'ombra salì dal mare, e sembrò scacciare dinanzi a

       gli  ultimi  riflessi del giorno che stava per finire;  poi il

      raggio luminoso fu spinto fino alla cima del cono, ove si fermò un

      momento,  come il pennacchio infiammato di un vulcano;  finalmente

      l'ombra  sempre  crescente invase progressivamente la sommità come

      aveva invaso la base,  e l'isola non apparve più che una  montagna

      grigia  che andava sempre più oscurandosi: mezz'ora dopo era notte

      perfetta.

      Fortunatamente i  marinai  erano  nei  loro  abituali  paraggi,  e

      conoscevano  fin  l'ultimo  degli  scogli dell'arcipelago toscano;

      poiché in mezzo all'oscurità profonda nella quale era  involta  la

      barca, Franz non sarebbe stato del tutto senza inquietudine.

      La  Corsica era interamente sparita,  e l'isola di Montecristo era

      divenuta invisibile; ma i marinai sembravano avere, come le linci,

      la facoltà di vedere fra le tenebre,  e il pilota che regolava  il

      timone non mostrava il più piccolo dubbio.

      Era  passata circa un'ora dopo il tramonto del sole,  quando Franz

      credette scorgere ad un quarto di  miglio  a  sinistra  una  massa

      nera,  ma  era  tanto  impossibile distinguere ciò che fosse,  che

      temendo di muovere a riso i marinai,  scambiando una nube  per  la

      terra ferma, stette zitto.

      D'improvviso  apparve una gran luce,  la terra poteva assomigliare

      ad una nube, ma quel fuoco non poteva credersi una meteora.

      "Che cosa è quella luce?" domandò Franz.

      "Zitto!" disse Gaetano. "E' un fuoco."

      "Ma non diceste che l'isola è disabitata?"

      "Dissi che non aveva una popolazione  fissa,  ma  dissi  pure  che

      questo luogo è rifugio dei contrabbandieri."

      "E dei pirati?"

      "E dei pirati" continuò Gaetano, ripetendo le parole di Franz, "ed

      è perciò che ho dato ordine di passare oltre, poiché, come vedete,

      ora il fuoco è dietro a noi."

      "Ma  questo fuoco" continuò Franz,  "mi sembra piuttosto un motivo

      di sicurezza che  d'inquietudine:  gente  che  temesse  di  essere

      veduta non accenderebbe il fuoco."

      "Oh,  questo  non  vuol  dir  niente" rispose.  "Se voi in mezzo a

      questa oscurità  poteste  giudicare  della  posizione  dell'isola,

      vedreste che questo fuoco in quel punto, non può essere scorto, né

      dalla Corsica, né dalla Pianosa, ma soltanto in alto mare."

      "Credete che annunci cattiva compagnia?"

      "Questo è da stabilire!" rispose Gaetano, tenendo sempre gli occhi

      fissi sull'isola.

      "E come volete assicurarvene?"

      "State a vedere."

      A queste parole,  Gaetano tenne un breve consiglio coi compagni, e

      dopo cinque minuti venne eseguita nel più gran silenzio una virata

      di bordo allora si riprese il cammino già fatto, e qualche secondo

      dopo questo cambiamento di direzione il  fuoco  disparve  nascosto

      dietro  un  picco  roccioso.  Allora  il  pilota  dette al piccolo

      bastimento,  con una girata di timone,  una nuova direzione,  e si

      avvicinarono   visibilmente  all'isola  distante  circa  cinquanta

      passi.

      Gaetano tolse la vela, e la barca rimase quieta sull'onda.

      Tutto ciò fu fatto nel più gran silenzio;  dopo il cambiamento  di

      rotta non era stata pronunciata una parola a bordo.  Gaetano,  che

      aveva proposta la spedizione,  ne aveva presa sopra di sé tutta la

      responsabilità.

      Gli altri tre marinai mentre preparavano i remi,  e stavano pronti

      a fuggire remando,  non toglievano lo sguardo da lui per  eseguire

      qualsiasi manovra che lor venisse ordinata da un gesto,  e che per

      l'oscurità si sarebbe potuta eseguire molto facilmente.

      Franz visitava le armi colla prontezza d'animo che abbiamo in  lui

      riconosciuta.  Aveva  due  fucili a due canne ed una carabina,  li

      caricò, si assicurò degli acciarini, e aspettò.

      Durante questo tempo Gaetano s'era tolto il cappotto e la camicia,

      aveva assicurati i calzoni intorno ai fianchi e  siccome  aveva  i

      piedi nudi, si risparmiò la pena di levarsi le calze e le scarpe.

      Così  abbigliato,  si mise l'indice della mano davanti alle labbra

      per ordinare il più profondo silenzio,  e si lasciò  immergere  in

      mare.   Nuotò   verso   l'isola  con  tale  cautela  che  riusciva

      impossibile discernere il più piccolo rumore.  Si poteva  soltanto

      seguire  collo  sguardo  la  traccia  del  suo  nuotare dalla scia

      fosforescente lasciata dai suoi movimenti.

      Questa scia ben presto disparve: era segno  evidente  che  Gaetano

      aveva preso terra.  Sul piccolo bastimento rimasero tutti immobili

      per una mezz'ora,  trascorsa la quale,  si vide ricomparire  dalla

      riva alla barca la scia luminosa.

      In pochi momenti Gaetano aveva raggiunta la barca.

      "Ebbene?" fecero ad un tempo Franz ed i tre marinai.

      "Ebbene" disse,  "sono contrabbandieri spagnoli;  e hanno con loro

      due banditi corsi."

      "E che fanno questi contrabbandieri spagnoli?"

      "Eh,  mio Dio,  Eccellenza" rispose Gaetano con un accento di vivo

      amore del prossimo,  "bisogna bene aiutarsi gli uni con gli altri.

      Spesse volte i banditi vengono un  poco  troppo  inquietati  sulla

      terra;  allora  ritrovano una barca,  ed in essa dei buoni diavoli

      come noi;  vengono a domandarci  l'ospitalità  nella  nostra  casa

      galleggiante.  Non  si  può fare a meno di prestare soccorso ad un