In una valle sconfinata, lungo le sponde di un fiume immenso, si è radunala tutta l’umanità di tutti i tempi, miliardi di persone che hanno gia vissuto e che si sono risvegliate a una nuova vita in attesa di un destino ignoto. Questi uomini e queste donne continuano pero a conservare la propria mentalità e spesso a ripetere gli stessi errori di un tempo, cercando di dominare gli uni sugli altri. Ma la nuova esperienza può anche costituire una possibilità per raggiungere quegli obiettivi che si sono mancati prima: questa almeno e l’opinione di Francis Burton, il celebre esploratore che trascorse gran parte dei suoi anni in una sfortunata ricerca delle sorgenti del Nilo. Ora per Burton può ricominciare una nuova esaltante avventura…

Philip José Farmer

Il fiume della vita

Sebbene alcuni nomi della serie del Mondo del Fiume siano immaginari, i personaggi sono o erano reali. Magari non venite menzionati, ma ci siete anche voi.

CAPITOLO PRIMO

La moglie lo aveva stretto fra le braccia, come per tenere la morte lontana da lui.

Egli aveva esclamato: — Mio Dio, muoio!

Si era aperta la porta ed egli aveva visto, fuori, un dromedario nero gigantesco, aveva udito tintinnare i sonagli dei finimenti sfiorati dal vento caldo del deserto. Poi una enorme faccia nera sotto un gran turbante nero era apparsa nel riquadro. L’eunuco nero era entrato nella stanza come una nuvola, con una scimitarra smisurata in pugno. Il distruttore dei Piaceri, il Dissociatore. La morte era giunta.

Buio. Nulla. Il suo cuore aveva ceduto per sempre, ma egli non se ne accorse. Nulla.

Poi aprì gli occhi. Gli batteva forte il cuore. Era forte, fortissimo! I dolori della gotta ai piedi, l’atroce mal di fegato, le fitte al cuore: spariti, completamente.

C’era un tale silenzio che egli si udiva circolare il sangue in testa. Era solo in un mondo senza suono.

Nella forte luce diffusa, vedeva. Ma non capiva quel che vedeva. Quelle cose, sopra, accanto e sotto di lui, che cos’erano? Dove si trovava?

Cercò di tirarsi su a sedere e provò un confuso senso di panico. Non c’era niente, per tirarsi su a sedere: galleggiava nel nulla. Il movimento abbozzato lo spinse avanti a tuffo, ma molto lentamente come se si trovasse a bagno nella melassa fluida. A trenta centimetri dalla punta delle sue dita, una barra di metallo brillava, come arroventata, scendendo all’infinito dall’alto e continuando, sotto, all’infinito. Cercò di aggrapparsi ad essa perché era l’oggetto solido più vicino, ma qualcosa di invisibile si oppose, come se un fascio di linee di forza, premendo contro di lui, lo respingesse.

Fece una lenta capriola e la resistenza lo fermò con le dita ad una quindicina di centimetri dalla barra. Protendendosi, riuscì ad avanzare di qualche millimetro. Al tempo stesso, il suo corpo prese a ruotare sul proprio asse longitudinale. Egli aspirò l’aria con un lungo rumore raschiante. Pur sapendo che non c’erano appigli, sbatté affannosamente le braccia per cercare di agguantare qualcosa.

Adesso era a faccia «in giù». O «in su»? Comunque, in direzione opposta a quella in cui guardava al risveglio. Ma non faceva differenza; la vista, «sopra» e «sotto» di lui era identica. Egli era sospeso nello spazio, in un invisibile bozzolo che gli impediva di precipitare. Un paio di metri «sotto» il corpo di una donna, dalla pelle esangue. Era nuda e completamente glabra. Sembrava addormentata. Aveva gli occhi chiusi, il petto che si alzava e abbassava dolcemente. Le gambe unite e tese, le braccia lungo i fianchi. Ruotava lenta come un pollo sul girarrosto.

E anche lui, per la stessa forza, girava. Altri corpi nudi e glabri si susseguivano via via nel suo campo visivo, uomini, donne, bambini, tutti in file silenziose che giravano su se stesse. Sopra di lui girava il corpo nudo e senza peli di un negro.

Egli abbassò il capo per vedere il proprio corpo. Anche lui era nudo e senza peli.

Aveva la pelle liscia, i muscoli del ventre ben disegnati e salienti, le cosce piene di muscoli robusti e giovanili. Le vene, che una volta risaltavano come cunicoli bluastri di talpa, erano scomparse. Egli non aveva più il corpo del sessantanovennc malato e pieno di acciacchi che agonizzava un istante prima. Erano scomparse anche le innumerevoli cicatrici.

A questo punto si accorse che non c’erano corpi di persone anziane tra quelli che lo circondavano. Tutti sembravano sui venticinque anni, benché fosse difficile stabilire l’età esatta dal momento che la mancanza di capelli, e di peli sul pube, li faceva apparire al tempo stesso più vecchi e più giovani.

Si era sempre vantato di non aver mai conosciuto la paura. Ora invece la paura gli strozzò un urlo in gola, lo invase, spremette nuova vita da lui.

In un primo momento era rimasto attonito di essere ancora vivo. Inoltre la sua posizione nello spazio e la disposizione del nuovo ambiente gli avevano congelato i sensi. Vedeva e percepiva come attraverso una spessa finestra semiopaca. Dopo alcuni secondi qualcosa scattò dentro di lui. Poté quasi udirne il rumore, come se un schermo fosse stato sollevato d’improvviso.

Il mondo assunse una forma che egli poteva cogliere, se pur non ancora comprendere. Sopra di lui, ai lati, al di sotto fin dove giungeva il suo sguardo, galleggiavano dei corpi. Erano allineati, orizzontalmente e verticalmente. Nel senso verticale, le file erano separate mediante barre rosse, sottili come manici di scopa, una a trenta centimetri dai piedi dei dormienti, l’altra a trenta centimetri dalla loro testa. Tra corpo e corpo, sopra, sotto, e ai lati, c’era un distacco di circa due metri.

Le barre salivano da un abisso senza fondo e s’innalzavano verso un altro abisso senza fine. Quel grigiore nel quale sparivano le barre e i corpi, sopra e sotto, a destra e a sinistra, non era né cielo né terra. Non c’era nulla al limitare, tranne l’opacità dell’infinito.

Egli si trovava di fianco a un uomo bruno, di tipo toscano. Sull’altro lato c’era un’indiana, e oltre questa un pezzo d’uomo d’aspetto nordico. Solo dopo aver girato per tre volte su se stesso riuscì a capire che cosa c’era di strano in quest’ultimo. Il braccio destro, a partire da un punto proprio al di sotto del gomito, era rosso. Come se mancasse lo strato esterno di pelle.

Dopo alcuni secondi, parecchie file più in là, vide un corpo di maschio adulto privo della pelle e di tutti i muscoli del volto.

C’erano altri corpi non del tutto completi. Vide in lontananza, appena di sfuggita, uno scheletro con un guazzabuglio di organi all’interno.

Egli continuava a girare e ad osservare, mentre il cuore gli picchiava nel torace, dal terrore. Ormai sapeva di trovarsi in un locale smisurato, e che le barre metalliche irradiavano una forza che sosteneva e girava milioni, forse miliardi di esseri umani.

Ma dove?

Di certo non nell’Impero Austro-Ungarico, non a Trieste, non nel 1890.

Quel luogo non era simile ad alcun inferno o paradiso di cui egli avesse udito o letto, anche se riteneva di conoscere ogni teoria riguardante l’aldilà.

Egli era morto, ed ora si trovava di nuovo vivo. Aveva sempre schernito l’idea di una vita dopo la morte. Per una volta, doveva riconoscere di essersi sbagliato. Ma nessuno gli avrebbe rinfacciato: — Te l’avevo detto, brutto miscredente!

Perché lui solo, fra milioni e milioni, era sveglio.

Nel girare, alla velocità stimata di una rotazione completa ogni dieci secondi, vide qualcos’altro che lo fece rimanere a bocca aperta per lo stupore. Cinque file più in là c’era un corpo che, a a prima vista, sembrava umano. Ma nessun esemplare di Homo sapiens aveva tre dita e un pollice per ciascuna mano e quattro dita per ciascun piede. E neppure naso e sottili e coriacee labbra nere da cane. Né uno scroto con numerose pallottoline. Né orecchie con quelle strane spire.

Il terrore scomparve. Il cuore smise di battergli in fretta, pur non tornando ancora ad un ritmo normale. Il cervello si scongelò. Egli doveva uscire da quella situazione, in cui era impotente come una porchetta sul girarrosto. Doveva trovare qualcuno che gli spiegasse che cosa stava facendo lì, come vi era giunto, perché vi si trovava.

Decidersi e passare all’azione fu tutt’uno.

Sollevò le gambe, scalciò, e scoprì che quell’azione, o meglio la reazione, lo spingeva in avanti di un centimetro. Di nuovo scalciò e si spostò vincendo la resistenza. Ma quando si fermava veniva lentamente riportato indietro al punto di partenza. E gambe e braccia erano spinte con garbo nella loro rigida positura iniziale.

Scalciando come un matto, e muovendo le braccia come un nuotatore, si sforzò di raggiungere la barra. Ma più le si avvicinava, più resistenti divenivano le linee di forza. Non smise di tentare. Se l’avesse fatto si sarebbe trovato di nuovo al punto di partenza, e senza neanche più la forza di rimettersi a lottare. Non era da lui arrendersi prima che tutte le sue energie fossero esaurite.

Respirava affannosamente, il suo corpo era ricoperto di sudore, braccia e gambe si muovevano come in una densa gelatina, e i suoi progressi erano impercettibili. Alla fine riuscì a sfiorare la barra con i polpastrelli della mano sinistra. Sembrava calda e dura al tatto.

Di colpo seppe da che parte stava il «basso». Cadde.

Il contatto con la barra aveva spezzato l’incanto. La ragnatela di aria intorno a lui si lacerò senza rumore, ed egli precipitò.

Era abbastanza vicino alla barra da afferrarla con una mano. L’improvviso arresto della sua caduta gli fece battere l’anca contro di essa con un colpo doloroso. Scivolando giù lungo la barra si ustionò la pelle della mano: allora l’afferrò con l’altra mano e si fermò.

Davanti a lui, dall’altra parte della barra, i corpi avevano preso a cadere. Scendevano alla velocità di caduta di un corpo sulla Terra, e ciascuno conservava la propria posizione allungata e la distanza primitiva dal corpo soprastante e da quello sottostante. E continuavano anche a girare.

Fu a questo punto che le folate d’aria sulla sua schiena nuda e sudata lo indussero a girarsi lungo la barra. Dietro di lui, anche i dormienti della colonna nella quale si era trovato fino a un momento prima stavano cadendo. Continuando a ruotare lentamente, precipitavano passando accanto a lui uno dopo l’altro, quasi fossero stati buttati giù con regolarità da una botola. Le loro teste lo evitavano di pochi centimetri. Era una fortuna che quei corpi non l’avessero strappato dalla barra facendolo cadere nell’abisso insieme a loro.

I corpi continuavano a cadere in un’imponente processione. Precipitavano uno dopo l’altro a entrambi i lati della barra, mentre i milioni e miliardi di corpi delle altre colonne rimanevano indisturbati ai loro posti.

Per un attimo stette a guardare ad occhi sbarrati. Poi prese a contare i corpi: i numeri gli erano sempre piaciuti. Ma quando arrivò a 3001 si fermò. Dopo di che fissò con sgomento quella cascata di carne. Fino a che altezza, fino a quale incommensurabile altezza erano ammucchiati i corpi? E in quale abisso infinito potevano mai cadere? Egli stesso li aveva fatti precipitare inavvertitamente quando col suo contatto aveva interrotto le linee di forza emesse dalla barra.

Non poteva arrampicarsi su per la barra, ma poteva lasciarsi scivolare giù lungo di essa. Cominciò a scendere; poi diede un’occhiata in su, e dimenticò i corpi che gli precipitavano accanto. Da qualche parte, in alto sopra di lui, un ronzio stava sovrastando il fruscio dei corpi che cadevano.

Uno stretto scafo, di forma simile a quella di una canoa e costruito con un materiale di un verde brillante, stava calando tra la colonna dei corpi che cadevano e quelle circostanti dei corpi sospesi. Egli rifletté che quella «canoa aerea» non aveva visibili mezzi di sostentamento. Era così atterrito che non si accorse della comicità di questa espressione. Nessun mezzo di sostentamento. Come un vascello magico uscito dalle Mille e una notte.

Un volto apparve oltre il bordo, lo scafo si fermò, il ronzio si spense. Un altro volto si affiancò al primo. Entrambi erano incorniciati da lunghi capelli, neri e lisci. D’un tratto i volti scomparvero, il ronzio tornò a prodursi, e la canoa ricominciò a scendere verso di lui. Quando giunse a due metri circa di distanza si fermò. Sulla prora verde c’era un piccolo simbolo: una spirale destrorsa, bianca. Uno degli occupanti della canoa parlò in una lingua con molte vocali e frequenti interruzioni gutturali, che richiamava il polinesiano.

D’improvviso il bozzolo invisibile tornò a farsi sentire. Anche i corpi in caduta cominciarono a perdere velocità, e poi si fermarono. L’uomo appeso alla barra sentì che la forza di sostentamento gli si chiudeva intorno e lo spingeva verso l’alto. Malgrado fosse disperatamente avvinghiato alla barra, le sue gambe furono staccate e sollevate, e il suo corpo le seguì. In pochi istanti egli si trovò a faccia in giù. Le sue mani vennero strappate dalla barra, e a lui parve di aver perso l’ultimo contatto con la vita, con la sanità mentale, col mondo. Venne attirato verso l’alto, e cominciò a girare su se stesso. Passò accanto allo scafo e continuò a salire. I due uomini nella canoa erano nudi e ben fatti, e la loro pelle era scura come quella degli arabi yemeniti. I lineamenti erano nordici, e somigliavano a quelli di alcuni islandesi che egli aveva conosciuto.

Uno dei due uomini sollevò una mano, che impugnava un oggetto metallico dalle dimensioni di una matita. L’uomo puntò l’oggetto, come se avesse voluto sparare qualcosa con quello.

L’uomo sospeso a mezz’aria gridò per la rabbia e l’odio e l’impotenza, e sbatté le braccia per nuotare in direzione dello scafo.

— Voglio uccidere! — urlò. — Uccidere! Uccidere!

L’oblio giunse di nuovo.

CAPITOLO SECONDO

Dio era in piedi accanto a lui, steso sull’erba presso l’acqua, tra i salici piangenti. Egli giaceva ad occhi spalancati, e debole come un bimbo appena nato. Dio lo stava pungolando nelle costole con la punta di una verga di ferro. Dio era un uomo alto, di mezza età. Aveva una lunga barba nera a due punte, e indossava l’abito della festa di un gentiluomo inglese del cinquantatreesimo anno del regno della Regina Vittoria.

— Lei è in ritardo — disse Dio. — La scadenza di pagamento del suo debito è passata da un pezzo, sa!

— Quale debito? — chiese Richard Francis Burton. Si passò i polpastrelli sulle costole per sincerarsi che ci fossero ancora tutte.

— Lei è in debito per la carne - rispose Dio pungolandolo di nuovo con la verga. — Per non parlare dello spirito. Lei è in debito per la carne e per lo spirito, che sono una stessa ed unica cosa.

Burton si sforzò di rimettersi in piedi. Nessuno, neppure Dio, poteva permettersi di pungolare nelle costole Richard Burton e poi andarsene via impunito.

Dio, ignorando i futili sforzi di Burton, estrasse dalla tasca del Suo abito un grande orologio d’oro, alzò il coperchio cesellato, guardò le lancette, e disse: — Passata da un pezzo.

Dio tese l’altra mano, con la palma in su.

— Paghi, signor mio. Altrimenti sarò costretto a cancellare l’ipoteca.

— Una ipoteca su che?

Calarono le tenebre. Dio cominciò a dissolversi nel buio. A questo punto Burton vide che Dio gli assomigliava. Aveva gli identici capelli neri e lisci, l’identico volto da arabo con penetranti occhi scuri, zigomi alti, labbra spesse, mento sporgente e con un’incavatura profonda. Sulle sue guance si vedevano le identiche cicatrici lunghe e profonde, testimoni dei giavellotti somali che gli avevano trafitto le mascelle in quella battaglia a Berbera. Le Sue mani e i Suoi piedi erano piccoli, in contrasto con le spalle larghe e il torace possente. E aveva i lunghi e spessi baffi e la lunga barba a due punte a causa della quale i beduini avevano soprannominato Burton «il Padre dei Baffi».

— Somigli al diavolo - disse Burton, ma Dio era divenuto nulla più che un’altra ombra nelle tenebre.

CAPITOLO TERZO

La luce si stava sostituendo alla notte. Burton era ancora addormentato, ma era così vicino alla soglia della coscienza da rendersi conto che aveva sognato.

Poi i suoi occhi si aprirono, ed egli non riuscì a capire dove si trovasse.

Sopra di lui c’era un cielo azzurro. Una lieve brezza spirava sopra il suo corpo nudo. La testa calva, e la schiena, e le gambe, e il palmo delle mani poggiavano su uno strato di erba. Girò a destra il capo e vide una distesa ricoperta di erba corta, verdissima e folta. La distesa saliva per un chilometro e mezzo con un lievissimo pendio. Dopo la distesa c’era una fila di colline che iniziavano con una leggera inclinazione, divenendo poi più erte e più alte a mano a mano che s’innalzavano verso le montagne assumendo un profilo irregolarissimo. Le colline sembravano stendersi per quattro chilometri circa. Erano tutte coperte di alberi, alcuni dei quali risplendevano di sfumature scarlatte, azzurre, verde brillante, giallo fiamma, rosa cupo. Le montagne, di là dalle colline, si ergevano di colpo, a perpendicolo, raggiungendo un’altezza incredibile. Erano nere e verdi-bluastre, simili a vitree rocce eruttive, e almeno un quarto della loro superficie era coperto da enormi macchie di licheni.

Tra Burton e le colline c’erano numerosi corpi umani. Il più vicino, a un metro circa, era quello della donna bianca che si trovava sotto di lui in quella colonna di corpi.

Burton volle alzarsi, ma si sentiva fiacco e intorpidito. Tutto quello che poté fare per il momento, e che richiese un notevole sforzo, fu di girare il capo a sinistra. Da quella parte, su una distesa che digradava verso un fiume distante forse un centinaio di metri, c’erano degli altri corpi nudi. Il fiume era largo un paio di chilometri circa, e sull’altra sponda c’era un’altra distesa, larga probabilmente altrettanto. Questa saliva verso la base di nuove colline, coperte anch’esse di alberi, dietro alle quali torreggiavano a strapiombo delle montagne nere e verdi-bluastre. Quello era l’est, pensò Burton con sgomento. Il sole era appena sorto da dietro la cima delle montagne laggiù.

A poca distanza dalla riva del fiume c’era una strana struttura. Era un granito grigio con venature rosse, e aveva la forma di un fungo. La sua larga base non poteva essere alta più di un metro e mezzo, e l’«ombrello» del fungo aveva un diametro di una quindicina di metri.

Burton cercò di alzarsi di quel tanto che bastava per stare appoggiato su un gomito.

Lungo entrambe le rive del fiume c’erano altri massi di granito dalla forma di fungo.

In ogni punto della distesa c’erano degli esseri umani, nudi e calvi, circa a un paio di metri di distanza l’uno dall’altro. La maggior parte di essi giaceva ancora sulla schiena, con lo sguardo fisso al cielo. Altri cominciavano a muoversi, a guardare intorno, o perfino ad alzarsi.

Anche Burton si alzò, e si toccò il cranio e il volto con ambo le mani. La pelle era liscia.

Il suo corpo non era quello raggrinzito, rugoso, contorto, avvizzito, del sessantanovenne disteso sul letto di morte. Era il corpo dalla pelle liscia e dai muscoli gagliardi che egli aveva avuto all’età di venticinque anni. Lo stesso corpo che aveva quando stava galleggiando tra quelle barre di quel sogno. Sogno? Era sembrato troppo vivido per essere un sogno.

Intorno al suo polso c’era un sottile bracciale trasparente, collegato a una striscia dello stesso materiale e lunga quindici centimetri. L’altri estremità di questa era assicurata ad un semicerchio di metallo, che costituiva l’impugnatura di un cilindro di metallo grigiastro, chiuso con un coperchio.

Con una certa inerzia, senza troppo concentrarsi in quanto la sua mente era ancora annebbiata, Burton sollevò il cilindro. Pesava solo pochi etti, per cui non poteva essere di ferro, neanche cavo. Il suo diametro era di quarantacinque centimetri, ed era alto più di settantacinque. Ciascuno dei corpi aveva un oggetto similare assicurato al polso.

Barcollando alquanto, e col cuore che cominciava a prendere velocità a mano a mano che i sensi gli si risvegliavano, Burton si alzò in piedi.

Anche altri si stavano alzando. Molti avevano il volto inerte, oppure con un’espressione di assoluta meraviglia. Alcuni sembravano atterriti. I loro occhi erano spalancati, e roteavano; il loro petto si alzava e abbassava rapidamente; il loro respiro era sibilante. Alcuni tremavano come se fosse passato su di loro un vento gelido, malgrado l’aria fosse piacevolmente calda.

Ma la cosa più strana, la cosa davvero sovrumana e terrorizzante, era il silenzio pressoché assoluto. Nessuno diceva una parola; Burton udì solo il respiro sibilante di quelli vicini a lui, un leggero schiocco quando un uomo si schiaffeggiò una gamba, il debole fischio di una donna.

Quegli esseri avevano la bocca aperta come se fossero stati sul punto di dire qualcosa.

Poi cominciarono a muoversi intorno, guardandosi in faccia l’uno con l’altro, tendendo talvolta una mano per toccarsi. Strascicavano i piedi nudi, si giravano da una parte, poi da quell’altra, fissavano le colline, gli alberi coperti di enormi fiori dai colori brillanti, le vertiginose montagne macchiate di licheni, il fiume verde e scintillante, le pietre dalla forma di fungo, le cinghiette e i grigi contenitori metallici.

Alcuni si tastavano il cranio calvo e il volto.

Ognuno ripeteva in silenzio gli identici sciocchi gesti.

Di colpo una donna si mise a gemere. Cadde ginocchioni, gettò all’indietro la testa e le spalle, e cominciò a mugolare. Al tempo stesso, da un punto molto distante lungo la riva del fiume, qualcun altro mugolò.

Fu come se quei due pianti fossero stati dei segnali. O come se fossero stati la chiave per la voce umana, e le avessero così reso la libertà.

Gli uomini e le donne e i bambini presero a gridare, o a singhiozzare, o a graffiarsi il volto con le unghie, o a picchiarsi il petto, o a cadere in ginocchio alzando le mani in preghiera, o a gettarsi bocconi cercando, a mo’ di struzzi, di seppellire il volto nell’erba per non essere visti, o a rotolarsi avanti e indietro, abbaiando come cani o ululando come lupi.

Il terrore e l’isterismo si comunicarono a Burton. Questi provò desiderio di mettersi in ginocchio e pregare affinché il giudizio fosse a lui favorevole. Sentì un grande bisogno di misericordia. Non voleva veder apparire sopra le montagne l’accecante volto di Dio, un volto più splendente del sole. Non era coraggioso e innocente come aveva creduto. Il giudizio sarebbe stato così terrificante, così completamente finale che egli non poteva sopportarne il pensiero.

Una volta aveva fantasticato di trovarsi davanti a Dio dopo la morte. Era piccolo e nudo, al centro di una vasta distesa simile a quella, ma era del tutto solo. Poi Dio, grande come una montagna, aveva preso ad avanzare verso di lui. Ed egli, senza arretrare d’un passo, aveva sfidato Dio.

Lì Dio non c’era, ma Burton fuggì ugualmente. Corse lungo la distesa, spingendo via dal suo cammino uomini e donne, scansando alcuni corpi, passando con un salto sopra ad altri che erano rotolati a terra. Correndo urlava: — No! No! No! — e le sue braccia si agitavano come pale di mulino a vento, per respingere mostri invisibili. Il cilindro assicurato al suo polso ruotava e oscillava.

Quando il suo respiro divenne così affannoso da non consentirgli più di urlare, e braccia e gambe gli si fecero più pesanti, e i polmoni furono sul punto di scoppiare, e il cuore di esplodere, Burton si gettò a terra sotto l’albero più vicino.

Dopo un po’ si mise a sedere, voltandosi verso la pianura. Il rumore prodotto dalla folla si era mutato da urla e gemiti in un chiacchiericcio generale. Quasi tutti parlavano l’uno all’altro, ma sembrava che nessuno stesse ad ascoltare. Burton non riuscì a captare alcuna singola parola. Quà e là un uomo e una donna si abbracciavano e baciavano, come se si fossero già conosciuti nella loro vita precedente ed ora cercassero di rassicurarsi a vicenda sulla propria identità e realtà.

C’era una quantità di bambini in quella folla numerosa. Nessuno però era al di sotto dei cinque anni. Avevano la testa calva, come gli adulti. Una metà frignava, ferma sul posto. Altri, pur piangendo, correvano avanti e indietro, scrutando i volti sopra di loro, evidentemente in cerca dei genitori.

Burton cominciava a respirare con minor fatica. Si alzò in piedi e si voltò. L’albero sotto il quale si trovava era un abete rosso, alto circa sessanta metri. Accanto a questo, c’era un albero di un tipo che egli non aveva mai visto. Dubitò che fosse mai esistito sulla Terra. (Burton era sicuro di non trovarsi sulla Terra, benché al momento non ne avesse alcuna precisa ragione.) L’albero aveva un grosso e nodoso tronco nerastro, e molti grossi rami che portavano foglie triangolari lunghe circa due metri, di color verde con screziature scarlatte. Era alto circa novanta metri. C’erano anche degli alberi che sembravano querce, larici, tassi, pini.

Qua e là c’erano macchie di altre piante simili al bambù, e in tutti i punti lasciati liberi dagli alberi e dai bambù cresceva un’erba alta poco meno di un metro. Non si vedevano animali. Nessun insetto, nessun uccello.

Burton si guardò attorno per cercare un bastone o una clava. Non aveva la minima idea di che cosa fosse in programma per l’umanità; ma questa, lasciata senza sorveglianza o senza controllo, sarebbe tornata presto allo stato solito. Cioè, passato il primo colpo, la gente avrebbe cominciato a cercare di arrangiarsi, il che significava che alcuni si sarebbero messi a fare i prepotenti a spese di altri.

Burton non trovò nulla che potesse servire da arma. Poi gli venne in mente che come arma si poteva usare il cilindro di metallo. Lo sbatté contro un albero. Benché fosse assai leggero era estremamente robusto.

Burton sollevò il coperchio, che era incernierato all’interno di un’estremità del cilindro. L’interno, cavo, aveva sei supporti elastici, sfasati in modo che ciascuno reggeva una capace tazza, o un piatto, o un contenitore rettangolare di metallo grigio. I sei recipienti erano vuoti. Burton richiuse il coperchio. Senza dubbio, avrebbe scoperto a suo tempo quale fosse lo scopo del cilindro.

A parte tutto il resto, la resurrezione non aveva dato dei corpi fatti di delicato e inconsistente ectoplasma. Burton era tutto di ossa e sangue e carne.

Benché si sentisse ancora alquanto distaccato dalla realtà, come se fosse stato isolato dagli ingranaggi del mondo, si stava rimettendo dall’emozione.

Aveva sete. Doveva scendere al fiume e bere di quell’acqua, con l’augurio che non fosse avvelenata. A questo pensiero ghignò e si passò un dito sul labbro superiore. Il dito provò un’impressione di disappunto. Che curiosa reazione, rifletté Burton. Poi ricordò che i suoi folti baffi erano spariti. E… Ah, sì, si stava augurando che l’acqua del fiume non fosse avvelenata. Che idea bizzarra! A quale scopo far rivivere un morto solo per ucciderlo di nuovo? Ma Burton rimase a lungo sotto l’albero. Detestava dover raggiungere il fiume passando in mezzo a quella folla frenetica e isterica che parlava e singhiozzava senza posa. Lontano dalla calca di costoro, era in buona parte indenne dal terrore e dal panico che li aveva sommersi come una marea. Se si fosse azzardato a tornare là sarebbe rimasto travolto di nuovo dalle loro emozioni.

D’un tratto vide una figura staccarsi dalla ressa nuda e dirigersi verso di lui. E vide che non si trattava di un essere umano.

A questo punto Burton fu sicuro che quel Giorno della Resurrezione non era stato previsto da nessuna religione. Burton non aveva creduto nel Dio descritto dai cristiani, mussulmani, indù o da qualsiasi altra fede. In realtà non era sicuro di credere in alcun Creatore. Egli aveva creduto in Richard Francis Burton e in pochi amici. Ed era sempre stato convinto che, quando fosse morto, il mondo avrebbe cessato di esistere.

CAPITOLO QUARTO

Allorché si era svegliato nella valle accanto a quel fiume, si era trovato senza difesa contro i dubbi che esistono in ogni uomo sottoposto fin dalla nascita a condizionamento religioso e vissuto in una società evoluta che predica ad ogni occasione le proprie convinzioni.

Ma ora, vedendo avvicinarsi l’extraumano, si convinse che doveva esserci un’altra spiegazione dell’accaduto oltre a quella di tipo soprannaturale. La ragione per cui egli si trovava lì era fisica, scientifica; non c’era bisogno di ricorrere ai miti giudeo-cristiani-mussulmani per trovare un motivo.

L’essere (un maschio, senza dubbio) era un bipede alto circa due metri. Il corpo, dalla pelle rosea, era molto snello; ogni mano aveva tre dita e un pollice, e ogni piede quattro dita assai lunghe e sottili. Su! petto, sotto a ciascun capezzolo, c’era una macchia d’un rosso scuro. La faccia era semiumana. Folte sopracciglia nere si allungavano fino agli zigomi prominenti, e si allargavano coprendoli con una peluria bru-nastra. Le narici terminavano con una frangia costituita da una sottile membrana lunga un paio di millimetri. Lo spesso cuscinetto di cartilagine sulla punta del naso aveva un solco profondo. Le labbra erano sottili, coriacee, nere. I padiglioni auricolari non avevano lobi, e le spire non erano di tipo umano. Lo scroto sembrava contenere numerosi piccoli testicoli.

Burton aveva già visto quell’essere galleggiare qualche fila più in là, in quel luogo da incubo.

L’essere si fermò a un metro o due di distanza e sorrise, mostrando denti del tutto umani. — Spero che lei parli inglese — disse. — Ad ogni modo posso parlare abbastanza correntemente in russo, cinese mandarino, indostano.

Burton ebbe un leggero soprassalto, come se un cane o una scimmia gli avessero rivolto la parola.

— Lei parla l’inglese dell’America centro-occidentale — replicò. — E molto bene, anche. Benché con troppa proprietà.

— Grazie — disse l’essere. — L’ho seguita perché lei mi è sembrato l’unico che avesse abbastanza buon senso da allontanarsi da quel caos. Forse lei ha qualche spiegazione per questo… come chiamarlo?… resurrezione?

— Non più di quante ne abbia lei — rispose Burton. — In realtà non ho neppure alcuna spiegazione circa la sua esistenza, prima o dopo la resurrezione.

Le folte sopracciglia dell’extraumano fremettero. Burton doveva poi imparare che tale gesto significava meraviglia o perplessità.

— No? È strano. Avrei giurato che ognuno dei sei miliardi di abitanti della Terra avesse udito di me, o mi avesse visto in TV.

— TV?

Le sopracciglia dell’essere fremettero di nuovo.

— Non sa cos’è…

La sua voce esitò, poi egli sorrise ancora.

— Naturalmente, sciocco che sono. Lei dev’essere morto prima che io venissi sulla Terra!

— Quando accadde questo?

Le sopracciglia dell’extraumano si inarcarono (questo equivaleva ad aggrottarle, come Burton avrebbe scoperto). Poi egli disse lentamente: — Vediamo. Credo che sia stato, secondo la vostra cronologia, nel 2002. Lei quando è morto?

— Devo essere morto nel 1890 — rispose Burton. L’extraterrestre gli aveva fatto tornare la sensazione che tutta quella faccenda non fosse reale. Fece scorrere la lingua all’interno della bocca: i molari che aveva perduto quando la lancia somala gli aveva trapassato le guance erano di nuovo presenti. Ma egli era ancora circonciso, e anche gli altri uomini sull’argine (la maggior parte dei quali si era messa a gridare nell’italiano, nel tedesco o nello sloveno che si parlavano a Trieste) erano circoncisi. Tuttavia, ai suoi tempi, ben pochi maschi di quella regione lo erano.

— O almeno non ricordo nulla dopo il venti ottobre del 1890 — aggiunse.

— Aab! - disse l’essere. — Così io lasciai il mio pianeta natio all’incirca duecento anni prima che lei morisse. Il mio pianeta? Era un satellite di quella stella che voi terrestri chiamate Tau Ceti. Ci ponemmo in animazione sospesa, e quando la nostra nave arrivò nelle vicinanze del vostro Sole noi fummo automaticamente sgelati, e… ma lei non sa di cosa sto parlando, vero?

— Per nulla. Gli eventi si succedono troppo in fretta. Più tardi mi piacerebbe avere dei dettagli. Qual è il suo nome?

— Monat Grrautut. E il suo?

— Richard Francis Burton, per servirla.

Fece un leggero inchino e sorrise. Malgrado la singolarità di quell’essere e alcuni particolari fisici repellenti, Burton si sentiva attratto verso di lui.

— Il defunto capitano Sir Richard Francis Burton — aggiunse. — Ex console di Sua maestà nel porto austro-ungarico di Trieste.

— Elisabetta?

— Sono vissuto nel diciannovesimo secolo, non nel sedicesimo.

— Una regina Elisabetta regnò sulla Gran Bretagna nel ventesimo secolo — spiegò Monat.

Si girò verso l’argine.

— Perché sono così spaventati? Tutti gli esseri umani che ho incontrato erano convinti che non ci fosse nulla dopo la morte, oppure, se qualcosa ci fosse stato, che avrebbero ricevuto un trattamento privilegiato.

Burton sogghignò e rispose: — Quelli che negavano l’aldilà sono sicuri di trovarsi all’inferno, appunto perché lo negavano. Quelli che erano sicuri di andare in paradiso saranno sbigottiti, immagino, di trovarsi nudi. Capisce, la maggior parte delle figurazioni rappresentanti l’aldilà mostravano i dannati nudi e i beati vestiti. Così, uno che si trova risorto e nudo come un asino deduce di essere all’inferno.

— Lei sembra divertito — disse Monat.

— Pochi minuti fa non lo ero — replicò Burton. — E sono scosso. Molto scosso. Ma la sua vista mi fa ritenere che le cose siano diverse da come la gente le pensa. Quasi sempre è così. E Dio, se ha intenzione di comparire, non sembra avere molta fretta. Credo che ci sia una spiegazione per tutto ciò, ma non sarà conforme ad alcuna delle ipotesi che conobbi sulla Terra.

— Dubito che siamo sulla Terra — disse Monat. Puntò verso l’alto le sue dita lunghe e sottili, che avevano spessi cuscinetti di cartilagine al posto delle unghie.

Disse: — Se guarda fisso là, riparandosi gli occhi, può vedere un altro corpo celeste vicino al Sole. Non è la Luna.

Burton appoggiò alla spalla il cilindro metallico, mise le mani a coppa intorno agli occhi, e guardò verso il punto indicato. Vide un corpo di debole luminosità, le cui dimensioni sembravano un ottavo di quelle della Luna. Abbassò le mani e chiese: — Una stella?

— Credo di sì — rispose Monat. — Mi sembra d’aver visto altri corpi assai pallidi qua e là nel cielo, ma non ne sono sicuro. Lo sapremo quando verrà notte.

— Dove pensa che siamo?

— Non saprei.

Monat fece un gesto in direzione del sole.

— Sta salendo, perciò scenderà, e poi dovrebbe sopraggiungere la notte. Penso che sarebbe meglio prepararci ad affrontarla. E ad affrontare altri eventi. Fa caldo, e la temperatura è in aumento; ma la notte può essere fredda, e potrebbe piovere. Dovremmo costruire un rifugio qualsiasi. E dovremmo anche pensare a come fare per trovare del cibo. Benché supponga che ci nutrirà questo aggeggio — aggiunse indicando il cilindro.

— Che cosa glielo fa ritenere? — chiese Burton.

— Ho guardato dentro al mio. Contiene piatti e bicchieri, per ora tutti vuoti ma ovviamente fatti per essere riempiti.

Burton sentì diminuire la propria sensazione di irrealtà. Monat (l’essere di Tau Ceti!) parlava in tono così pragmatico e assennato da costituire un’àncora alla quale Burton poteva aggrapparsi prima di impazzire di nuovo. E, malgrado la sua repellente estraneità, quell’essere emanava un senso di amicizia e di lealtà che confortava Burton. Inoltre, qualsiasi essere proveniente da una civiltà in grado di percorrere miliardi di miliardi di chilometri di spazio interstellare doveva possedere considerevoli conoscenze e risorse.

Altre persone si stavano staccando dalla folla. Un gruppo di circa dieci fra uomini e donne veniva lentamente verso di lui. Alcuni parlavano, ma gli altri stavano in silenzio e con gli occhi sbarrati. Non sembrava che avessero in mente una meta precisa: procedevano soltanto, come una nube sospinta dal vento. Quando giunsero vicino a Burton e a Monat si fermarono.

L’uomo che si tirava dietro il gruppo colpì in modo particolare l’attenzione di Burton. Monat, ovviamente, non era umano; ma costui era subumano o pre-umano. Era alto circa un metro e mezzo. Era tarchiato e dotato di muscoli poderosi. La testa tendeva in avanti, su un collo curvo e molto grosso. La fronte era bassa e obliqua. Il cranio era lungo e stretto. Enormi arcate sopraorbitali ombreggiavano occhi d’un marrone scuro. Il naso era un pezzetto di carne con narici arcuate, e le mascelle sporgenti spingevano in fuori le labbra sortili. Forse una volta era stato coperto da un vello scimmiesco, ma ora era privo di peli al pari di ogni altro.

Le immense mani davano l’impressione di poter spremere acqua da una pietra.

Si voltava continuamente a guardare indietro, come temendo che qualcuno gli strisciasse alle spalle. Quando si avvicinava agli umani, questi si scostavano.

Ma un altro uomo si fece avanti e disse qualcosa in inglese al subumano, con voce strozzata. Era evidente che l’uomo non si aspettava di essere compreso, ma stava cercando di mostrarsi amichevole. Il nuovo arrivato era un giovane muscoloso, alto sul metro e ottanta. Aveva un volto che appariva bello se visto di fronte, ma comicamente irregolare di profilo. Gli occhi erano verdi.

Il subumano, quando venne apostrofato, fece un piccolo balzo. Da sotto la sua tettoia ossea scrutò il giovane sorridente. Poi sorrise anch’egli, mostrando grandi denti robusti, e parlò in una lingua che Burton non riconobbe. Indicò se stesso e disse qualcosa che suonava come Kazzintuitruaabemss. Più tardi Burton avrebbe scoperto che questo era il suo nome e che significava L’Uomo-Che-Trucidò-Il-Dentelungo-Bianco.

Gli altri erano cinque uomini e quattro donne. Due degli uomini si erano già conosciuti sulla Terra, e uno di essi era stato il marito di una delle donne. Erano tutti italiani o sloveni morti a Trieste apparentemente intorno al 1890, benché Burton non ne conoscesse nessuno.

— Lei, laggiù — disse Burton indicando l’uomo che aveva parlato in inglese. — Venga avanti. Qual è il suo nome?

L’uomo gli si avvicinò con esitazione. — Lei è inglese, vero? — chiese.

L’uomo parlava col piatto accento dell’America centro-occidentale.

Burton tese la mano e disse: — Sì. Mi chiamo Burton.

L’altro sollevò le sopracciglia glabre e ripeté: — Burton? — Si chinò in avanti ed esaminò il volto di Burton. — Difficile a dirsi… Non può essere …

Si raddrizzò. — Il mio nome è Peter Frigate. F-R-I-G-A-T-E.

Si guardò intorno e disse, con una voce ancor più innaturale: — È difficile parlare in modo coerente. Capisce, siamo tutti in tale stato di sbalordimento. Io mi sento come se fossi rotto in mille pezzi. Ma… eccoci qui… di nuovo vivi… di nuovo giovani… niente inferno… non ancora, almeno. Sono nato nel 1918 e morto nel 2008… a causa di ciò che fece questo extraterrestre… non è stata colpa sua… si stava solo difendendo, capisce.

La voce di Frigate si spense in un sussurro, ed egli rivolse a Monat un sorrisetto nervoso.

Burton chiese: — Lei conosce questo… Monat Grrautut?

— Non di persona — rispose Frigate. — Ma l’ho visto un gran numero di volte alla TV, naturalmente, e ho letto e sentito parlare di lui a sufficienza.

Tese la mano, quasi aspettandosi che fosse respinta. Ma Monat sorrise e gliela strinse.

Frigate disse: — Penso che sarebbe una buona idea riunirci in gruppo. Possiamo aver bisogno di protezione.

— Perché? — chiese Burton, benché lo sapesse benissimo.

— Lei sa come sia corrotta la maggior parte dell’umanità — rispose Frigate. — Una volta che costoro si saranno assuefatti all’idea di essere risorti si metteranno a dar battaglia per le donne e per il cibo e per qualunque cosa li attiri. E penso che dovremmo farci amico questo Neanderthal, o quello che è. Ci sarà sempre utile in un combattimento.

Era commovente vedere come Kazz (così venne chiamato più tardi) sembrava ansioso di essere accolto nel gruppo. Al tempo stesso, però, guardava con diffidenza chiunque gli si avvicinasse troppo.

Una donna passò lì accanto, mormorando in continuazione: — Mìo Dio, cosa ho fatto per offenderti?

Un uomo, coi pugni stretti e sollevati all’altezza delle spalle, stava gridando in yiddish: — La mia barba! La mia barba!

Un altro uomo si indicava i genitali e diceva in sloveno: — Hanno fatto di me un ebreo! Un ebreo! Pensate che…? No, non può essere!

Burton fece un ghigno feroce e commentò: — Non gli viene in mente che forse hanno fatto di lui un mussulmano, o un aborigeno d’Australia, o un antico egiziano. Anche quei popoli praticavano la circoncisione.

— Perché, cos’ha detto? — chiese Frigate. Burton tradusse, e Frigate si mise a ridere.

Una donna passò accanto di corsa, facendo un penoso tentativo di coprirsi il petto e l’area pubica con le mani. Mormorava: — Cosa diranno, cosa diranno? — E scomparve dietro gli alberi.

Un uomo e una donna oltrepassarono il gruppo: parlavano in italiano e a voce altissima, quasi fossero stati divisi da un’ampia autostrada.

— Non possiamo essere in paradiso… Lo so, mio Dio, lo so!… C’era Giuseppe Zonzini, e tu sai che uomo perfido fosse… Dovrebbe bruciare nel fuoco dell’inferno! Lo so io, lo so… Rubava all’erario, frequentava i bordelli, beveva tanto che morì d’etilismo… e tuttavia eccolo qui!

Una donna correva strillando in tedesco: — Papà! Papà! Dove sei? Sono la tua cara Hilga!

Un uomo guardò quelle persone e disse più volte, in ungherese: — Non sono più cattivo degli altri, e sono migliore di qualcuno. Vadano al diavolo!

Una donna si lamentava: — Ho sprecato la mia vita intera, la mia vita intera. Ho fatto ogni cosa per loro, e adesso…

Un uomo, agitando davanti a sé il cilindro metallico come se fosse stato un turibolo, salmodiò: — Seguitemi sulle montagne! Seguitemi! Io conosco la verità, brava gente! Seguitemi! Saremo al sicuro nel petto del Signore! Non credete a questo miraggio intorno a voi! Io vi aprirò gli occhi!

— Occorrerà un po’ di tempo prima che tornino in sé — disse Burton. Sentì anche che sarebbe occorso molto tempo prima che il mondo fosse tornato ad attirarlo.

— Forse non sapranno mai la verità — osservò Frigate.

— Cosa vuole dire?

— Non hanno conosciuto la Verità, con la V maiuscola, sulla Terra; perché dovrebbero conoscerla qui? Cosa le fa pensare che avremo una rivelazione?

Burton si strinse nelle spalle. — Non so — rispose. — Quel che penso è che dovremmo cercar di capire che posto è questo e come possiamo sopravvivere. Se un uomo si siede, si siede anche la sua buona stella.

Tese un dito in direzione dell’argine. — Vede quei funghi di pietra? Sembrano collocati a intervalli di un chilometro. Chissà a che cosa servono?

Monat disse: — Se lei avesse dato un’occhiata da vicino a quello là, avrebbe visto che la sua superficie contiene circa settecento cavità circolari. Sono proprio della misura giusta per potervi infilare la base di un cilindro. In effetti ce n’è già uno in cima al fungo. Credo che se lo esaminiamo potremo capire il suo scopo. Sospetto che sia stato messo là perché noi facciamo altrettanto.

CAPITOLO QUINTO

Una donna si avvicinò. Era di altezza media, e aveva una figura superba e un volto che sarebbe stato bellissimo se fosse stato incorniciato dai capelli. I suoi occhi erano grandi e scuri. Non faceva alcun tentativo di coprirsi con le mani. Ma Burton, guardando lei o le altre donne, non si eccitava neanche un po’. Era troppo profondamente intontito.

La donna parlava con una voce ben modulata e con l’accento di Oxford. — Chiedo scusa, signori. Non ho potuto evitare di sentirvi. Le vostre sono le sole voci inglesi che io abbia udito da quando mi sono svegliata… qui, dovunque sia questo posto. Sono un’inglese, e sto cercando protezione. Mi rimetto alla vostra mercé.

— Fortunatamente per lei, signora, si è rivolta agli uomini giusti — replicò Burton. — Almeno, parlando per me stesso, posso assicurarle che avrà tutta la protezione che potrò offrirle. Benché, se fossi come certi gentiluomini inglesi di mia conoscenza, lei sarebbe capitata meno bene. A proposito, questo signore non è inglese. È uno yankee.

Sembrava strano sentir parlare con tale correttezza in quel particolarissimo giorno, in mezzo ai lamenti e alle grida che si udivano per la valle, in mezzo a tutti quei corpi completamente nudi e glabri come anguille.

La donna tese la mano a Burton. — Sono la signora Hargreaves.

Burton prese la mano e, con un inchino, vi depose un lieve bacio. Si sentì alquanto sciocco, ma, al tempo stesso, quel gesto gli fece avvertire un po’ meno l’irrealtà della situazione. Se era possibile osservare ancora le convenzioni sociali, forse le cose potevano tornare normali di nuovo.

— Io sono il defunto capitano Sir Richard Francis Burton — disse, e fece un leggero sogghigno alla parola defunto. - Forse ha sentito parlare di me.

La donna ritirò di scatto la mano e poi la tese di nuovo.

— Sì, ho sentito parlare di lei, Sir Richard.

Qualcuno disse: — Non può essere!

Burton guardò Frigate, che aveva parlato con quella voce così bassa.

— E perché no? — chiese.

— Richard Burton! — disse Frigate. — Sì. L’avevo immaginato, ma senza neppure un capello…

— Siiii? — replicò Burton strascicando la voce.

— Siiii! — ripeté Frigate. — Proprio come dicevano i libri!

— Ma di cosa sta parlando?

Frigate inspirò profondamente e rispose: — Non si preoccupi, ora, signor Burton. Le spiegherò più tardi. Consideri solo che sono molto scosso. Non del tutto padrone di me. Lei capisce, naturalmente.

Guardò con attenzione la signora Hargreaves, scrollò il capo, e disse: — Il suo nome è Alice?

— Be’, sì — rispose quella. Sorrise e divenne bellissima, anche senza capelli. — Come fa a saperlo? Ci siamo già conosciuti? No, non mi sembra.

— Alice Pleasance Liddel Hargreaves?

— Sì!

— Devo sedermi — disse l’americano. Andò sotto un albero e si sedette per terra, con la schiena appoggiata al tronco. I suoi occhi sembravano un po’ vitrei.

— È la reazione — spiegò Burton.

Si aspettava prima o poi tale irrazionalità di comportamento e di discorsi da parte degli altri. E si aspettava un lieve comportamento irrazionale anche da parte sua. Ma la cosa importante, ora, era di procurare un rifugio e del cibo, e di allestire un piano per la difesa comune.

Parlò agli altri in italiano e sloveno, e fece le presentazioni. Quelli non obiettarono alla sua proposta di seguirlo in riva al fiume.

— Sono sicuro che abbiamo tutti sete — disse. — E dovremmo ispezionare quel fungo di pietra.

Si incamminarono lungo la distesa retrostante. La folla era in parte seduta sull’erba e in parte intenta a girovagare senza meta. Oltrepassarono una coppia che stava litigando a voce alta, con i volti paonazzi. Evidentemente erano stati marito e moglie, e ora avevano ripreso un alterco durato già tutta una vita. D’improvviso l’uomo voltò le spalle e si allontanò. La moglie gli diresse uno sguardo incredulo e poi gli corse dietro. L’uomo la respinse con tale violenza che quella cadde sull’erba. Il marito si buttò rapidamente in mezzo alla folla, e la moglie si mise a cercarlo da tutte le parti, chiamandolo per nome e minacciando uno scandalo se avesse continuato a star nascosto.

Burton pensò per un attimo alla propria moglie, Isabella. Non l’aveva vista tra quella moltitudine, benché ciò non significasse che senz’altro non c’era. Ma si sarebbe messa a cercarlo. Non avrebbe smesso finché non l’avesse trovato.

Si fece largo tra la folla, e giunto che fu in riva al fiume si inginocchiò e raccolse l’acqua con le mani. Era fresca e limpida e ristoratrice. Si sentì lo stomaco completamente vuoto. Avendo soddisfatto la sete divenne affamato.

— Le acque del Fiume della Vita — disse. — Lo Stige? Il Lete? No, non il Lete. Ricordo ogni cosa della mia esistenza sulla Terra.

— Vorrei poter dimenticare la mia — commentò Frigate.

Alice Hargreaves era inginocchiata sulla riva, e prendeva l’acqua con una mano appoggiandosi all’altro braccio. Burton pensò che aveva un aspetto assai piacevole. Si chiese se sarebbe stata bionda una volta che le fossero cresciuti i capelli. Sempre che ricrescessero. Forse Chi aveva collocato lì tutti loro intendeva, per ragioni Sue, che rimanessero per sempre calvi.

Si arrampicarono in cima al più vicino fungo di pietra. La roccia era a grana grossa, di colore grigio con profonde striature rosse. Sulla sua superficie piatta c’erano settecento cavità, disposte su cinque cerchi concentrici. La cavità centrale conteneva un cilindro metallico; un uomo piccolo, dalla pelle scura, con un grande naso e un mento sfuggente, lo stava esaminando. Quando il gruppo si avvicinò, alzò gli occhi e sorrise.

— Questo non vuole aprirsi — disse in tedesco. — Forse si deciderà più tardi. Sono sicuro che serve per indicarci quello che dobbiamo fare con i nostri stessi contenitori.

Si presentò come Lev Ruach, e passò a un inglese dal non perfetto accento quando Burton, Frigate e Alice pronunciarono a loro volta il proprio nome.

— Ero un ateo — continuò; e sembrò che stesse parlando tra sé piuttosto che agli altri. — Ora non so più! Capite, questo posto è un grosso colpo sia per un ateo che per quei devoti credenti che hanno raffigurato un Aldilà ben diverso da questo. Bene, allora ho sbagliato. Non sarebbe la prima volta.

Fece una risatina, poi si rivolse a Monat. — Io l’ho riconosciuta subito. Buon per lei che è risorto in mezzo a un gruppo composto in gran parte di persone morte nel diciannovesimo secolo. Altrimenti l’avrebbero linciata.

— Che significa questo? — chiese Burton.

— Costui fece morire la Terra — rispose Frigate. — Almeno, penso che sia stato lui.

— Il proiettore — disse Monat, col dolore nella voce — era regolato in modo da uccidere solo gli esseri umani. E non avrebbe sterminato tutta l’umanità. Avrebbe smesso di funzionare dopo che un numero prestabilito di terrestri (un numero non piccolo, per sfortuna) avesse perso la vita. Credetemi, amici miei, io non volevo fare una cosa del genere. Voi non sapete quale dolore mi sia costato il dover prendere la decisione di premere il pulsante. Ma dovevo proteggere la mia gente. Mi ci avete costretto voi.

— Tutto cominciò quando Monat era in ripresa diretta — continuò Frigate. — Monat fece un’osservazione infelice. Disse che gli scienziati del suo pianeta avevano tali cognizioni e capacità da impedire alla gente di invecchiare. In teoria, usando la tecnica degli esseri di Tau Ceti, un uomo avrebbe potuto vivere in eterno. Monat disse però che sul suo pianeta tali cognizioni non venivano messe in pratica: ciò gli era proibito. L’intervistatore gli chiese se quella tecnica poteva essere applicata ai terrestri. Monat rispose che non c’era alcun motivo perché questo non fosse possibile. Ma il ringiovanimento era negato alla sua razza per un’ottima ragione, valida anche per i terrestri. A questo punto il censore governativo capì ciò che stava accadendo e disinserì l’audio. Ma era troppo tardi.

— Successivamente — continuò Lev Ruach — il governo americano riferì che Monat aveva frainteso la domanda, e che la sua scarsa conoscenza dell’inglese aveva provocato quell’affermazione errata. Ma era troppo tardi. Gli americani, e poi tutte le nazioni, chiesero che Monat rivelasse il segreto dell’eterna giovinezza.

— Ma io non lo possedevo — disse Monat. — Nessuno di quelli della nostra spedizione lo conosceva. Infatti ben pochi sul mio pianeta ne erano al corrente. Ma non servì a nulla spiegare questo. Credettero che stessi mentendo. Ci fu una rivolta: la folla travolse le guardie intorno alla nostra nave e fece irruzione all’interno. Vidi fare a pezzi i miei amici mentre cercavano di ragionare con quella marmaglia. Ragionare! Ma non per vendetta feci quello che feci, bensì per un motivo del tutto diverso. Sapevo che dopo che fossimo stati uccisi, o anche se non lo fossimo stati, il governo degli Stati Uniti avrebbe ristabilito l’ordine. E si sarebbe impossessato della nave. Non sarebbe occorso molto tempo agli scienziati terrestri per capire in che modo costruirne dei duplicati. La Terra avrebbe finito con inviare una flotta sul nostro pianeta con l’intenzione di invaderlo. Così, per essere sicuro che la civiltà terrestre fosse rimandata indietro di molte centinaia di anni, e forse di migliaia, e sapendo che per salvare il mio popolo dovevo fare quella cosa orrenda, inviai il segnale che avrebbe posto in orbita il proiettore. Non avrei dovuto ricorrere a questo se avessi potuto raggiungere il comando di autodistruzione e far esplodere la nave. Ma non mi era possibile andare nella cabina di comando. Perciò premetti il pulsante che metteva in funzione il proiettore. Poco dopo la folla fece saltare la porta del locale in cui mi ero rifugiato. Dopo di che non ricordo altro.

Frigate disse: — Io ero in ospedale nelle Samoa Occidentali. Stavo morendo di cancro, e mi chiedevo se sarei stato sepolto accanto a Robert Luis Stevenson. Non c’era molta probabilità, pensavo. Avevo bensì tradotto l’Iliade e l’Odissea in samoano, ma… E poi giunse la notizia. In tutto il mondo le persone cadevano fulminate. La causa era evidente. Il satellite lanciato da Monat emetteva qualche radiazione che uccideva all’istante. L’ultima notizia che sentii diceva che Stati Uniti, Inghilterra, Russia, Cina, Francia, e Israele, stavano lanciando dei razzi per intercettare il satellite e farlo esplodere. E diceva che l’orbita di questo l’avrebbe portato entro poche ore sulle Samoa. Debole com’ero, l’emozione deve essere stata troppo forte per me. Scivolai nell’incoscienza. Questo è tutto ciò che ricordo.

— Gli intercettatori non riuscirono nell’intento — disse Ruach. — Il satellite li fece esplodere ancor prima che potessero avvicinarsi.

Burton pensò che aveva da imparare molte cose circa gli avvenimenti successivi al 1890, ma ora non c’era tempo per parlarne. — Propongo di salire verso le colline — disse. — Dovremmo vedere che tipo di vegetazione cresce in quella zona, e se ci può essere utile. E anche cercare se c’è qualche selce che possiamo trasformare in arma. Questo tizio del Paleolitico dev’essere capace di lavorare la pietra. Potrà insegnarlo anche a noi.

Attraversarono il chilometro e mezzo di distesa e giunsero alle colline. Strada facendo, parecchi altri si unirono al loro gruppo. C’era anche una bambinetta di circa sette anni, con occhi d’un blu scuro e un bel faccino. Rivolse uno sguardo commovente a Burton, che le chiese in dodici lingue se qualcuno dei suoi genitori o parenti era nelle vicinanze. La bimba rispose con parole che nessuno di essi capì. I poliglotti del gruppo tentarono con ogni lingua a loro nota, cioè la maggior parte delle parlate europee e molte africane o asiatiche: ebraico, indostano, arabo, un dialetto berbero, rumeno, turco, persiano, latino, greco, pushtu.

Frigate, che masticava un po’ di gallese e di gaelico, interrogò la bimba. Questa spalancò gli occhi, ma poi aggrottò le sopracciglia. Quelle parole sembravano avere una certa familiarità o somiglianza con la sua lingua, ma erano abbastanza diverse da non essere comprensibili.

— Per quel che ne sappiamo — osservò Frigate — potrebbe venire dall’antica Gallia. Usa spesso la parola Gwenafra. Che sia il suo nome?

— Le insegneremo l’inglese — disse Burton. — E la chiameremo Gwenafra. — Prese in braccio la bimba e riprese il cammino. La piccola scoppiò in lacrime, ma non fece alcun tentativo di liberarsi. Il pianto era la reazione a quella che doveva essere stata una tensione pressoché insopportabile, e al tempo stesso era dovuto alla gioia di aver trovato un protettore. Burton chinò il collo per nascondere il volto contro il corpo di Gwenafra. Non voleva che gli altri gli vedessero le lacrime negli occhi.

Nel punto in cui al terreno pianeggiante subentravano i pendii, l’erba bassa terminava, come se fosse stata tirata una linea di confine, e ne iniziava una alta fino alla cintola, folta, simile alla comune alfa. Anche lì crescevano rigogliosi i pini, le querce, i tassi, i nodosi giganti con foglie scarlatte e verdi e i bambù. Questi ultimi erano presenti con molte varietà, dall’esile pianticella di poco più di un metro alla pianta di più di quindici metri. Molti alberi erano ricoperti di piante rampicanti che portavano enormi fiori verdi, rossi, gialli, blu.

— Il bambù — disse Burton — è un materiale adatto per manici di lance, tubi per acquedotti, contenitori; è anche la materia prima per costruire case, mobili, imbarcazioni; se ne può perfino ricavare il carbone che serve per produrre la polvere da sparo. E i giovani steli di alcune specie possono essere buoni da mangiare. Ma abbiamo bisogno di pietra con cui fabbricare gli attrezzi per tagliare e lavorare il legno.

Si inerpicarono su per le colline, la cui pendenza aumentava a mano a mano che le montagne si facevano più vicine. Dopo che ebbero percorso circa tredici chilometri, corrispondenti a tre in linea d’aria, furono fermati dalle montagne. Queste si ergevano con una parete simile a una scogliera, formata da una roccia eruttiva d’un colore nero-bluastro cosparsa di enormi macchie di lichene verde-blu. Non c’era modo di stabilire l’altezza di quelle montagne, ma Burton non credeva di sbagliare molto valutandola almeno seimila metri. E tutt’attorno alla valle la montagna presentava un fronte compatto.

— Avete notato l’assenza completa di vita animale? — disse Frigate. — Neppure un insetto.

Burton lanciò un grido. Corse verso un gruppo di rocce sgretolate e raccolse un pezzo di pietra verdastra, grande come un pugno. — Selce! — esclamò. — Se ce n’è abbastanza possiamo ricavarne coltelli, punte di lancia, asce, scuri. E con queste costruire case, imbarcazioni, e molte altre cose.

— Attrezzi e armi devono essere legati a manici di legno — osservò Frigate. — Cosa useremo come lacci?

— Forse pelle umana — rispose Burton.

Gli altri parvero sbigottiti. Burton fece una strana risatina cinguettante, assurda in un uomo dall’aspetto così virile. Poi spiegò: — Se saremo costretti ad uccidere per autodifesa, o avremo la fortuna di imbatterci in un cadavere che un assassino sia stato così gentile da mettere a nostra disposizione, saremmo sciocchi se non usassimo ciò che ci serve. Ad ogni modo, se qualcuno di voi è provvisto di tanto spirito di sacrificio da offrire la propria epidermide per il bene del gruppo, si faccia avanti! Lo ricorderemo nelle nostre preghiere.

— Lei sta certo scherzando — disse Alice Hargreaves. — A me non garbano molto questi discorsi.

— Gli stia vicina e ne sentirà di peggiori — osservò Frigate; ma non spiegò quello che intendeva con tali parole.

CAPITOLO SESTO

Burton esaminò la roccia lungo la base della montagna. La pietra nero-bluastra, dalla grana sottile, era una specie di basalto. Ma c’erano dei pezzi di selce sparpagliati sulla superficie del terreno, e altri che spuntavano dalla base stessa della parete. Poteva darsi che i primi fossero caduti da qualche sporgenza soprastante, per cui era possibile che la montagna non fosse una massa compatta di basalto. Usando un pezzo di selce che aveva un bordo sottile, Burton sollevò in un punto lo strato di licheni. La roccia che stava sotto sembrava una dolomite verdastra. Evidentemente i pezzi di selce si erano prodotti dalla dolomite, benché non ci fosse traccia di trasformazioni o di fratture nella vena.

Il lichene poteva essere Parmelia saxitilis, che cresceva pure su vecchie ossa, teschi compresi, per cui, secondo la Dottrina delle Segnature, costituiva una cura contro l’epilessia e un balsamo medicamentoso per le ferite.

Sentendo un rumore di rocce che cozzavano, Burton tornò al gruppo. Si erano messi tutti in circolo intorno al subumano e all’americano, che stavano seduti schiena contro schiena intenti a lavorare la selce. Entrambi avevano ricavato dei rozzi martelli, e ne produssero altri sei sotto gli occhi degli astanti. Poi presero un grosso pezzo di selce massiccia e lo ruppero in due col martello. Operando su una metà alla volta staccarono dall’orlo esterno delle lunghe scaglie sottili. Procedettero così finché ciascuno ebbe davanti a sé una dozzina circa di pezzi taglienti.

Lavoravano insieme: l’uno, appartenente a una razza che era vissuta centomila anni o più prima di Cristo; l’altro, il raffinato culmine dell’evoluzione umana, il prodotto della più evoluta civiltà (tecnologicamente parlando) della Terra, o in effetti, se si doveva credere a quanto diceva, uno degli ultimi terrestri.

D’improvviso Frigate urlò: balzò in piedi e si mise a saltellare tutt’intorno tenendosi il pollice sinistro. Una delle sue martellate aveva mancato il bersaglio. Kazz sghignazzò, mostrando enormi denti simili a pietre tombali. Anch’egli si alzò, e si incamminò sull’erba con la sua curiosa andatura ballonzolante. Ricomparve dopo alcuni minuti portando sei canne di bambù con le estremità appuntite, e parecchie altre tagliate invece trasversalmente. Tornò a sedersi e si diede da fare su una canna finché ebbe praticato una spaccatura ad una estremità inserendovi poi una testa di scure ridotta a forma triangolare. Quindi l’assicurò con alcuni lunghi steli d’erba.

Entro mezz’ora il gruppo era armato di asce di pietra, scuri col manico di bambù, pugnali, lance di bambù e di selce.

Ormai la mano di Frigate aveva cessato di dolere, e non sanguinava più. Burton gli chiese come mai era così abile nella lavorazione della pietra.

— Ero un antropologo dilettante — rispose Frigate. — Un mucchio di persone (un mucchio relativamente parlando) aveva imparato per passatempo a fabbricarsi attrezzi e armi di pietra. Alcuni di noi divennero veramente bravi, benché io non creda che nessun moderno fosse abile e veloce come uno specialista del Neolitico. Capisce, quelli lo facevano per tutta la vita. Io poi conoscevo bene anche l’arte di lavorare il bambù, perciò posso essere di qualche utilità per voi.

Si rimisero in cammino per tornare al fiume. Fecero una breve sosta in cima a un’altra collina. Il sole era quasi esattamente allo zenith. Poterono spaziare con lo sguardo per molti chilometri lungo e oltre il fiume. Benché fossero troppo lontani per distinguere delle sagome sull’altra riva, poterono scorgere ugualmente le pietre a forma di fungo. La regione di là dal fiume era identica a quella in cui essi si trovavano. Una fascia pianeggiante larga un paio di chilometri circa, e forse quattro chilometri di colline coperte di alberi. Al di là, la parete quasi verticale di un’insormontabile montagna nera e verde-bluastra.

La valle si stendeva diritta da nord a sud per una quindicina di chilometri. Poi faceva una curva, e il fiume scompariva alla vista.

— L’alba deve arrivare tardi e il tramonto presto — disse Burton. — Bene, dobbiamo sfruttare il più possibile le ore di luce.

In quell’istante tutti fecero un salto, e molti gridarono. Una fiamma azzurra proruppe dalla cima di ogni fungo di pietra, s’innalzò per non meno di sei metri, quindi svanì. Pochi secondi dopo giunse il rumore di un tuono lontano. Il rombo colpì la montagna alle loro spalle ed echeggiò.

Burton prese in braccio la bimba e scese a valle con passo veloce. Il gruppo cercò di mantenere una buona andatura, ma fu costretto a ridurla di quando in quando per riprendere fiato. Malgrado ciò Burton si sentiva magnificamente bene. Erano passati degli anni da quando non era stato più in grado di usare così intensamente i suoi muscoli; ora non avrebbe più voluto smettere di godere quella sensazione. Riusciva a malapena a credere che, solo poco tempo addietro, il suo piede destro fosse stato gonfio per la gotta, e il cuore gli si mettesse a battere selvaggiamente appena egli saliva qualche gradino.

Giunsero a valle e continuarono a camminare di buon passo, vedendo che intorno a uno dei funghi c’era un’intensa agitazione. Burton imprecò contro quelli che gli stavano davanti e si aprì un varco a spintoni. Ne ebbe di rimando delle occhiatacce, ma nessuno si scostò. Di colpo si trovò nella zona libera intorno al fungo, e vide ciò che aveva attirato quella gente. Ne sentì anche l’odore.

Frigate, dietro di lui, disse: — Oh, mio Dio! — Il suo stomaco vuoto ebbe un conato di vomito.

Burton, nella sua vita precedente, aveva visto troppe cose per rimanere facilmente impressionato da orribili spettacoli. Inoltre era in grado di staccarsi dalla realtà quando essa diveniva troppo orrenda o dolorosa. Talvolta compiva tale atto, l’allontanamento delle cose-come-sono, con uno sforzo di volontà. Di solito però ciò accadeva automaticamente. Così avvenne questa volta.

Il cadavere giaceva sul fianco, e per metà sull’orlo superiore del fungo. La pelle era completamente carbonizzata, e i muscoli, così messi allo scoperto, erano bruciacchiati. Naso, orecchie, dita delle mani e dei piedi, genitali, erano stati divorati dal fuoco, o rimanevano solo dei monconi informi.

Lì accanto, in ginocchio, c’era una donna che mormorava una preghiera in italiano. I suoi grandi occhi neri dovevano essere di certo bellissimi, benché ora fossero arrossati e gonfi di lacrime. La donna aveva anche una figura magnifica che in circostanze diverse avrebbe attirato completamente l’attenzione di Burton.

— Cos’è successo? — chiese questi.

La donna smise di pregare e lo guardò. Poi si alzò in piedi e rispose a Burton con un filo di voce. — Padre Giuseppe si era chinato su questa pietra, dicendo che aveva fame. Aggiunse che non c’era molto senso nell’essere riportati in vita solo per morire di fame. Io l’assicurai che non saremmo morti. Com’era possibile? Ci era stata ridata la vita: avremmo avuto anche il resto. Egli rispose che forse eravamo all’inferno. Avremmo dovuto rimanere affamati e nudi per sempre. Io lo supplicai di non bestemmiare, perché non doveva dare il cattivo esempio a tutti noi. Ma egli replicò che questo non era ciò che per quarant’anni aveva detto a ognuno che sarebbe accaduto, e allora… e allora…

Burton attese alcuni secondi, poi ripeté: — E allora?

— Padre Giuseppe disse che quanto meno non c’era il fuoco infernale, ma che sarebbe stato meglio questo piuttosto che patire la fame per l’eternità. E in quell’istante uscirono le fiamme e lo avvolsero completamente, e ci fu un rumore come di una bomba che esplode, ed egli bruciò vivo e morì. È stato orribile, orribile.

Burton si spostò a nord rispetto al cadavere, per mettersi sopravvento, ma anche così il lezzo era nauseabondo. Non era tanto l’odore a sconvolgerlo, quanto il pensiero della morte. Il primo giorno della Resurrezione non era ancora terminato che era già morto un uomo. Forse ciò significava che i risorti erano vulnerabili nei confronti della morte proprio come lo erano stati sulla Terra? Se era così, che senso c’era in tutta la faccenda?

Frigate non aveva più conati di vomito. Pallido e tremante, si alzò in piedi e si avvicinò a Burton, mettendosi con la schiena rivolta al morto.

— Non sarebbe meglio sbarazzarci di quello? — chiese, facendo segno dietro di sé col pollice.

— Penso di sì — rispose Burton con voce glaciale. — Però è un vero peccato che la sua pelle sia inservibile.

Sghignazzò in faccia all’americano. Frigate sembrò ancor più sconvolto.

— Qua — disse Burton. — Lo afferri bene per i piedi. Io lo prenderò dall’altra parte. Lo getteremo nel fiume.

— Nel fiume? — ripeté Frigate.

— Sì, certo. A meno che lei non voglia portarselo sulle colline e scavargli là una fossa.

— Non posso — disse Frigate. e si allontanò. Burton lo guardò con un’espressione di disprezzo, poi fece un cenno al subumano. Kazz grugnì, e si trascinò verso il cadavere con quella sua caratteristica andatura obliqua. Gli si fermò accanto, e prima che Burton potesse afferrare i moncherini anneriti dei piedi, sollevò il corpo sopra il capo, fece qualche passo verso la riva del fiume, e lo gettò in acqua. Il cadavere affondò immediatamente, e la corrente lo trascinò lungo la riva. Kazz decise che il lavoro non era abbastanza soddisfacente: entrò nell’acqua finché questa gli giunse alla cintola, e poi si immerse rimanendo sotto per un minuto. Evidentemente stava spostando il cadavere verso un punto più profondo.

Alice Hargreaves era rimasta ad osservare inorridita. A questo punto disse: — Ma quella è l’acqua che berremo!

— Il fiume sembra abbastanza grande per purificarsi da solo — replicò Burton. — Ad ogni modo abbiamo altre cose di cui preoccuparci senza dover pensare anche alle misure igieniche.

Monat toccò la spalla di Burton e disse: — Guardi là! — Burton si voltò. Nel punto in cui presumibilmente si trovava il cadavere, l’acqua stava ribollendo. D’improvviso un dorso argenteo con una pinna bianca fendette la superficie.

— Sembra che le preoccupazioni circa l’inquinamento dell’acqua siano inutili — disse Burton ad Alice Hargreaves. — Il fiume ha degli spazzini. Chissà… se è pericoloso nuotarci dentro.

Il subumano, almeno, ne era uscito senza essere attaccato. Si era messo davanti a Burton, scrollandosi l’acqua dal corpo glabro e sogghignando con quei denti enormi. Era spaventosamente brutto. Ma possedeva le nozioni di un uomo primitivo, nozioni che si erano già dimostrate preziose in un mondo di condizioni primitive. E averlo al proprio fianco durante un combattimento sarebbe stato dannatamente utile. Benché fosse piccolo era immensamente forte. Quelle grosse ossa offrivano una larga base d’impianto a muscoli poderosi. Era evidente che Kazz, per qualche motivo, si era affezionato a Burton. Burton volle credere che quel selvaggio, con un istinto appunto da selvaggio, «sapesse» che Burton era l’uomo da seguire se voleva sopravvivere. Inoltre un subumano, o preumano che fosse, essendo più vicino agli animali, doveva anche essere un buon medium. Così Kazz aveva potuto scoprire le notevoli facoltà medianiche dello stesso Burton e aveva avvertito un’affinità con lui, benché questi fosse un Homo sapiens.

Poi Burton ricordò che la sua fama come medium era stata inventata da lui stesso, e che egli era un mezzo ciarlatano. Aveva parlato tanto delle proprie facoltà, e aveva ascoltato tanto sua moglie, che aveva finito col credervi egli stesso. Ma c’erano dei momenti in cui si ricordava che le sue «facoltà» erano mezzo inventate.

Ad ogni modo era un bravo ipnotizzatore, e aveva la convinzione che i suoi occhi, quando lo desiderava, sprigionassero una tipica vibrazione extrasensoriale. Poteva essere stato questo ad attirare il semiuomo.

— La roccia ha liberato una tremenda energia — disse Lev Ruach. — Dev’essere stata energia elettrica. Ma perché? Non posso credere che la scarica sia stata priva di scopo.

Burton ispezionò la roccia a forma di fungo. Non sembrava che il cilindro grigio alloggiato nella cavità centrale avesse subito danni dalla scarica. Burton toccò la roccia. Non era più calda di quanto ci si sarebbe aspettato, tenendo conto del fatto che era rimasta esposta al sole.

— Non la tocchi! — esclamò Lev Ruach. — Ci può essere un’altra… — Vedendo che il suo avvertimento giungeva troppo tardi, tacque.

— Un’altra scarica? — disse Burton. — Non credo. Non per un po’ di tempo, ad ogni modo. Quel cilindro è stato lasciato lì perché noi possiamo imparare qualcosa sulla sua funzione.

Appoggiò le mani all’orlo superiore della pietra e fece un salto. Si trovò in cima al fungo con un’agilità che lo lasciò assai soddisfatto. Erano ormai passati molti anni dall’ultima volta che si era sentito così giovane e vigoroso. O così affamato.

Alcuni, nella folla, gli gridarono di saltar giù dalla roccia prima che le fiamme azzurre erompessero di nuovo. Altri stavano a guardare, come se avessero sperato che si verificasse una seconda scarica. La maggioranza era lieta di lasciar correre a lui il rischio.

Nulla accadde, benché Burton non fosse stato troppo sicuro di non venir incenerito. La pietra dava solo una sensazione di piacevole tepore sui suoi piedi nudi.

Passando sopra la cavità si diresse al cilindro, e appoggiò le dita sotto il bordo del coperchio. Questo si sollevò con facilità. Burton, col cuore che batteva forte per l’emozione, guardò all’interno. Si era aspettato il miracolo, e il miracolo c’era. I supporti all’interno reggevano sei contenitori, tutti pieni.

Fece cenno a quelli del suo gruppo di salire. Kazz volteggiò con mossa disinvolta. Frigate, che si era rimesso dalla nausea, balzò in cima con la facilità di un atleta. Burton pensò che se l’individuo non avesse avuto uno stomaco così delicato sarebbe stato un aiuto prezioso. Frigate si voltò e tese le mani ad Alice, che così poté inerpicarsi.

Quando furono tutti riuniti intorno a lui, con le teste piegate sull’interno del cilindro, Burton disse: — È un vero Graal! Guardate! Una bistecca! Una bistecca alta e succulenta! Pane e burro! Marmellata! Insalata! E questo cos’è? Un pacchetto di sigarette? Sì! E un sigaro! E un bicchiere di bourbon, di ottima marca a giudicare dall’odore! Un pezzo… e cos’è questo?

— Sembra una tavoletta di gomma da masticare — disse Frigate. — Scartata. E quello dev’essere un… Cosa sarà? Un accendino per la pipa?

Un uomo gridò: — Cibo! — Era un tipo ben piantato, e non faceva parte di quello che Burton aveva definito il suo «gruppo». Questi li aveva seguiti, e altri si stavano arrampicando sulla roccia. Burton ripose di nuovo i contenitori nel cilindro, e afferrò il piccolo oggetto argenteo di forma rettangolare che stava sul fondo. Frigate aveva detto che poteva essere un accendino. Burton non sapeva cosa fosse un «accendino», ma riteneva che fornisse del fuoco per le sigarette. Tenne l’oggetto nel palmo di una mano e con l’altra chiuse il coperchio del cilindro. Gli scendeva l’acquolina dalla bocca, e il suo ventre stava borbottando. Gli altri erano bramosi al pari di lui: la loro espressione indicava che essi non riuscivano a capire perché Burton avesse riposto di nuovo il cibo.

Il tipo ben piantato, parlando in italiano-triestino con voce energica e spavalda, disse: — Ho fame, e ucciderò chiunque tenti di fermarmi! Aprite quel coso!

Gli altri non dissero nulla, ma era evidente che si aspettavano che Burton difendesse la loro comune proprietà. Invece egli disse: — Apritelo da te — e girò le spalle all’estraneo. Gli altri esitarono. Avevano visto e annusato il cibo. Kazz stava sbavando. Ma Burton esclamò: — Guardate quella marmaglia. Fra un minuto qui ci sarà una lotta. Io dico: lasciate che lottino per il loro tozzo di pane. Non che io intenda voltar le spalle a un combattimento — aggiunse, lanciando uno sguardo fiero. — Ma sono certo che per l’ora di cena tutti noi avremo i nostri cilindri pieni di cibo. Questi cilindri… chiamateli graal, se così vi piace… hanno solo bisogno di essere messi sulla roccia per riempirsi. E ovvio: questo graal è stato sistemato qui appunto per farcelo capire.

Si avvicinò al bordo della roccia, dalla parte del fiume, e saltò giù. Ormai il fungo era stipato di persone, e altre ancora cercavano di arrampicarvisi. Il tipo ben piantato aveva ghermito la bistecca e le dava dei grandi morsi, ma qualcuno cercò di strappargliela via. Quello gridò rabbiosamente, e di colpo si aprì un varco in direzione del fiume. Saltò giù dalla roccia e si tuffò in acqua, riemergendo un attimo dopo. Nel frattempo uomini e donne urlavano e si picchiavano contendendosi il resto del cibo e gli altri generi compresi nel cilindro.

L’uomo che si era buttato nel fiume stava galleggiando sulla schiena, e intanto finiva di mangiare la bistecca. Burton non lo perdeva d’occhio, quasi aspettandosi che fosse assalito dai pesci. Ma quello si lasciava trasportare dalla corrente, indisturbato.

I funghi a nord e a sud, su entrambe le sponde del fiume, brulicavano di combattenti.

Burton camminò finché si fu portato lontano dalla folla, quindi si mise a sedere. Quelli del suo gruppo gli si accucciarono accanto, o rimasero in piedi a osservare la marmaglia turbolenta che si scalmanava. La pietra sembrava un fungo divorato da pallidi vermi. Vermi assai rumorosi. Alcuni di essi, ora, erano chiazzati di rosso, perché s’era cominciato a spargere sangue.

L’aspetto più deprimente della scena era la reazione dei bambini. I più piccoli non si erano avvicinati alla roccia, ma sapevano che nel graal c’era del cibo. Stavano piangendo per la fame e per la paura causata loro dagli adulti che urlavano e combattevano sul fungo di pietra. La bambinetta del gruppo di Burton aveva gli occhi asciutti, ma tremava. Si mise accanto a Burton, gettandogli le braccia intorno al collo. Egli le diede dei colpetti sulla schiena mormorando parole d’incoraggiamento: la bimba non poteva comprenderle, ma il loro tono fece sì che si calmasse un poco.

Il sole era nella parabola discendente. Entro due ore circa sarebbe stato nascosto dalle immense montagne occidentali, ma la notte vera e propria sarebbe giunta solo dopo molte ore. Non c’era modo di stabilire quanto fosse lungo il giorno in quella valle. La temperatura era salita, ma stare seduti al sole non era affatto insopportabile, e la brezza impediva di sudare.

Kazz, per mezzo di gesti, fece capire che voleva accendere un fuoco, e indicò la punta di una lancia di bambù. Senza dubbio intendeva far indurire sulla fiamma la punta della lancia.

Burton aveva esaminato l’oggetto metallico preso dal graal. Piatto e di forma rettangolare, era fatto di un metallo duro e argenteo, e aveva le dimensioni di circa cinque centimetri per sette millimetri. C’era un piccolo foro ad un’estremità, e una piastrina scorrevole all’altra. Burton appoggiò l’unghia del pollice al dente che sporgeva dalla piastrina, e premette. La piastrina si abbassò di un paio di millimetri circa, e dal foro posto all’altra estremità dell’oggetto uscì un filo lungo un centimetro e del diametro di un paio di millimetri. Era d’un bianco così brillante che lo si poteva notare anche in pieno sole. Burton accostò il filo ad uno stelo d’erba, e questo si carbonizzò all’istante. Appoggiato alla punta della lancia di bambù, vi produsse un forellino. Burton riportò la piastrina alla posizione iniziale, e il filo, simile al capo di una tartaruga, scomparve nell’argentea custodia.

Sia Frigate che Ruach fecero congetture sull’energia contenuta nel minuscolo oggetto. Portare il filo a quella temperatura richiedeva un voltaggio elevato. Quante accensioni poteva produrre la batteria o la pila radioattiva che senz’altro si trovava all’interno? E come si faceva a cambiarla?

C’erano molte altre domande alle quali non si poteva rispondere subito, e forse mai. La prima riguardava il modo in cui essi erano stati riportati in vita con corpi ringiovaniti. Chiunque avesse fatto ciò possedeva una scienza pari a quella di Dio. Ma le ipotesi su tale problema, pur fornendo loro qualcosa di cui parlare, non avrebbero risolto nulla.

Dopo un po’ la folla si disperse. Il cilindro era rimasto al suo posto, in cima al fungo di pietra. Parecchi corpi gli giacevano accanto, e molte delle persone che si stavano allontanando erano ferite. Burton passò attraverso la folla. Una donna aveva il volto tutto graffiato, specialmente intorno all’occhio destro. Stava singhiozzando, e nessuno le prestava attenzione. Un uomo era seduto per terra e si teneva l’inguine, che portava i segni di unghie affilate.

Dei quattro che giacevano sulla sommità della roccia, tre erano privi di sensi. Furono fatti rinvenire gettando loro in faccia dell’acqua mediante i graal. Il quarto, un uomo piccolo e magro, era morto. Qualcuno gli aveva torto il collo finché si era rotto.

Burton guardò di nuovo il sole e disse: — Non so con esattezza quando sarà l’ora della cena. Direi di non tornare dopo troppo tempo da che il sole sarà sceso dietro le montagne. Metteremo in quelle cavità i nostri graal, o santi recipienti, o secchi da pasto, o come li volete chiamare. Nel frattempo…

Stava per dire di gettare anche quel cadavere nel fiume, ma gli venne in mente che ne poteva ricavare qualcosa di utile. Spiegò agli altri quello che intendeva, e quelli calarono il corpo dalla roccia e lo portarono attraverso la distesa. Frigate e Galeazzi, ex-importatore di Trieste, fecero il primo turno. Era chiaro che Frigate non gradiva molto tale lavoro, ma quando Burton gli chiese se voleva dare una mano rispose di sì. Afferrò il cadavere per i piedi e si avviò, mentre Galeazzi lo reggeva per le ascelle. Alice camminava dietro a Burton, tenendo la bimba per mano. Qualcuno della folla li guardò con curiosità o gridò commenti e domande, ma Burton li ignorò. Dopo circa un chilometro, Kazz e Monat diedero il cambio a Frigate e Galeazzi. La bimba non sembrava turbata dalla vista del morto. Il primo cadavere l’aveva incuriosita, invece di inorridirla per via della carne bruciata.

— Se è vero che viene dall’antica Gallia — disse Frigate — può essere abituata a vedere corpi carbonizzati. Se ricordo bene, durante certi riti religiosi i Galli bruciavano delle vittime, vive, in grossi cesti di vimini. Non rammento in onore di quale dio o dea fossero quei riti. Vorrei avere una biblioteca per cercarlo. Pensate che potremo avere dei libri, qui? Io credo che diventerei matto se non potessi più leggere.

— Rimane da vedere — disse Burton. — Se non ci sarà fornita una biblioteca ce la faremo da noi. Sempre che sia possibile.

Burton pensò che la domanda di Frigate era un po’ sciocca, ma poi rifletté che quel giorno nessuno aveva la mente del tutto equilibrata.

Alla base delle colline altri due uomini, Rocco e Brontich, diedero il cambio a Kazz e Monat. Burton li condusse oltre gli alberi, attraverso l’erba alta fino alla cintola. L’erba, che aveva il bordo seghettato, graffiava loro le gambe. Burton tagliò uno stelo col suo coltello e ne saggiò la resistenza e la flessibilità. Frigate gli si teneva vicino al gomito, e sembrava incapace di smettere di chiacchierare. Burton pensò che probabilmente discorreva per impedirsi di pensare ai due morti.

— Se ogni uomo vissuto sulla Terra è risorto qui, pensi quante ricerche si possono fare! Pensi quanti enigmi della storia e quanti problemi si potrebbero risolvere! Potremmo parlare a John Wilkes Booth e scoprire se dietro l’assassinio di Lincoln c’era davvero il Ministro della Guerra Stanton. E scoprire anche l’identità di Jack lo Squartatore. E appurare se Giovanna d’Arco faceva realmente parte di una setta di streghe. E parlare al Maresciallo Ney e farci dire se è vero che scampò al plotone d’esecuzione e divenne insegnante, in America. E sapere come si svolsero i fatti a Pearl Harbor. E vedere la faccia dell’Uomo dalla Maschera di Ferro, se pure è mai esistito. E intervistare Lucrezia Borgia e quelli che la conoscevano e appurare se era quella cagna avvelenatrice che la maggior parte delle persone pensa che fosse. E scoprire l’identità dell’assassino dei due principini nella Torre. Forse li uccise proprio Riccardo III.

— E anche riguardo a lei e alla sua stessa vita, Richard Francis Burton, ci sono molti interrogativi ai quali i suoi biografi vorrebbero che si fosse data risposta. È vero che amò una donna persiana, e che la voleva sposare, e che per amor suo era disposto a rinunciare al proprio nome e farsi anche lei persiano? È vero che la donna morì prima che lei potesse sposarla, e che lei fu amareggiato da questa morte e rimase innamorato di quella donna per il resto della sua vita?

Burton guardò Frigate con occhio torvo. Si erano appena conosciuti ed ecco che costui gli rivolgeva le domande più personali e intime. Nulla poteva scusare tale comportamento.

Frigate fece marcia indietro. — Capisco, capisco: ogni cosa a suo tempo. Ma lei sapeva che sua moglie le fece amministrare l’estrema unzione poco dopo che lei morì, e che fu sepolto in un cimitero cattolico? Lei, l’infedele!

Lev Ruach, i cui occhi si erano andati spalancando a mano a mano che Frigate continuava a cicalare, disse: — Lei è Burton, l’esploratore e glottologo? Lo scopritore del Lago Tanganica? Colui che fece un pellegrinaggio alla Mecca camuffato da mussulmano? Il traduttore delle Mille e una notte?

— Non ho alcun desiderio o bisogno di mentire. Lo sono.

Lev Ruach sputò in faccia a Burton, ma il vento portò via la saliva. — Figlio di una cagna! — gridò. — Pazzo bastardo nazista! Ho letto di te! Sotto molti aspetti eri un uomo ammirevole, suppongo. Ma eri un antisemita!

CAPITOLO SETTIMO

Burton era esterrefatto. — Sono stati i miei amici — disse — a spargere queste dicerie errate e prive di fondamento. Ma chi conosce i fatti e me, dovrebbe sapere come sono andate le cose. E adesso io penso che…

— Vuoi forse negare di aver scritto Ebrei, zingari, maomettani? — interruppe Ruach sghignazzando.

— L’ho scritto — rispose Burton. Aveva il volto paonazzo, e abbassando lo sguardo vide che tutto il suo corpo si era arrossato. — E adesso, come stavo dicendo prima che lei m’interrompesse così zoticamente, penso che farebbe meglio ad andarsene. A quest’ora, in altre circostanze, io le sarei già saltato alla gola. Un uomo che parla così con me deve giustificare le proprie parole con i fatti. Ma questa è una situazione un pò strana, e forse lei è nervoso. Non lo so. Ma se lei non si scusa subito, o non se ne va, ho tutta l’intenzione di aggiungere un altro cadavere.

Ruach strinse i pugni e guardò Burton con odio; poi girò sui talloni e si allontanò altezzosamente.

— Cosa vuol dire «nazista»? — chiese Burton a Frigate.

L’americano glielo spiegò come meglio poté. Burton disse: — Ho molto da imparare su quello che accadde dopo la mia morte. Quell’uomo si sbaglia sul mio conto. Io non sono affatto un nazista. Dice che l’Inghilterra divenne una potenza di second’ordine? Soltanto cinquant’anni dopo la mia morte? Per me è difficile crederlo.

— Perché dovrei mentirle? — replicò Frigate. — Non se la prenda per questo. Prima della fine del ventesimo secolo l’Inghilterra si era sollevata di nuovo, e in modo assai singolare, benché ormai fosse troppo tardi…

Mentre ascoltava lo yankee, Burton si sentiva pieno d’orgoglio per la propria nazione. Benché l’Inghilterra l’avesse trattato per tutta la vita in modo più che meschino, e benché egli avesse desiderato ripartire dall’isola tutte le volte che vi metteva piede, l’avrebbe difesa fino alla morte. E inoltre era sempre stato fedele alla sua Regina.

D’improvviso chiese: — Se lei aveva indovinato la mia identità, perché non me l’ha detto subito?

— Volevo esserne sicuro — rispose Frigate. — Oltre a ciò, non abbiamo avuto molto tempo per i rapporti sociali. Né per rapporti di qualsiasi altro genere — soggiunse, guardando con la coda dell’occhio la splendida figura di Alice Hargreaves.

— So qualcosa anche su quella - disse. — Sempre che sia la donna che credo.

— Io invece non ne so nulla — replicò Burton, e si fermò. Avevano risalito il pendio della prima collina, giungendone in cima. I due portatori deposero in terra il cadavere, sotto un gigantesco abete rosso.

All’istante Kazz, col coltello di selce in mano, si accovacciò accanto al corpo. Sollevò le mani e intonò quello che doveva essere un canto religioso. Poi, prima che gli altri potessero opporsi, praticò un’incisione al cadavere e gli asportò il fegato.

La maggior parte dei presenti emise un grido d’orrore. Burton grugnì. Monat rimase a fissare, sbalordito.

I grossi denti di Kazz affondarono nell’organo sanguinolento, staccandone un’ampia porzione. Le sue mascelle dalle grandi ossa e dai muscoli potenti presero a masticare, ed egli socchiuse gli occhi con espressione estatica. Burton gli si avvicinò e tese la mano, con un gesto che voleva significare protesta. Kazz fece un largo sogghigno: tagliò via un pezzo dal fegato e lo offrì a Burton. Quando questi lo rifiutò rimase molto stupito.

— Un cannibale! — esclamò Alice Hargreaves. — Oh, mio Dio, un cannibale insanguinato e puzzolente! È questo è l’aldilà che ci era stato promesso!

— Non è peggiore dei nostri stessi antenati — osservò Burton. Si era ripreso dall’emozione, e si stava perfino divertendo, almeno un poco, davanti alla reazione degli altri. — In una terra dove il cibo sembra essere un pochino scarso, la sua azione è eminentemente pratica. Bene, il nostro problema di seppellire un cadavere senza gli opportuni attrezzi di scavo è risolto. D’altra parte se i graal, contrariamente a quanto pensiamo, non sono una fonte di cibo, prima o poi finiremo con l’imitare Kazz.

— Mai! — esclamò Alice. — Prima morirei!

— Questo è esattamente quello che lei vorrebbe fare — replicò Burton con voce glaciale. — Suggerisco di allontanarci, lasciando che Kazz mangi in pace. Il mio appetito non si calma vedendo lui, e inoltre io trovo il suo comportamento a tavola abominevole almeno come quello di uno yankee delle frontiere. O di un curato di campagna — aggiunse a beneficio di Alice.

Andarono a mettersi dietro a uno dei grandi alberi nodosi, dove Kazz non poteva vederli. Alice disse: — Non voglio averlo d’attorno. È un animale, una cosa repellente! Ecco, non mi sentirei al sicuro neppure per un secondo con lui vicino!

— Lei ha chiesto la mia protezione — replicò Burton. — Io gliela darò finché lei farà parte di questo gruppo. Ma lei dovrà anche accettare le mie decisioni. Una delle quali è che l’uomo scimmia rimane con noi. Abbiamo bisogno della sua forza e della sua abilità, che sembrano molto appropriate a questa regione. Siamo diventati dei primitivi, perciò abbiamo tutto da imparare da un primitivo. Kazz rimane.

Alice guardò gli altri senza parlare, come per chiedere il loro intervento. Le sopracciglie di Monat fremettero. Frigate si strinse nelle spalle e disse: — Signora Hargreaves, se le è possibile dimentichi le sue abitudini, le sue convenzioni. Non siamo esattamente in un paradiso vittoriano di prima classe. E neppure, in verità, in alcun tipo di paradiso mai sperato. Non può pensare a comportarsi come faceva sulla Terra. Tanto per darle un esempio, lei viene da una società in cui le donne si coprivano dal collo ai piedi con pesanti indumenti e la vista di un ginocchio femminile era eccitante al massimo. Tuttavia non sembra che lei provi il benché minimo imbarazzo ad essere nuda: ha ugualmente un portamento nobile e solenne, come se indossasse un abito da suora.

— A me la cosa non piace — replicò Alice. — Ma perché dovrei esserne imbarazzata? Dove tutti sono nudi, nessuno è nudo. Non si può pensare altrimenti. Anche se un angelo mi desse un corredo completo, non lo metterei. Sarei fuori moda. Inoltre ho un bel personale. Se non l’avessi, sì che sarei imbarazzata.

I due uomini risero, e Frigate disse: — Lei è fantastica, Alice. Assolutamente. Posso chiamarla Alice? «Signora Hargreaves» sembra così formale, adesso che è nuda.

Alice non rispose; si allontanò e scomparve dietro un grosso albero. Burton disse: — Bisognerà stabilire qualche regola igienica nell’immediato futuro. Il che significa che qualcuno dovrà stabilire le norme sanitarie, e avere il potere di emettere leggi e farle rispettare. Ma come si fa a formare il corpo legislativo, il giudiziario, l’esecutivo, dall’attuale stato di anarchia?

— Passiamo a problemi più immediati — propose Frigate. — Cosa facciamo del morto?

Frigate era solo un po’ meno pallido di un momento prima, quando Kazz aveva sventrato il cadavere col suo coltello di selce.

Burton disse: — Sono sicuro che la pelle umana, opportunamente conciata, o le budella umane, opportunamente trattate, sono di gran lunga superiori all’erba per confezionare funi o lacci. È mia intenzione tagliarne via dei pezzi. Vuole aiutarmi?

Il silenzio era rotto solo dal vento che faceva stormire le foglie e gli steli d’erba. Il sole picchiava forte, tanto da far sudare, ma il sudore asciugava rapidamente alla brezza. Nessun uccello strideva, nessun insetto ronzava. Ed ecco d’un tratto la stridula voce della bambina lacerare la calma. La voce di Alice le rispose, e la bimba corse da lei dietro l’albero.

— Ci proverò — disse l’americano. — Ma non garantisco. Ne ho già viste troppe, tutte in un solo giorno.

— Faccia come crede, allora — replicò Burton. — Ma chi mi aiuterà si assicurerà un pezzo di pelle. Anche a lei potrebbe far comodo averne un po’ per legare una testa d’ascia ad un manico.

Si sentì distintamente Frigate inghiottire. Poi disse: — Ci sto.

Kazz era ancora accucciato nell’erba accanto al cadavere, e teneva in una mano il fegato sanguinolento e nell’altra il coltello di pietra, chiazzato di sangue. Vedendo avvicinarsi Burton, gli indirizzò un sogghigno, con le labbra tutte sbrodolate, e tagliò via un pezzo dal fegato. Burton fece segno di no col capo. Gli altri (Galeazzi, Brontich, Maria Tucci, Filippo Rocco, Rosa Malini, Caterina Capone, Fiorenza Fiorri, Babich, Giunta) si erano allontanati dall’orribile spettacolo. Si erano messi dietro il grosso tronco di un pino, e parlavano sommessamente in italiano.

Burton si accovacciò accanto al cadavere e premette la punta del coltello, partendo proprio sopra il ginocchio destro e finendo alla clavicola. Frigate gli si era messo al fianco, guardando con occhi sbarrati. Divenne ancora più pallido, e il suo tremito aumentò. Ma non si mosse finché due lunghe strisce di pelle furono tolte dal corpo.

— Vuole provare lei? — disse Burton. Girò il corpo sul fianco, in modo da poter levare altre strisce anche più lunghe. Frigate prese il coltello spruzzato di sangue e si mise al lavoro serrando i denti.

— Non prema troppo — consigliò Burton; e un attimo dopo continuò: — Ora il taglio non è abbastanza profondo. Qua, mi dia il coltello. Guardi.

— Un mio vicino — mormorò Frigate — aveva l’abitudine di appendere i suoi conigli dietro il garage e tagliargli la gola subito dopo avergli spezzato il collo. Rimasi a guardare una volta sola. E mi bastò.

— Non può permettersi di essere schizzinoso o di avere lo stomaco delicato — disse Burton. — Ora vive nelle condizioni più primitive. Per sopravvivere deve comportarsi da primitivo, che le piaccia o no.

Brontich, un alto e magro sloveno che in vita aveva fatto l’albergatore, sopraggiunse di corsa. — Abbiamo appena scoperto — disse — un’altra di quelle grosse pietre a forma di fungo. A una quarantina di metri da qui. Era nascosta dietro alcuni alberi, in una valletta.

A Burton stava passando l’iniziale piacere di tormentare Frigate. Ora cominciava a provare compassione per il poveraccio. — Senta, Peter, perché non va a esaminare quella pietra? — gli disse. — Se qui ce n’è una possiamo risparmiarci di tornare di nuovo al fiume.

Tese a Frigate il proprio graal. — Lo infili in una delle cavità della pietra, ma si ricordi esattamente in quale. Dica agli altri di fare altrettanto, e si assicuri che nessuno dimentichi in che punto ha messo il cilindro. Non vorrei che sorgessero liti al proposito, capisce.

Frigate, cosa strana, era riluttante ad andare. Sembrava che avesse la sensazione di essersi messo in cattiva luce a causa della propria debolezza. Rimase piantato lì per un po’, appoggiandosi ora su una gamba ora sull’altra e sospirando parecchie volte. Alla fine, vedendo che Burton continuava a raschiare la faccia inferiore delle strisce di pelle, s’incamminò. Con una mano portava i due graal, e nell’altra la sua ascia di selce.

Quando l’americano fu scomparso alla vista, Burton interruppe il lavoro. Era stato troppo precipitoso nel volersi risolvere a tagliare le strisce di pelle, e in più aveva l’intenzione di sventrare il cadavere per estrarne le budella. Senonché, per il momento, non poteva fare nulla per conservare pelle e intestini. Era possibile che la corteccia di quegli alberi simili a querce contenesse tannino, che poteva essere usato insieme ad altre sostanze per trasformare la pelle umana in cuoio. Però quegli organi sarebbero marciti prima che l’operazione fosse compiuta. Tuttavia Burton non aveva sprecato del tutto il suo tempo. Aveva constatato in pratica l’efficienza dei coltelli di selce, e rinfrescato le proprie conoscenze di anatomia umana, alquanto impallidite. Da giovani, a Pisa, Richard Burton e suo fratello Edward avevano frequentato gli studenti di medicina. Entrambi i Burton avevano imparato molto dagli studenti, e nessuno dei due aveva perso l’interesse all’anatomia. Edward era diventato chirurgo, e Richard aveva assistito, a Londra, a molte conferenze e ad autopsie pubbliche e private. Ma poi aveva dimenticato buona parte delle nozioni apprese.

Di botto il sole oltrepassò la cresta delle montagne. Una tenue ombra scese su Burton, e di lì a pochi minuti la valle intera fu sommersa nell’oscurità. Ma il cielo rimase a lungo di un blu acceso. La brezza continuava a soffiare con la stessa intensità. L’aria, impregnata di umidità, divenne un po’ più fresca. Burton e Kazz lasciarono il cadavere e si avviarono in direzione della voce degli altri. Questi erano accanto alla pietra-fungo di cui aveva parlato Brontich. Burton si chiese se vicino alla base della montagna ce ne fossero delle altre, collocate in fila a un intervallo di circa un chilometro. Quella lì, comunque, non aveva il graal al centro. Forse ciò significava che non era pronta per entrare in funzione. Ma Burton non pensava così. Si poteva presumere che Chi aveva creato le pietre-fungo avesse collocato un cilindro nelle cavità di quelle che si trovavano in riva al fiume perché i risorti avrebbero usato prima le più vicine. Quando avessero scoperto quelle nell’entroterra sarebbero già stati capaci di usarle.

I graal erano collocati nelle cavità del cerchio esterno. I proprietari erano lì accanto, in piedi o seduti: stavano parlando, ma i loro pensieri erano rivolti ai graal. Tutti si stavano chiedendo quando (o forse se) sarebbero apparse di nuovo le fiamme azzurre. Le conversazioni vertevano in gran parte sull’intensità della loro fame. Il resto era costituito soprattutto da congetture sul modo in cui erano giunti lì, su Chi li aveva messi lì, sul luogo in cui Egli poteva trovarsi, e su quello che era in serbo per loro. Alcuni parlavano della loro vita sulla Terra.

Burton si sedette sotto i lunghi rami, ricchi di foglie, dell’«albero del ferro», dal tronco nero e nodoso. Si sentiva stanco, come lo sembravano tutti gli altri eccetto Kazz. Il ventre vuoto e i nervi tesi gli impedivano di appisolarsi, benché il mormorio di voci e lo stormir delle foglie inducessero al sonno. La valletta in cui il gruppo si era messo in attesa consisteva in una zona piana alla confluenza di quattro colline, ed era circondata da alberi. Benché lì fosse più buio che in cima alle colline, sembrava che fosse anche un po’ più caldo. Dopo qualche momento, dato che l’oscurità e il buio erano aumentati, Burton organizzò una squadra di raccolta di legna per un fuoco. Usando i coltelli e le teste d’ascia abbatterono molte piante adulte di bambù e raccolsero mucchi d’erba. Col filo dell’accendino, caldo al calor bianco, Burton appiccò il fuoco alle foglie e all’erba. Poiché queste erano verdi, il falò rimase fumoso e insoddisfacente finché vi furono posti sopra i bambù.

Di botto un’esplosione fece balzare tutti quanti. Alcune donne strillarono. Nessuno si era più ricordato di tener d’occhio la pietra-fungo. Burton si voltò e fece in tempo a vedere le fiamme azzurre innalzarsi a sei metri circa. Perfino Brontich, che distava un sei metri dalla roccia, poté avvertire il calore prodotto dalla scarica.

Poi il rumore svanì, e gli astanti fissarono i graal. Ancora una volta Burton fu il primo a balzare sulla roccia: la maggior parte degli altri non si azzardava a salirvi finché non fosse passato un certo tempo dalla scomparsa delle fiamme. Burton sollevò il coperchio del proprio graal, guardò all’interno, e si mise a urlare di gioia. Gli altri si arrampicarono anch’essi e aprirono i propri graal. Neanche un attimo dopo erano seduti accanto al fuoco, mangiando a quattro palmenti, emettendo esclamazioni estatiche, mostrandosi scambievolmente quello che avevano trovato, ridendo, scherzando. Dopotutto le cose non andavano così male. Chi aveva provveduto a farli risorgere si stava ora prendendo cura di loro.

Il cibo era sovrabbondante, pur tenendo conto del fatto che avevano digiunato per tutto il giorno, o, come disse Frigate, «probabilmente per una mezza eternità». Dicendo questo intendeva, spiegò a Monat, che non si poteva stabilire quanto tempo fosse trascorso dal 2008. Quel mondo non era stato creato in un giorno, e preparare l’intera umanità per la resurrezione aveva senz’altro richiesto più di sette giorni. Sempre che la cosa fosse stata ottenuta con mezzi scientifici e non sovrannaturali.

Il graal di Burton aveva fruttato una bella bistecca di dieci centimetri, una pagnottella di pane scuro, burro, patate col sugo, e lattuga con un condimento sconosciuto ma dal sapore delizioso. In più c’era un bicchiere da liquore contenente dell’ottimo bourbon, e una piccola coppa con quattro cubetti di ghiaccio.

E c’era dell’altro, ancor più gradito in quanto inaspettato. Una piccola pipa di radica. Un sacchetto di tabacco da pipa. Tre sigari grandi come grissini. Un involucro di plastica contenente dieci sigarette.

— Senza filtro! — esclamò Frigate.

C’era anche una piccola sigaretta color marrone che Burton e Frigate annusarono dicendo all’unisono: — Marijuana!

Alice, soppesando una forbicina di metallo e un pettine nero, osservò: — Evidentemente riavremo i nostri capelli, altrimenti non ci sarebbe alcun bisogno di questi. Sono così felice! Ma… Loro si aspettano che io usi davvero questo?

Mostrò un bastoncino di rossetto d’un color porpora acceso.

— O che lo usi io? — replicò Frigate, guardando un identico bastoncino.

— Sono esseri eminentemente pratici — disse Monat, esaminando quello che senza dubbio era un rotolo di carta igienica. Poi tirò fuori una saponetta verde.

La bistecca di Burton era tenera, per quanto egli l’avrebbe preferita poco cotta. In compenso Frigate si lamentava perché la sua non era cotta abbastanza.

— È evidente che i graal non contengono dei menu preparati su misura secondo il gusto dei rispettivi proprietari — disse. — Questo può essere il motivo per cui noi uomini abbiamo ricevuto rossetti e le donne pipe. È una produzione di massa.

— Due miracoli in un sol giorno — osservò Burton. — Cioè, sempre che miracoli siano. Io preferisco una spiegazione razionale, e intendo trovarla. Penso che nessuno di quelli del mio tempo potrebbe spiegarmi in che modo siamo risorti. Ma forse voi del ventesimo secolo avete una teoria razionale riguardante la comparsa, apparentemente magica, di questi generi in un contenitore che prima era vuoto.

— Se lei confronta — disse Monat — l’interno e l’esterno del graal, potrà notare una differenza di profondità di circa cinque centimetri. Il doppio fondo deve nascondere un circuito integrato in grado di effettuare la conversione dell’energia in materia. L’energia, ovviamente, è prodotta durante la scarica che avviene nella roccia. Oltre al convertitore E-M, il graal deve contenere gli schemi molecolari… o matrici?… che consentono di foggiare la materia in svariate combinazioni di elementi e composti. Sono sicuro della fondatezza di queste supposizioni perché sul mio pianeta natio avevamo un convertitore simile. Ma non certo così miniaturizzato, ve lo posso assicurare.

— Anche sulla Terra — aggiunse Frigate. — Prima del 2002 si ricavava già il ferro dall’energia pura, ma era un processo complicatissimo e costosissimo, con un risultato pressoché microscopico.

— Bene — commentò Burton. — Tutto ciò a noi non è costato nulla. Per ora, almeno…

Rimase per un attimo in silenzio, pensando al sogno che aveva fatto poco prima di ridestarsi.

— Paghi — aveva detto Dio. — Lei è in debito per la carne.

Che cosa significava questo? Sulla Terra, a Trieste, nel 1890, morente tra le braccia di sua moglie, aveva chiesto… Che cosa? Cloroformio? Qualcosa. Non riusciva a ricordare. Dopo di che l’oblio. E si era svegliato in quel luogo da incubo e aveva visto cose che non esistevano sulla Terra, né, per quello che ne sapeva, su quel nuovo pianeta. Ma quella esperienza non era stata un sogno.

CAPITOLO OTTAVO

Finirono di mangiare e riposero i contenitori nei supporti all’interno dei graal. Siccome lì vicino non c’era acqua, avrebbero dovuto attendere fino al mattino seguente per lavare i contenitori. Frigate e Kazz, però, avevano ricavato dei buglioli da alcuni segmenti di bambù giganti. L’americano si offrì di scendere al fiume e riempire d’acqua i recipienti, se qualcuno l’avesse accompagnato. Burton si chiese il motivo di tale gesto. Poi, guardando Alice, lo capì. Frigate doveva essere in cerca di adeguata compagnia femminile. Evidentemente dava per scontato che Alice Hargreaves preferisse Burton. E le altre donne (Tucci, Malini, Capone, Fiorri) avevano fatto la loro scelta: rispettivamente per Galeazzi, Brontich, Rocco, Giunta. Babich aveva lasciato il gruppo, probabilmente per lo stesso motivo per cui Frigate voleva assentarsi.

Monat e Kazz accompagnarono Frigate. Il cielo si era popolato d’improvviso di giganteschi punti luminosi e di grandi e brillanti ammassi di gas. Lo scintillio delle stelle accalcate, alcune delle quali erano così grandi da sembrare frammenti di lune, unendosi alla luminescenza delle nubi di gas riempiva di stupore e meraviglia i risorti, facendo sì che si sentissero penosamente microscopici e sproporzionati.

Burton era sdraiato supino su un mucchio di foglie, succhiando un sigaro. Era eccellente, e nella Londra dei suoi tempi sarebbe costato almeno uno scellino. Ora non si sentiva più così minuscolo e indegno. Le stelle erano cose inanimate, ed egli era vivo. Nessuna stella avrebbe mai potuto conoscere il delizioso sapore di un sigaro costoso. Né l’estatica gioia di avere accanto una donna calda e ben provvista di curve.

Dall’altra parte del fuoco, confusi del tutto o in parte fra le erbe e le ombre, c’erano i triestini. Il liquore li aveva disinibiti, benché il loro senso di liberazione potesse provenire un poco dalla felicità di essere di nuovo vivi e giovani. Sghignazzavano, ridevano, si rotolavano di qua e di là sull’erba, si baciavano rumorosamente. E poi, una coppia dopo l’altra, si ritirarono nelle tenebre. O almeno smisero di far chiasso.

La bambina era crollata dal sonno accanto ad Alice. Il fuoco gettava dei riflessi palpitanti sul bel volto aristocratico della donna, sulla sua testa calva, sul magnifico corpo, sulle lunghe gambe. Burton si rese conto di colpo che ogni parte di sé era tornata in vita. Decisamente non era più il vecchio che, durante gli ultimi sedici anni della sua vita, aveva pagato così a caro prezzo le numerose febbri e le malattie che lo avevano prosciugato nei tropici. Ora era di nuovo giovane, sano, e posseduto dal vecchio demone vociante.

Tuttavia aveva promesso ad Alice di difenderla. Non poteva compiere alcun movimento, né pronunciare alcuna parola, che ella potesse interpretare come tentativo di seduzione.

Bene, Alice non era l’unica donna al mondo. In realtà egli aveva un intero mondo di donne, se non a sua disposizione, almeno in attesa di essere invitate. Cioè, così era se tutti quelli che erano morti sulla Terra si trovavano ora su quel pianeta. Alice sarebbe stata una sola di fronte a molti miliardi (forse trentasei, se il conto di Frigate era esatto). Ma naturalmente non c’era alcuna prova sicura che le cose stessero proprio così.

Il dannato guaio era che Alice, in ogni caso, avrebbe potuto essere benissimo in quel momento l’unica donna al mondo. Egli non poteva alzarsi e allontanarsi nelle tenebre in cerca di un’altra, perché questo avrebbe lasciato lei e la bambina prive di protezione. Alice non si sarebbe di certo sentita al sicuro con Monat e Kazz, ed egli non la poteva biasimare. Quei due erano davvero terribilmente brutti. Né la poteva affidare a Frigate (sempre che fosse tornato quella notte, del che dubitava) perché costui era un’incognita.

Burton di colpo scoppiò a ridere rumorosamente per la propria situazione. Aveva deciso che per quella notte sarebbe rimasto a bocca asciutta. Il pensiero lo fece ridere sempre di più, ed egli non smise se non quando Alice gli chiese se stava bene.

— Molto meglio di quanto lei possa immaginare — rispose Burton volgendole la schiena. Pescò con la mano nel graal e ne estrasse l’ultimo prodotto contenuto. Era una tavoletta di una sostanza simile al lattice. Frigate, prima d’andare, aveva commentato che i loro sconosciuti benefattori dovevano essere americani. Altrimenti non avrebbero pensato di fornire della gomma da masticare.

Burton schiacciò il sigaro in terra e si schiaffò in bocca la tavoletta. — Ha un sapore strano ma piuttosto delizioso — disse. — Ha provato la sua?

— Ne sono tentata, ma m’immagino che somiglierei a una mucca che rumini il suo bolo.

— Dimentichi di essere una signora — replicò Burton. — Pensa forse che chi ha il potere di farla risorgere abbia gusti volgari?

Alice fece un leggero sorriso. — Non saprei — disse; e mise in bocca la tavoletta. Per un po’ i due masticarono pigramente, guardandosi l’un l’altro attraverso il fuoco. Alice non riusciva a fissare Burton negli occhi per più di pochi secondi ogni volta.

— Frigate ha fatto capire che la conosceva. O meglio, che ha sentito parlare di lei. Perdoni la mia sconveniente curiosità: chi è lei?

— Non ci sono segreti tra i morti — rispose Alice con disinvoltura. — E neppure tra gli ex-morti.

Era nata Alice Pleasance Liddel, il 25 aprile 1852 (Burton allora aveva trent’anni). Era la diretta discendente di Re Edoardo III e di suo figlio Giovanni di Gaunt. Suo padre era preside del Christ Church College di Oxford, e coautore di un famoso dizionario greco-inglese (il «Liddel Scott», ricordò Burton). Alice aveva avuto un’infanzia eccellente, e aveva conosciuto molti uomini famosi del suo tempo: Gladstone, Matthew Arnold, il Principe di Galles, il quale era stato affidato alle cure del padre di Alice durante la propria permanenza a Oxford. Suo marito era stato Reginald Gervis Hargreaves, ed ella l’aveva amato moltissimo. Era un «gentiluomo di campagna», e amava cacciare, pescare, giocare a cricket, piantare alberi, e leggere romanzi francesi. Alice aveva avuto tre figli, tutti capitani, due dei quali morti nella Prima guerra mondiale, del 1914-1918. (Era la seconda volta, quel giorno, che Burton sentiva nominare la Prima guerra mondiale.)

Alice parlava e parlava, come se il liquore le avesse sciolto la lingua. O come se avesse voluto piazzare una barriera di conversazione tra sé e Burton.

Parlò di Dinah, la gatta soriana cui era stata affezionata da piccola; e dei grandi alberi dell’orto botanico di suo marito; e raccontò che suo padre, mentre lavorava al dizionario, starnutiva sempre a mezzanotte in punto, e nessuno sapeva perché… All’età di ottant’anni aveva ricevuto una laurea ad honorem in lettere, dall’università americana di Columbia, per la parte essenziale che aveva avuto nella genesi del famoso libro del signor Dogson. (Alice omise di citarne il titolo, e Burton, pur essendo stato un lettore famelico, non ricordò alcuna opera di un certo signor Dogson.)

— Era un pomeriggio davvero splendido, malgrado le previsioni meteorologiche ufficiali — disse Alice. — Quattro luglio 1862. Io avevo dieci anni… Mia sorella e io indossavamo scarpe bianche, calze traforate bianche, abiti di cotone bianchi, e cappelli a larghe tese.

Aveva gli occhi sbarrati, e sussultava come se stesse lottando con se stessa, e prese a parlare ancora più in fretta.

— Il signor Dogson e il signor Duckworth portavano i cestini della merenda… Partimmo da Folly Bridges con la nostra barca per risalire controcorrente l’Isis, tanto per cambiare. Il signor Duckworth era il prodiere; le gocce cadevano dai remi come le lacrime di cristallo sullo specchio levigato dell’Isis, e…

Burton ebbe l’impressione che le ultime parole fossero state urlate. Guardò con stupore Alice, le cui labbra sembravano muoversi come se ella stesse parlando a volume normale. I suoi occhi erano ora fissi su Burton, ma pareva che contemplassero, attraverso di lui, uno spazio ed un tempo situati al di là. Le sue mani erano sollevate a metà altezza, come se ella si fosse sorpresa per qualcosa e non le potesse muovere.

Ogni suono era amplificato. Burton poté udire il respiro della bambina, le sue pulsazioni cardiache e quelle di Alice, il gorgoglio della peristalsi di Alice, e la brezza che s’infilava tra i rami degli alberi. Da un’estrema lontananza giunse un grido.

Burton si alzò e si mise in ascolto. Cosa stava succedendo? Perché quell’aumento di sensitività? Perché poteva udire il cuore degli altri e non il proprio? Riusciva anche a rendersi conto della forma e della struttura dell’erba sotto i piedi. Quasi poteva avvertire le singole molecole d’aria cozzare contro il proprio corpo.

Anche Alice si era alzata. — Cosa sta succedendo? — chiese; e la sua voce investì Burton come una violenta raffica di vento.

Burton non le rispose, perché la stava fissando. Gli sembrava di poter davvero vedere il suo corpo per la prima volta. E poter vedere anche lei. L’intera Alice.

Alice gli andò incontro a braccia tese, con gli occhi socchiusi e la bocca umida. Il suo corpo oscillava, ed ella cantilenava: — Richard! Richard!

Poi si fermò, e i suoi occhi si spalancarono. Burton fece un passo verso di lei, a braccia tese. Alice gridò: — No! — e si tuffò di corsa nel buio tra gli alberi.

Per un secondo, Burton rimase immobile. Non sembrava possibile che Alice, che egli amava come non aveva mai amato altra donna, potesse non ricambiare il suo amore.

Senz’altro lo stava stuzzicando. Era proprio così. Burton le corse dietro, chiamandola più e più volte per nome.

Quando la pioggia cadde su di loro dovevano essere passate alcune ore. O che l’effetto della droga fosse cessato, o che l’acqua fredda avesse contribuito a farlo scomparire, parve che entrambi si risvegliassero insieme dalla sognante estasi. Quando un lampo li illuminò, Alice guardò Burton: emise un grido e respinse l’uomo con violenza.

Burton si trovò supino sull’erba, ma allungò una mano e afferrò per una caviglia Alice, che si stava allontanando da lui strisciando carponi.

— Che ti piglia? — gridò.

Alice smise di divincolarsi. Si mise a sedere nascondendo il volto tra le ginocchia, e il suo corpo fu scosso dai singhiozzi. Burton si alzò, le pose la mano sotto il mento, e la costrinse a guardare in su. Un lampo cadde di nuovo lì vicino, mostrando a Burton il volto devastato di Alice.

— Avevi promesso di proteggermi! — gridò la donna.

— Non ti sei comportata come se avessi voluto essere protetta — replicò Burton. — E io non ho promesso di proteggerti contro un naturale impulso umano.

— Impulso! — esclamò Alice. — Impulso! Mio Dio, non ho mai fatto una cosa del genere in vita mia! Sono sempre stata onesta! Ero vergine quando sposai, e rimasi fedele a mio marito per tutta la vita! E ora… un perfetto sconosciuto! Proprio così! Non so cosa m’abbia preso!

— Allora sono stato un fallimento — disse Burton, e scoppiò a ridere. Ma cominciava a provare rammarico e pena. Se si fosse trattato soltanto di intenzione e desiderio da parte di Alice, ora egli non avrebbe avuto il minimo rimorso di coscienza. Ma quella gomma doveva contenere qualche droga potente, che li aveva fatti agire come amanti la cui passione non conoscesse limiti. Certo Alice aveva collaborato con lo stesso entusiasmo di una donna esperta in un harem turco.

— Non devi affatto rimproverare te stessa, né provare il minimo pentimento — disse Burton con dolcezza. — Eri posseduta. La colpa è della droga.

— Io ho fatto questo! — esclamò Alice. — Io l’ho voluto! Che abbietta prostituta sono mai!

— Non mi risulta di averti offerto del denaro.

Burton non intendeva essere crudele. Voleva far arrabbiare Alice a un punto tale che dimenticasse il proprio senso di umiliazione. E ci riuscì. Alice balzò in piedi e gli si avventò con le unghie sul petto e sul volto. Lo chiamò con epiteti che una raffinata signora dell’epoca vittoriana, per di più di alto lignaggio, non avrebbe mai dovuto conoscere.

Burton l’afferrò per i polsi per risparmiarsi ulteriori graffi, e la trattenne mentre ella gli vomitava addosso altre espressioni triviali. Alla fine, quando Alice si zittì e ricominciò a piangere, la ricondusse all’accampamento. Il falò era divenuto un mucchio di cenere bagnata. Raschiò lo strato superiore e posò sulla brace una manciata d’erba, che l’albero aveva riparata dalla pioggia. Alla luce del nuovo fuoco vide che la bambina dormiva in mezzo a Kazz e Monat: i tre, pigiati uno contro l’altro, stavano sotto «l’albero del ferro», coperti da un fascio d’erba. Burton tornò da Alice, che si era seduta sotto un altro albero.

— Sta’ lontano da me — disse Alice. — Non voglio rivederti mai più! Mi hai disonorata, mi hai insozzata. E dopo aver dato la tua parola che mi avresti protetta!

— Puoi congelarti se lo desideri — replicò Burton. — Io volevo solo suggerire di stringerci insieme per trattenere il calore. Ma se desideri stare a disagio, fa’ come vuoi. Ti ripeto che quello che abbiamo fatto è stato provocato dalla droga. No, non provocato. Le droghe non causano desideri o azioni: soltanto tolgono loro i freni. Le nostre normali inibizioni sono scomparse, e nessuno di noi due può accusare se stesso o l’altro. Ad ogni modo sarei un bugiardo se dicessi che non mi sono divertito, e tu saresti una bugiarda se affermassi che non ti è piaciuto. Perciò, perché tagliarti con le lame della coscienza?

— Non sono una bestia come te! Io sono una donna virtuosa, cristiana e timorata di Dio!

— Senza dubbio — replicò Burton asciutto. — Comunque lasciami sottolineare un’altra cosa. Dubito che tu avresti fatto quello che hai fatto se non l’avessi desiderato in cuor tuo. La droga ha soppresso le tue inibizioni, ma non ti ha certo suggerito il da farsi. L’idea era già nella tua mente. Ogni tua azione compiuta dopo aver preso la droga proveniva da te e dalla tua volontà.

— Lo so! — gridò Alice. — Credi che io sia una stupida servotta? Io ho un cervello! So quello che ho fatto e perché! È solo che non mi sono mai sognata di poter essere una simile… una simile persona! Ma dovevo esserlo! Devo esserlo!

Burton cercò di consolarla, dimostrandole che la natura di ciascuno contiene degli elementi indesiderati. Il dogma del peccato originale, sottolineò, si riferiva appunto a questo. Ella era umana, perciò aveva in sé dei desideri nascosti. E così via. Ma più egli cercava di farla star meglio, peggio Alice si sentiva. Alla fine, tremante dal freddo e stanco di quelle discussioni inutili, si arrese. Andò a infilarsi in mezzo a Monat e Kazz, e si mise la bambina tra le braccia. Il calore dei tre corpi, il riparo del mucchio d’erba, e il contatto con i corpi nudi, lo calmarono. Quando si addormentò, attraverso lo spessore dell’erba gli giungeva ancora, debolmente, il pianto di Alice.

CAPITOLO NONO

Quando Burton si svegliò si trovò avvolto dal grigiore della falsa alba, quella che gli arabi chiamavano «coda del lupo». Monat, Kazz, e la bambina, stavano ancora dormendo. Si grattò per un momento nei punti che pizzicavano a causa dell’erba ruvida, quindi strisciò fuori. Il fuoco era spento: gocce d’acqua pendevano dalle foglie degli alberi e dalla punta degli steli d’erba. Tremava dal freddo, ma non si sentiva stanco né provava alcun brutto postumo della droga, come invece si era aspettato. Sotto un albero, al riparo dell’erba, trovò dei bambù relativamente asciutti. Con questi riaccese il fuoco, e in breve tempo si sentì a suo agio. Poi scorse i recipienti di bambù, e bevve un po’ d’acqua da uno di essi. Alice si stava alzando da un monticello d’erba, e fissava Burton con sguardo accigliato. Aveva la pelle d’oca su tutto il corpo.

— Vieni a scaldarti! — disse Burton.

Alice strisciò fuori dall’erba, si alzò, si avvicinò ai recipienti di bambù, si chinò, raccolse un po’ d’acqua, e si sciacquò la faccia. Poi si accucciò accanto al fuoco, scaldandosi le mani sopra una fiammella. Se tutti sono nudi, pensò Burton, come fa in fretta anche il più pudico a perdere il pudore!

Un attimo dopo, Burton udì frusciare l’erba in direzione est. Apparve una testa nuda: Peter Frigate. Egli emerse tutto dall’erba, seguito dalla testa nuda di una donna. Uscendo anch’essa dall’erba rivelò un corpo fradicio ma leggiadro. I suoi occhi erano grandi e d’un color verde scuro, e le labbra erano un po’ troppo carnose per essere perfette; ma il resto era magnifico.

Frigate era tutto un sorriso. Si voltò e condusse per mano la donna verso il calore del fuoco.

— Mi sembra il gatto che ha mangiato il canarino — disse Burton. — Cos’è successo alla sua mano?

Peter Frigate si guardò le nocche della mano destra. Erano tumefatte, e c’erano dei graffi sul dorso della mano.

— Ho fatto a pugni — rispose. Puntò un dito in direzione della donna, che si era accucciata vicino ad Alice e si stava scaldando. — Ieri sera vicino al fiume, c’era il manicomio. Quella gomma deve contenere una specie di droga. Lei non crederebbe quello che la gente stava facendo. O lo crederebbe? Dopotutto lei è Richard Francis Burton. Ad ogni modo tutte le donne, comprese le brutte, erano occupate in un modo o nell’altro. Io rimasi sbigottito davanti a quello che stava succedendo, e poi persi il lume degli occhi. Colpii due uomini col mio graal, e li stesi k.o. entrambi. Stavano aggredendo una ragazzina di dieci anni. Forse li ho anche uccisi: spero che sia così. Cercai di indurre la ragazzina a venire con me, ma scappò via nella notte.

«Decisi di tornare qui. Cominciavo a pentirmi un po’ di quanto avevo fatto a quei due uomini, anche se se lo meritavano. La colpa era della droga: doveva aver dato via libera ad una vita intera di ira repressa. Così mi avviai in questa direzione, e a un certo punto m’imbattei in altri due uomini. Stavano aggredendo una donna: questa. Penso che lei non si opponesse all’idea di un rapporto, quanto all’intenzione di quei due di avere un rapporto contemporaneamente, se capisce ciò che voglio dire. Ad ogni modo stava gridando, o cercava di farlo, e si dibatteva, e i due uomini avevano giusto cominciato a pestarla. Allora io li riempii di pugni e di calci e gliele suonai col mio graal.

«Poi presi con me la donna, e quella mi seguì volentieri. A proposito, il suo nome è Loghu. Questo è tutto ciò che so di lei, dal momento che non riesco a capire una parola della sua lingua.

Frigate sogghignò di nuovo. — Ma non ci limitiamo a guardarci negli occhi.

Smise di sogghignare e rabbrividì.

— Ci svegliammo con un’ira di Dio di pioggia e lampi e tuoni. Pensai che forse… non rida… forse quello era il Giorno del Giudizio, e che Dio ci aveva dato briglia sciolta per un giorno per lasciare che ci giudicassimo da noi. E ora saremmo stati gettati nell’inferno.

Rise a denti stretti, e aggiunse: — Sono stato agnostico fin dall’età di quattordici anni, e tale morii a novanta, benché avessi avuto una mezza idea di far venire un prete. Ma il ragazzino che aveva paura di Dio Padre e del Fuoco dell’Inferno e della Dannazione era sempre presente, perfino nel vecchio. O nel giovane risorto dalla morte.

— Cos’è accaduto? — disse Burton. — Il mondo è finito in un tuono e in un fulmine? Lei è ancora qui, vedo, e non ha rinunciato alle gioie del peccato nella persona di questa donna.

— Trovammo una pietra-fungo vicino alle montagne, poco più di un chilometro a ovest di qui. Ci eravamo perduti e gironzolavamo qua e là, gelati, fradici, facendo un balzo ogni volta che un fulmine ci cadeva vicino. Poi trovammo la roccia. Era piena zeppa di persone, ma queste erano eccezionalmente amichevoli, e con tutti quei corpi faceva molto caldo, anche se un po’ di pioggia penetrava nell’erba. Finalmente ci addormentammo, molto dopo che la pioggia cessò. Quando mi risvegliai mi misi a cercare in mezzo all’erba finché trovai Loghu. Durante la notte, chissà come, si era spostata. Comunque sembrò contenta di vedermi, e anche a me fece piacere. C’è un’affinità tra noi. Forse quando imparerà l’inglese, scoprirò perché. Ho provato anche col francese, e col tedesco, e con frasi di russo, lituano, gaelico, tutte le lingue scandinave, finlandese compreso, nahuatl classico, arabo, ebraico, irochese degli Onondanga, ojibway, italiano, spagnolo, latino, greco classico e moderno, e una dozzina di altre lingue. Risultato: zero via zero.

— Lei è un vero poliglotta — disse Burton.

— Non ne parlo correntemente nessuna — replicò Frigate. — Riesco a leggerle quasi tutte, ma conosco solo qualche frase di uso comune. Non sono padrone come lei di trentanove lingue, pornografia compresa.

Quel tipo sembrava conoscere molte cose di lui, pensò Burton. Col tempo avrebbe cercato di scoprire fino a che punto.

— Sarò sincero con lei, Peter — disse. — Quello che mi ha raccontato sulla sua aggressività mi ha stupito. Non l’avevo ritenuta capace di attaccare e colpire tutti questi uomini. La sua schizzinosità…

— È stata la gomma, naturalmente. Ha aperto la porta della gabbia.

Frigate si accucciò accanto a Loghu e strofinò una spalla contro quella di lei. La donna lo guardò con i suoi occhi leggermente a mandorla. Sarebbe stata bellissimo, una volta ricresciuti i capelli.

Frigate continuò: — Io sono così timoroso e pavido perché ho paura dell’ira, del desiderio di violenza che alligna in me a non grandi profondità. Temo la violenza perché sono violento. E sono spaventato all’idea di ciò che succederebbe se non avessi paura. Al diavolo! Lo so da quarant’anni, e che vantaggio ne ho avuto?

Guardò Alice e disse: — Buon giorno!

Alice rispose con una certa cordialità, e perfino sorrise a Loghu quando questa le fu presentata. Guardò in faccia Burton e rispose alle sue domande dirette; ma non era disposta a chiacchierare con lui, né a rivolgergli altro che un volto arcigno.

Monat, Kazz, e la bambina, tutti e tre sbadigliando, si accostarono al fuoco. Burton fece il giro dell’accampamento, e constatò che i triestini se n’erano andati. Qualcuno aveva abbandonato lì il proprio graal. Burton li maledisse per la loro negligenza, ed ebbe una mezza idea di lasciare i graal nell’erba per dare una lezione ai rispettivi proprietari. Ma poi finì col mettere i cilindri nelle cavità del fungo di pietra.

Se i proprietari di quei cilindri non fossero tornati sarebbero rimasti a stomaco vuoto, a meno che qualcuno avesse diviso con loro la propria razione. Nel frattempo nessuno avrebbe toccato il cibo contenuto nei loro graal. Il giorno precedente avevano scoperto che ogni graal poteva essere aperto solo dal proprietario. Delle prove con un lungo bastone avevano dimostrato altresì che il proprietario doveva toccare il cilindro con le dita o con una parte del corpo affinché il coperchio si potesse sollevare. L’opinione di Frigate era che un dispositivo contenuto nel graal fosse sintonizzato col potenziale elettrico della pelle del proprietario. O forse nel graal c’era un sensibilissimo rivelatore delle onde cerebrali emesse dallo stesso.

Il cielo s’era ormai fatto luminoso. Il sole si trovava ancora dietro le montagne orientali, alte seimila metri. All’incirca una mezz’ora più tardi la pietra-fungo emise fiamme azzurre, accompagnate da un brontolio di tuono. Il fragore proveniente dalle altre rocce lungo il fiume echeggiò contro la montagna.

I graal fornirono uova e pancetta, prosciutto, pane tostato, burro, marmellata, latte, un quarto di melone, sigarette e una tazzina piena di cristalli color marrone scuro, che Frigate spiegò essere caffè liofilizzato. Bevve il latte in una tazza, la lavò nell’acqua di un contenitore di bambù, la riempì d’acqua e la mise accanto al fuoco. Quando l’acqua cominciò a bollire vi versò dentro una cucchiaiata di cristalli e mescolò. Il caffè era delizioso, e c’erano abbastanza cristalli da preparare sei dosi. Poi Alice mise i cristalli nell’acqua prima di scaldare questa sul fuoco, e scoprì che non era necessario usare il calore. Tre secondi dopo che i cristalli venivano versati nell’acqua, questa entrava in ebollizione.

Dopo aver mangiato lavarono i loro contenitori e li rimisero nei cilindri. Burton si assicurò il suo intorno al polso. Intendeva andare in esplorazione, e non voleva certo lasciare il suo graal sulla roccia. Benché non potesse fornire cibo se non a lui stesso, qualche malintenzionato poteva portarlo via solo per il piacere di vederlo morir di fame.

Burton cominciò la sua lezione di lingua con la bambina e Kazz, e Frigate fece partecipare anche Loghu. Suggerì poi di adottare una lingua universale, a causa dell’enorme numero di lingue e dialetti (forse cinquanta-sessantamila) che l’umanità aveva usato durante i suoi molti milioni di anni di esistenza, e che di nuovo stava ora usando lungo il fiume. Ammesso, naturalmente, che l’intero genere umano fosse risorto. In fondo, tutto quello che sapeva si limitava ai pochi chilometri quadrati che aveva visto. Ma sarebbe stata una buona idea cominciare a diffondere l’esperanto, la lingua artificiale inventata nel 1887 da quell’oculista polacco, il dottor Zamenhof. La sua grammatica era assai semplice e assolutamente regolare, e le sue combinazioni di fonemi, benché non così facili da pronunciare per chiunque come affermato, non erano tuttavia troppo difficili. E il lessico era basato sul latino, con molte parole derivate dall’inglese e dal tedesco e da altre lingue dell’Europa occidentale.

— Ne avevo sentito parlare già prima della mia morte — disse Burton. — Ma non ne ho mai visto degli esempi. Forse può dimostrarsi utile. Ma per ora insegnerò a questi due l’inglese.

— Ma la maggioranza, qui, parla italiano o sloveno — osservò Frigate.

— Può darsi che sia vero, benché non abbiamo ancora fatto alcun controllo. Comunque non intendo rimanere qui, può starne certo.

— Me l’ero immaginato — mormorò Frigate. — Lei è sempre stato irrequieto; non è mai riuscito a fermarsi in un posto.

Burton diede un’occhiataccia a Frigate e iniziò la lezione. Per una quindicina di minuti fece esercitare i suoi «alunni» nel riconoscimento e nella pronuncia di diciannove sostantivi e di alcuni verbi: fuoco, bambù, graal, uomo, donna, ragazza, mano, piede, occhio, dente, mangiare, camminare, correre, parlare, pericolo, io, tu, essi, noi. Si proponeva di imparare da loro mentre essi imparavano da lui. Col tempo avrebbe potuto parlare le loro lingue, quali che fossero.

Il sole rischiarò la cresta della catena orientale. L’aria si fece più calda, e il fuoco fu lasciato morire. Erano entrati nel secondo giorno della resurrezione, e non sapevano quasi nulla di quel mondo, né quale dovesse essere il loro destino finale, né Chi lo stava decidendo.

Lev Ruach sporse attraverso l’erba il volto dal grosso naso, e disse: — Posso venire anch’io?

Burton annuì, e Frigate rispose: — Certo, perché no?

Ruach si fece strada tra l’erba. Lo seguiva una donna piccola, dalla pelle chiara, con grandi occhi bruni e fattezze graziose e delicate. Ruach la presentò come Tanya Kauwitz. L’aveva incontrata la sera precedente, e si erano messi insieme dal momento che avevano molte cose in comune. Tanya era di stirpe russo-ebraica, era nata nel 1958 nel Bronx, Città di New York, era diventata insegnante d’inglese, aveva sposato un uomo d’affari che aveva accumulato un milione e poi era morto quando lei aveva quarantacinque anni, lasciandola libera di sposare un uomo meraviglioso che aveva amato da quando era una quindicenne. Sei mesi dopo era morta di cancro. Fu la stessa Tanya, e non Lev, a fornire queste notizie, e tutte in una volta.

— Ieri sera c’era l’inferno giù lungo il fiume — disse Lev. — Tanya e io fummo costretti a rifugiarci nei boschi per salvare la vita. Così decisi di ritrovarvi e chiedervi se avremmo potuto rimanere con voi. Le chiedo scusa per le mie parole avventate di ieri, signor Burton. Credo che le osservazioni che ho fatto siano valide, ma gli atteggiamenti di cui parlavo dovrebbero essere considerati nel contesto degli altri suoi atteggiamenti.

— Ne discuteremo alla prossima occasione — replicò Burton. — All’epoca in cui scrissi quel libro stavo subendo le conseguenze delle vili e malvagie menzogne degli usurai di Damasco, e questi…

— Certo, signor Burton — interruppe Ruach. — Un’altra volta, come ha detto lei. Io volevo solo sottolineare che la considero un uomo energico e di grande capacità, e che vorrei far parte del suo gruppo. Siamo in uno stato anarchico, se si può chiamare stato l’anarchia, e molti di noi hanno bisogno di protezione.

A Burton non piaceva essere interrotto. Si accigliò in volto e disse: — Mi consenta di spiegarmi, la prego. Io…

Frigate si alzò in piedi ed esclamò: — Ecco gli altri che arrivano! Chissà dove sono stati?

Però erano tornati solo quattro dei nove che avevano lasciato il gruppo. Maria Tucci spiegò che dopo aver masticato la gomma si erano messi a vagabondare insieme, finché avevano raggiunto uno dei falò nella pianura. Qui erano successe molte cose: c’erano state lotte e aggressioni di uomini contro donne, di uomini contro uomini, di donne contro uomini, di donne contro donne, e perfino aggressioni contro bambini. In quel caos il gruppo si era disperso, e Maria aveva ritrovato gli altri tre solo un’ora dopo, mentre stava cercando la pietra-fungo sulle colline.

Lev aggiunse alcuni particolari. Masticare quella gomma narcotica aveva prodotto delle conseguenze tragiche. divertenti, o soddisfacenti, a seconda (così pareva) della reazione dei singoli. Su molte persone la gomma aveva avuto un effetto afrodisiaco, ma ne produceva anche molti altri. Citò l’esempio di due, marito e moglie, che erano morti nel 1899 a Opcina, una frazione di Trieste. Erano risorti a un paio di metri l’uno dall’altro. Avevano pianto per la gioia di trovarsi riuniti, mentre questo non era avvenuto per moltissime altre coppie. Avevano ringraziato Dio per la loro buona stella, pur deprecando che quel mondo non fosse quello che era stato loro promesso. Ma avevano avuto cinquant’anni di matrimonio felice, e ora erano ben contenti di rimanere insieme per l’eternità.

Neanche cinque minuti dopo che entrambi ebbero masticato la gomma, l’uomo aveva strangolato la moglie gettandone il corpo nel fiume; poi si era preso tra le braccia un’altra donna ed era corso via con lei nell’oscurità del bosco.

Un altro uomo era balzato su uno dei funghi di pietra e aveva pronunciato un discorso durato tutta la notte, anche sotto la pioggia. A quei pochi che potevano udire, e ai pochissimi che lo ascoltavano, costui aveva dimostrato i princìpi di una società perfetta e il modo in cui potevano essere messi in pratica. All’alba era così roco che poteva soltanto gracchiare qualche parola. Sulla Terra non si era mai preso neppure la briga di andare a votare.

Un uomo e una donna, indignati per l’esibizione pubblica di lascivia, avevano cercato con tutte le forze di separare le coppie. Risultato: contusioni, sangue dal naso, labbra spaccate, commozione cerebrale, il tutto a danno solo di loro due. Altri, uomini e donne, avevano passato la notte in ginocchio, pregando e confessando i propri peccati.

Alcuni bambini erano stati brutalmente picchiati, o violentati, o uccisi, o tutt’e tre le cose insieme. Ma non tutti erano caduti in preda alla follia. Alcuni adulti avevano protetto i bambini, o cercato di farlo.

Ruach descrisse la disperazione e il disgusto di un mussulmano croato e di un ebreo austriaco nel constatare che il loro graal conteneva del maiale. Un indù si era messo a urlare delle oscenità perché aveva trovato nel graal della carne bovina.

Un altro uomo, gridando che tutti loro erano nelle mani dei diavoli, aveva gettato le sue sigarette nel fiume.

Molti gli avevano detto: — Perché non ha dato a noi le sigarette se non le voleva?

— Il tabacco è un’invenzione del diavolo: è la malerba creata dal demonio nel Giardino dell’Eden!

Un uomo disse: — Però poteva dividere tra noi le sigarette. Non sarebbe stato di alcun danno per lei.

— Preferisco gettare nel fiume tutto ciò che c’è di malvagio! — gridò il primo.

— Sei un insopportabile bigotto, e pazzo per di più — disse un uomo, e lo colpì sulla bocca. Prima che il nemico del tabacco potesse rialzarsi da terra fu pestato e preso a calci da altri quattro.

Più tardi il nemico del tabacco si rimise in piedi barcollando, e piangendo di rabbia si lamentò così: — Cos’ho fatto per meritarmi questo, o Signore, mio Dio? Sono sempre stato un uomo onesto. Ho dato in elemosina migliaia di sterline, andavo nel Tuo tempio tre volte alla settimana, ho mosso guerra per tutta la vita al peccato e alla corruzione, ho…

— Ti conosco! — gridò una donna. Era una ragazza alta, con occhi azzurri, un bel viso, e un corpo pieno di curve. — Ti conosco! Sir Robert Smithson!

L’uomo smise di parlare e guardò la ragazza sbattendo le palpebre. — Ma io non conosco lei!

— Non puoi conoscermi! Ma dovresti! Io sono una delle migliaia di ragazze che dovevano lavorare sedici ore al giorno, per sei giorni e mezzo alla settimana, affinché tu potessi vivere nella tua grande casa sulla collina e indossare dei begli abiti, affinché i tuoi cavalli e i tuoi cani potessero mangiare molto ma molto meglio di come mangiavo io! Io ero una delle ragazze della tua fabbrica! Mio padre lavorò come uno schiavo per te, mia madre lavorò come una schiava per te, e anche i miei fratelli e le mie sorelle lavorarono come schiavi per te, o almeno quelli di loro che non erano troppo malati o che non morirono a causa del cibo troppo scarso o troppo cattivo, o dei giacigli sudici, o delle correnti d’aria che entravano dalle finestre, o dei morsi dei topi. Mio padre perse una mano in una delle tue macchine, e tu lo cacciasti a pedate senza dargli neppure un penny. Mia madre morì di tubercolosi. Anche la mia vita se ne stava andando tra un colpo di tosse e uno sputo, mio bel baronetto, mentre tu t’ingozzavi di cibi prelibati e sedevi in soffici poltrone e ti appisolavi in chiesa nel tuo banco grande e lussuoso e davi in elemosina migliaia di sterline per nutrire i poveri infelici dell’Asia e mandare dei missionari in Africa per convertire i poveri pagani. Io sputavo pezzi di polmone, e dovetti prostituirmi per trovare abbastanza denaro da sfamare i miei fratellini. E mi presi la sifilide, maledetto bastardo d’un devoto, perché tu volevi spremere ogni goccia di sudore e di sangue da me e da quei poveri diavoli come me! E morii in prigione perché tu dicesti alla polizia di trattare le prostitute col massimo rigore. Tu… Tu…

Smithson dapprima era diventato rosso, poi pallido. Poi si alzò tutto impettito, guardò biecamente la donna e disse: — Voi prostitute dovete sempre gettare su qualcuno la colpa della vostra sfrenata concupiscenza e del vostro sporco mestiere. Dio sa che io ho seguito la Sua via.

Voltò le spalle e se ne andò, ma la donna gli corse dietro e gli sferrò un colpo col proprio graal. Questo volteggiò rapido, qualcuno gridò; l’uomo girò su se stesso e si buttò a terra. Il graal gli sfiorò appena il capo.

Smithson si allontanò di corsa dalla donna, prima che questa tentasse qualcos’altro, e si perse in fretta in mezzo alla folla. Sfortunatamente, disse Ruach, pochissimi avevano compreso che cosa stava succedendo, perché non capivano l’inglese.

— Sir Robert Smithson — disse Burton. — Se ricordo bene possedeva dei cotonifici e delle acciaierie a Manchester. Era noto per la sua filantropia e per le sue opere pie a favore dei pagani. Morì nel 1870 o giù di lì, all’età di ottant’anni.

— E probabilmente convinto che sarebbe stato ricompensato in paradiso — aggiunse Lev Ruach. — Di certo non gli dev’essere mai venuto in mente di aver commesso tutti quegli assassinii.

— Se non avesse sfruttato lui i poveri, l’avrebbe fatto qualcun altro.

CAPITOLO DECIMO

— Non vedo che senso ci sia nel discutere sul passato — disse Frigate. — Penso invece che dovremmo far qualcosa per la nostra situazione attuale.

Burton si alzò in piedi. — Lo yankee ha ragione. Abbiamo bisogno di un tetto sopra il capo, di attrezzi, e di Dio sa cos’altro! Ma per prima cosa penso che dovremmo dare un’occhiata alle città della pianura e vedere cosa stanno facendo gli abitanti.

In quel momento Alice sbucò dagli alberi della soprastante collina. Frigate la vide per primo, e scoppiò a ridere. — L’ultimo grido della moda femminile!

Alice aveva tagliato con le sue forbicine parecchi steli d’erba, intrecciandoli e ricavandone un abito a due pezzi. Uno era una specie di poncho che le copriva il petto, e l’altro una gonna che le scendeva alle caviglie.

L’effetto era singolare, come Alice doveva essersi aspettata. Quando era nuda, la testa priva di capelli non diminuiva troppo la sua femminilità e la sua bellezza. Ma con quegli indumenti verdi, voluminosi, privi di linea, il suo volto diveniva improvvisamente mascolino e sgradevole.

Le altre donne le si pigiarono intorno, esaminando l’intreccio degli steli d’erba e la cintura, d’erba anch’essa, che reggeva la gonna.

— Prude molto ed è scomodo — disse Alice. — Ma è verecondo. Non saprei dire altro, a suo favore.

— A quanto pare non parlava sul serio quando diceva che non le importava di essere nuda in un luogo in cui tutti sono nudi — osservò Burton.

Alice gli gettò un’occhiata gelida e disse: — Suppongo che tutti indosseranno queste cose. Quelli che hanno il senso del pudore, almeno.

— Credo che la signora Grundy, se fosse qui, volterebbe via la sua orribile testa — replicò Burton.

— È stato un colpo trovarsi in mezzo a tutte quelle persone nude — disse Frigate. — Anche se la nudità sulle spiagge e nell’intimità domestica divenne una cosa comune verso la fine degli anni ottanta. Ma non occorse molto perché tutti si abituassero. Tutti tranne i nevrotici incurabili, credo.

Burton si girò, rivolgendosi alle altre donne. — Cosa ne dite voi, signore? Avete l’intenzione di indossare quegli orribili e ruvidi mucchi di fieno solo perché una persona del vostro sesso ha deciso improvvisamente di avere di nuovo delle parti intime? Può diventare privato qualcosa che è stato così pubblico?

Loghu, Tanya, e Alice non lo compresero perché aveva parlato in italiano. Burton ripeté in inglese, a beneficio delle ultime due.

Alice arrossì e disse: — Quello che indosso è affar mio. Se a qualcun’altra garba andare in giro nuda mentre io sono decorosamente coperta, benissimo!

Loghu non aveva afferrato una parola, pur comprendendo quello che succedeva. Scoppiò a ridere e si allontanò. Le altre donne sembravano cercar di indovinare in che modo ciascuna intendeva comportarsi. La bruttezza e la scomodità di quegli indumenti non erano allertanti.

— Mentre voi donne — disse Burton — cercate di prendere una decisione, sarebbe una bella cosa se prendeste un secchio di bambù e scendeste al fiume con noi. Possiamo lavarci, riempire d’acqua i recipienti, esaminare la situazione nella pianura, e tornare qui. Forse potremo costruire parecchie case, o rifugi temporanei, prima del tramonto.

Si avviarono giù per la collina, aprendosi la strada attraverso l’erba e portando con sé i graal, le armi di selce, e le lance e i secchi di bambù. Non avevano percorso ancora un lungo tratto allorché s’imbatterono in un gruppo di persone. Sembrava che molti abitanti della pianura avessero deciso di spostarsi. Non solo, ma anch’essi avevano scoperto la selce e si erano fabbricati attrezzi e armi. Avevano appreso i metodi di lavorazione della pietra da qualcuno, probabilmente da altri primitivi di quella zona. Per il momento Burton aveva visto solo due esseri non appartenenti al genere Homo sapiens, e questi si trovavano con lui. Ma dovunque avessero imparato tali metodi, quelle persone ne avevano fatto buon uso. Il gruppo di Burton oltrepassò due capanne di bambù, quasi ultimate. Erano a pianta circolare e composte di un unico locale, e avrebbero avuto un tetto conico coperto con le enormi foglie triangolari dell’albero del ferro e con l’erba delle colline. Un uomo stava costruendo un basso letto di bambù mediante un’ascia e un’accetta, entrambe di selce.

Tranne alcune persone che stavano erigendo ai limiti della pianura, senza attrezzi di pietra, delle capanne piuttosto rozze o dei semplici ripari, e altre che stavano nuotando nel fiume, la pianura era deserta. I cadaveri, frutto dell’ondata di follia della notte precedente, erano stati tolti. Per il momento non si era visto ancora nessuno con abiti d’erba, e molti fissavano sbalorditi Alice o addirittura scoppiavano a ridere e gridavano aspri commenti. Alice divenne rossa, ma non fece alcun tentativo di sbarazzarsi dei suoi indumenti. Il sole stava diventando caldo, però, ed ella cominciava a grattarsi sotto il «poncho» e sotto la gonna. L’intensità della sua irritazione poteva essere indicata dal fatto che Alice, educata nella severe etichetta dell’aristocrazia vittoriana, si grattava in pubblico.

Quando però giunsero al fiume videro una dozzina di strani mucchietti, che risultarono essere degli abiti d’erba. Erano stati lasciati in riva al fiume dagli uomini e dalle donne che ora stavano ridendo e sguazzando e nuotando.

C’era senz’altro una bella diversità con le spiagge che Burton conosceva. Ecco là le stesse persone che avevano accettato le «macchine per fare il bagno», i costumi che coprivano il corpo dalle caviglie al collo, e tutti gli altri congegni pudichi, come assolutamente morali ed essenziali per la continuazione della buona società, cioè la loro. Tuttavia, un giorno solo dopo essersi trovate lì, stavano nuotando in completa nudità. E ci si divertivano.

L’accettazione di tale nudità proveniva in parte dallo shock della resurrezione. Oltre a ciò, durante quel primo giorno non avrebbero potuto far molto per trovare un rimedio. Inoltre si era verificata una commistione dei civilizzati con i selvaggi, o con altre popolazioni civili ma provenienti dalle zone tropicali, che non provavano particolare emozione davanti alla nudità.

Burton gridò per attirare l’attenzione di una donna, immersa in acqua fino alla cintola. Aveva i lineamenti non sgradevoli ma grossolani, e occhi d’un blu acceso.

— Quella è la donna che assalì Sir Robert Smithson — disse Lev Ruach. — Credo che si chiami Wilfreda Allport.

Burton la guardò con curiosità, apprezzando il suo splendido petto. — Com’è l’acqua? — gridò.

— Proprio deliziosa! — rispose con un sorriso la donna.

Burton si slacciò il graal, depose a terra il recipiente che conteneva coltello e ascia di selce, ed entrò nel fiume con la sua saponetta verde. Ebbe l’impressione che l’acqua si trovasse ad una temperatura inferiore di dieci gradi a quella del proprio corpo. Cominciò a insaponarsi, intavolando nel frattempo una conversazione con Wilfreda. Se la donna nutriva ancora del risentimento nei confronti di Smithson, non lo dava comunque a vedere. Aveva un pesante accento settentrionale, forse del Cumberland.

Burton le disse: — Ho sentito del suo piccolo diverbio con quel defunto ipocrita, il baronetto. Ora però lei dovrebbe essere felice. È di nuovo sana e giovane e bella, e non deve più sfacchinare per il cibo. Inoltre può fare per amore quello che ha dovuto fare per denaro.

Non era il caso di usare tante cerimonie con un’operaia, pensò Burton.

Wilfreda gli rivolse un’occhiata così gelida come neppure Alice Hargreaves aveva mai fatto. E disse: — Ehi, ha per caso i bollori? Inglese, vero? Non riconosco il suo accento. Londinese, direi, con qualcosa di straniero.

— L’ha quasi azzeccata — rispose Burton ridendo. — A proposito, mi chiamo Richard Burton. Le piacerebbe far parte del nostro gruppo? Ci siamo messi insieme per proteggerci a vicenda, e abbiamo intenzione di costruire qualche abitazione questo pomeriggio. Su nelle colline abbiamo una di quelle rocce a fungo tutta per noi.

Wilfreda guardò l’extraterrestre e il Neanderthal. — Quelli sono del suo gruppo, eh? Ne ho sentito parlare: dicono che il mostro è un uomo venuto dalle stelle, nei primi anni del 2000, dicono.

— Non le farà del male — assicurò Burton. — E neppure il subumano. Cosa ne dice?

— Sono soltanto una donna — rispose Wilfreda. — Cos’ho da offrire?

— Tutto quello che una donna ha da offrire — replicò Burton con un sogghigno.

Wilfreda, con stupore di Burton, scoppiò in una risata. Poi gli diede una spintarella sul petto e disse: — Vuole fare il furbo? Cosa succede, non può prendere una ragazza delle sue?

— Ne avevo una e l’ho perduta — rispose Burton. Questo non era del tutto vero. Burton non era certo di quello che Alice intendesse fare. Non riusciva a capire perché continuasse a stare col suo gruppo se era così scandalizzata e disgustata. Forse ciò era dovuto al fatto che preferiva il male che conosceva a quello che ignorava. Per il momento egli, da parte sua, sentiva solo disprezzo per la stupidità di lei: eppure non desiderava che se ne andasse. Quell’amore che aveva provato la notte precedente poteva essere stato provocato dalla droga, ma Burton ne avvertiva ancora in sé un residuo. Allora perché stava chiedendo a quella donna di unirsi al suo gruppo? Forse era per far ingelosire Alice. Forse era per avere una donna con cui coricarsi quella sera se Alice l’avesse respinto. Forse… non sapeva perché.

Alice stava in piedi sull’argine, quasi a contatto dell’acqua. In quel punto l’argine era soltanto a un paio di centimetri sul livello del fiume. La distesa di erba bassa penetrava nel letto del fiume, costituendo un solido tappeto sul fondo. Burton, pur continuando ad avanzare nell’acqua, avvertiva sempre l’erba sotto i piedi. Gettò la saponetta sull’argine, si allontanò a nuoto dalla riva per una dozzina di metri, e si tuffò. In quel punto la corrente diveniva di colpo più forte, e il fondo più lontano. Scese ancora, a occhi aperti, finché la luce scomparve e gli orecchi cominciarono a dolergli. Continuò a scendere finché le sue dita toccarono il fondo. C’era erba anche lì.

Nuotò verso riva fino al punto in cui l’acqua gli arrivava alla cintola, e vide che Alice si era tolta gli indumenti. Si era addentrata di pochissimo nel fiume, e, accucciatasi in modo che l’acqua le giungesse al collo, si stava insaponando faccia e testa.

Burton gridò a Frigate: — Perché non entra?

— Faccio la guardia ai graal! — rispose quello.

— Benissimo!

Burton bestemmiò tra i denti. Avrebbe dovuto pensarci lui, e mettere qualcuno di guardia ai cilindri. In effetti non era un bravo capo: aveva la tendenza a lasciare che le cose andassero in malora, a permettere che precipitassero nella rovina. Doveva ammetterlo: sulla Terra aveva guidato numerose spedizioni, nessuna delle quali aveva brillato per efficienza o per accurata organizzazione. Tuttavia durante la Guerra di Crimea, quando era stato a capo degli Irregolari di Beatson e aveva addestrato i Bashi-Bazouk, la selvaggia cavalleria turca, si era comportato molto bene, di gran lunga meglio del solito. Perciò non avrebbe dovuto rimproverarsi…

Lev Ruach uscì dall’acqua e fece scorrere le mani lungo il suo magro corpo per eliminare le gocce. Anche Burton uscì, e gli si sedette accanto. Alice gli voitò la schiena, ed egli naturalmente non ebbe modo di sapere se l’aveva fatto apposta o no.

— Non è il fatto di essere di nuovo giovane che mi riempie di gioia — disse Lev col suo inglese dall’accento tedesco. — È avere di nuovo questa gamba.

Si picchiettò il ginocchio destro.

— L’ho persa in un incidente sull’autostrada del New Jersey quando avevo cinquant’anni.

Scoppiò a ridere e aggiunse: — In questa faccenda c’è stata un’ironia che qualcuno potrebbe chiamare destino. Due anni prima ero stato catturato dagli arabi mentre stavo cercando minerali nel deserto; nello stato di Israele, capisce…

— Vuole dire la Palestina? — chiese Burton.

— Gli ebrei fondarono uno stato indipendente nel 1948 — rispose Lev. — Lei non lo può sapere, naturalmente. Le spiegherò tutto un’altra volta. Ad ogni modo fui catturato e torturato dai guerriglieri arabi. Non entrerò nei dettagli: richiamarli alla memoria mi darebbe la nausea. Comunque quella notte riuscii a scappare, non senza aver prima sfondato la testa con un sasso a due soldati e sparato ad altri due con una carabina. Gli altri fuggirono, e io me ne andai. Fui fortunato. Mi raccolse una pattuglia armata. Comunque due anni dopo, quando ero negli Stati Uniti, percorrevo l’autostrada allorché un grosso autocarro con semirimorchio (più tardi le spiegherò anche questo) mi superò rientrando subito in corsia. Lo presi in pieno. Rimasi gravemente ferito, e mi amputarono la gamba destra sotto il ginocchio. Ma il succo della storia è che il guidatore dell’autocarro era nato in Siria. Vede dunque che gli arabi fecero di tutto per prendermi, e ci riuscirono: ma non mi uccisero. Questo lavoro fu portato a termine dal nostro amico Tau Ceti. Benché io possa affermare che non ha fatto altro che affrettare il destino della Terra.

— Cosa vuol dire con questo? — chiese Burton.

— Milioni di persone morivano per carestia, perfino gli Stati Uniti avevano applicato un severo razionamento, e l’inquinamento dell’acqua, della terra, dell’aria, ne stava uccidendo altri milioni. Gli scienziati dicevano che entro dieci anni l’ossigeno della Terra si sarebbe ridotto a metà perché il fitoplancton degli oceani, che come lei sa produceva appunto metà dell’ossigeno del pianeta, stava morendo. Gli oceani erano inquinati.

— Gli oceani?

— Non mi crede? Be’, lei è morto nel 1890, perciò le può essere difficile crederlo. Ma nel 1968 alcuni predissero esattamente quello che avvenne nel 2008. Io credetti a costoro: ero un biochimico. Ma la maggioranza della popolazione, e in particolar modo quelli che contavano, cioè la massa e i politici, rifiutarono di credere finché non fu troppo tardi. Quando la situazione cominciò a peggiorare furono prese delle contromisure, ma erano troppo deboli e giungevano in ritardo, e furono contrastate da gruppi che sostenevano che a prendere davvero delle contromisure si sprecavano quattrini e basta. Ma è una storia lunga e triste, e se dobbiamo costruire le abitazioni faremo meglio a muoverci subito dopo mangiato.

Alice uscì dal fiume e si strofinò il corpo con le mani. In poco tempo il sole e la brezza l’asciugarono del tutto. Poi Alice raccolse i suoi indumenti d’erba ma non se li rimise. Wilfreda gliene chiese il motivo, e Alice rispose che pizzicavano troppo: però li teneva per indossarli di notte se avesse fatto troppo freddo. Alice era cortese con Wilfreda, ma era evidente che teneva le distanze. Aveva udito buona parte della conversazione, e così sapeva che la ragazza era stata un’operaia diventata poi una prostituta e morta di sifilide. O almeno Wilfreda pensava che la malattia l’avesse uccisa. Non ricordava la propria morte. Senza dubbio, come aveva detto allegramente, aveva perso il senno prima.

Alice, sentendo questo, aumentò ancora di più le distanze. Burton sogghignò, chiedendosi cos’avrebbe fatto la donna venendo a sapere che egli aveva avuto la stessa malattia, presa al Cairo da una schiava nel 1853, quando aveva compiuto quel pellegrinaggio alla Mecca travestito da mussulmano. Era stato «curato», e la sua mente non aveva subito conseguenze da quel punto di vista fisico, benché egli avesse dovuto sopportare notevoli sofferenze mentali. Ma la cosa essenziale era che la resurrezione aveva dato a ciascuno un corpo fresco, giovane, privo di malattie, e che quello che uno era stato sulla Terra non doveva influire sull’atteggiamento degli altri nei suoi confronti.

Ma ciò non significava che le cose funzionassero proprio così.

Burton non poteva biasimare del tutto Alice Hargreaves. Ella era il prodotto della società in cui era vissuta: come tutte le donne, era ciò che gli uomini l’avevano fatta diventare. Però aveva forza di carattere ed elasticità mentale sufficienti a sollevarla al di sopra di alcuni pregiudizi del suo tempo e della sua classe. Si era adattata abbastanza bene alla nudità, e non era apertamente ostile o sprezzante verso Wilfreda. Aveva compiuto con Burton un’azione che cozzava contro un’intera vita di addottrinamento palese e nascosto. E questo era accaduto nella notte del primo giorno della sua vita dopo la morte, allorché avrebbe dovuto invece mettersi in ginocchio recitando il mea culpa perché aveva «peccato» e promettendo che non avrebbe peccato più pur di non essere gettata nel fuoco infernale.

Mentre attraversavano la pianura, Burton pensava ad Alice, e di quando in quando voltava indietro il capo e le lanciava un’occhiata. La sua testa calva le faceva sembrare molto più vecchio il viso, ma la mancanza di peli all’inguine le dava al tempo stesso un aspetto più giovane. Tutti quanti portavano addosso questa contraddizione: vecchi dal collo in su, fanciulli dall’ombelico in giù.

Poco alla volta Burton rallentò il passo finché fu al fianco di Alice. Così si trovò dietro a Frigate e Loghu. La vista di Loghu gli avrebbe procurato qualche vantaggio anche nel caso in cui il tentativo di parlare ad Alice fosse risultato infruttuoso.

A bassa voce disse: — Se la notte precedente ti ha cagionato tanto dispiacere, perché rimani con me?

Il bel viso di Alice si raggrinzì, imbruttendosi.

— Non sto con lei! Sto col gruppo! Per di più, ho pensato all’altra notte, benché questo mi desse dolore. Sarò franca. È stato il narcotico di quella disgustosa gomma a farci comportare entrambi come… come ci siamo comportati. O almeno so che è stato responsabile del mio comportamento. E do a lei il beneficio del dubbio.

— Allora non c’è speranza di un bis?

— Come può chiedere questo! Certo che no! Come osa?

— Non ti ho preso con la violenza. Come ho sottolineato, hai fatto quello che avresti fatto se non fossi stata trattenuta dalle tue inibizioni. Queste inibizioni sono una buona cosa in certe circostanze, come essere la moglie legittima di un uomo amato in Gran Bretagna, sulla Terra. Ma la Terra non esiste più, almeno non come l’abbiamo conosciuta. E neppure la Gran Bretagna. E neppure la società inglese. E anche se tutta l’umanità è risorta e si trova sparpagliata lungo questo fiume, potresti ugualmente non rivedere più tuo marito. Non sei più sposata. Ricordi?… finché morte ci divida… Sei morta, e pertanto divisa. Inoltre non c’è matrimonio nel regno dei cieli.

— Lei è blasfemo, signor Burton. Ho letto di lei sui giornali, e ho letto anche qualcuno dei suoi libri sull’Africa e sull’India, e quello sui mormoni degli Stati Uniti. Ho anche sentito delle voci su di lei, alcune delle quali difficili da credere tanto la dipingevano malvagio. Reginald si adirò moltissimo quando lesse il suo Kasidah. Disse che non avrebbe tenuto in casa sua dei testi così immondi e atei, e gettò tutti i suoi libri nel forno.

— Se io sono così malvagio, e tu ti senti una donna perduta, perché non te ne vai?

— Devo ripetere ogni cosa? In un altro gruppo potrei trovare degli uomini peggiori. E, come lei ha così gentilmente sottolineato, non mi ha preso con la forza. Ad ogni modo sono sicura che lei ha un po’ di cuore sotto quell’aria cinica e beffarda. Ho visto le sue lacrime quando portava in braccio Gwenafra e questa piangeva.

— Hai scoperto il mio segreto — disse Burton, sogghignando. — Benissimo. Così sia. Sarò cavalleresco, mia signora, e non tenterò di sedurla o molestarla in alcun modo. Ma la prossima volta che mi vedrà masticare la gomma farà meglio a nascondersi. Per ora le do la mia parola d’onore: non ha nulla da temere da me finché non sarò sotto l’effetto della gomma.

Alice spalancò gli occhi e si fermò. — Ha intenzione di farne ancora uso?

— Perché no? A quanto pare trasforma alcune persone in bestie feroci, ma su di me non produce questo risultato. Non ne sento alcun bisogno, per cui dubito che ci sia assuefazione. Di tanto in tanto, sa, mi facevo una pipata d’oppio, eppure non sono diventato un oppiomane: perciò non credo di essere psicologicamente debole di fronte alle droghe.

— Mi risulta che molto spesso lei alzava il gomito, signor Burton. Lei e quell’essere disgustoso, il signor Swinburne…

Alice s’interruppe. Un uomo aveva gridato per attirare la sua attenzione, e benché ella non comprendesse l’italiano aveva capito il gesto osceno di quello. Arrossì tutta quanta ma continuò a camminare di buona lena. Burton lanciò un’occhiata all’uomo. Era un giovane dal corpo ben piantato e dalla pelle scura, con naso grande, mento sfuggente, occhi poco distaccati. Il suo eloquio era quello dei delinquenti di Bologna, città in cui Burton aveva trascorso molto tempo alla ricerca di tombe e cimeli etruschi. Dietro a costui c’erano dieci uomini, la maggior parte dei quali brutti e dall’aspetto malvagio come il loro capo, e cinque donne. Era evidente che gli uomini volevano aggiungere altre donne al gruppo. Era pure evidente che avrebbero voluto mettere le mani sulle armi di selce del gruppo di Burton. Essi erano armati soltanto dei loro graal o di bastoni di bambù.

CAPITOLO UNDICESIMO

Burton diede alcuni ordini con voce decisa, e il gruppo si strinse compatto. Kazz non comprese le parole, ma intuì subito quello che stava accadendo. Lasciò che gli altri lo sorpassassero, per rimanere in coda a formare la retroguardia insieme a Burton. Il suo aspetto belluino e la scure nel suo enorme pugno fecero alquanto esitare il bolognese. Questi seguì il gruppo con i suoi uomini, gridando pesanti commenti e minacce, ma senza avvicinarsi molto. Quando raggiunsero le colline, però, il capo della banda lanciò un ordine, e questa attaccò.

Il giovane con gli occhi poco divaricati si precipitò su Burton urlando e facendo oscillare il graal che teneva per la cinghietta. Burton calcolò il movimento del cilindro e lanciò il suo giavellotto di bambù nell’istante in cui il graal oscillava verso l’esterno. La punta di selce colpì l’uomo al plesso solare, e quello cadde sul fianco col giavellotto conficcato nel corpo. Il subumano colpì un graal oscillante con un bastone, che gli venne strappato di mano. Allora Kazz balzò avanti e abbatté il bordo della testa di scure sul capo del suo avversario, che cadde col cranio insanguinato.

Il piccolo Lev Ruach gettò il suo graal contro il petto di un uomo, poi prese la rincorsa e gli saltò addosso. I suoi piedi colpirono la faccia dell’avversario, che si stava rialzando, facendolo cadere all’indietro; Ruach rimbalzò e gli squarciò la spalla col coltello di selce. L’uomo, urlando, si rizzò in piedi e fuggì via.

Frigate si comportò meglio di quanto Burton si fosse aspettato, dato che quando la banda li aveva affrontati egli era impallidito e aveva preso a tremare. Il suo graal era assicurato al polso sinistro, mentre con la destra impugnava una testa di scure. Si precipitò contro gli assalitori e fu colpito a una spalla con un graal. Il colpo venne ammortizzato alquanto dal suo stesso graal, ma egli cadde a terra sul fianco. Un uomo sollevò con ambo le mani un bastone di bambù per abbatterlo su Frigate, ma questi rotolò via sollevando il proprio graal per bloccare il bastone. Quindi si rialzò, caricò l’uomo a testa bassa, e lo fece cadere all’indietro. Anche Frigate cadde sopra l’altro, e lo colpì due volte alla tempia con l’ascia di pietra.

Alice aveva sbattuto il proprio graal in faccia a un uomo, e ora lo stava colpendo con l’estremità della lancia di bambù appuntita col fuoco. Loghu balzò di fianco a un avversario e lo colpì in testa col suo bastone, così forte che quello cadde in ginocchio.

Entro sessanta secondi il combattimento era finito. Gli altri uomini fuggirono, seguiti dalle loro donne. Burton girò a faccia in su il capo della banda, che urlava, e gli estrasse la lancia dalla bocca dello stomaco. La punta non era penetrata più di un centimetro.

L’uomo si rialzò, e stringendosi la ferita che sanguinava si allontanò barcollando verso la pianura. Due della banda avevano perso i sensi, ma probabilmente sarebbero sopravvissuti. L’uomo che Frigate aveva attaccato era morto.

L’americano, da pallido che era, divenne rosso e poi pallido di nuovo. Ma non sembrava dispiaciuto o disgustato. Se la sua espressione indicava qualcosa, era euforia. E sollievo.

— Questo è stato il primo uomo che io abbia mai ucciso! — esclamò. — Il primo!

— Dubito che possa essere l’ultimo — osservò Burton. — A meno che prima venga ucciso lei.

Ruach, guardando il cadavere, disse. — Un uomo che muore qui sembra in tutto e per tutto uno che sia morto sulla Terra. Chissà dove vanno quelli che sono uccisi nell’aldilà?

— Se vivremo abbastanza a lungo potremo scoprirlo. Voialtre due donne avete dato una buona prova di voi stesse.

— Io ho fatto quello che c’era da fare — replicò Alice, e si allontanò. Era pallida e tremava Loghu, invece, sembrava tutta contenta.

Arrivarono alla pietra-fungo una trentina di minuti prima di mezzogiorno. La situazione era cambiata. Nella valletta tranquilla c’erano circa sessanta persone, molte delle quali stavano lavorando su pezzi di selce. Un uomo si premeva la mano su un occhio sanguinante, nel quale era volata una scheggia. Parecchi altri avevano la faccia sanguinante o le dita contuse.

Burton rimase contrariato, ma non poteva far nulla. L’unica speranza di riprendere possesso di quel tranquillo rifugio era che gli intrusi se ne andassero a causa della mancanza d’acqua. Tale speranza sparì in fretta. Una donna disse a Burton che a poco più di due chilometri in direzione ovest c’era una piccola cascata. Precipitava dalla cima della montagna in un canyon a forma di punta di freccia e da lì in un grande bacino che era pieno solo a metà. Alla fine l’acqua sarebbe traboccata aprendosi una via in mezzo alle colline e disperdendosi nella pianura. A meno che, naturalmente, non si fossero portate giù delle pietre dalla base della montagna in modo da formare un canale.

— Possiamo anche fabbricare delle tubature per l’acqua con i bambù più grandi — suggerì Frigate.

Misero i loro graal sulla roccia, facendo ciascuno attenzione al punto in cui aveva collocato il proprio; e attesero. Burton intendeva muoversi dopo che i graal fossero stati riempiti. Una posizione a metà strada fra la cascata e la pietra-fungo poteva essere vantaggiosa, ed essi avrebbero avuto spazio a sufficienza.

Le fiamme azzurre uscirono ruggendo dalla roccia proprio quando il sole raggiungeva lo zenith. Questa volta i graal contenevano antipasto freddo, pane nero italiano spalmato di burro e aglio, spaghetti e polpette, un bicchiere di vino rosso secco, uva, altri cristalli di caffè, dieci sigarette, un’altra alla marijuana, un sigaro, altra carta igienica e una saponetta, e quattro cioccolatini ripieni. Alcuni si lamentarono perché non gradivano la cucina italiana, ma nessuno si rifiutò di mangiare.

Il gruppo, fumando le sigarette, s’incamminò lungo la base della montagna in direzione della cascata. Questa si trovava all’estremità del canyon triangolare, e lì, intorno al bacino, si era accampato un gruppo di uomini e donne. L’acqua era gelida. Dopo aver lavato e asciugato i contenitori e riempito i secchi, la squadra di Burton si volse di nuovo in direzione della pietra-fungo. Fu scelta una collina distante circa un chilometro, tutta coperta di pini tranne che sulla cima, dove cresceva un grosso albero del ferro. Tutt’attorno c’era una quantità di bambù di ogni dimensione. Sotto la guida di Kazz e di Frigate, il quale aveva passato alcuni anni in Malesia, tagliarono dei bambù e costruirono le capanne. Queste erano a forma circolare, con un’unica porta, una finestra sul retro, e un tetto conico di foglie. Lavorarono tutti in fretta, senza essere troppo meticolosi, e così per l’ora di cena mancava alle capanne soltanto il tetto. Frigate e Monat vennero messi di guardia mentre gli altri portavano i graal alla roccia. Qui trovarono circa trecento persone che stavano costruendo rifugi e capanne. Burton se l’era aspettato. La maggior parte della gente non aveva voglia di percorrere un chilometro, tre volte al giorno e tutti i giorni, per andare a prendere il cibo. Preferiva radunarsi intorno ai funghi di pietra. Le capanne, lì, erano sistemate a casaccio, e più vicine del necessario. C’era ancora il problema di trovare dell’acqua fresca, e per questo motivo Burton si era meravigliato che lì ci fossero tante persone. Ma una graziosa slovena lo informò che proprio quel pomeriggio era stata trovata una sorgente d’acqua lì vicino. Una fonte sgorgava da una grotta quasi a strapiombo sulla roccia. Burton andò a vedere. L’acqua usciva dalla grotta e precipitava lungo la parete rocciosa finendo in un bacino largo una quindicina di metri e profondo due o tre.

Burton si chiese se questo era un ripensamento da parte di Chi aveva creato quel luogo.

Fu di ritorno mentre le fiamme azzurre rumoreggiavano.

D’improvviso Kazz si fermò e si mise a orinare, senza prendersi la briga di voltarsi. Loghu ridacchiò, e Tanya divenne rossa. Le donne italiane erano abituate a vedere gli uomini accostarsi a un muro quando li coglieva la necessità, e Wilfreda era abituata a tutto. Alice, sorprendentemente, ignorò Kazz come se fosse stato un cane. E questo poteva spiegare il suo atteggiamento. Per lei Kazz non era un essere umano, quindi non ci si poteva aspettare che si comportasse come tale.

Non c’era alcun senso di rimproverare Kazz per questo, dato soprattutto che non capiva la lingua degli altri. Ma Burton avrebbe usato il linguaggio dei gesti la prossima volta che Kazz si fosse comportato così mentre gli altri sedevano intorno e mangiavano. Ognuno doveva imparare a rispettare certi limiti, e tutto ciò che poteva urtare gli altri mentre mangiavano doveva essere proibito. E questo, rifletté Burton, comprendeva le liti durante i pasti. Per esser sincero, Burton avrebbe dovuto ammettere di aver preso parte in vita sua a un numero fin troppo grande di dispute a tavola.

Passando accanto a Kazz gli diede un colpetto in cima al cranio dalla forma di pagnotta. Kazz lo guardò, e Burton scosse il capo, immaginando che l’altro avrebbe capito allorché avesse imparato a parlare inglese. Ma scordò all’istante il suo proposito: si fermò e strofinò la parte superiore della propria testa. Sì, c’era una lanuggine assai leggera.

Si toccò il volto, che era liscio come al solito. Ma le ascelle erano coperte di peluria. Però la regione pubica era glabra. Ma forse lì i peli crescevano più lentamente che sul capo. Comunicò la notizia agli altri, e quelli si toccarono e poi si ispezionarono a vicenda. Era vero, il pelo stava tornando, almeno in testa e alle ascelle. Kazz era l’eccezione. Il pelo gli stava crescendo sull’intero corpo, tranne che sul volto.

La scoperta rese tutti esultanti. Ridendo e scherzando s’incamminarono lungo la base della montagna, all’ombra. Poi piegarono verso est e si fecero strada attraverso l’erba di quattro colline prima di attaccare il pendio di quella alla quale cominciavano a pensare come alla propria sede. A metà cammino si fermarono, in silenzio. Frigate e Monat non avevano risposto alle loro grida.

Dopo aver raccomandato di sparpagliarsi e di avanzare lentamente, Burton li condusse su per la collina. Le capanne erano incustodite, e alcune delle più piccole erano state prese a calci o calpestate. Burton avvertì una sensazione di gelo, come se un vento freddo avesse soffiato su di lui. Il silenzio, le capanne danneggiate, la scomparsa dei due uomini: tutto ciò era di cattivo auspicio.

Un minuto dopo udirono delle grida di richiamo, e si voltarono per guardare giù dalla collina. In mezzo all’erba si intravedevano Monat e «Frigate, e quindi essi cominciarono a salire per il pendio. Monat aveva la faccia seria, ma l’americano stava sogghignando. Aveva delle contusioni sopra gli zigomi, e le nocche di entrambe le mani lacerate e sanguinanti.

— Stiamo giusto tornando dall’aver cacciato via quattro uomini e tre donne che volevano impadronirsi delle nostre capanne — spiegò. — Io dissi loro che avrebbero potuto costruirsele da sé, e che voi sareste stati di ritorno entro breve tempo e avreste fatto sputar loro i denti se non se ne fossero andati. Mi compresero benissimo, perché parlavano inglese. Erano risorti vicino al fungo situato accanto al fiume, a un chilometro di distanza dal nostro. Per la maggior parte erano triestini della sua epoca, Burton, ma c’era una decina di ex-abitanti di Chicago, morti intorno al 1985. È proprio buffa la distribuzione dei morti, non è vero? Direi che il criterio è del tutto casuale.

«Ad ogni modo io ripetei quello che, secondo Mark Twain, aveva detto il diavolo: Voi di Chicago ritenete di essere la gente migliore, mentre invece la verità è che siete solo la più numerosa. La cosa non piacque molto, e quelli avevano l’aria di pensare che io avrei dovuto essere più amichevole dato che ero americano. Una delle donne si offrì a me se avessi cambiato idea e non mi fossi opposto a che s’impadronissero delle capanne. Quella donna viveva già con degli uomini. Io risposi di no. Allora essi replicarono che avrebbero preso comunque le capanne, se necessario passando sul mio cadavere.

«Ma erano più coraggiosi a parole che a fatti. Monat li fece spaventare soltanto guardandoli. E inoltre noi avevamo le armi di pietra e le lance. Tuttavia il loro capo li stava incitando a scagliarsi contro di noi, quando io colsi un’occhiata penetrante da parte di uno di loro.

«La sua testa era calva, cosicché non aveva quei folti capelli neri e diritti, ed era sui trentacinque quando l’avevo conosciuto la prima volta, e a quel tempo portava occhiali cerchiati di madreperla, ed erano cinquantaquattro anni che non lo vedevo più. Ma mi avvicinai a lui, e lo guardai in faccia, dove era stampato il sogghigno che ricordavo, e dissi: "Lem? Lem Sharkko! sei Lem Sharkko, vero?"

«Quello spalancò gli occhi, e sogghignò di più. e mi prese la mano, la mano, dopo tutto quello che mi aveva fatto, e si mise a gridare, come se fossimo fratelli persisi di vista da tanto tempo: "E così, è così! Sei Pete Frigate! Mio Dio, Pete Frigate!"

«Io ero quasi contento di vederlo, e per la stessa ragione per cui lui era contento di vedere me. Ma poi mi dissi: "Questo è quell’editore disonesto che ti defraudò di quattromila dollari quando eri alle prime armi come scrittore, e ti rovinò la carriera per anni. Questo è quel viscido mercante imbroglione che defraudò di un mucchio di denaro te e almeno altri quattro scrittori e poi dichiarò bancarotta e tagliò la corda. E poi ereditò una barca di quattrini da uno zio e si diede alla bella vita, dimostrando così che il delitto rende. Questo è l’uomo che non hai dimenticato, non solo per ciò che fece a te e agli altri, ma a causa di tutti i successivi editori disonesti nei quali ti sei imbattuto."

Burton fece un sogghigno e commentò: — Una volta dissi che preti, politici, ed editori, non sarebbero mai entrati dalle porte del paradiso. Ma mi sbagliavo. Cioè, se questo è il paradiso.

— Sì, lo so — replicò Frigate. — Non ho mai dimenticato quello che lei ha detto. Ad ogni modo io misi da parte il piacere, del tutto naturale, di aver rivisto un volto familiare, e dissi: «Sharkko…»

— Con un nome simile, che vuol dire più o meno «squalo», riuscì ad accattivarsi la sua fiducia? — chiese Alice.

— Mi spiegò che il suo cognome, in boemo, significava degno di fiducia. Come tutte le altre cose che mi disse, era una menzogna. Ad ogni modo, io mi ero già quasi convinto che Monat e io avremmo dovuto lasciare che quelli prendessero possesso delle capanne. Noi ce ne saremmo andati, e poi li avremmo scacciati quando voi foste tornati col cibo. Questa era l’unica cosa intelligente da fare. Ma quando riconobbi Sharkko persi il lume degli occhi. Gli dissi, sorridendo: «Bene, è una bellissima cosa vedere la tua faccia dopo tutti questi anni. Specialmente qui, dove non ci sono poliziotti o tribunali!

«E gli diedi un pugno in pieno naso! Cadde di piatto sulla schiena, col naso che perdeva sangue. Monat e io ci buttammo addosso agli altri, e io ne presi a calci uno, e poi un altro mi colpì sulla guancia col suo graal. Rimasi intontito, ma Monat ne mise fuori combattimento uno con l’estremità della sua lancia e ruppe le costole a un altro: è magro ma ha un’agilità impressionante, e cosa non sa sull’autodifesa! E sull’offesa! A questo punto Sharkko si rialzò e io lo colpii con l’altro mio pugno, ma lo presi solo di striscio sulla mandibola. Si fece meno male lui che io al pugno, ma si girò e scappò via, e io gli corsi dietro. Anche gli altri scapparono, mentre Monat li sferzava in fondo alla schiena con la lancia. Io inseguii Sharkko su per quella collina: lo raggiunsi mentre scendeva dall’altro versante e lo pestai ben bene. Strisciò via chiedendo misericordia, e io gliela concessi con un calcio nel posteriore che lo fece rotolare gridando giù giù fino alla base del pendio.

Frigate stava ancora tremando per la reazione, ma era compiaciuto.

— Per un attimo temetti che avrei fatto qualche pazzia — disse.

— Dopotutto, quelle cose erano successe tanto tempo fa e in un altro mondo, e forse noi siamo qui per perdonare i nostri nemici (e alcuni dei nostri amici) ed essere perdonati. Ma d’altra parte, pensai, forse siamo qui per poter restituire un po’ di quello che abbiamo dovuto sopportare sulla Terra. Che ne dici, Lev? Non ti piacerebbe avere la possibilità di far girare Hitler sopra un fuoco? Di farlo girare molto lentamente?

— Non credo che si possa paragonare un editore disonesto a Hitler — rispose Ruach. — No, non vorrei girarlo sopra un fuoco. Potrei desiderare di farlo morire di fame, e di dargli solo quel po’ di cibo che lo manterrebbe in vita. Ma non lo farei. Che vantaggio ne risulterebbe? Forse che questo gli farebbe cambiare opinione su qualcosa, o lo convincerebbe che gli ebrei erano esseri umani? No, se fosse nelle mie mani non gli farei nulla, tranne ucciderlo per impedirgli di far del male ad altri ancora. Ma non sono così sicuro che ucciderlo significherebbe farlo rimanere morto. Non qui.

— Sei un vero cristiano — commentò Frigate sogghignando.

— Credevo che fossi mio amico! — protestò Ruach.

CAPITOLO DODICESIMO

Era la seconda volta che Burton sentiva nominare Hitler. Intendeva sapere tutto su costui, ma per il momento occorreva che ognuno mettesse da parte la conversazione e terminasse i tetti delle capanne. Si misero al lavoro di buona lena, tagliando dell’altra erba con le piccole forbici che avevano trovato nei graal o arrampicandosi sugli alberi del ferro e staccandone le enormi foglie triangolari, verdi con striature scarlatte. I tetti lasciavano molto a desiderare. Burton intendeva guardarsi intorno per trovare un carpentiere dal quale apprendere le relative tecniche. I letti, per il momento, avrebbero dovuto consistere in mucchi d’erba coperti da strati delle più tenere foglie dell’albero del ferro. Le coperte sarebbero state un altro mucchio delle stesse foglie.

— Sia ringraziato Dio, o Chi per esso, che qui non ci sono insetti — esclamò Burton.

Sollevò la tazza di metallo grigio che conteneva ancora un dito del miglior scotch che egli avesse mai gustato.

— Salute a Lui. Se ci avesse fatti risorgere solo per vivere su un esatto duplicato della Terra avremmo dovuto dividere i nostri letti con diecimila specie di parassiti pronti a morderci, graffiarci, pungerci, scorticarci, pizzicarci, succhiarci il sangue.

Brindarono, poi si sedettero per un po’ intorno al fuoco fumando e chiacchierando. Le ombre si fecero più scure, il cielo perse il suo intenso azzurro, e sbocciarono le stelle gigantesche e i grandi ammassi gassosi, che finché non era giunta l’oscurità avevano avuto l’aspetto di fantasmi indistinti. Il cielo era davvero uno splendore di gloria.

— Sembra un’illustrazione di Sime — commentò Frigate.

Burton ignorava chi fosse questo Sime. Metà delle sue conversazioni con quelli che non erano vissuti nel diciannovesimo secolo consisteva in spiegazioni da una parte e dall’altra dei propri riferimenti.

Burton si alzò, girò intorno al fuoco, e si accoccolò di fianco ad Alice. Questa era appena tornata dall’aver messo a letto la bambina, Gwenafra, in una delle capanne.

Burton tese ad Alice una tavoletta di gomma e disse: — Metà l’ho già presa. Gradisce l’altra metà?

Alice gli rivolse uno sguardo inespressivo. — No, grazie — rispose.

— Ci sono otto capanne — continuò Burton. — Non c’è alcun dubbio su chi le occuperà, e con chi; tranne che per Wilfreda, lei, e me.

— Non credo ci sia alcun dubbio su questo — replicò Alice.

— Allora dormirà con Gwenafra?

Alice continuò a tenere il volto girato in un’altra direzione. Burton rimase accucciato per alcuni secondi; poi si alzò, tornò dall’altra parte del fuoco, e si sedette accanto a Wilfreda.

— Può fare a meno di rimanere qui, Sir Richard — disse la ragazza. Le sue labbra erano contratte. — Il Signore mi porti, a me non garba essere di seconda scelta. Doveva farle la proposta quando nessuno poteva vedere. Ho il mio orgoglio, sa.

Burton rimase zitto per un momento. Il suo primo impulso era stato di sferzarla con un insulto pungente. Ma Wilfreda aveva ragione. Egli aveva usato una maniera troppo sprezzante. Anche se era stata una prostituta aveva il diritto di essere trattata come un essere umano. Soprattutto dal momento che affermava che solo la fame l’aveva spinta alla prostituzione, benché egli avesse dei dubbi al riguardo. Troppe prostitute cercavano di giustificare il loro mestiere, troppe fornivano spiegazioni fantasiose circa il loro ingresso nel giro. Tuttavia la rabbia di Wilfreda verso Smithson e il suo comportamento verso lui stesso indicavano che la ragazza non mentiva.

Burton si alzò e disse: — Non intendevo ferire i suoi sentimenti.

— È innamorato di quella? — chiese Wilfreda alzando lo sguardo.

— Soltanto a una donna ho detto che l’amavo — rispose Burton.

— Sua moglie?

— No. La ragazza morì prima che potessi sposarla.

— E quanto tempo è stato sposato?

— Ventinove anni, benché questo non la riguardi.

— Il Signore mi porti! Tutto quel tempo, e non le ha mai detto neanche una volta che l’amava!

— Non era necessario — replicò Burton, e si allontanò. La capanna che scelse era occupata da Monat e Kazz. Kazz stava già russando; Monat era appoggiato al gomito e fumava una sigaretta alla marijuana. Monat la preferiva alle sigarette perché aveva un sapore più vicino a quello del tabacco del suo pianeta. Però gli faceva ben poco effetto. Il tabacco invece gli produceva talvolta delle fugaci visioni dai vividi colori.

Burton decise di risparmiare il resto della sua narcogomma, come l’aveva battezzata. Si accese una sigaretta alla marijuana, sapendo che probabilmente la droga gli avrebbe aumentato ira e senso di frustrazione. Fece a Monat delle domande sul suo pianeta, Ghuurrkh. L’argomento lo interessava moltissimo, ma la marijuana lo tradì, ed egli fu trascinato lontano mentre la voce dell’extraterrestre diveniva sempre più debole…

— …ora copritevi gli occhi, ragazzi! — disse Gilchrist col suo largo accento scozzese.

Richard guardò Edward; Edward sogghignò e si mise la mano sugli occhi, ma senza dubbio stava sbirciando tra un dito e l’altro. Richard si coprì gli occhi con la mano e continuò a stare sulla punta dei piedi. Benché egli e suo fratello fossero saliti su una cassetta, dovevano allungarsi lo stesso per vedere al di sopra delle teste degli adulti davanti a loro.

Il capo della donna era già bloccato in posizione, e i suoi lunghi capelli bruni le ricadevano sul volto. Egli avrebbe voluto poter vedere l’espressione di lei mentre fissava il paniere che l’aspettava. O piuttosto, che aspettava la sua testa.

— Smettete di sbirciare, ragazzi! - disse ancora Gilchrist.

Si udì un rullio di tamburi, e poi un grido isolato: quindi la lama precipitò giù, la folla emise un urlo all’unisono, cui sì aggiunsero alcuni strilli e lamenti, e la testa cadde. Dal collo prese a sgorgare il sangue, e sembrava che non volesse più cessare. Sgorgava e sgorgava mentre il sole lo colpiva coi suoi raggi, sgorgava e sommergeva la folla, e benché egli si trovasse almeno a quindici metri dalla giustiziata, il sangue gli raggiunse le mani e gli colò tra le dita e sul volto, accecandolo e rendendo le sue labbra appiccicose e salate. Egli prese a gridare…

— Svegliati, Dick! — ripeteva Monat. Stava scuotendo Burton per le spalle. — Svegliati! Devi aver avuto un incubo!

Burton, singhiozzando e rabbrividendo, si alzò a sedere. Si strofinò le mani, poi si toccò la faccia. L’una e le altre erano bagnate. Ma di sudore, non di sangue.

— Stavo sognando — disse. — Avevo sei anni e mi trovavo nella città di Tours. In Francia, dove allora vivevamo. Il mio tutore, John Gilchrist, portò me e mio fratello Edward ad assistere all’esecuzione di una donna che aveva avvelenato la propria famiglia. Era una festa, disse Gilchrist.

«Io era eccitato, e sbirciai attraverso le dita quando egli ci raccomandò di non guardare durante gli ultimi istanti, allorché la lama della ghigliottina sarebbe scesa. Ma io guardai: dovevo farlo. Ricordo di aver provato un po’ di nausea, ma questo fu l’unico effetto che la scena raccapricciante produsse su di me. Mi sembrò di essermi trasportato in un’altra dimensione mentre stavo guardando: era come se avessi visto l’intera scena attraverso uno spesso vetro, come se fosse stata irreale. O come se fossi stato irreale io. Perciò non ne fui realmente impressionato.

Monat aveva acceso un’altra sigaretta alla marijuana. La luce di questa era sufficiente per permettere a Burton di vedere che l’extraterrestre scrollava il capo. — Che barbari! Non solo uccidevate i vostri criminali, ma tagliavate loro la testa! In pubblico! E permettevate che i bambini assistessero!

— In Inghilterra erano un po’ più umani — disse Burton. — I criminali venivano impiccati!

— Almeno i francesi consentivano agli spettatori di essere pienamente consapevoli del fatto che stavano spargendo il sangue dei loro criminali — osservò Monat. — Il sangue era sulle loro mani. Ma a quanto pare questo particolare non è venuto in mente a nessuno. Non consciamente, almeno. Così ora, dopo chissà quanti anni (sessantatré?), fumi un po’ di marijuana e rivivi un episodio che hai sempre creduto non ti avesse colpito. Ma questa volta indietreggi inorridito. Gridavi come un bambino spaventato. Hai reagito come avresti dovuto reagire quando eri bambino. Direi che la marijuana ha asportato alcuni profondi strati di repressione e ha portato alla luce l’orrore che era rimasto sepolto lì per sessantatré anni.

— Forse — mormorò Burton.

Rimase in silenzio. In lontananza cadde un fulmine, seguito dal tuono. Un minuto dopo si udì uno scroscio, e quindi un tamburellar di gocce sul tetto. La notte precedente aveva piovuto intorno a quell’ora (Burton aveva calcolato che fossero state le tre del mattino). Ed ecco che anche in quella seconda notte, circa alla stessa ora, si era messo a piovere. Il diluvio diveniva sempre più violento, ma il tetto era stato fortemente compresso e l’acqua non vi gocciolava attraverso. Un po’ però ne penetrava da sotto la parete posteriore, che si trovava a un livello più alto. Si spandeva sul pavimento ma senza bagnare le persone, perché l’erba e le foglie su cui giacevano formavano un tappeto di venti centimetri circa di spessore.

Burton chiacchierò con Monat finché la pioggia cessò, una mezz’oretta più tardi. Monat si addormentò subito; Kazz, in tutto il frattempo, non si era svegliato. Burton tentò di riaddormentarsi ma non ci riuscì. Non si era mai sentito così solo, e aveva paura di scivolare di nuovo in quell’incubo. Dopo un po’, uscì dalla capanna e si avviò verso quella scelta da Wilfreda. Sentì l’odore di tabacco prima di essere giunto alla porta. La punta della sua sigaretta brillava nel buio. Wilfreda era una figura indistinta, seduta a schiena eretta sul mucchio di erba e foglie.

— Salve — disse. — Speravo che saresti venuto.

— È l’istinto di possedere dei beni — disse Burton.

— Dubito che l’uomo abbia tale istinto — replicò Frigate. — Alcune persone, negli Anni Sessanta (1960, intendo), cercarono di dimostrare che l’uomo aveva un istinto che essi denominarono imperativo territoriale. Ma…

— Mi piace questa espressione — interruppe Burton. — Suona bene.

— Sapevo che ti sarebbe piaciuta — replicò Frigate. — Ad ogni modo Ardrey e altri cercarono di dimostrare che l’uomo non solo aveva l’istinto di rivendicare la proprietà di una determinata zona, ma addirittura discendeva da una scimmia feroce. E che l’istinto di uccidere, ereditato da quella scimmia, era ancora vivo: cosa che spiegava i confini nazionali, il patriottismo e il campanilismo, il capitalismo, la guerra, le uccisioni, i delitti e così via. Ma un’altra teoria sosteneva che tutto ciò era il risultato della cultura, cioè della continuità culturale di società dedite fin dall’inizio a lotte fra tribù, a guerre, uccisioni, delitti, e così via. Cambiata la cultura, l’ipotesi della scimmia assassina cadeva. Perché la scimmia assassina non c’è mai stata.

— Tutto ciò è molto interessante — disse Burton — e un’altra volta approfondiremo di più questa teoria. Lasciami sottolineare, però, che quasi tutti i membri dell’umanità risorta provengono da una cultura che incoraggiava la guerra, l’assassinio, il delitto, la violenza, il furto, la pazzia. Sono queste le persone in mezzo alle quali ora viviamo e con le quali dobbiamo avere rapporti. Un giorno o l’altro ci sarà forse una nuova generazione. Non lo so. È troppo presto per dirlo, dal momento che siamo qui da soli sette giorni. Ma che ci piaccia o no, ci troviamo in un mondo abitato da esseri che spessissimo si comportano come se fossero delle scimmie feroci. E ora torniamo al nostro modello!

Erano seduti su sgabelli di bambù davanti alla capanna di Burton. Davanti a loro, su un tavolino pure di bambù, c’era un modello d’imbarcazione costruito con pezzi di bambù e di pino. Aveva due scafi, al di sopra dei quali, trasversalmente, era sistemata una piattaforma con una bassa ringhiera al centro. Aveva un solo albero, molto alto, con una vela aurica e un fiocco, e c’era un ponte di comando leggermente sopraelevato, dove c’era la barra del timone. Per scolpire il modello del catamarano, Burton e Frigate avevano usato i coltelli di selce e le lame delle forbici. Burton aveva deciso di chiamare l’imbarcazione, una volta costruita, Hadji. Anch’essa avrebbe compiuto un pellegrinaggio, pur se la sua meta non sarebbe stata la Mecca. Burton intendeva risalire il Fiume (ormai il fiume era divenuto il Fiume) fin dove possibile.

Egli e Frigate si erano messi a parlare dell’imperativo territoriale a causa di alcune difficoltà preliminari riguardo la costruzione del catamarano. Ormai, in quella zona, la gente si era già quasi sistemata. Aveva delimitato le singole proprietà e costruito le abitazioni, o le stava terminando. La gamma di queste andava dalle baracche col tetto a un solo spiovente su su fino a edifici relativamente grandiosi, realizzati in pietra e tronchi di bambù, con quattro stanze, e a un piano. La maggior parte delle abitazioni si trovava nelle vicinanze dei funghi di pietra lungo il Fiume, e alla base della montagna. I rilievi di Burton, ultimati due giorni prima, davano una densità approssimativa di cento persone per chilometro quadrato. E per ogni chilometro quadrato di terreno pianeggiante su entrambe le rive del Fiume, ce n’erano all’incirca due e mezzo di colline. Ma queste erano così alte e accidentate che l’area effettivamente abitabile era di circa ventitré chilometri quadrati. Nelle tre aree esaminate, Burton aveva osservato che un terzo della popolazione aveva costruito le case vicino alle pietre-fungo in riva al Fiume, e un terzo accanto a quelle dell’entroterra. Cento persone per chilometro quadrato sembrava una densità elevata, ma le colline erano così fittamente alberate e avevano una superficie così accidentata che un piccolo gruppo stabilitosi in tale zona poteva sentirsi isolato. E la pianura era di rado affollata, tranne all’ora dei pasti, perché i suoi abitanti si recavano nelle colline o pescavano in riva al Fiume. Molti stavano costruendo imbarcazioni di bambù o canoe, per andare a pesca in mezzo al Fiume. O, come Burton, per esplorare.

I boschetti di bambù erano scomparsi, benché fosse evidente che si sarebbero riformati in fretta. Il bambù aveva un ritmo di crescita fenomenale. Burton calcolò che una pianta alta quindici metri arrivasse all’altezza massima in dieci giorni.

Il gruppo di Burton aveva lavorato sodo ad abbattere tutto il legname che riteneva necessario per l’imbarcazione. Ma bisognava tener lontani i ladri, e venne usato dell’altro materiale per erigere un alto recinto. Questo era quasi finito il giorno in cui il modello dell’imbarcazione giunse a termine; ma c’era il guaio che dovevano costruire il catamarano in pianura. Se l’avessero montato lì, non sarebbe poi stato possibile trasportarlo in mezzo agli alberi e giù per tutte le colline e collinette.

— Sì, ma se noi ci spostiamo e stabiliamo una nuova base incontreremo opposizione — aveva detto Frigate. — Sulla fascia dell’erba alta non c’è un centimetro quadrato che non sia di proprietà di qualcuno. Quindi si deve passare su terreno altrui per raggiungere la pianura. Per ora nessuno ha cercato di far valere con la forza i diritti di proprietà, ma le cose possono cambiare da un giorno all’altro. E se si costruisce la nave un po’ più in qua della fascia di erba alta, si elimina il problema degli alberi e la si può trasportare attraverso le capanne. Ma bisognerebbe montarle la guardia giorno e notte, altrimenti il materiale verrebbe rubato. O distrutto. Tu conosci quei barbari.

Frigate alludeva alle capanne abbattute mentre i proprietari erano assenti, e all’inquinamento dei bacini sottostanti alla cascata e alla sorgente. Alludeva altresì alle abitudini assolutamente antigieniche di molti abitanti del luogo. Costoro non si servivano delle piccole cabine sistemate qua e là ad uso pubblico.

— Erigeremo nuove abitazioni e un cantiere più vicino possibile alla fascia — disse Burton. — Poi abbatteremo gli alberi che ci impediscano il passaggio e ci apriremo il largo con la forza tra chiunque ci rifiuti il diritto di transito.

Ma senza dire a nessuno le sue intenzioni, Alice andò giù da alcune persone che avevano le capanne sulla fascia tra la pianura e le colline, e le persuase a concludere uno scambio. Era venuta a sapere che tre coppie erano insoddisfatte della loro sede, a causa della mancanza di intimità. Queste furono d’accordo, e traslocarono nelle capanne del gruppo di Burton. Era il dodicesimo giorno dopo la Resurrezione, un giovedì. Per convenzione generale, si era stabilito che il giorno della Resurrezione fosse stato una domenica. Ruach disse che egli avrebbe preferito che il primo giorno fosse dichiarato sabato, o ancor meglio venisse appunto chiamato Primo Giorno. Ma egli si trovava in una zona popolata prevalentemente da Gentili (o ex-Gentili, benché un Gentile rimanga sempre un Gentile), per cui dovette adattarsi all’opinione degli altri. Ruach aveva un bastone di bambù sul quale teneva il conto dei giorni, praticandovi una tacca ogni mattina. Il bastone era conficcato in terra, davanti alla sua capanna.

Il trasporto del legname per l’imbarcazione richiese quattro giorni di duro lavoro. A questo punto le coppie italiane decisero che erano stanche di consumarsi le dita fino all’osso. Oltre a ciò, che motivo c’era di salire su una barca e andare in qualche nuovo posto quando qualunque altro era probabilmente simile a quello? Era ovvio che avevano ottenuto una seconda vita per godersela. Altrimenti, perché i liquori, le sigarette, la marijuana, la narcogomma, la nudità?

Gli italiani se ne andarono senza rancore da parte di nessuno: anzi, venne loro offerta una festicciola d’addio. Il giorno successivo, il ventesimo dell’anno 1 d.R., accaddero due fatti, uno dei quali risolse un mistero, e l’altro ne creò uno nuovo, benché non molto importante.

All’alba il gruppo attraversò la pianura, diretto al fungo di pietra e accanto a questo trovò due sconosciuti, entrambi addormentati. Furono ridestati senza difficoltà, ma apparvero turbati e frastornati. Il primo era un uomo alto dalla pelle scura, che parlava una lingua sconosciuta. Anche l’altro era un uomo alto, di bell’aspetto, provvisto di forti muscoli e con occhi grigi e capelli neri. Nessuno lo capiva; ma Burton si rese conto, a un tratto, che parlava inglese. Era il dialetto del Cumberland usato durante il regno di Edoardo I, chiamato talora Gambelunghe. Una volta che Burton e Frigate si furono familiarizzati con i fonemi ed ebbero effettuato alcune trasposizioni poterono condurre una zoppicante conversazione con lo sconosciuto. Frigate conosceva un buon numero di parole di inglese antico, ma molte altre non le aveva mai incontrate, e ignorava certi costrutti grammaticali.

John de Greystock era nato nel castello di Greystocke, nella contea del Cumberland. Era stato al seguito di Edoardo I, in Francia, quando il re aveva invaso la Guascogna. Qui, se si doveva credere alle sue parole, si era comportato da valoroso combattente. Più tardi era stato chiamato in Parlamento nella sua qualità di barone di Greystocke, e poi era tornato a combattere in Guascogna. Era stato al seguito del vescovo Anthony Bec, patriarca di Gerusalemme. Nel ventottesimo e ventinovesimo anno del regno di Edoardo aveva combattuto contro gli scozzesi. Era morto nel 1305, senza figli, trasmettendo castello e baronia a suo cugino Ralph, figlio di Lord Grimthorpe dello Yorkshire.

Era risorto in qualche punto lungo il fiume, in mezzo a un gruppo costituito per il novanta per cento da inglesi e scozzesi del quattordicesimo secolo, e per il dieci per cento da antichi Sibariti. Le genti dall’altra parte del Fiume erano un miscuglio di mongoli dell’epoca di Kubla Khan e di popolazioni di pelle scura, che Greystock non aveva riconosciuto. La descrizione che ne diede si attagliava agli indiani d’America.

Il diciannovesimo giorno dopo la Resurrezione, i selvaggi dell’oltre-Fiume avevano attaccato. Evidentemente, erano spinti solo dalla voglia di una buona zuffa, e l’ebbero. Le loro armi erano in maggioranza bastoni e graal, perché in quella zona c’era poca selce. John de Greystock aveva messo fuori combattimento col suo graal dieci mongoli, e poi era stato colpito al capo con una pietra, e trafitto da una lancia di bambù con la punta indurita dal fuoco. Si era risvegliato accanto a quel fungo di pietra, nudo e con solo il suo graal, o comunque un graal.

L’altro uomo raccontò la sua storia con gesti e mimica. Stava pescando, quando all’amo aveva abboccato qualcosa di così forte che, con una strappata, l’aveva fatto cadere in acqua. Tornando a galla egli aveva battuto la testa contro il fondo della sua imbarcazione ed era annegato.

Il mistero di ciò che capitava a quelli che morivano nell’Aldilà aveva ora una soluzione. Perché poi non risorgessero nello stesso luogo in cui erano morti, era tutta un’altra faccenda.

La seconda novità di quel giorno fu che i graal, a mezzodì, non fornirono cibo. Nei cilindri, al suo posto, erano pigiati sei panni, di misure diverse e di svariati colori, sfumature, forme. Quattro erano evidentemente previsti per essere indossati come gonnellini. Si potevano assicurare intorno al corpo mediante piastrine magnetiche cucite all’interno del tessuto. Gli altri due erano fatti di un materiale più leggero, quasi trasparente, evidentemente erano fatti come corpetti, benché potessero essere usati per altri scopi. Malgrado i panni fossero morbidi e assorbenti, resistevano al trattamento più rude, e non si riusciva a tagliarli neanche col più affilato coltello di selce o di bambù.

Gli umani, trovando quelle «salviette», emisero un grido collettivo di gioia. Benché ormai uomini e donne si fossero abituati, o almeno rassegnati alla nudità, i più dotati di senso estetico e i meno adattabili giudicavano poco bella o addirittura disgustosa la generale esibizione di genitali umani. Ora avevano perizomi, reggiseni, turbanti. Questi ultimi furono usati per rivestire il cranio fino a quando i capelli fossero ricresciuti del tutto. Più tardi i turbanti divennero un copricapo abituale.

I peli stavano tornando ovunque, tranne che sul volto.

Burton ne era alquanto amareggiato: era sempre stato orgoglioso dei suoi baffi e della sua barba a due punte. Un giorno disse che si sentiva più nudo per la loro scomparsa che non per la mancanza di pantaloni. Wilfreda, ridendo, replicò: — Sono contenta che se ne siano andati. Ho sempre detestato il pelo sulla faccia di un uomo. Baciare un uomo con la barba mi dava la sensazione di ficcare il viso in un mucchio di molle da materasso, rotte.

CAPITOLO TREDICESIMO

Erano trascorsi sessanta giorni. L’imbarcazione era stata spinta attraverso la pianura su grossi rulli di bambù. Il giorno del varo era giunto. Lo Hadji era lungo una dozzina di metri, e aveva due scafi di bambù dalla prua appuntita, collegati da una piattaforma, un bompresso con un grande fiocco, un solo albero, con vele di taglio, formate da fibre intrecciate di bambù. Era governato da un grosso ramo ricavato da un tronco di pino, dal momento che non si poteva realizzare un vero e proprio timone a ruota. Per il momento, l’unico materiale da cui ricavare il sartiame era l’erba, ma fra poco avrebbero potuto confezionare delle funi con la pelle e gli intestini dei pesci più grandi che popolavano il Fiume. Una canoa, che Kazz aveva scavato in un tronco di pino, era assicurata a prua.

Prima del varo, Kazz sollevò delle difficoltà. Per il momento conosceva soltanto un inglese limitato e frammentario, e alcune imprecazioni in arabo, baluchi, swahili, italiano, tutte apprese da Burton.

— Bisogna… come dire?… wallah… che parola?… uccidere qualcuno prima di mettere barca su fiume… tu sapere… merda… occorre parola, Burton-naq… tu dare parola, Burton-naq… parola… uccidere uomo, se no dio, Kabburqanaqruebemss… dio di acqua… affondare barca… diventare arrabbiato… affogare noi… mangiare noi.

— Un sacrificio? — suggerì Burton.

— Molte maledette grazie, Burton-naq. Sacrificio! Tagliare gola… mettere su barca… sfregare legno… così dio di acqua non furioso con noi.

— Noi non facciamo questo — disse Burton.

Kazz protestò, ma alla fine accondiscese a salire a bordo. Aveva il muso lungo, e appariva assai irritato. Burton, per calmarlo, gli disse che quella non era la Terra. Era un altro mondo, come poteva constatare anche da solo con una rapida occhiata tutt’attorno, e specialmente alle stelle. Gli dèi non vivevano in quella valle. Kazz lo ascoltò sorridendo, ma era evidente che si aspettava ancora di veder emergere dal fondo delle acque il volto dall’orribile barba verde e dai prominenti occhi da pesce di Kabburqanaqruebemss.

Quel mattino tutti gli abitanti della pianura si erano affollati intorno al catamarano. Erano giunti da molti chilometri intorno, poiché tutto ciò che era insolito costituiva fonte di divertimento. Gridavano, ridevano, scherzavano. Benché alcuni deridessero i navigatori, tutti erano di buon umore. Prima che l’imbarcazione entrasse nel Fiume, Burton salì sulla «plancia» (una piattaforma leggermente sopraelevata) e alzò una mano per chiedere silenzio. Il chiacchiericcio della folla cessò, ed egli cominciò il suo discorso, in italiano.

— Compagni lazzari, amici, abitanti della valle della Terra Promessa! Fra pochi minuti noi vi lasceremo…

— Se l’imbarcazione non si capovolge! — borbottò Frigate.

— … per risalire il Fiume, contro il vento e la corrente. Scegliamo la via più difficile perché le difficoltà offrono sempre la maggior ricompensa, se voi credete a quello che dicevano sulla Terra i moralisti; e vedete ora quanto ci fosse da credere alle loro parole!

Risate. Qua e là delle occhiatacce, da parte dei bigotti a oltranza.

— Sulla Terra, come forse alcuni di voi sanno, una volta guidai una spedizione nel cuore dell’Africa nera per scoprire le sorgenti del Nilo. Non le trovai, benché fossi arrivato a poca distanza; e fui defraudato della ricompensa da un uomo che doveva tutto a me, un certo signor John Hanning Speke. Se dovessi incontrarlo nel mio viaggio su per il Fiume saprò come comportarmi con lui.

— Buon Dio! — esclamò Frigate. — Vorresti che si uccidesse nuovamente per il rimorso e la vergogna?

— Ma il fatto è che il Fiume è assai, assai più grande di qualunque Nilo, che, come voi sapete, o forse non sapete, malgrado le erronee affermazioni degli americani circa i loro bacini dell’Amazzonia e del Mississippi-Missouri. Alcuni di voi hanno chiesto perché dovremmo partire per una meta che non sappiamo neppure quanto sia lontana, o che potrebbe addirittura non esistere. Io vi rispondo che stiamo salpando perché l’Ignoto è là e vorremmo farlo divenire Noto. E su questo mondo, contrariamente a quanto si usava durante la nostra triste e frustrante esperienza sulla Terra, non occorre denaro per l’attrezzatura o per il viaggio. Il Re Denaro è morto. Riposi in pace! E neppure dobbiamo compilare centinaia di domande e di moduli, né chiedere udienza a persone influenti e burocrati di second’ordine, per ottenere il permesso di risalire il Fiume. Non ci sono confini nazionali…

— Per ora — commentò Frigate.

— … né occorrono passaporti, né si devono corrompere dei pezzi grossi. Ci siamo costruiti un’imbarcazione senza aver dovuto ottenere una licenza, e salpiamo senza dover dire «col vostro permesso» a nessuno di quegli zotici burocrati. Per la prima volta nella storia dell’uomo siamo liberi. Liberi! E vi diciamo addio. Non vi diciamo «arrivederci»…

— Non lo vorresti di certo — mormorò Frigate.

— … perché può darsi che siamo di ritorno fra un migliaio d’anni o giù di lì. Perciò vi dico addio, e anche l’equipaggio vi dice addio, e noi tutti vi ringraziamo per l’aiuto che ci avete dato nella costruzione e nel varo della nostra nave. Affido formalmente la mia carica di Console di Sua Maestà Britannica a Trieste a chiunque desideri accettarla, e mi dichiaro libero cittadino del mondo del Fiume! Non pagherò tributi a nessuno e non dovrò fedeltà a nessuno, tranne che a me stesso!

Frigate recitò: 

Fa’ ciò che il tuo coraggio t’induce a fare,
e non attenderti applausi se non da te stesso;
vive e muore nel modo più nobile colui che si fa da sé
le proprie leggi.

Burton diede un’occhiata stupita all’americano, ma non lo interruppe. Frigate stava citando dei versi del poema di Burton, La Kasidah di Haji Abdu Al-Yazdi. Non era la prima volta che faceva delle citazioni dalle opere in prosa o in poesia di Burton. E benché talvolta Burton trovasse l’americano un po’ irritante, non poteva arrabbiarsi troppo con un uomo che lo aveva ammirato a tal punto da imparare a memoria le sue parole.

Pochi minuti più tardi, mentre uomini e donne spingevano l’imbarcazione nel Fiume e la folla applaudiva, Frigate fece un’altra citazione di Burton. Guardò le migliaia di giovani accalcati sulla riva, la loro pelle abbronzata dal sole, i loro policromi perizomi e reggiseni e turbanti agitati dal vento; e disse: 

Oh, il giorno splendente di sole, e la brezza
vivace, e la moltitudine gioiosa,
incontrati nei giochi sull’argine
del Fiume quando ero giovane,
quando ero giovane.

L’imbarcazione entrò in acqua, e la prua fu spinta a valle dal vento e dalla corrente; Burton gridò degli ordini, e le vele vennero issate; poi egli spostò la grande barra del timone affinché la prua si volgesse a monte, ed ecco che l’imbarcazione prese a bordeggiare. Lo Hadji beccheggiava sulla corrente, fendendo l’acqua con gli scafi gemelli e facendola sibilare. Il sole era splendente e caldo, ma la brezza dava refrigerio; i naviganti, a mano a mano che gli argini e i volti familiari scomparivano alla vista, si sentivano riempire di gioia ma al tempo stesso di ansia. Non c’erano carte per guidarli, né resoconti di precedenti esploratori: il mondo sarebbe nato, chilometro per chilometro.

Quella sera, durante il loro primo sbarco, si verificò un fatto che lasciò perplesso Burton. Kazz aveva appena messo piede sulla riva, in mezzo a un gruppo di curiosi, allorché divenne tutto eccitato. Prese a farfugliare nella sua lingua, e cercò di afferrare un uomo che stava lì vicino. Questi fuggì, e in breve si perse tra la folla.

Quando Burton gli chiese cosa stava facendo, Kazz rispose: — Lui non avere… uhh… come chiamare?… il… il — e s’indicò la fronte. Poi tracciò nell’aria simboli incomprensibili. Burton intendeva andare a fondo della cosa, ma ecco che Alice, con un gesto improvviso, corse verso un uomo. Evidentemente aveva creduto che quello fosse un suo figlio, morto durante la prima guerra mondiale. Ci fu un po’ di confusione, e Alice ammise di aver preso un abbaglio. Ma ormai altre cose urgevano. Kazz non parlò più di quell’episodio, e Burton lo dimenticò. Ma un giorno se ne sarebbe dovuto ricordare.

Esattamente quattrocentoquindici giorni dopo, avevano superato quarantamila funghi di pietra situati sull’argine destro del Fiume. Bordeggiando, procedendo controvento e controcorrente, percorrendo in media un centinaio di chilometri al giorno, fermandosi di giorno per caricare i graal e di notte per dormire, e fermandosi talvolta tutto il giorno per sgranchire le gambe e per vedere della facce nuove, avevano già viaggiato per quarantamila chilometri. Sulla Terra questa distanza sarebbe stata quasi equivalente a un giro completo intorno all’equatore. Se si fossero collocati uno di seguito all’altro il Mississippi-Missouri, il Nilo, il Congo, l’Amazzoni, lo Yang-tze, il Volga, l’Amur, lo Hwang, il Lena, e lo Zambesi, il colossale fiume così ottenuto non sarebbe stato lungo come quel tratto del Fiume che avevano percorso. E ancora e ancora il Fiume continuava, una curva dopo l’altra, un meandro dopo l’altro. E sulle rive c’erano sempre le pianure, poi le colline coperte di alberi, e poi, torreggianti, invalicabili, ininterrotte, le catene di montagne.

Ogni tanto le pianure si restringevano, e le colline si presentavano più vicine al Fiume. Talvolta il Fiume si allargava divenendo un lago ampio cinque, otto, dieci chilometri. Qua e là le catene di montagne si curvavano avvicinandosi, e l’imbarcazione sfrecciava attraverso delle gole in cui la corrente ribolliva per l’esiguità dello spazio, e il cielo era un filo azzurro su su in alto, e le nere pareti incombevano sui naviganti.

E sempre si vedevano degli esseri umani. Giorno e notte gli argini del Fiume erano affollati da uomini, donne, bambini, e altri ancora ce n’erano sulle colline.

Ormai Burton aveva compreso il criterio di distribuzione. L’umanità era risorta lungo il Fiume secondo un’approssimativa sequenza cronologica ed etnologica. L’imbarcazione era passata lungo l’area abitata da sloveni e italiani e austriaci morti nell’ultimo secolo, e poi aveva toccato le zone occupate da ungheresi, norvegesi, finlandesi, greci, albanesi, irlandesi. Ogni tanto i naviganti approdavano in luoghi dove c’erano popoli provenienti da altre epoche e nazioni. Uno di questi era un tratto di poco più di trenta chilometri abitato da aborigeni australiani che sulla Terra non avevano mai visto un europeo. In un altro settore, lungo più di centocinquanta chilometri, c’erano i Tochari (il popolo di Loghu). Questi erano vissuti circa ai tempi di Cristo in quello che più tardi sarebbe divenuto il Turchestan cinese, e avevano costituito il limite orientale delle genti di lingua indoeuropea. La loro cultura era fiorita per breve tempo, scomparendo poi davanti all’avanzata del deserto e delle invasioni dei barbari.

Mediante calcoli che egli stesso dichiarava affrettati e approssimati, Burton aveva stabilito che ciascun’area comprendeva generalmente un sessanta per cento circa di rappresentanti di una data nazione e di un dato secolo, un trenta per cento di alcuni altri popoli, di solito di un’epoca diversa, e un dieci per cento di persone di ogni tempo e luogo.

Tutti gli uomini erano risorti circoncisi, e tutte le donne erano tornate vergini. Ma per la maggior parte di esse, commentò tra sé Burton, questo stato non era durato oltre la prima notte su quel pianeta.

Per il momento non si era ancora vista una donna incinta, né se ne era sentito parlare. Chi aveva collocato lì gli esseri umani doveva averli sterilizzati, e per ottime ragioni. Se l’umanità avesse potuto riprodursi, entro un secolo la valle del Fiume sarebbe stata una massa compatta di corpi.

All’inizio era sembrato che non ci fosse vita animale. Ora si sapeva che di notte uscivano dal suolo parecchi vermi. E il Fiume era popolato da almeno un centinaio di specie di pesci di tutte le dimensioni, dai pesciolini di quindici centimetri al pesce grande come un capodoglio, il «drago di fiume», che viveva sul fondo del Fiume a trecento metri di profondità. Frigate osservò che gli animali erano lì per un’ottima ragione. I pesci eliminavano i rifiuti dal Fiume e mantenevano limpide le acque. Alcuni tipi di vermi divoravano materiali di scarto e cadaveri. Altri vermi adempivano alle normali funzioni dei vermi della Terra.

Gwenafra si era fatta più alta. Tutti i bambini stavano crescendo. Entro dodici anni, se la situazione fosse sempre rimasta la stessa, non ci sarebbero stati più fanciulli o adolescenti.

Burton pensando a questo, disse ad Alice: — Quel tuo amico, il reverendo Dodgson, quello che amava solo le bambine… Si troverà un po’ in difficoltà, no?

— Dodgson non era un pervertito — replicò Frigate. — Ma che dire di quelli che provano davvero attrazione sessuale solo verso i bambini? Cosa faranno quando i bambini non ci saranno più? E quelli che provano piacere nel maltrattare o torturare gli animali? Vedete, io mi sono rammaricato per la mancanza di animali. Io amo i gatti, e i cani, e gli orsi, e gli elefanti, quasi tutti insomma. Non le scimmie però, perché sono troppo simili agli esseri umani. Ma sono contento che qui non ci siano animali. Ora nessuno potrà più abusarne. Tutti quei poveri animali infermi che pativano il dolore, la fame, la sete, per colpa di uomini insensati o malvagi… Ora non più.

Accarezzò i capelli biondi di Gwenafra, lunghi già una quindicina di centimetri.

— Provo lo stesso anche per tutti i bambini inermi e maltrattati.

— Che razza di mondo è quello in cui non ci sono bambini? — disse Alice. — E poi, perché niente animali? Se non possono essere più maltrattati o torturati, non possono ricevere più neanche carezze e affetto.

— In questo mondo una cosa compensa l’altra — replicò Burton.

— Non possiamo avere odio senza amore, bontà senza cattiveria, pace senza guerra. Non abbiamo delle alternative, in nessun caso. Gli invisibili Signori di questo mondo hanno stabilito che non ci debbano essere animali, e che le donne non generino più figli. Così sia.

Il mattino del quattrocentosedicesimo giorno del viaggio cominciò come tutti gli altri. Il sole era sbucato dalla cresta delle montagne alla sinistra dei naviganti. Il vento proveniente dal corso superiore del Fiume aveva una velocità stimata intorno ai venticinque chilometri all’ora, come al solito. Il caldo aumentava in fretta a mano a mano che il sole si innalzava, raggiungendo, secondo i calcoli, i trenta gradi all’incirca alle due del pomeriggio. Il catamarano, lo Hadji, procedeva bordeggiando. Burton era sul ponte, e teneva con entrambe le mani la grossa barra di pino alla sua destra, mentre il vento e il sole colpivano la pelle fortemente abbronzata. Indossava un gonnellino a riquadri neri e scarlatti che gli giungeva quasi alle ginocchia, e portava una collana di contorte vertebre di «pescecorno», d’un color nero lucido. Il «pescecorno» era un pesce lungo circa due metri, provvisto di un corno di quindici centimetri che gli spuntava dalla fronte rendendolo simile al leggendario unicorno. Il pescecorno viveva a trenta metri circa di profondità, e non era facile catturarlo. Ma con le sue vertebre si confezionavano splendide collane, e la sua pelle, opportunamente conciata, si trasformava in calzari e corazze e scudi, o si poteva lavorare per ricavarne funi e cinghie, flessibili ma robuste. La sua carne era deliziosa, ma il corno era la parte di maggior valore. Costituiva la punta di lance o di frecce, o veniva infilato in un’impugnatura di legno diventando così un pugnale.

Su un supporto vicino a Burton c’era un arco, coperto da una vescica natatoria trasparente. L’arco era stato costruito con le due ossa che sporgevano ai lati della bocca del «pescedrago». Tagliandole entrambe ad un’estremità, in modo che l’una si potesse infilare nell’altra, si otteneva un arco a due corni. Una volta applicata la corda, ottenuta dagli intestini del pescedrago, solo un uomo assai robusto riusciva a tendere del tutto quell’arco. Burton, quaranta giorni prima, ne aveva adocchiato uno, offrendo in cambio al suo proprietario quaranta sigarette, dieci sigari, e quasi un litro di whisky. L’offerta era stata rifiutata. Allora Burton e Kazz erano tornati indietro, la notte successiva, e avevano rubato l’arco. O meglio avevano fatto un baratto, poiché Burton si era sentito costretto a lasciare in cambio il suo arco di legno di tasso.

Burton, ragionando a mente fredda, era convinto di aver avuto ogni diritto di rubare l’arco. Il suo ex-proprietario si era vantato di aver ucciso un uomo per potersene impadronire. Perciò portarglielo via significava toglierlo a un ladro e assassino. Tuttavia, quando ci pensava, il che peraltro non avveniva spesso, Burton provava dei rimorsi di coscienza.

Burton governava lo Hadji attraverso un canale che si andava facendo sempre più angusto. Prima il Fiume si era mutato in un lago largo cinque chilometri e lungo otto, e ora si era ristretto in un canale le cui rive distavano sì e no cinquecento metri. Più avanti il canale faceva una curva scomparendo tra le pareti di un canyon.

In quel punto l’imbarcazione avrebbe dovuto procedere con cautela, perché la corrente era più violenta e lo spazio utile per bordeggiare più limitato. Ma Burton era passato molte volte attraverso simili stretti, per cui non aveva la minima paura. Quando doveva superarne uno, tuttavia, gli veniva sempre in mente l’immagine della nascita. L’imbarcazione passava da un lago, simile a un grembo materno, a un altro lago, attraverso uno stretto condotto. In entrambi i casi c’erano acque prorompenti, e dall’altra parte si poteva avere la possibilità di avventure fantastiche, o di una rivelazione.

Il catamarano passò davanti a una pietra-fungo, distante solo una ventina di metri. Sulla pianura di destra, larga in quel punto soltanto un chilometro scarso, c’erano molte persone. Queste gridavano in direzione dei naviganti, o agitavano la mano, o mostravano il pugno, o urlavano delle oscenità, che Burton riusciva a capire grazie alle sue numerose esperienze. Ma quella gente non sembrava ostile: il fatto era, semplicemente, che gli estranei venivano sempre accolti dagli indigeni nei modi più disparati. La popolazione di quel luogo era formata da persone con corpo piccolo e magro, pelle scura, capelli neri. Ruach disse che la loro lingua era probabilmente proto-camito-semitica. Sulla terra erano vissuti in qualche zona del Nordafrica o della Mesopotamia, quando quelle regioni erano state molto più fertili. Indossavano i gonnellini, ma le donne avevano il petto scoperto e usavano i corpetti come fazzoletti da collo o turbanti. Quella gente occupava l’argine destro del Fiume per un tratto che comprendeva sessanta pietre-fungo, vale a dire per sessanta chilometri. La popolazione precedente si stendeva per ottanta chilometri ed era costituita in prevalenza da cingalesi del decimo secolo, con una minoranza di Maya precolombiani.

— Il soffio mescolatore del Tempo — aveva detto Frigate commentando la distribuzione dell’umanità. — Il più grande esperimento antropologico e sociale che mai sia stato condotto.

La sua affermazione non era esagerata. Sembrava proprio che popolazioni diverse fossero state mescolate affinché potessero imparare qualcosa le une dalle altre. In alcuni casi i gruppi estranei avevano stabilito un modus vivendi, riuscendo a coabitare in relativa amicizia. In altri casi un gruppo aveva massacrato l’altro, o si erano quasi sterminati a vicenda, o uno dei due era stato ridotto in schiavitù o costretto alla fuga.

Dopo la resurrezione aveva regnato per un po’ di tempo l’anarchia. La gente aveva vagato qua e là, e in pochissime zone si era riunita in minuscoli gruppi a scopo di difesa. Dopo di che si erano fatti avanti i capi nati e gli assetati di potere, e quelli inclini per natura a seguire qualcuno si erano messi in fila dietro ai capi di loro scelta (o in molti casi erano stati scelti dai capi).

Uno dei numerosi sistemi politici così formatisi era quello della «schiavitù del graal». In una data regione il gruppo dominante teneva gli altri in schiavitù. Agli schiavi veniva dato da mangiare a sufficienza, poiché il graal di uno schiavo morto era inutilizzabile. Ma le sigarette, i sigari, la marijuana, la narcogomma, i liquori, e i cibi più gustosi, venivano requisiti.

Ai naviganti dello Hadji era capitato almeno trenta volte di dirigersi a una pietra-fungo e di essere a momenti catturati dai cacciatori di schiavi. Ma Burton e gli altri stavano attentissimi a riconoscere il più piccolo segno della presenza di un gruppo schiavista. Spesso le popolazioni confinanti li mettevano in guardia. Venti volte gli schiavisti avevano messo in acqua delle imbarcazioni per intercettarli, anziché cercare di attirarli a riva, e lo Hadji si era sottratto di stretta misura all’affondamento o all’abbordaggio. Cinque volte Burton era stato costretto a invertire la rotta e ridiscendere il Fiume. Il catamarano era sempre sfuggito ai nemici, piuttosto restii ad inseguirlo oltre i propri confini. Dopo di che lo Hadji era tornato indietro di nascosto nottetempo, oltrepassando l’area dei cacciatori di schiavi.

Un buon numero di volte lo Hadji non aveva potuto dirigersi a riva, poiché le popolazioni schiaviste occupavano entrambi gli argini per lunghissimi tratti. Allora l’equipaggio razionava i viveri oppure, con un po’ di fortuna, catturava abbastanza pesce da poter riempire il ventre.

I proto-camito-semiti di quella zona si erano mostrati abbastanza amichevoli dopo aver ricevuto l’assicurazione che l’equipaggio dello Hadji non aveva intenzioni cattive. Un moscovita del diciottesimo secolo avvertì Burton che dall’altra parte del canale c’erano delle popolazioni schiaviste. A causa delle ripide montagne non ne sapeva molto, però alcune imbarcazioni si erano spinte attraverso il canale e quasi nessuna era tornata indietro. Le superstiti avevano portato la notizia delle genti malvagie dell’altra parte.

Lo Hadji era stato caricato di germogli di bambù, di pesce secco, e di provviste ottenute razionando per due settimane quanto offrivano i graal.

C’era ancora una mezz’oretta di tempo prima di imboccare lo stretto. Burton rivolgeva la mente per metà alla navigazione e per metà ai suoi compagni. Questi erano sdraiati sul ponte di prua a prendere il sole, oppure stavano seduti con la schiena appoggiata al tetto del boccaporto, che chiamavano «castello di prua».

John de Greystock stava assicurando alla base di una freccia delle sottili ossa di un pescecorno. In un mondo in cui non esistevano gli uccelli, le ossa servivano benissimo da penne. Greystock (o Lord Greystocke, come Frigate insisteva a chiamarlo per qualche divertente ragione privata) era un uomo prezioso in un combattimento o dove si rendeva necessario un lavoro pesante. Sebbene volgare in maniera quasi incredibile, era un affascinante conversatore, una vera miniera di aneddoti sulle sue campagne in Guascogna e alle frontiere e sulle sue conquiste femminili, di pettegolezzi su Edoardo Gambelunghe, e naturalmente di informazioni sulla propria epoca. Però dal punto di vista di quelli vissuti dopo di lui, in molte cose era cocciuto e di mente ristretta, e non troppo irreprensibile. Asseriva di essere stato molto religioso in vita sua: e probabilmente diceva il vero, altrimenti non avrebbe avuto l’onore di far parte del seguito del Patriarca di Gerusalemme. Ma da quando era stata gettata sulla sua fede l’ombra del dubbio, egli odiava i preti. E cercava sempre di far imbestialire con le sue occhiate di disprezzo tutti quelli che incontrava, sperando che si scagliassero contro di lui. Alcuni lo facevano, ed egli li conciava per le feste. Con molta cautela (non ci si doveva rivolgere con severità a Greystock, se non si voleva trovarsi impegnati in un combattimento all’ultimo sangue) Burton l’aveva rimproverato per questo, facendogli notare che essendo ospiti in una terra straniera, e in numero enormemente inferiore a quello dei loro anfitrioni, si dovevano comportare da ospiti civili. Greystock gli aveva dato ragione, ma non aveva cessato di tormentare ogni prete che incontrava. Per fortuna i naviganti non si trovavano spesso nelle zone in cui c’erano dei preti cristiani. E inoltre, ben pochi di questi ammettevano di essere stati tali nella vita precedente.

Accanto a Greystock, immersa in incessanti conversari, c’era la sua donna del momento, nata Mary Rutherfurd nel 1637 e morta Lady Warwickshire nel 1674. Benché inglese, apparteneva a un’epoca posteriore di trecento anni a quella di Greystock, per cui tra di loro c’erano parecchie differenze di mentalità e punti di vista. Burton pronosticò che non sarebbero rimasti insieme molto a lungo.

Kazz era sdraiato sul ponte col capo in grembo a Fatima, una turca che il Neanderthal aveva incontrato quaranta giorni prima durante uno scalo per il pasto. Fatima, come aveva detto Frigate, sembrava essere affascinata dai peli. O almeno così egli spiegava l’ossessione che provava per Kazz quella donna del sedicesimo secolo, ex-moglie di un panettiere di Ankara. Costei trovava eccitante ogni particolare del Neanderthal, ma era il vello a mandarla in estasi. Tutti erano contenti del ritorno dei peli, e più di ogni altro lo stesso Kazz. Durante il viaggio non aveva visto una sola femmina della sua razza, benché avesse sentito parlare dell’esistenza di qualcuna. La maggior parte delle donne scappava al solo vederlo a causa del suo aspetto irsuto e bestiale, e prima di incontrare Fatima egli non aveva avuto una compagna fissa.

Il piccolo Lev Ruach era appoggiato al parapetto anteriore del castello di prua, e si stava fabbricando una fionda con la pelle di un pescecorno. Una sacca che teneva appesa alla vita conservava una trentina di ciottoli, raccolti negli ultimi venti giorni. Al suo fianco, chiacchierando rapidamente ed esibendo senza sosta i lunghi denti bianchi, stava Esther Rodriguez. Costei aveva sostituito Tanya, che aveva tormentato Lev fino al momento della partenza dello Hadji. Tanya era una donna minuta e aggraziata, e molto attraente, ma sembrava che non potesse fare a meno di «riplasmare» i suoi uomini. Lev riuscì a scoprire che aveva «riplasmato» padre, zio, due fratelli, e due mariti. Aveva poi cercato di fare lo stesso con Lev, e sempre a voce alta, affinché gli altri maschi nelle vicinanze potessero trarre profitto dai suoi insegnamenti. Un giorno, proprio mentre lo Hadji stava salpando, Lev era balzato a bordo; poi si era voltato verso di lei e le aveva detto: — Addio Tanya. Non posso più sopportare di ricevere osservazioni da una pedante come te. Trovati qualcun altro, uno che sia perfetto.

Tanya era rimasta senza fiato, impallidendo; poi aveva cominciato a gridare in direzione di Lev. A giudicare dai movimenti della sua bocca stava ancora gridando quando lo Hadji non era più da un pezzo a portata d’orecchio. Gli altri risero e si congratularono con Lev, ma questi si limitò a un sorriso triste. Due settimane dopo, in una regione abitata in prevalenza da antichi Libici, aveva incontrato Esther, un’ebrea sefardita del quindicesimo secolo.

— Perché non tenti la sorte con una Gentile? — gli aveva chiesto Frigate.

Lev si era stretto nelle minuscole spalle. — L’ho fatto. Ma prima o poi capita una litigata coi fiocchi, e quelle perdono le staffe e ti chiamano «dannato circonciso». Lo stesso accade con le mie donne ebree, ma da loro lo posso sopportare.

— Ascolta, amico — disse l’americano. — Lungo questo fiume ci sono miliardi di donne Gentili che non hanno mai sentito parlare di ebrei. Non possono avere dei pregiudizi. Prova con una di loro.

— Preferisco il male che conosco.

— Allora vuol dire che è di tuo gradimento — replicò Frigate.

Talvolta Burton si chiedeva perché Ruach rimanesse sullo Hadji. Non aveva più alluso a Ebrei, zingari, maomettani, benché rivolgesse spesso a Burton delle domande su altri aspetti del suo passato. Si comportava in modo abbastanza amichevole; ma in lui c’era qualche indefinibile riserva. Benché piccolo era un buon lottatore, ed era stato bravo come nessun altro a insegnare a Burton judo, karate, e jukado. La sua tristezza, che lo avvolgeva come una nebbia sottile perfino quando stava ridendo (o, secondo quanto diceva Tanya, perfino mentre faceva l’amore), proveniva da ferite intime. Queste erano state causate dalle sue terribili esperienze nei campi di concentramento in Germania e in Russia, o almeno così egli asseriva. Tanya aveva detto che Lev era nato triste, avendo ereditato i geni del dolore da tutti i suoi antenati su su fino a quelli che sedevano accanto ai salici di Babilonia.

Monat era un altro caso di carattere triste, benché talvolta potesse uscire del tutto da tale stato. L’extraterrestre continuava a cercare qualcuno della sua razza, uno dei trenta fra uomini e donne fatti a pezzi dalla plebaglia durante quel linciaggio. Ma sapeva di non avere molte probabilità. Trenta persone mescolate a trentacinque o trentasei miliardi distribuiti sulle rive di un fiume che poteva essere lungo anche dieci milioni di chilometri! Era del tutto improbabile che ne potesse trovare anche una sola. Ma c’era sempre la speranza.

Alice Hargreaves era seduta sulla parte anteriore del castello di prua (Burton ne poteva scorgere solo la cima del capo) e guardava la gente sugli argini tutte le volte che lo Hadji si avvicinava a riva tanto da consentirle di distinguere i singoli volti. Stava cercando suo marito Reginald, e anche i suoi tre figli, e la madre, e il padre, e le sorelle, e i fratelli. Insomma tutti i cari volti dei suoi familiari. Ciò significava che avrebbe abbandonato l’imbarcazione non appena ne avesse ritrovato uno. Burton non aveva fatto alcun commento, ma si sentiva stringere il cuore alla sola idea. Desiderava che Alice se ne andasse e al tempo stesso non lo desiderava. Non vedendosela più intorno avrebbe finito col non pensare più a lei: era inevitabile. Ma egli non desiderava l’inevitabile. Amava Alice come aveva amato quella donna persiana, e perdere anche questa gli avrebbe dato un’analoga sempiterna sofferenza.

Tuttavia non le aveva mai detto una sola parola su quanto provava nei suoi riguardi. Chiacchierava con lei, scherzava, le dimostrava interessamento, irritandosi perché lei non lo ricambiava; e alla fine riusciva a sciogliere un po’ della sua freddezza. O meglio, questo capitava quando era presente qualcun altro: se erano soli, Alice si chiudeva in se stessa.

Alice, dopo quella notte, non aveva più toccato la narcogomma. Burton l’aveva presa una terza volta, e poi si era messo ad accumulare le sue razioni scambiandole con altri generi. L’ultima volta che l’aveva presa, con la speranza di godere un’insolita estasi facendo l’amore con Wilfreda, aveva rivissuto l’orribile episodio che l’aveva angosciato a morte durante la sua spedizione al Lago Tanganica. Nell’incubo c’era Speke, ed egli l’aveva ucciso. Speke in realtà era morto in un «incidente» di caccia che tutti, pur senza dirlo apertamente, avevano ritenuto un suicidio. Speke, tormentato dal rimorso per aver tradito Burton, si era sparato. Ma nell’incubo Burton aveva strangolato Speke allorché questi si era chinato su di lui per chiedergli come stava. Poi, mentre la visione già stava sparendo, aveva baciato le sue labbra morte.

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Certo, Burton aveva sempre saputo di amare Speke al tempo stesso che l’odiava, e di un odio giustificato. Ma la consapevolezza di questo amore era stata fugace e discontinua, e non lo aveva turbato. Durante l’incubo provocato dalla narcogomma, invece, constatando che l’amore costituiva la base profonda del suo odio era rimasto così inorridito che aveva urlato. Si svegliò: Wilfreda lo stava scuotendo, gli chiedeva cos’era accaduto. Wilfreda, sulla Terra, aveva fumato oppio, o l’aveva bevuto nella birra: ma lì, dopo aver provato una volta la narcogomma, aveva avuto paura di prenderla ancora. Il suo terrore proveniva dal fatto che durante l’incubo aveva rivisto una sorellina morire di tubercolosi, e inoltre aveva rivissuto la sua prima esperienza di prostituta.

— È una singolare droga psichedelica — aveva detto Ruach a Burton, spiegandogli il significato del neologismo. — Sembra che abbia l’effetto di ripresentare alla mente, con un aspetto per metà reale e per metà simbolico, degli episodi che abbiano colpito profondamente il soggetto. Non sempre, però. Talvolta funziona come un afrodisiaco. Talvolta, come alcuni hanno detto, fa compiere uno splendido viaggio nel mondo dei sogni. Ma io suppongo che la narcogomma ci venga fornita per scopi terapeutici, se non addirittura catartici. Tocca a noi scoprire il modo in cui farne uso.

— Perché non la prendi più spesso? — aveva chiesto Frigate.

— Per lo stesso motivo per cui alcuni rifiutano di sottoporsi alla psicoterapia, o troncano la cura prima che sia terminata: cioè perché ho paura.

— Be’, anch’io — replicò Frigate. — Ma un giorno o l’altro, quando ci fermeremo in qualche posto per un bel po’, giuro che voglio prenderla tutte le sere, anche se mi dovesse tirar fuori tutti i demoni che ho dentro. Naturalmente adesso è facile dirlo.

Peter Jairus Frigate era nato solo ventotto anni dopo la morte di Burton, e tuttavia tra i due c’era un abisso. I loro punti di vista, su moltissimi argomenti, erano discordanti, e se Frigate fosse stato capace di discussioni violente, queste sarebbero capitate ogni momento. Non certo su questioni di disciplina o su problemi di navigazione, ma sul modo di vedere le cose. Tuttavia, sotto molti aspetti, Frigate era assai simile a Burton, e forse appunto per questo motivo era rimasto così affascinato da Burton quand’era sulla Terra. Nel 1938 Frigate aveva trovato un libro di Fairfax Downey intitolato: Burton, avventuriero delle Mille e una notte. In copertina c’era un ritratto di Burton, all’età di cinquant’anni. Il volto duro, la fronte spaziosa, le arcate sopraorbitali prominenti, le folte sopracciglia nere, il naso diritto e largo, la vasta cicatrice sulla guancia, le spesse labbra sensuali, i folti baffi piegati all’ingiù, la fitta barba a due punte, e l’intero volto essenzialmente meditabondo e aggressivo, avevano indotto Frigate ad acquistare il libro.

— Prima di allora non avevo mai sentito parlare di te, Dick — spiegò Frigate. — Ma lessi il libro e di colpo rimasi affascinato. Erano descritti molti tuoi aspetti oltre all’audacia che aveva caratterizzato la tua vita: l’abilità di spadaccino, la padronanza di numerose lingue, i travestimenti da medico o mercante indigeno e da pellegrino alla Mecca; e il fatto che eri stato il primo europeo a uscire vivo dalla città sacra di Harar, e avevi scoperto il lago Tanganica ed eri stato a un pelo dallo scoprire anche le sorgenti del Nilo, e avevi inventato il termine «percezione extra-sensoriale», ed eri stato uno dei fondatori della Reale Società d’Antropologia, e avevi tradotto le Mille e una notte, e studiato i costumi sessuali dell’Oriente, e così via…

«A parte tutto questo, già di per sé affascinante, mi trovai una particolare affinità con te. Mi recai alla biblioteca pubblica. Peoria era una città piccola, ma c’erano molti libri tuoi e su di te, donati per testamento da tuoi ammiratori, e me li lessi tutti. Poi cominciai la raccolta della prima edizione delle tue opere e di ogni altro libro che parlasse di te. Finii col diventare uno scrittore di romanzi, però avevo in mente un progetto: dare alle stampe una tua biografia, poderosa e definitiva, e viaggiare per tutti i luoghi da te visitati, e prendere fotografie e appunti su questi luoghi, e fondare una società per la raccolta dei fondi necessari alla conservazione della tua tomba…

Era la prima volta che Frigate accennava alla tomba di Burton. Questi trasalì. — Dove? — esclamò. — Ah, sì! A Mortlake, naturalmente! L’avevo dimenticato! Il monumento venne poi costruito in forma di tenda araba, come avevamo stabilito Isabella e io?

— Certo. Ma un nuovo quartiere di periferia aveva inghiottito il cimitero, il monumento era stato rovinato dai vandali, sulla tomba erano cresciute le erbacce, e si parlava di trasferire il cimitero in una regione più remota dell’Inghilterra, benché ormai fosse difficile trovare delle regioni veramente remote.

— E sei riuscito a fondare quella società e a conservare la mia tomba? — chiese Burton.

Ormai si era abituato all’idea di esser morto, ma parlare con uno che aveva visto la sua tomba gli fece venire per un attimo la pelle d’oca.

Frigate sospirò profondamente. — No — rispose in tono di scusa. — Quando riuscii ad essere in grado di farlo provai un senso di colpa all’idea di spendere tempo e denaro per i morti. Il mondo si trovava in grossi pasticci, ed erano i vivi ad aver bisogno di ogni assistenza. Inquinamento, povertà, oppressione, e così via: queste erano le cose importanti.

— E quella monumentale biografia definitiva?

Frigate parlò ancora in tono di scusa. — La prima volta che lessi di te pensai che ero l’unico a interessarmene, o addirittura a sapere della tua esistenza. Ma negli anni sessanta ci fu un risveglio di interessi nei tuoi riguardi. Molti libri vennero scritti su di te, e perfino uno su tua moglie.

— Isabella? Qualcuno scrisse un libro su di lei? Chi?

Frigate ridacchiò. — Era una donna abbastanza interessante. Una grande seccatrice, devo riconoscere, e penosamente superstiziosa e schizofrenica e mitomane. Ben pochi le perdoneranno d’aver bruciato i tuoi manoscritti e i tuoi diari…

— Cosa? — ruggì Burton. — Bruciato…?

Frigate annuì. — Il tuo medico, Grenfell Baker, parlò di «crudele olocausto seguito a una morte compianta». Isabella bruciò la tua traduzione del Giardino profumato, affermando che non avresti mai voluto pubblicarlo se non per ricavarne del denaro: e naturalmente non ne avevi più bisogno perché eri morto.

Questa fu una delle pochissime circostanze in cui Burton rimase senza parole. Frigate lo guardò con la coda dell’occhio e sogghignò. Sembrava divertirsi al dolore di Burton.

— Bruciare il Giardino profumato non era così grave, benché lo fosse abbastanza. Ma non le perdonai mai di aver bruciato i due gruppi dei tuoi diari: quelli privati, ai quali presumibilmente avevi confidato i pensieri più riposti e gli odii più profondi, e quelli pubblici, col quotidiano resoconto degli avvenimenti. E anche molti altri non glielo perdonarono. Fu una grande perdita: solo un tuo taccuino si salvò, uno dei più piccoli, ma andò distrutto durante il bombardamento di Londra nella Seconda guerra mondiale.

Frigate fece una pausa, poi chiese: — È vero che ti sei convertito alla fede cattolica sul letto di morte, come asseriva tua moglie?

— Può darsi — rispose Burton. — Isabella mi aveva esortato per anni alla conversione, benché non osasse insistere troppo. Può darsi che alla fine, quando ero così malato, le abbia detto che accondiscendevo, giusto per farla felice. Era così addolorata, angosciata, impaurita, al pensiero che la mia anima avrebbe dovuto bruciare all’inferno…

— Allora l’amavi? — disse Frigate.

— Avrei fatto lo stesso per un cane — rispose Burton.

— Malgrado tutta la tua rude schiettezza talvolta riesci ad essere molto ambiguo.

Questa conversazione aveva avuto luogo circa due mesi dopo il Primo Giorno dell’anno 1 d.R. Il risultato era stato abbastanza simile a quello che il Dottor Johnson avrebbe provato incontrando un altro Boswell.

Poi era seguita la seconda fase della loro singolare relazione. Frigate era divenuto più riservato, ma, al tempo stesso, più insopportabile. L’americano aveva sempre evitato di commentare gli atteggiamenti di Burton, senza dubbio perché non voleva irritarlo. Frigate era del tutto consapevole degli sforzi che compiva per non irritare nessuno. Ma anche il suo subconscio compiva degli sforzi, opposti ai primi. L’ostilità di Frigate si manifestava con sottili allusioni, talvolta però non troppo sottili. A Burton questo non piaceva: egli era schietto, e non aveva alcuna paura di irritare gli altri. Forse, come gli faceva notare Frigate, andava troppo in cerca di violente discussioni.

Una sera, mentre tutti erano seduti intorno al fuoco sotto una pietra-fungo, Frigate si era messo a parlare di Karachi. Ai tempi di Burton questo villaggio (divenuto più tardi la capitale del Pakistan, la nazione creata nel 1947) aveva solo duemila abitanti. Nel 1970 la sua popolazione era prossima ai due milioni. Passando ad un argomento lievemente diverso, Frigate chiese dei particolari sul rapporto che Burton aveva steso, per conto del suo generale Sir Robert Napier, sui bordelli maschili di Karachi. Il rapporto avrebbe dovuto essere conservato negli archivi segreti dell’Esercito dell’India «orientale, ma era stato trovato da uno dei molti nemici di Burton. Nessuno aveva alluso pubblicamente ad esso, ma era divenuto un’arma contro Burton per tutta la sua vita. Burton si era camuffato da indigeno per entrare nella casa ed effettuare osservazioni che non sarebbero mai state consentite a un europeo. Era orgoglioso del fatto che non l’avessero scoperto: aveva accettato quell’incarico ripugnante perché era l’unico ad esserne all’altezza, e perché il suo capo, Napier, gliel’aveva chiesto.

Burton aveva risposto in maniera un po’ sgarbata alle domande di Frigate. Quel giorno Alice l’aveva mandato in collera fin dal primo mattino (sembrava che la cosa le riuscisse con sempre maggior facilità) ed egli stava pensando al modo di farla arrabbiare. Approfittò dell’opportunità offertagli da Frigate, e si lanciò in un disinvolto resoconto di quello che avveniva nei bordelli di Karachi. Alla fine Ruach si alzò, allontanandosi. Frigate sembrava che si sentisse male, ma rimase. Wilfreda si rotolava per terra dalle risate. Kazz e Monat avevano un’espressione ebete. Gwenafra stava dormendo sullo Hadji, cosicché Burton non fu costretto a trattenersi per riguardo verso la bambina. Loghu sembrava affascinata, ma anche un pochino disgustata.

Alice, il maggior bersaglio di Burton, divenne prima pallida e poi rossa. Alla fine si alzò esclamando: — Prima d’ora, signor Burton, l’avevo ritenuta un uomo davvero volgare. Ma vantarsi di questo… di questo… Lei è assolutamente spregevole, degenerato, disgustoso. Non che io creda una sola parola di quanto lei ha detto. Non posso credere che qualcuno si comporti come lei assicura di essersi comportato, e poi se ne vanti. È proprio vero che lei è un uomo che ama far sbigottire gli altri senza curarsi dei danni che provoca alla propria reputazione.

Dopo di che scomparve nelle tenebre.

— Una volta o l’altra, forse, mi spiegherai cosa c’è di vero in quello che hai raccontato — disse Frigate. — Anch’io non ci credevo. Ma col passar degli anni apparvero delle nuove prove, e un biografo ti psicanalizzò basandosi sui tuoi scritti e su vari altri documenti.

— E le conclusioni? — chiese Burton in tono beffardo.

— Un’altra volta, Dick — rispose Frigate. — Canaglia d’un Dick! — aggiunse, e anch’egli se ne andò.

Ora, reggendo la barra, osservando i suoi compagni che prendevano il sole, tendendo l’orecchio al sibilo degli scafi gemelli che fendevano l’acqua e allo scricchiolio delle sartie, Burton si chiese cos’avrebbe trovato dall’altra parte del canyon. Non certo la fine del Fiume: probabilmente questo continuava in eterno. Ma forse invece era prossima la fine del gruppo. Troppo a lungo erano rimasti riuniti. Troppi giorni avevano passato sullo stretto ponte con null’altro da fare se non chiacchierare o dare una mano nel governo dell’imbarcazione. Troppo tempo erano stati appiccicati uno all’altro. Perfino Wilfreda era diventata tranquilla e taciturna, né Burton aveva cercato di risvegliarla. Per dirla schiettamente era stanco di lei. Non l’odiava, né le augurava alcun male: ne era soltanto stanco, e il fatto di aver potuto avere Wilfreda e non Alice lo rendeva ancora più stanco di lei.

Lev Ruach lo evitava e cercava di parlargli il meno possibile, mentre invece discuteva sempre di più con Esther sulle proprie abitudini dietetiche e sulle fantasticherie nelle quali si immergeva.

Frigate era irritato contro Burton per qualche motivo. Ma Frigate, il vigliacco, non si sarebbe sbottonato finché Burton non l’avesse affrontato a tu per tu tormentandolo fino a farlo impazzire dalla rabbia. Loghu era arrabbiata e sdegnata con Frigate perché questi la trattava con le stesse maniere scontrose che usava con gli altri. Loghu era arrabbiata anche con Burton perché l’aveva respinta una volta che loro due da soli erano saliti sulle colline per prendere dei bambù, alcune settimane prima. Egli le aveva detto di no, aggiungendo che non voleva fare l’amore con lei non per qualche scrupolo, ma perché non intendeva tradire Frigate né alcun altro membro del gruppo. Loghu aveva spiegato che il suo desiderio non nasceva dal fatto che non amasse più Frigate: semplicemente, aveva bisogno ogni tanto di un cambiamento. Proprio come Frigate.

Alice aveva detto che stava ormai perdendo la speranza di ritrovare una faccia nota. Avevano già incontrato, secondo i calcoli, 44.370.000 persone, e Alice non ne aveva ancora vista una che avesse già incontrata sulla Terra. Qualche volta le era sembrato di ravvisare delle fattezze familiari, ma sempre si era dimostrato un abbaglio. E ammetteva di aver passato in rassegna solo una piccola parte di quei quarantaquattro milioni di persone, e neanche con troppa cura. Ma questo non aveva importanza. Alice diveniva sempre più depressa, ed era ormai per lei insopportabile stare seduta tutto il giorno su quell’angusta piattaforma senza altra occupazione che manovrare il timone o le sartie o aprire e chiudere le labbra per dire cose per lo più vacue.

Burton, benché non volesse ammetterlo, aveva paura che Alice se ne andasse. Poteva succedere anche al prossimo scalo: si sarebbe diretta a riva col suo graal e le sue poche cose, dicendo arrivederci. Arrivederci fra cent’anni, o giù di lì. Forse. Il motivo principale per cui era rimasta così a lungo sullo Hadji era dato dalla presenza di Gwenafra. Alice stava impartendo alla piccola antica britanna un’educazione vittoriana, mista ad abitudini da «dopo-resurrezione». Ne risultava un singolare miscuglio, ma non più singolare di ogni altra cosa lungo il Fiume.

Lo stesso Burton era stanco di quell’eterno viaggiare sulla minuscola imbarcazione. Desiderava trovare un’area ospitale in cui fare tappa per riposare e poter muovere di nuovo le gambe sulla terraferma, riprendendo il viaggio quando gliene fosse venuta la voglia. Ma gli sarebbe piaciuto fare tutto ciò avendo Alice come compagna.

— Se un uomo si siede, si siede anche la sua buona stella — mormorò. Avrebbe dovuto darsi da fare con Alice: troppo a lungo si era comportato da gentiluomo. L’aveva corteggiata, sarebbe andato allo scopo. Quando era un giovanotto era stato un amante focoso; poi, una volta sposato, si era abituato a poco a poco a passare dal ruolo di amante a quello di amato. E ora in lui persistevano le vecchie abitudini, i vecchi circuiti nervosi. Era un vecchio in un corpo nuovo.

Lo Hadji affrontò il canale scuro e ribollente. D’ambo i lati si ergevano le pareti di roccia nero-bluastra; l’imbarcazione infilò una curva, e il vasto lago retrostante scomparve. Tutti si davano da fare, balzando per afferrare le vele mentre Burton conduceva lo Hadji a zig-zag lungo il tratto largo quattrocento metri, e la corrente sollevava alte ondate. L’imbarcazione beccheggiava con violenza, sbandando ogni volta che la rotta veniva cambiata di colpo. Spesso si accostava a poche braccia dalle pareti del canale, dove le onde si abbattevano sulla roccia. Ma Burton aveva governato così a lungo l’imbarcazione che ne era divenuto una parte viva, e così a lungo la ciurma l’aveva assistito che poteva prevedere i suoi ordini, benché non li eseguisse prima che fossero lanciati.

Il passaggio richiese circa trenta minuti. Alcuni rimasero in ansia, e senza dubbio Frigate e Ruach erano preoccupati: ma tutti furono rianimati dall’evento. Per un po’, almeno, la noia e la tetraggine se n’erano andate.

Lo Hadji, con sollievo generale, sbucò in un altro lago. Era largo un sei chilometri, e verso nord si stendeva fin dove la vista poteva giungere. Le montagne si allontanavano di colpo, e le pianure su entrambe le rive riacquistavano la solita ampiezza.

Si vedeva una cinquantina di imbarcazioni, dalla canoa scavata in un tronco di pino al battello di bambù dotato di due alberi. La maggior parte sembrava occupata nella pesca. Sulla riva sinistra, a un chilometro di distanza, c’era una delle onnipresenti pietre-fungo, e sulla spiaggia si scorgevano delie sagome scure. Dietro di queste, sulla pianura e sulle colline, si trovavano delle capanne costruite nel solito stile, che Frigate chiamava «neopolinesiano» o talvolta «rivierasco dell’Aldilà».

Sulla destra, a ottocento metri circa dallo sbocco del canyon, c’era un grande fortino costruito con tronchi d’albero. Davanti ad esso stavano dieci robusti moli, anch’essi di tronchi, ai quali erano attraccate numerose imbarcazioni grandi e piccole. Pochi minuti dopo l’apparizione dello Hadji si udirono rullare dei tamburi. Forse erano dei tronchi cavi, o forse dei veri tamburi ricoperti con pelle di pesce o pelle umana. Davanti al fortino era già radunata una folla, ma altra gente continuava a uscire da quello e da una serie di capanne retrostanti: poi prese ad ammucchiarsi nelle imbarcazioni e salpò.

Le sagome scure sull’argine destro stavano mettendo in acqua canoe e battelli a un albero.

Sembrava che entrambe le rive fossero impegnate in una gara di arrembaggio.

Burton faceva compiere allo Hadji un percorso a zig-zag, passando e ripassando in mezzo alle altre imbarcazioni. Gli uomini della riva destra erano più vicini: erano bianchi e ben armati, ma non facevano alcun tentativo di usare gli archi. Un uomo, eretto sulla prua di una canoa da guerra spinta da trenta rematori, gridò loro, in tedesco, di arrendersi.

— Non vi sarà fatto del male!

— Abbiamo intenzioni pacifiche — urlò di rimando Frigate.

— Lo sa benissimo! — esclamò Burton. — È evidente che non vogliamo attaccarli, pochi come siamo!

Ora i tamburi rullavano su entrambe le rive del Fiume. Sembrava che le sponde del lago formicolassero di tamburi: e certamente formicolavano di uomini, e armati. Altre imbarcazioni stavano scendendo in acqua per intercettare lo Hadji. A poppa, quelle salpate per prime lo inseguivano ancora, ma rimanevano sempre più indietro.

Burton esitò. Doveva invertire la rotta, riattraversare il canale, e ripassarlo di notte? Sarebbe stata un’operazione rischiosa, perché le pareti alte seimila metri avrebbero schermato la luce delle splendenti stelle e dei brillanti ammassi di gas. Sarebbero stati quasi ciechi.

Inoltre lo Hadji, almeno per il momento, sembrava più veloce delle imbarcazioni nemiche. Lontano lontano, a pruavia, delle alte vele si dirigevano rapide verso lo Hadji. Per ora erano spinte dal vento e dalla corrente: ma se Burton fosse riuscito a passare in mezzo a loro, forse queste non avrebbero potuto poi invertire la rotta e raggiungerli.

Tutte le imbarcazioni scorte fino a quel momento erano cariche di uomini, il che faceva rallentare la loro velocità. Neanche un battello delle dimensioni dello Hadji poteva competere con questo se fosse stato pieno di guerrieri.

Burton decise di continuare a procedere.

Dieci minuti dopo, mentre lo Hadji navigava di bolina, un’altra grande canoa da guerra gli tagliò la strada. Aveva sedici rematori su ogni fiancata, e a prua e a poppa c’era un piccolo ponte. Su ciascuno di questi stavano due uomini, accanto a una catapulta collocata su una piattaforma di legno. I due uomini di prua collocarono nella cucchiaia della catapulta un oggetto rotondo che emetteva fumo. Uno di essi liberò il nottolino d’arresto, e il braccio della macchina si abbatté sulla trave di fermo. La canoa vibrò tutta, e la ritmica cantilena dei rematori tacque per un attimo. L’oggetto fumante s’innalzò ad arco giungendo a sei metri di distanza dallo Hadji e a tre dall’acqua. Poi esplose con forte rumore producendo una nube di fumo nero, rapidamente dispersa dalla brezza.

Qualche donna strillò, e un uomo gridò. Burton rifletté che da quelle parti doveva esserci dello zolfo, altrimenti gli indigeni non avrebbero potuto fabbricare polvere da sparo.

Gridò a Loghu e a Esther Rodriguez di sostituirlo al timone. Pur essendo entrambe pallide sembravano abbastanza calme, benché non avessero mai sentito delle bombe.

Gwenafra era stata deposta all’interno del «castello di prua». Alice impugnava un arco di legno di tasso, e una faretra piena di frecce era assicurata alla sua schiena. Il pallore del suo volto contrastava col rossetto scarlatto e con l’ombretto verde. Ma aveva partecipato ad almeno dieci gare di battaglia sull’acqua, e i suoi nervi erano saldi come le bianche scogliere di Dover. Inoltre era la miglior tiratrice d’arco del gruppo. Burton, con un’arma da fuoco, era un eccezionale cacciatore, ma con l’arco non aveva molta dimestichezza. Kazz riusciva a tendere più di Burton l’arco fatto con le ossa del pescedrago, ma come arciere era pessimo. Frigate affermava che non avrebbe mai imparato: come la maggior parte dei letterati, mancava di senso della prospettiva.

Gli uomini della catapulta non caricarono di nuovo la macchina. Evidentemente la bomba serviva solo per ingiungere allo Hadji di fermarsi. Ma Burton non ne aveva la minima intenzione. Gli inseguitori avrebbero potuto scagliare più volte nugoli interi di frecce. Se non l’avevano fatto, ciò significava che volevano catturare vivo l’equipaggio dello Hadji.

La canoa passò accanto alla poppa dello Hadji. L’acqua ribolliva sotto la sua prua, i remi luccicavano al sole, i rematori cantilenavano all’unisono. I due uomini sul ponte di prua spiccarono un balzo, e la canoa oscillò. Uno cadde in acqua, rimanendo aggrappato con le dita allo Hadji; l’altro riuscì a raggiungere il ponte con le ginocchia. Tra i denti teneva un coltello di bambù, e la sua cintura reggeva due guaine: in una c’era una piccola ascia di pietra, nell’altra un pugnale ricavato dal pescecorno. Mentre cercava di far presa sull’assito bagnato e di tirarsi in piedi, sollevò un attimo lo sguardo e si trovò a fissare gli occhi di Burton. Aveva capelli d’un giallo lucente, occhi d’un azzurro slavato, e un volto dalla bellezza classica. La sua intenzione, probabilmente, era di ferire uno o due uomini dell’equipaggio e poi tuffarsi, fors’anche con una donna tra le braccia. Nel frattempo i suoi compagni si sarebbero avvicinati con le imbarcazioni, gettandosi all’abbordaggio dello Hadji, e tutto si sarebbe risolto in un momento.

Ma quell’uomo non aveva molta probabilità di portare a termine il suo piano; forse anche lo sapeva, ma non se ne curava. La maggior parte dei risorti temeva ancora la morte, perché la paura affondava le radici fin nelle cellule del loro corpo, e la reazione era perciò istintiva. Alcuni avevano superato tale paura, e altri non l’avevano mai provata.

Burton si fece avanti, e con l’ascia colpì l’uomo alla tempia. Quello aprì la bocca, facendo cadere il coltello; poi crollò a faccia in giù sul ponte. Burton raccolse il coltello, slacciò la cintura dell’uomo, e con un piede lo spinse in acqua. A tale vista gli uomini della canoa, che stava girando intorno allo Hadji, diedero un ruggito. Burton vide che le rive si stavano riempiendo ancora di gente, e diede ordine di invertire la rotta. Lo Hadji girò su se stesso, mentre la boma cambiava orientamento, e mosse in direzione dell’altra riva del Fiume, inseguito da una dozzina di imbarcazioni. Tre erano canoe con quattro uomini ciascuna, quattro erano grosse canoe da guerra, e cinque erano golette a due alberi. Queste ultime avevano numerose catapulte, e molti uomini stavano sul ponte.

Quando furono al centro del Fiume, Burton ordinò di invertire di nuovo la rotta. Questa manovra avrebbe consentito alle imbarcazioni nemiche di avvicinarsi maggiormente, ma Burton aveva calcolato il rischio. Lo Hadji, navigando ancora di bolina, passò in mezzo alle due golette. Queste erano così vicine che si potevano scorgere con facilità i lineamenti degli uomini a bordo. Per la maggior parte erano caucasici, benché il colore della loro pelle andasse da un bruno intenso a un bianco slavato. Il capitano della goletta di sinistra gridò in direzione di Burton, chiedendogli, in tedesco, di arrendersi.

— Non vi faremo del male se deporrete le armi, ma se continuerete a combattere vi metteremo alla tortura!

Parlava tedesco con un accento che sembrava ungherese.

Per tutta risposta Burton e Alice tirarono delle frecce. Quella di Alice mancò il capitano ma colpì il timoniere, che barcollò all’indietro e cadde oltre il parapetto. All’istante la goletta cambiò rotta. Il capitano balzò alla ruota del timone, e la seconda freccia di Burton lo colpì al polpaccio.

Con grande fracasso le due golette si scontrarono diagonalmente e rimbalzarono via, mentre pezzi di fasciame volavano da tutte le parti e gli uomini, gridando, cadevano sul ponte o precipitavano in acqua. Anche se non fossero affondate, ormai le golette erano fuori combattimento.

Ma poco prima che si scontrassero, i loro arcieri avevano scagliato delle frecce incendiarie contro le vele di bambù dello Hadji. Le frecce erano cosparse di grasso secco imbevuto di una specie di trementina ricavata dalla resina dei pini, e così, aiutate dal vento, sparsero in fretta il fuoco.

Burton riprese la barra del timone dalle due donne e lanciò degli ordini. L’equipaggio immerse nel Fiume dei vasi di argilla e i propri graal aperti, e quindi gettò l’acqua sulle fiamme. Loghu, che sapeva arrampicarsi come una scimmia, salì sull’albero con una fune avvolta intorno alle spalle. Poi lasciò cadere un’estremità della fune e tirò su i recipienti pieni d’acqua.

Nel frattempo le altre golette e numerose canoe si erano fatte più vicine. Una manovrava in modo da intercettare la rotta dello Hadji. Burton cambiò di nuovo direzione, ma il peso di Loghu sull’albero ritardò la manovra. Lo Hadji ruotò, la boma cambiò posizione con violenza mentre gli uomini perdevano il controllo delle gomene, e altre frecce colpirono la vela spargendo altro fuoco. Parecchie frecce si conficcarono sul ponte. Per un attimo Burton pensò che il nemico avesse cambiato idea e stesse cercando di ucciderli. Ma le frecce erano giunte sul ponte per un semplice errore di mira.

Di nuovo lo Hadji passò in mezzo a due golette. Il capitano e l’equipaggio di entrambe stavano sogghignando. Forse erano rimasti per lungo tempo nell’inattività, e ora si divertivano all’inseguimento. Malgrado ciò gli equipaggi si ripararono dietro i parapetti, lasciando che capitani, timonieri, e arcieri, ricevessero da soli il fuoco nemico. Sullo Hadji si udì un intenso fruscio, e le lunghe frecce scure con la punta rossa e la coda blu si infilarono nelle vele in una ventina di punti, e altre si conficcarono nell’albero e nella boma, una dozzina finì sibilando in acqua, e una passò a pochi centimetri dal capo di Burton.

Mentre Esther impugnava la barra del timone, Alice, Ruach, Kazz, Greystock, Wilfreda, e Burton si erano messi a tirare frecce. Loghu era immobilizzata sull’albero, in attesa che il lancio di frecce cessasse. Gli arcieri dello Hadji colpirono tre bersagli di carne: un capitano, un timoniere, e un marinaio che aveva alzato la testa nel momento sbagliato.

Esther gettò un grido, e Burton si voltò. La canoa da guerra era sbucata da dietro la goletta, trovandosi a pochi metri dalla prua dello Hadji. Non c’era modo di evitare la collisione. I due uomini sulla piattaforma si tuffarono di lato, e i rematori cercarono di alzarsi dai banchi per gettarsi anch’essi in acqua. Ma in quell’istante lo Hadji speronò la canoa nella fiancata, squarciandola; l’imbarcazione si capovolse, gettando l’equipaggio nel Fiume. Quelli dello Hadji furono scagliati in avanti, e Greystock cadde in acqua, Burton scivolò bocconi per un tratto, spellandosi faccia, petto e ginocchia.

Esther venne strappata dalla barra: rotolò lungo il ponte fermandosi con violenza contro il bordo del «castello di prua», e lì giacque senza più muoversi.

Burton guardò in alto. La vela era completamente avvolta dalle fiamme, e non c’era più speranza di salvarla. Loghu era scomparsa, il che significava che doveva essere stata scagliata fuori bordo al momento dello scontro. Poi la scorse a poppavia, mentre nuotava verso lo Hadji insieme a Greystock. Intorno a loro l’acqua spumeggiava sotto l’annaspare degli uomini della canoa, molti dei quali, a giudicare dalle loro grida, non sapevano nuotare.

Burton diede una voce ai suoi uomini affinché aiutassero i due a salire a bordo, e passò a ispezionare i danni. Nella collisione la prua di entrambi i sottilissimi scafi gemelli si era sfasciata, e l’acqua vi si stava riversando dentro. Il fumo proveniente dalla vela e dall’albero in fiamme si andava allargando in tutte le direzioni, e faceva tossire Alice e Gwenafra.

Un’altra canoa da guerra si stava avvicinando rapidamente da nord, e le due golette, veleggiando di bolina, si dirigevano verso lo Hadji.

Burton e i suoi avrebbero potuto combattere ancora e causare delle perdite ai nemici, i quali invece volevano evitare di ucciderli. Oppure avrebbero potuto gettarsi in acqua. Ma in entrambi i casi sarebbero stati catturati.

Loghu e Greystock furono issati a bordo. Frigate riferì che non riusciva a far riprendere i sensi a Esther. Ruach le sentì il polso, le sollevò le palpebre, e poi tornò da Burton.

— Non è morta, ma ha perso del tutto conoscenza.

Burton disse: — Voi donne sapete cosa vi accadrà. Potete fare come volete, naturalmente, ma io vi suggerisco di buttarvi in acqua, scendere il più possibile, e respirare una bella boccata. Domani vi sveglierete rimesse a nuovo.

Gwenafra era uscita dal castello di prua. Si strinse le braccia intorno alla vita e guardò in su, con occhi asciutti ma sgomenti. Burton la sollevò con un braccio e gridò: — Alice! Portala con te!

— Dove? — chiese Alice. Guardò la canoa e poi di nuovo Burton. Tossì ancora, a causa del fumo che le si addensava intorno; poi fece qualche passo in avanti, mettendosi sopravvento.

Burton indicò il Fiume con un gesto. — Quando vai giù.

— Non posso farlo — replicò Alice.

— Non vorrai che quegli uomini prendano anche lei. È solo una bambina, ma questo non li fermerà.

Il volto di Alice si raggrinzì, come se ella fosse stata sul punto di scoppiare in lacrime. Ma non pianse.

— Benissimo — disse. — Ora non è più peccato darsi la morte. Lo spero…

— Sì — replicò Burton.

Non aggiunse altro: non c’era tempo per parlare. La canoa distava solo una dozzina di metri.

— Però il prossimo posto potrebbe essere brutto come questo, o anche peggiore — disse Alice. — E Gwenafra, al suo risveglio, si troverà da sola. Sai che abbiamo ben poche probabilità di risorgere nello stesso luogo.

— Non ci possiamo far nulla — replicò Burton.

Alice serrò le labbra, indi le riaprì e disse: — Combatterò fino all’ultimo. Poi…

— Potrebbe essere troppo tardi — osservò Burton. Prese l’arco e tolse una freccia dalla faretra. Greystock aveva perso il proprio arco, così si fece dare quello di Kazz. Il Neanderthal pose un sasso in una frombola e cominciò a rotearla. Lev raccolse la propria frombola e si scelse un sasso. Monat prese l’arco di Esther, avendo perso anch’egli il suo.

Il capitano della canoa gridò in tedesco: — Deponete le armi! Non vi sarà fatto alcun male!

Un secondo dopo, colpito al petto da una freccia di Alice, crollava dalla piattaforma addosso a un rematore. Un’altra freccia, probabilmente tirata da Greystock, faceva cadere in acqua il secondo uomo che stava sulla piattaforma. Una pietra colpì un rematore a una spalla, e quello si accasciò con un grido. Un’altra pietra rimbalzò sulla testa di un secondo rematore, e questi si lasciò sfuggire il remo.

La canoa continuava ad avvicinarsi. I due uomini della piattaforma di poppa incitavano l’equipaggio a dirigersi contro lo Hadji. Poi caddero, raggiunti dalle frecce nemiche.

Burton guardò dietro di sé. Le vele delle due golette venivano ammainate. Queste si sarebbero accostate allo Hadji per abbrivo, e gli uomini avrebbero lanciato i grappini d’abbordaggio. Ma se le navi si fossero avvicinate troppo, il fuoco si sarebbe propagato ad esse.

La canoa si precipitava contro lo Hadji con quattordici uomini dell’equipaggio morti o troppo feriti per combattere. Un attimo prima dello speronamento, i rimasti lasciarono i remi e impugnarono degli scudi rotondi, di cuoio. Due di questi furono trapassati dalle frecce, che penetrarono nel braccio degli uomini che li reggevano. Ora pertanto erano a venti uomini contro sei uomini, cinque donne, e una bambina.

Ma uno dei sei era un uomo peloso alto un metro e mezzo, munito di una forza tremenda e di una grossa ascia di pietra. Kazz spiccò un salto un attimo prima che la canoa speronasse lo scafo destro del catamarano, e atterrò in essa un attimo dopo che si era fermata. La sua ascia fracassò due crani e quindi squarciò il fondo della canoa. L’acqua irruppe, e in quell’istante anche Greystock saltò giù accanto a Kazz, gridando qualcosa nel suo antico dialetto del Cumberland. In una mano teneva un pugnale, e nell’altra una grossa clava di quercia munita di schegge di selce.

Gli altri dello Hadji continuavano a tirare frecce. Ad un tratto Kazz e Greystock si arrampicarono di nuovo sul catamarano, mentre la canoa affondava col suo carico di morti, morenti, e atterriti sopravvissuti. Alcuni dei superstiti affogarono: gli altri si allontanarono a nuoto, o cercarono di salire a bordo dello Hadji. Questi ultimi però ricaddero in acqua, con le dita mozzate o spappolate.

Qualcosa cadde sul ponte accanto a Burton, e qualcosa ancora si avvolse intorno a lui. Burton girò su se stesso e tagliò la fune di cuoio che gli si era stretta intorno al collo. Balzò d’un lato per evitarne un’altra, e diede un violento strattone a una terza, tirando sullo Hadji l’uomo che l’aveva lanciata. Questi piombò di spalle sul ponte, e Burton gli assestò un colpo d’ascia in piena faccia.

Ma ormai gli uomini di entrambe le golette si stavano gettando sullo Hadji, e da tutte le parti piovevano funi. Il fuoco e il fumo aumentavano la confusione, pur favorendo più gli uomini di Burton che i nemici.

Burton gridò ad Alice di prendere Gwenafra e gettarsi nel fiume, ma non riuscì a farsi sentire. Poi fu attaccato da un grosso negro armato di lancia, che, quasi avesse dimenticato l’ordine di catturare Burton, sembrava intenzionato a ucciderlo. Burton fece volar via la corta lancia, poi indietreggiò menando colpi all’impazzata con l’ascia e riuscì a raggiungere il negro al collo. Continuando a ritirarsi avvertì una fitta dolorosa alle costole, poi un’altra alle spalle; abbatté due uomini e finalmente si gettò in acqua. Cadde tra la goletta e lo Hadji, si immerse, abbandonò l’ascia ed estrasse il pugnale dal fodero. Quando tornò a galla guardò in su e vide un uomo alto, inagrissimo e coi capelli rossi, sollevare sopra il capo con entrambe le mani Gwenafra, che strillava. Poi l’uomo la scagliò in acqua, più lontano che poté.

Burton si tuffò di nuovo, e risalendo scorse il volto della bambina a poche decine di centimetri davanti a sé. Era grigiastro, e gli occhi erano velati. Poi vide il sangue incupire l’acqua intorno a lei. Gwenafra scomparve prima che egli la potesse afferrare. Burton si immerse dietro di lei, l’agguantò, e la mise a faccia in giù. Un corno di pesce era conficcato nella sua schiena.

Burton lasciò affondare il cadavere. Non capiva perché quell’uomo l’avesse uccisa quando non gli era difficile farla prigioniera. Forse Alice l’aveva pugnalata, e l’uomo, pensando che anche da morta poteva essere utile, l’aveva gettata giù ai pesci.

Un corpo sbucò dalla cortina di fumo, seguito da un altro. Uno era morto, col collo spezzato; il secondo era vivo. Burton gli strinse il braccio intorno al collo e lo pugnalò all’articolazione della mandibola. L’uomo cessò di dibattersi e colò a picco.

Frigate balzò fuori dal fumo, con faccia e spalle insanguinate. Si tuffò in acqua obliquamente e scese in profondità. Burton nuotò nella sua direzione per aiutarlo. Non aveva senso cercare di tornare sullo Hadji. Era pieno zeppo di combattenti, e altre canoe si stavano avvicinando.

La testa di Frigate emerse dall’acqua. Nei punti in cui non scorreva il sangue, la pelle era bianca. Burton nuotò verso di lui e gli chiese: — Le donne sono riuscite a scappare?

Frigate scosse il capo, poi gridò: — Attento!

Burton diede un colpo di reni per immergersi. Qualcosa lo colpì alle gambe, ma egli non cessò di nuotare verso il basso. Però non mise in pratica la sua intenzione di affogarsi: avrebbe combattuto finché non l’avessero ucciso.

Tornato a galla, vide l’acqua piena di uomini che si erano gettati all’inseguimento suo e di Frigate. L’americano, mezzo svenuto, era trainato verso una canoa. Tre uomini accerchiarono Burton: egli ne pugnalò due, poi il terzo si sporse da una canoa con una clava e gliela abbatté sul capo.

CAPITOLO QUINDICESIMO

Furono condotti a terra fino a una gran costruzione nascosta da una cinta di tronchi. La testa di Burton gli dava una fitta a ogni passo, però le dolorose ferite alla spalla e al costato non sanguinavano più. Il forte, costruito con tronchi di pino, aveva un primo piano sporgente e numerose sentinelle. Il varco attraverso il quale passarono i prigionieri si chiudeva con un’enorme porta, anch’essa di tronchi. Attraversato uno spiazzo di venti metri coperto d’erba, entrarono da un’ampia apertura in una sala di circa quindici metri per dieci. Tranne Frigate, troppo debole, rimasero in piedi davanti a una gran tavola circolare; ma solo quando la loro vista si abituò all’oscurità dell’ambiente, poterono distinguere bene i due uomini che vi stavano seduti.

Dappertutto c’erano guardie armate di lance, clave, asce di pietra. Una scala di legno, in fondo, conduceva a un ballatoio con un alto parapetto, dal quale delle donne si sporgevano a guardare.

Uno dei due uomini seduti era tarchiato, peloso, con capelli neri ricciuti, naso adunco, occhi di falco, scuri e feroci. L’altro era più alto, con i capelli biondi e gli occhi d’un colore indefinibile nella semioscurità, ma probabilmente azzurri, in un faccione teutonico. La pancia e l’incipiente pappagorgia denunciavano il cibo e i liquori sottratti agli schiavi.

Frigate si era accasciato sull’erba, ma lo fecero alzare bruscamente a un cenno del biondo. Frigate lo guardò e disse: — Lei somiglia a Hermann Goering da giovane.

E cadde in ginocchio, gridando di dolore per un colpo alle reni col calcio di una lancia.

Il biondo ordinò in inglese, con forte accento tedesco: — Non fatelo senza mio ordine. Lasciateli parlare.

Osservò i prigionieri per un momento, poi disse: — Sì, sono Hermann Goering.

— Chi è Goering? — chiese Burton.

— Il tuo amico te lo spiegherà dopo — rispose il tedesco. — Se ci sarà un «dopo», per te. Non sono in collera per la vostra magnifica resistenza. Io ammiro gli uomini che combattono bene. E mi servono sempre nuovi armati, specialmente adesso che ne avete ucciso tanti. Vi do la scelta. Agli uomini, beninteso. Unirvi a me e fare la bella vita con cibo, alcool, tabacco e donne a volontà. Oppure lavorare per me come schiavi.

— Per noi - corresse l’altro uomo. — Tu dimentichi, Hermann, che qui comando anch’io.

Goering sorrise. — Naturalmente! — disse ridacchiando. — Ho usato semplicemente l’ego majestatis, come diresti tu. Benissimo, noi. Allora, se voialtri desiderate combattere per noi (sarà molto ma molto meglio per voi che facciate così) giurerete fedeltà a me, Hermann Goering, e all’ex-re di Roma antica, Tullo Ostilio.

Burton guardò attentamente quell’altro. Che fosse davvero il leggendario re di Roma? Di quella antica Roma che era solo un piccolo villaggio minacciato dalle altre tribù italiche, i Sabini, gli Equi, i Volsci? Uno dei «sette re», Tullo Ostilio, bellicoso successore del pacifico Numa Pompilio? Nulla lo distingueva da un’infinità di uomini visti da Burton per le strade di Siena. Ma, se era realmente quel che diceva, poteva trattarsi di un reperto prezioso, storicamente e linguisticamente parlando. Dal momento che con tutta probabilità era etrusco, doveva conoscere tale lingua, senza contare poi il latino preclassico, il sabino, e forse il greco della Campania. Forse aveva addirittura conosciuto Romolo, il presunto fondatore di Roma. Quante cose poteva narrare quell’uomo!

— Ebbene? — disse Goering.

— Cosa dobbiamo fare per metterci con voi? — chiese Burton.

— In primo luogo io… noi, dobbiamo assicurarci che siate della tempra che ci occorre. Vale a dire uomini che eseguano immediatamente e senza esitazioni qualunque ordine che noi diamo. Vi sottoporremo a una piccola prova.

A un suo comando, fu spinto lì un gruppo di uomini, tutti macilenti e mutilati.

— Si sono feriti estraendo pietre o erigendo palizzate — spiegò Goering. — Tranne due, catturati mentre cercavano di fuggire. Subiranno la pena. Saranno tutti uccisi, perché ormai invalidi; pertanto non dovreste esitare a ucciderli voi, per dimostrare la vostra intenzione di servirci.

E soggiunse: — Sono tutti ebrei, perché darvi pensiero di loro?

Campbell, il rosso che aveva gettato Gwenafra nel Fiume, tese a Burton una grossa clava munita di schegge di selce. Due guardie afferrarono uno schiavo e lo fecero mettere in ginocchio. Era un uomo di grande corporatura, biondo, con gli occhi azzurri e un profilo greco; lanciò a Goering un’occhiata carica di odio e sputò verso di lui.

Goering scoppiò in una risata. — Ha tutta l’arroganza della sua razza. Se volessi potrei ridurlo a un mucchietto tremante, urlante, implorante la morte. Ma a me in fondo non piace la tortura. Quel mio compatriota si divertirebbe a farlo arrostire a fuoco lento, ma io sono sostanzialmente umanitario.

— Posso uccidere per autoconservazione o in difesa di chi ha bisogno di protezione — esclamò Burton, — ma non sono un assassino.

— Uccidere questo ebreo sarebbe un atto di autoconservazione — replicò Goering. — Se non lo fai, morirai comunque. Ma più lentamente.

— Non lo farò — disse Burton.

Goering sospirò. — Inglese! Bene, avrei preferito averti con me. Ma se non vuoi fare l’unica cosa ragionevole, così sia. E tu? — aggiunse rivolto a Frigate.

Frigate, ancora assai sofferente, rispose: — Le sue ceneri finirono a Dachau in un mucchio di immondizie, a causa di quello che ha fatto e di quello che è stato. Ha intenzione di ripetere gli stessi crimini in questo mondo?

Goering scoppiò a ridere e disse: — So quello che mi è accaduto. I miei schiavi ebrei me l’hanno detto e ridetto.

Additò Monat. — Che razza di sgorbio è quello?

Burton lo spiegò. Goering fece una faccia seria e disse: — Non posso fidarmi di lui. Mandatelo fra gli schiavi. Tu, laggiù, uomo-scimmia. Cos’hai deciso?

Con grande sorpresa di Burton, Kazz fece un passo avanti. — Io uccidere per te. Io non volere essere schiavo.

Afferrò la clava, mentre le guardie si tenevano pronte a trafiggerlo con le lance se gli fosse venuta qualche idea sbagliata. Kazz gettò loro un’occhiataccia da sotto le prominenti sopracciglia, quindi sollevò la clava. Si udì uno schianto, e lo schiavo stramazzò al suolo. Kazz restituì la clava a Campbell e tornò al proprio posto, senza guardare Burton.

Goering disse: — Questa sera tutti gli schiavi verranno radunati, e vedranno cosa capiterà loro se cercheranno di scappare. Faremo rosolare per un po’ gli evasi, poi porremo fine alla loro misera vita. Il mio illustre collega manovrerà personalmente la clava. A lui piace questo genere di cose.

Indicò Alice. — Quella la piglio io.

Tullo si alzò. — No, no. La voglio per me. Tu prendi le altre, Hermann: te le lascio tutte. Ma quella la voglio assolutamente io. Ha un aspetto aristocratico. Sembra… come dite voi?… una regina…

Burton ruggì, strappò la clava dalla mano di Campbell, e saltò sul tavolo, Goering fece un balzo indietro, e la clava mancò il suo naso per un pelo. Contemporaneamente il romano scagliò una lancia a Burton e lo ferì a una spalla. Burton, che brandiva la clava, si girò di scatto e fece saltar via la lancia dalle mani di Tullo.

Gli schiavi, gridando, si gettarono sulle guardie. Frigate agguantò una lancia e col calcio colpì in testa Kazz, che crollò a terra. Monat diede una pedata nell’inguine a una guardia e s’impossessò della sua lancia.

Burton non ricordò altro. Quando si svegliò mancavano alcune ore all’imbrunire. La testa gli faceva male più di prima, costole e spalle erano tutte indolenzite. Giaceva sull’erba entro un recinto dal diametro di circa cinquanta metri. Guardie armate camminavano su una passerella di legno che correva lungo la parete interna del recinto, a cinque metri d’altezza.

Burton si mise a sedere, con un gemito. Frigate, rannicchiato accanto a lui, disse: — Temevo che non ti riprendessi più.

— Dove sono le donne? — chiese Burton.

Frigate si mise a piangere. Burton scosse il capo ed esclamò: — Smettila di frignare. Dove sono, allora?

— Dove diavolo credi che siano? — rispose Frigate. — Oh, mio Dio!

— Non pensare alle donne. Non possiamo far nulla per loro. Almeno per ora. Perché non mi hanno ucciso dopo che ho attaccato Goering?

Frigate si asciugò le lacrime e disse: — Non ci capisco nulla. Forse hanno risparmiato te e me per metterci sul fuoco. Per dare un esempio agli altri. Vorrei che ci avessero uccisi invece.

— Ma come, raggiunto appena il paradiso vuoi già lasciarlo? — replicò Burton. Fece per ridere, ma si fermò subito, perché il dolore gli trafiggeva il cranio.

Si mise a parlare con Robert Spruce, un inglese nato nel 1945 a Kensington. Spruce disse che Goering e Tullo avevano assunto il potere da neanche un mese. Per il momento non avevano aperto le ostilità contro le popolazioni vicine, ma alla fine, naturalmente, avrebbero cercato di conquistare le regioni limitrofe, compresa quella dell’altra parte del Fiume, abitata dagli indiani Onondaga. Nessuno schiavo era ancora riuscito a scappare e a render note le intenzioni di Goering.

— Ma i popoli confinanti possono vedere da sé che i recinti sono stati costruiti dagli schiavi — osservò Burton.

Spruce fece una smorfia e replicò: — Goering ha sparso la voce che sono tutti ebrei, e anche a lui interessa soltanto fare schiavi gli ebrei. Perciò, a loro, che importa? Ma come vedi, non è vero. Almeno metà degli schiavi sono Gentili.

All’imbrunire Burton, Frigate, Ruach, Greystock, e Monat, furono portati fuori dal recinto e condotti a una pietra-fungo. C’erano già un duecento schiavi, vigilati da circa settanta uomini di Goering. I loro graal furono collocati sopra la roccia, quindi si attese. Le fiamme azzurre scaturirono ruggendo, dopo di che i graal furono tolti di nuovo. Ogni schiavo apri il proprio, e le guardie ne tolsero tabacco, liquori, e metà del cibo.

Frigate aveva delle ferite, alla testa e a una spalla, che non sanguinavano più, ma avevano bisogno di punti. Il suo colorito era molto meno pallido, ma la schiena gli faceva ancora male.

— Ed eccoci schiavi — commentò. — Dick, tu avevi studiato a fondo l’istituto della schiavitù. Che te ne pare adesso?

— Quella era schiavitù orientale - rispose Burton. — In questo tipo di schiavitù, lo schiavo non ha alcuna probabilità di tornare libero. E nessun sentimento, tranne l’odio, lega schiavo e padrone. In Oriente la situazione era diversa. Naturalmente, come in tutte le istituzioni umane, c’erano anche lì degli abusi.

— Sei un uomo cocciuto — disse Frigate. — Hai notato che almeno metà degli schiavi sono ebrei? Per la maggior parte, israeliani della fine del ventesimo secolo. Quella ragazza laggiù mi ha detto che Goering è riuscito ad instaurare la schiavitù del graal suscitando in questa regione l’antisemitismo. Naturalmente, per destarsi, questo doveva già esistere. Poi Goering, dopo aver preso il potere con l’aiuto di Tullo, fece schiavi molti dei propri sostenitori.

«Lo strano — continuò — è che Goering, relativamente parlando, non è un vero antisemita. Intervenne di persona presso Himmler e gli altri per salvare gli ebrei. Ma è qualcosa di peggio di un autentico antisemita: è un opportunista. In Germania l’antisemitismo fu un’ondata di marea; per arrivare, bisognava stare sulla cresta di quell’onda. Goering c’è stato lì e ci sta qui. Antisemiti come Goebbels e Frank credevano nei princìpi che professavano. Princìpi perversi e detestabili, d’accordo, ma pur sempre princìpi. Invece quel grasso opportunista di Goering se ne infischiava in un senso e nell’altro, degli ebrei. Se ne è solo servito.

— Va bene — disse Burton, — io, che c’entro? Ah, capisco! Te lo leggo in faccia: hai intenzione di farmi il predicozzo.

— Dick, io ti ammiro come ho ammirato pochi uomini. Ti sono affezionato come è possibile esserlo a un uomo. E sono così contento di aver avuto la fortuna di imbattermi in te, come, ad esempio, Plutarco lo sarebbe stato incontrando Alcibiade o Teseo. Ma non sono cieco. Conosco i tuoi difetti, che sono numerosi: e li deploro.

— In particolare?…

— Quel libro. Ebrei, zingari, maomettani. Come hai potuto scriverlo? Un documento di odio, pieno di idiozie crudeli, leggende popolari, superstizioni! Assassinii rituali, ma guarda!

— Ero ancora adirato per le ingiustizie subite a Damasco…

— Questo non giustifica il fatto che tu abbia scritto delle menzogne su un intero gruppo — lo interruppe Frigate.

— Menzogne! Ho scritto la verità!

— Forse hai creduto che fosse la verità. L’epoca da cui provengo l’ha dichiarata falsa.

— La verità — replicò Burton — è che gli usurai ebrei di Damasco imprestavano ai poveri all’interesse del mille per cento, la verità è che esercitavano questa usura tremenda non solo con i mussulmani e i cristiani, ma con i loro stessi correligionari. La verità è che quando i miei nemici, in Inghilterra, mi accusarono di antisemitismo, molti ebrei di Damasco presero le mie difese. La verità è che io presentai le mie proteste ai turchi quando vendettero la sinagoga al vescovo greco-ortodosso di Damasco per farne una chiesa. La verità è che io mi diedi da fare e riuscii a raccogliere diciotto mussulmani che testimoniassero a favore degli ebrei. La verità è che io protessi i missionari cristiani dai Drusi. La verità è che io avvisai i Drusi che quel lurido e grasso maiale turco, Rashid Pascià, stava cercando di incitarli alla rivolta per poterli poi massacrare. La verità è che quando fui rimosso dalla carica di console per le menzogne dei missionari e dei preti cristiani, e di Rashid Pascià, e degli usurai ebrei, migliaia di cristiani e mussulmani ed ebrei vennero in mia difesa, benché ormai fosse troppo tardi. E la verità, inoltre, è che io non devo render conto delle mie azioni né a te né a chiunque altro!

Era tipico di Frigate andare a scovare un soggetto irrilevante come quello in un momento così inopportuno. Forse voleva cessare di disprezzarsi, e così rivolgeva contro Burton l’ira e la paura che aveva addosso. O forse davvero sentiva che il suo eroe l’aveva deluso.

Lev Ruach era rimasto a sedere con la testa fra le mani. A questo punto sollevò il capo e disse, con voce cupa: — Benvenuto nel campo di concentramento, Burton! Questa per te è la prima volta, ma per me ormai è storia vecchia. Sono stato in un campo nazista, e fuggii. Anche da qui, forse, potrei fuggire. Ma dove? In un altro campo? Pare quasi che ce ne debbano essere sempre. L’uomo andrà sempre avanti a costruirne e a rinchiudervi dei prigionieri, siano essi ebrei o altro. Perfino qui, dove siamo giunti da poco e dove tutte le religioni e tutti i preconcetti avrebbero dovuto infrangersi sull’incudine della resurrezione, perfino qui ben poco è cambiato.

— Chiudi il becco! — esclamò un uomo accanto a Ruach. Costui aveva capelli rossi, tanto riccioluti che quasi si attorcigliavano, e occhi azzurri, e un volto che sarebbe stato gradevole senza quel naso rotto. Era alto un metro e ottanta e aveva un corpo da lottatore.

— Mi chiamo Dov Targoff — disse, con un vivace accento di Oxford. — Defunto comandante della Marina militare d’Israele. Non date retta a quest’uomo. È un ebreo all’antica, un pessimista, un piagnucolone. Si metterebbe a gemere contro il Muro del Pianto anziché tirarsi su e combattere come un uomo.

A momenti Ruach soffocava dall’ira. — Arrogante d’un Sabra! — esclamò. — Io ho combattuto! Ho ucciso! E non sono un piagnucolone! E tu, coraggioso guerriero, che fai? Non sei uno schiavo come tutti noialtri?

— È la solita storia — commentò una donna. Era alta e aveva i capelli scuri, e probabilmente avrebbe avuto una splendida figura se non fosse stata così macilenta. — La solita storia. Lottiamo tra di noi mentre i nostri nemici ci sconfiggono. Quando Tito assediò Gerusalemme facemmo altrettanto, e uccidemmo un maggior numero dei nostri che non di romani. E quando…

I due uomini le risposero per le rime, e tutti e tre si misero a litigare ad alta voce finché una guardia cominciò a pestarli con un bastone.

Più tardi Targoff, parlando tra le labbra gonfie, disse: — Non posso resistere più a lungo. Presto… bene, quella guardia l’ucciderò io.

— Hai un piano? — chiese Frigate ansiosamente, ma Targoff non rispose.

Poco prima dell’alba gli schiavi vennero svegliati e condotti al fungo, e di nuovo ricevettero una minima porzione di cibo. Dopo aver mangiato furono divisi in gruppi, ciascuno dei quali sì diresse al proprio lavoro. Burton e Frigate vennero portati al confine settentrionale. Si misero al lavoro in mezzo a un migliaio di altri schiavi e sfacchinarono tutto il giorno, nudi sotto il sole. L’unico attimo di riposo fu a mezzodì, quando portarono i loro graal alla roccia e mangiarono.

Goering voleva costruire una muraglia dalla montagna al Fiume, e aveva anche l’intenzione di erigerne una seconda lungo tutti i quindici chilometri della riva del lago, e una terza al confine meridionale.

Burton e gli altri dovevano scavare una profonda trincea e quindi ammucchiare il terriccio estratto. Era un lavoro duro, perché avevano solo pietre per zappare. Dato che le radici dell’erba formavano un groviglio compatto e resistente, potevano penetrare in profondità solo con colpi ripetuti. Terriccio e radici venivano raccolti con badili di legno e gettati su grandi slitte di bambù. Altre squadre trascinavano le slitte in cima al bastione, dove il materiale veniva scaricato per rendere più spessa e più alta la muraglia.

A sera la mandria di schiavi fu rinchiusa di nuovo nel recinto. Per la maggior parte crollarono subito addormentati. Ma Targoff, l’israeliano dai capelli rossi, si accovacciò accanto a Burton.

— Ogni tanto arrivano delle notizie — disse. — Ho sentito del combattimento che tu e i tuoi uomini avete condotto. E ho sentito anche del tuo rifiuto di passare dalla parte di Goering e di quell’altro porco.

— Cos’hai sentito sul mio libro infame? — chiese Burton.

Targoff sorrise e rispose: — Non ne sapevo niente. Me ne ha parlato Ruach. Ma le tue azioni parlano da sé. Inoltre Ruach è molto sensibile a questo genere di cose. Non si può dargli torto, con quello che ha passato. Ma non credo che ti saresti comportato come ti sei comportato se fossi stato quello che lui diceva che sei. Credo invece che tu sia un uomo leale, del tipo che cerchiamo. Perciò…

Seguirono giorni e notti di duro lavoro e razioni scarse. Burton, attraverso il «servizio informazioni» del campo, venne a sapere delle donne. Wilfreda e Fatima erano nell’appartamento di Campbell. Loghu stava con Tullo. Alice era stata tenuta da Goering per una settimana, poi ceduta a un suo subalterno, un certo Manfred von Kreyscharft. Si diceva che Goering si fosse lamentato per la freddezza di Alice, e avesse pensato di darla alle proprie guardie del corpo perché ne facessero tutto quello che fosse loro piaciuto. Ma von Kreyscharft l’aveva chiesta per sé.

Per Burton era atroce. Non sopportava l’idea di Alice insieme a Goering e a von Kreyscharft. Doveva fermare quelle bestie, o almeno morire nel tentativo. A notte fonda strisciò fuori dalla capanna che divideva con venticinque uomini, si infilò in quella dove stava Targoff, e lo svegliò.

— Hai detto che sapevi che sarei stato dalla vostra parte — bisbigliò. — Quando intendi darmi la tua fiducia? Ti avviso che se non lo fai subito organizzerò una rivolta col mio gruppo e con quelli che vorranno unirsi a noi.

— Ruach mi ha riferito dell’altro, su di te.

Burton aprì la bocca per dare una rispostaccia, ma la richiuse. Rimase zitto per un po’, e poi parlò con calma: — Le mie azioni sulla terra hanno maggior peso delle parole che posso aver scritto. Ho avuto molti amici ebrei…

— Quest’ultima frase prelude sempre a un attacco contro gli ebrei — disse Targoff.

— Senti — esclamò Burton. — O mi accetti o mi rifiuti. In un caso o nell’altro, sai quello che farò.

— Accetto — disse Targoff. — Forse hai cambiato opinione, e posso farlo anch’io. Ho lavorato con te, ho mangiato con te. Amo ritenermi un buon giudice di caratteri. Dimmi: se dovessi decidere tu, quale piano sceglieresti?

Targoff ascoltò con attenzione, e quando Burton ebbe terminato di spiegare annuì. — Quasi come avevo progettato io. E ora…

CAPITOLO SEDICESIMO

Il giorno seguente, poco dopo il primo pasto, parecchie guardie vennero a prendere Burton e Frigate. Targoff diede un’occhiata penetrante a Burton, che capì cosa stava pensando l’israeliano. Non si poteva far altro che dirigersi verso la «reggia» di Goering. Questi era seduto in una larga poltrona di legno, e fumava la pipa. Pregò i due di accomodarsi e offrì loro sigari e vino.

— Di tanto in tanto — disse — mi piace distrarmi un po’ e parlare con qualcuno al di fuori dei miei colleghi, che non sono eccessivamente brillanti. Soprattutto mi piace parlare con qualcuno che sia vissuto dopo la mia morte. E con uomini che nella loro epoca siano stati famosi. Per il momento conosco pochi di entrambi i tipi.

— Molti dei tuoi prigionieri israeliani sono vissuti dopo di te — osservò Frigate.

Goering agitò la pipa nell’aria. — Ah, gli ebrei! Questo è il guaio. Mi conoscono troppo bene. Quando cerco di parlare con loro diventano scontrosi, e troppi hanno cercato di uccidermi perché io possa sentirmi a mio agio in mezzo a loro. Non che io abbia qualcosa contro di essi. Non amo gli ebrei in modo particolare, ma ho molti amici ebrei…

Burton arrossì.

Goering, dopo aver aspirato una boccata, continuò: — Der Fuerher era un grand’uomo, ma in certe cose si comportava come un idiota. Fra queste, il suo atteggiamento verso gli ebrei. Ma lasciamo quest’argomento. Neppure qui si può evitare di vederseli attorno.

Continuò a chiacchierare per un po’, quindi pose a Frigate molte domande circa la fine che avevano fatto i suoi contemporanei, e sulla storia della Germania dopo la guerra.

— Se voi americani — osservò — aveste avuto abilità politica, avreste dichiarato guerra alla Russia appena ci siamo arresi. Noi avremmo combattuto al vostro fianco contro i bolscevichi e li avremmo annientati.

Frigate non replicò. Goering raccontò parecchie storielle «divertenti», cioè oscene. Poi chiese a Burton di riferirgli il fatto singolare che gli era capitato prima di risorgere nella valle.

Burton rimase stupito. Goering ne aveva sentito parlare da Kazz, oppure in mezzo agli schiavi c’era un suo informatore?

Con abbondanza di particolari narrò tutto quello che era accaduto dall’istante in cui aveva aperto gli occhi trovandosi tra quei corpi sospesi fino al momento in cui gli uomini della canoa aerea avevano puntato su di lui il tubo metallico.

— L’extraterrestre, Monat, ha formulato l’ipotesi che certi esseri che possiamo chiamare X o Ignoti, abbiano tenuto sotto osservazione gli uomini fin d quando cessarono di essere scimmie. Per almeno due milioni di anni, cioè. Questi superesseri avrebbero registrato in qualche modo ogni cellula di ogni uomo mai vissuto, dall’istante del concepimento, probabilmente, a quello della morte. Quest’ipotesi può sembrare sconcertante, ma non lo è più di quanto lo sia la resurrezione di tutto il genere umano e la trasformazione di questo pianeta nella Valle di un unico Fiume. Forse le registrazioni sono state effettuate sui vivi, o forse questi superesseri hanno captato delle vibrazioni dal passato, proprio come sulla Terra si riceveva dalle stelle una luce emessa migliaia di anni prima.

«Monat, comunque, propende per la prima ipotesi. Non crede ai viaggi nel tempo, neanche in senso limitato.

«Monat ritiene che gli X abbiano tenuto in deposito le registrazioni. In che modo non sa. Ma questo pianeta fu trasformato per renderlo adatto a noi. È un solo immenso Mondo Unifluviale. Durante il nostro viaggio su per il Fiume abbiamo parlato con decine e decine di persone, e dalle loro descrizioni è risultato evidente che provenivano dai luoghi più disparati. Uno era giunto dall’estremo nord dell’emisfero settentrionale, l’altro dall’estremo sud di quello meridionale. Tutte le descrizioni concorrevano a dare il quadro di un mondo trasformato in un unico Fiume serpeggiante.

«Abbiamo parlato con persone morte qui, per incidente o uccise, e risorte appunto nei luoghi che stavamo attraversando. Monat dice che anche adesso che siamo risorti veniamo registrati. Quando uno di noi muore un’altra volta, la sua registrazione, aggiornata fino all’ultimo istante, viene introdotta in un convertitore energia-materia situato da qualche parte, forse sotto la superficie del pianeta. I corpi sono stati riprodotti così com’erano al momento della morte, dopo di che i dispositivi di ringiovanimento hanno restaurato i corpi addormentati. Probabilmente in quello stesso ambiente nel quale mi svegliai. Poi i corpi, tornati giovani e integri, vengono registrati e quindi distrutti, e le registrazioni immesse ancora nei convertitori. Questi, probabilmente utilizzando come energia il calore del nucleo di questo pianeta, che dovrebbe essere allo stato di plasma, ci riproducono di nuovo, questa volta sul terreno, accanto alle pietre-fungo. Ignoro perché quelli che muoiono qui non risorgano nello stesso punto. Ma ignoro pure perché siamo risorti calvi, o perché agli uomini non cresce la barba, o perché gli uomini risorgano circoncisi e le donne vergini. O perché ci hanno fatto risorgere. A quale scopo? Chi ci ha messi qui non è ancora venuto a dircelo.»

— Il fatto è — aggiunse Frigate — che non siamo gli stessi che eravamo sulla Terra. Io sono morto. Burton è morto. Lei, Hermann Goering, è morto. Tutti sono morti. E non possiamo essere riportati in vita!

Goering succhiò rumorosamente la pipa, fissò Frigate, e poi disse: — Perché no? Io sono di nuovo vivo. Puoi negarlo?

— Sì, lo nego. In un certo senso, almeno. Lei è vivo. Ma non è l’Hermann Goering nato il 12 gennaio 1893 nel Sanatorio Marienbad di Rosenheim, in Baviera. Non è l’Hermann Goering che ebbe per padrino il dottor Hermann Eppenstein, un ebreo convertito. Non è il Goering che succedette a von Ricthhofen alla morte di questi e continuò a guidare i suoi aviatori contro gli Alleati anche dopo la fine della guerra. Non è il Reichmarschal della Germania di Hitler, né il profugo arrestato dal tenente Jerome N. Shapiro. Eppenstein e Shapiro, sì! E non è l’Hermann Goering che si tolse la vita inghiottendo una capsula di cianuro di potassio durante il processo per crimini contro l’umanità!

Goering caricò di nuovo la pipa e disse, con voce dolce: — Vedo che sei molto bene informato su di me. Dovrei esserne lusingato, suppongo. Almeno non sono stato dimenticato.

— In genere, sì — replicò Frigate. — Però ha avuto una fama durevole di buffone malvagio, di fallito, di parassita.

Burton era sbalordito. Non aveva mai immaginato che Frigate fosse capace di tener testa a qualcuno che aveva poteri di vita e di morte su di lui, o che l’aveva trattato in modo così cattivo. Ma forse Frigate sperava di essere ucciso.

— Spiega quanto hai detto — ordinò Goering. — Non riguardo la mia reputazione: ogni uomo che occupa una certa posizione si deve aspettare che la massa ignorante parli male di lui e lo fraintenda. Spiega perché non sarei lo stesso uomo.

Frigate fece un lieve sorriso e disse: — Lei è il prodotto, o meglio l’ibrido, di una registrazione e di un convertitore energia-materia. È composto da tutti i ricordi del defunto Hermann Goering e dal duplicato di ogni cellula del suo corpo. Ha tutto ciò che quello aveva, per cui crede di essere Goering. Ma non lo è! È una copia, e basta! L’Hermann Goering originale si è ridotto in molecole assorbite dal suolo e sparse nell’aria, e quindi passate nelle piante e di qui nella carne degli animali e degli esseri umani, e poi trasformate di nuovo in escrementi, und so weiter! Lei, qui davanti a me, non è l’originale, così come le vibrazioni sonore che escono dalla bocca di un uomo e vengono raccolte e trasformate da un dispositivo elettronico non ci danno più la voce originale, ma soltanto un disco o un nastro.

Burton poté comprendere il paragone, perché nel 1888, a Parigi, aveva visto un fonografo di Edison. Si sentì offeso, anzi violentato, dalle parole di Frigate.

Anche Goering, ad occhi sbarrati, col viso che diventava paonazzo, dimostrava di essersi sentito minacciato fino in fondo a se stesso.

Tartagliò, poi disse: — E perché questi esseri si sarebbero presi tale disturbo solo per fare delle copie?

— Non lo so — rispose Frigate stringendosi nelle spalle.

Goering si alzò con un certo sforzo dalla poltrona e puntò la pipa verso Frigate.

— Tu menti! — gridò in tedesco. — Tu menti, scheisshund!

Frigate ebbe un brivido, come se si fosse aspettato di essere ancora colpito alle reni; poi disse: — Eppure quanto ho detto dev’essere giusto. Naturalmente, lei non è tenuto a crederlo: non posso provare nulla. E capisco benissimo quello che sente. Io so di essere Peter Jairus Frigate, nato nel 1918 e morto nel 2008 d.C. Ma devo pure credere, perché me lo dice la logica, che in realtà sono soltanto un essere che ha i ricordi di quel Frigate che non risorse mai da morte. In un certo senso sono il figlio di quel Frigate, il quale non può esistere un’altra volta. Non carne della sua carne e sangue del suo sangue, ma mente della sua mente. Io non sono l’uomo nato da una donna su quel mondo perduto che fu la Terra. Io sono il bastardo della scienza e di una macchina. A meno che…

— A meno che cosa? — ripeté Goering.

— A meno che una certa entità sia unita al corpo umano, un’entità che è l’essere umano. Voglio dire, un’entità che comprenda tutto ciò per cui un individuo è quello che è, e che sopravviva quando il corpo perisce. Per cui, se il corpo viene ricostituito di nuovo, questa entità, che racchiude in sé l’essenza dell’individuo, può essere nuovamente unita al corpo stesso. Ed ecco che l’individuo originale si troverebbe a vivere un’altra volta, e non sarebbe soltanto una copia.

— Per amor di Dio, Pete! — esclamò Burton. — Stai forse suggerendo l’anima?

Frigate annuì e rispose: — Qualcosa di analogo, almeno. Qualcosa che i primitivi intuirono confusamente e chiamarono anima.

Goering scoppiò in una fragorosa risata. Anche Burton avrebbe riso volentieri, ma non intendeva dare a Goering alcun appoggio, né morale né intellettuale.

Quando Goering ebbe smesso di ridere disse: — Neppure qui, in un mondo che è l’evidente frutto della scienza, quelli che credono nel soprannaturale cessano di speculare. Bene, chiudiamo l’argomento e passiamo a questioni più pratiche e immediate. Ditemi, avete cambiato idea? Volete essere dalla mia parte?

Burton lo guardò con odio e rispose: — Io non voglio stare agli ordini di uno che violenta le donne; inoltre rispetto gli israeliani. Preferisco essere uno schiavo con loro che libero con lei.

Goering aggrottò le sopracciglia e disse, con voce roca: — Benissimo. Me l’aspettavo, ma avevo sperato… Ho avuto delle discussioni col romano. Se farà a modo suo, vi accorgerete come sono stato misericordioso verso voialtri schiavi. Voi non lo conoscete. Soltanto il mio intervento ha impedito che ogni sera uno di voi fosse torturato a morte per divertire Tullo.

A mezzogiorno, Burton e Frigate tornarono al loro lavoro sulle colline. Non ebbero la possibilità di parlare a Targoff o agli altri, in quanto non si trovavano nelle immediate vicinanze. E d’altra parte non osarono spostarsi per raggiungerli, perché sarebbero state legnate.

La sera, al ritorno nel recinto, Burton raccontò ai suoi quello che era successo.

— È più che probabile che Targoff non mi crederà. Ci crederà delle spie. Anche se non ne è sicuro, non può permettersi di correre rischi. Così siamo nei pasticci. È un vero peccato che sia andata così. Per questa notte niente fuga, dunque.

Per il momento non accadde nulla di spiacevole. Quando Burton e Frigate fecero per parlare agli israeliani, questi si allontanarono. Spuntarono le stelle, e il recinto fu inondato da una luce intensa come quella della luna piena sulla Terra.

I prigionieri rimasero nelle baracche a parlare a bassa voce, stretti l’uno contro l’altro: malgrado l’estrema stanchezza non riuscivano a prendere sonno. Le guardie, pur non potendo né vedere né sentire gli uomini chiusi nelle capanne, dovevano aver percepito la tensione. Camminavano avanti e indietro sulla passerella, si fermavano a scambiare qualche parola quando si incrociavano, e scrutavano l’interno del recinto alla luce delle stelle e delle torce di resina.

— Targoff non tenterà nulla finché non piove — disse Burton. Ordinò a Frigate di fare il primo turno di guardia, e a Robert Spruce il secondo; egli poi avrebbe fatto il terzo. Si sdraiò sul suo mucchio di foglie, e senza prestare orecchio al mormorio di voci e al movimento degli uomini si addormentò.

Quando Spruce lo scosse gli sembrò di avere appena chiuso gli occhi. Si alzò di botto, sbadigliò, si stirò. Gli altri erano già svegli. Poco dopo si formò la prima nube, e in dieci minuti le stelle erano tutte coperte. Da sopra le montagne si udì brontolare un tuono, e il primo lampo squarciò il cielo.

Un fulmine cadde nelle vicinanze. Alla sua luce Burton vide che le guardie si erano raccolte sotto il basamento delle garitte sopraelevate che si trovavano ad ogni angolo della passerella. Erano imbacuccate nelle salviette per ripararsi dal freddo e dalla pioggia.

Burton strisciò fuori dalla sua baracca e si diresse carponi alla successiva. Targoff era in piedi appena dietro la porta. Burton si alzò e gli chiese: — Il piano vale ancora?

— Sai benissimo che non è così — rispose Targoff. Un fulmine illuminò il suo volto contorto dall’ira. — Giuda!

Fece un passo avanti, spalleggiato da una dozzina di uomini. Burton non attese altro e passò all’attacco. Ma mentre stava per scagliarsi contro l’israeliano udì uno strano rumore. Si fermò e guardò verso l’esterno. Un altro lampo mostrò una guardia accasciata bocconi sull’erba, sotto una passerella.

Targoff, quando Burton si era girato, aveva abbassato i pugni. — Cosa c’è, Burton? — chiese.

— Aspetta — rispose l’inglese. Come Targoff, non sapeva che cosa stesse succedendo, ma qualsiasi imprevisto poteva risultare a suo vantaggio.

Un lampo illuminò Kazz, accucciato sulla passerella di legno. Impugnava un’enorme ascia di pietra e stava prendendo di mira un gruppo di guardie riunite nell’angolo. Un altro lampo. Due guardie erano crollate. Buio. Al successivo lampo un’altra era caduta, e le due rimaste fuggivano in direzioni opposte lungo la passerella.

Alla luce di un altro fulmine, caduto molto vicino, si vide che le altre guardie avevano finalmente capito quel che stava accadendo: ora correvano sulla passerella, gridando e agitando le lance.

Kazz, senza curarsi di loro, calò nel recinto una lunga scala di bambù, e subito dopo buttò giù un mucchio di lance. Al lampo successivo si vide che stava avanzando verso le guardie più vicine.

Burton afferrò una lancia e volò su per la scala. Gli altri, compreso Targoff, lo seguirono. Il combattimento fu breve e cruento. Le guardie che si trovavano sulla passerella furono trafitte o colpite a morte, e rimasero solo quelle nelle garitte. La scala fu portata all’altra estremità del recinto e appoggiata al cancello. Due minuti dopo, gli uomini si erano arrampicati calando dall’altra parte, e avevano aperto il cancello. Burton ebbe per la prima volta l’occasione di parlare a Kazz.

— Credevo che ci avessi rinnegati.

— No. Non io, Kazz — rispose il Neanderthal in tono di rimprovero. — Sai che ti voglio bene, Burton-naq. Tu sei mio amico, mio capo. Io finto di passare a tuoi nemici perché era unica cosa intelligente da fare. Mi meraviglio che non hai fatto anche tu così: eppure non sei sciocco.

— Certo — replicò Burton. — Ma non me la sono sentita di uccidere quegli schiavi.

Alla luce di un fulmine Burton vide che Kazz si stringeva nelle spalle.

— Io non preoccupato — disse Kazz. — Non conoscere quelli. Poi tu sentito Goering: detto che quelli morire comunque.

— È stata un’ottima cosa che tu abbia scelto questa notte per salvarci — osservò Burton. Non ne spiegò il motivo a Kazz per non confondergli le idee. Inoltre c’erano cose più importanti da fare.

— Questa notte molto buona per questo — replicò Kazz. — Avvenuta grande battaglia. Tullo e Goering ubriacati e litigato, poi cominciato a combattere. Anche loro uomini combattere. Mentre uccidere a vicenda, arrivati invasori. Quegli uomini scuri oltre Fiume… come dici tu? Onondaga, ecco. Loro imbarcazioni giunte prima di pioggia. Loro fatta incursione per rubare schiavi. O per chissà cosa diavolo. Così io pensato: questo è momento per mettere in pratica mio piano e liberare Burton-naq.

D’improvviso, com’era iniziata, la pioggia cessò. Burton udì grida e urla provenire da lontano, in direzione del Fiume. Lungo entrambi gli argini rullavano i tamburi. Disse a Targoff: — Possiamo cercare di fuggire, e probabilmente non ci sarà difficile; oppure possiamo sferrare un attacco.

— Io intendo sterminare gli animali che ci hanno fatto schiavi — replicò Targoff. — Ci sono altri recinti qui intorno. Ho mandato degli uomini per farne aprire i cancelli. Gli altri sono troppo lontani perché li possiamo raggiungere in fretta: sono collocati a intervalli di ottocento metri.

Il fortino in cui si ritiravano le guardie fuori servizio era stato preso ormai d’assalto. Gli schiavi si erano armati, dirigendosi là donde proveniva il rumore della battaglia. Gli uomini di Burton si trovavano sul fianco destro. Non avevano percorso ancora ottocento metri che si imbatterono in morti e feriti, in parte Onondaga e in parte bianchi.

Malgrado la forte pioggia era scoppiato un grosso incendio. Alla sua stessa luce, che aumentava sempre più, videro che le fiamme provenivano dalla «reggia». Sullo sfondo di fuoco si profilavano delle sagome: i fuggitivi cercavano di attraversare la pianura. D’improvviso si staccò un gruppo che prese a correre in direzione di Burton, inseguito dagli invasori che lanciavano grida di giubilo.

— Ecco Goering — disse Frigate. — Il suo adipe non gli gioverà per fuggire, questo è certo.

Indicò un punto, e Burton vide Goering che correva con tutte le forze, ma rimaneva sempre più indietro. — Non voglio che gli Indiani abbiano l’onore di ucciderlo — esclamò Frigate. — È nostro dovere nei confronti di Alice che lo prendiamo noi.

Campbell, con le sue gambe lunghe, era in testa, e Burton scagliò la lancia contro di lui. Allo scozzese dovette sembrare che l’arma sbucasse dalle tenebre provenendo dal nulla. Tentò di scansarla ma era troppo tardi. La punta di selce s’infilò nella carne tra la spalla sinistra e il petto, e Campbell cadde sul fianco. Un attimo dopo cercò di rialzarsi ma fu di nuovo buttato a terra da Burton con un calcio.

Roteò gli occhi, e il sangue gli sgorgò dalla bocca. Indicò un profondo taglio che aveva sul fianco, proprio sotto le costole, e balbettò: — Me l’ha fatta… la tua donna… Wilfreda. Ma io l’ho uccisa, quella cagna…

Burton voleva chiedergli dov’era Alice, ma Kazz, gridando qualcosa nella sua lingua natia, abbatté la clava sulla testa dello scozzese. Burton raccolse la lancia e corse dietro a Kazz. — Non uccidere Goering! — urlò. — Lascialo a me!

Kazz non l’udì perché stava lottando con due Onondaga. Burton vide Alice passargli accanto di corsa. Si protese per afferrarla, e la fece girare su se stessa. Alice strillò e prese a dibattersi. Burton gridò a sua volta, e Alice, riconoscendolo improvvisamente, si abbandonò tra le sue braccia mettendosi a piangere. Burton avrebbe voluto cercare di consolarla, ma temeva che così Goering gli sarebbe sfuggito. La spinse da parte e corse verso il tedesco, scagliandogli una lancia. Lo prese di striscio al capo: Goering gridò, smise di correre, e fece per cercare l’arma. Ma ormai Burton gli era addosso. Caddero entrambi a terra rotolando, e ognuno cercava di strangolare l’altro.

Qualcosa colpì Burton dietro la testa. Intontito, mollò la presa. Goering lo inchiodò a terra, poi si tuffò verso la lancia. L’afferrò, si rimise in piedi, e mosse verso Burton. Questi cercò di rialzarsi, ma le sue ginocchia sembravano di ricotta, e ogni cosa gli girava intorno. Alice afferrò da dietro le gambe di Goering: questi barcollò e cadde in avanti. Burton fece un altro sforzo per rialzarsi, ma riuscì solo a traballare per un passo o due e poi crollò sopra Goering. Di nuovo rotolarono uno sull’altro, e Goering cercò di strozzare Burton. Poi una lancia strisciò sulla spalla di Burton, bruciandogli la pelle, e la sua punta di selce si conficcò nella gola di Goering.

Burton si alzò, estrasse la lancia, e la immerse nel ventre del grassone. Goering cercò di mettersi a sedere, ma ricadde all’indietro e morì. Alice si lasciò cadere a terra e si mise a piangere.

Quando giunse l’alba la battaglia era finita. Ormai tutti gli schiavi erano usciti dai recinti che erano stati stritolati dai due gruppi di Onondaga e schiavi, come pula tra macine di mulino. Gli Indiani, che probabilmente avevano compiuto l’incursione solo per saccheggiare e procurarsi altri schiavi con i loro graal, si ritirarono. Si imbarcarono su piroghe e canoe e pagaiarono attraverso il lago. Nessuno ebbe voglia di inseguirli.

CAPITOLO DICIASSETTESIMO

I giorni successivi furono pieni di occupazioni. Una stima approssimativa indicò che almeno la metà dei ventimila abitanti del piccolo regno di Goering erano stati uccisi, o gravemente feriti, o rapiti dagli Onondaga, oppure erano fuggiti. Tullo Ostilio si era dileguato. I superstiti nominarono un governo provvisorio. Targoff, Burton, Spruce, Ruach, e due altri, formarono un comitato esecutivo munito di poteri notevoli, benché temporanei. John de Greystock era scomparso. Era stato visto all’inizio della battaglia, e poi nessuno l’aveva trovato più.

Alice Hargreaves si trasferì nella capanna di Burton senza precisarne le ragioni.

Più tardi spiegò: — Frigate mi ha detto che se tutto questo pianeta è simile alla zona in cui siamo (e non c’è motivo di non crederlo) allora il Fiume dev’essere lungo almeno trentamila chilometri. Incredibile, ma anche la nostra resurrezione e ogni cosa che riguarda questo mondo sono incredibili. Inoltre ci devono essere dai trentacinque ai trentasette miliardi di persone che vivono lungo il fiume. Che probabilità avrei di ritrovare quello che sulla Terra fu mio marito? Infine ti amo. Sì, so bene di non averlo dimostrato. Ma qualcosa è cambiato in me. Forse la causa sta in tutto quello che ho passato. Non credo che sulla Terra avrei potuto amarti. Forse sarei stata affascinata da te, ma anche disgustata, o addirittura spaventata. Là non avrei potuto essere una buona moglie per te. Qui sì. O meglio, potrò essere per te una buona compagna, dal momento che non sembra esserci alcuna autorità o istituzione religiosa che possa sposarci. Il fatto che io accetti con tutta tranquillità di vivere con un uomo che non è mio marito ti dimostra quanto io sia cambiata! Bene, questo è tutto.

— Non viviamo più nell’epoca vittoriana — replicò Burton. — Come potremmo chiamare l’era attuale? L’Epoca della Mescolanza? Il Misto Evo? Alla fine diverrà la Civiltà del Fiume, il Mondo Fluviale; o meglio, molte civiltà del Fiume.

— Purché duri — commentò Alice. — È iniziata di colpo, e può avere una fine altrettanto improvvisa e inattesa.

Burton pensò che il Fiume verde e la pianura coperta d’erba e le colline ricche di boschi e le montagne invalicabili non sembravano certo la visione evanescente di Shakespeare. Erano del tutto reali, reali come gli uomini che si stavano dirigendo verso di lui: Frigate, Monat, Kazz, Ruach. Burton uscì dalla capanna e li salutò.

Kazz prese la parola. — Molto tempo fa, prima che io parlassi bene inglese, vidi una cosa. Cercai di spiegartelo, ma non riuscii a farmi intendere. Vidi un uomo che non aveva questo sulla fronte.

Indicò il centro della propria fronte, e ripeté il gesto verso gli altri.

— So — continuò — che tu non puoi vederlo. E neanche Pete, né Monat. Nessun altro può vederlo. Ma io l’ho sempre visto sulla fronte di tutti, tranne di quell’uomo che tanto tempo fa cercai di fermare. Poi un giorno vidi una donna che non l’aveva, ma non te ne dissi nulla. E ora ho visto una terza persona che ne era priva.

— Kazz vuole dire — spiegò Monat — che sulla fronte di tutti quanti noi, egli scorge dei segni, forse delle lettere. Li può vedere solo in piena luce del sole, e sotto un determinato angolo. E tutte le persone che ha incontrato avevano questi segni, tranne le tre che ha detto.

— Dev’essere in grado di captare una banda dello spettro più larga di quella che riceviamo noi — disse Frigate. — Evidentemente gli Ignoti che ci hanno messo questo marchio da bestiame, o come lo volete chiamare, non conoscevano la particolare caratteristica della specie di Kazz. Il che dimostra che non sono onniscienti.

— È ovvio — replicò Burton. — E neppure infallibili. Altrimenti io non mi sarei mai svegliato in quel posto prima di risorgere. Ma comunque, chi è questa persona che non porta il segno sulla fronte?

Burton parlò con voce tranquilla, ma il cuore gli batteva in fretta. Se Kazz aveva ragione poteva aver scoperto un emissario degli esseri che avevano riportato in vita l’intera umanità. Forse Costoro erano dèi in incognito?

— Robert Spruce! — rispose Frigate.

— Prima di saltare ad una conclusione, non dimenticate che tale mancanza può essere accidentale — osservò Monat.

— Lo scopriremo — disse Burton con aria sinistra. — Ma perché questi segni? Perché dovremmo essere marchiati?

— Probabilmente a scopo di identificazione o di classifica — rispose Monat. — Nessuno lo sa, tranne quelli che ci hanno messi qui.

— Andiamo a parlare a Spruce — disse Burton.

— Prima dobbiamo trovarlo — replicò Frigate. — Kazz ha commesso l’errore di confidare a Spruce che è in grado di vedere i segni. Questo avvenne stamane, a colazione. Io non c’ero, ma quelli che erano presenti dissero che Spruce divenne pallido. Pochi minuti dopo si assentò con una scusa e non fu più visto. Abbiamo mandato delle squadre di ricerca su e giù per il Fiume, e sull’altra riva, e anche sulle colline.

— La sua fuga è un’ammissione di colpevolezza — dichiarò Burton. Si sentiva imbestialire. L’umanità era dunque un gregge marchiato per qualche strano scopo?

Quel pomeriggio i tamburi segnalarono che Spruce era stato catturato. Tre ore dopo si trovava davanti al tavolo del Consiglio, nella sala riunioni ricostruita dopo l’incendio. L’interrogatorio venne condotto a porte chiuse, perché i consiglieri sentivano che la faccenda sarebbe stata sistemata meglio senza pubblico. Però Monat, Kazz, e Frigate, erano presenti.

— Tanto vale che ti dica subito — iniziò Burton — che abbiamo deciso di ricorrere a qualunque mezzo pur di strapparti la verità. Usare la tortura è contrario ai princìpi di tutti coloro che siedono a questo tavolo. Noi proviamo disprezzo e ripugnanza per chi fa ricorso alla tortura. Ma siamo sicuri che questo è un caso in cui i princìpi vanno accantonati.

— I princìpi non vanno mai accantonati — replicò Spruce con voce ferma. — Il fine non giustifica mai i mezzi. Neppure se restar fedeli ai princìpi significa essere sconfitti, morire, o rimanere nell’ignoranza.

— La posta in gioco è troppo alta — disse Targoff. — Io, che sono stato vittima di uomini senza princìpi, e Ruach, che fu torturato parecchie volte, siamo d’accordo con gli altri: se vi saremo costretti useremo su di te il fuoco e il coltello. È necessario che scopriamo la verità. E ora dimmi: sei uno degli autori di questa resurrezione?

— Se mi torturerete non sarete migliori di Goering e di quelli del suo stampo — rispose Spruce. La sua voce andava facendosi meno ferma. — Anzi, sarete peggiori, perché volete costringervi ad imitarlo per ottenere qualcosa che forse neppure esiste. O che, se esiste, può non valere tale prezzo.

— Dicci la verità — replicò Targoff. — Non mentire. Sappiamo che sei un agente, e forse uno dei diretti responsabili della resurrezione.

— Là su quella pietra arde un fuoco — disse Burton. — Se non ti decidi a parlare subito… be’, la cottura che subirai sarà la più piccola delle tue sofferenze. Io sono un’autorità sui sistemi di tortura cinesi e arabi. Ti assicuro che questi popoli conoscevano dei metodi assai raffinati per cavar fuori la verità. E io non ho alcuno scrupolo a mettere in pratica le mie cognizioni.

Spruce, pallido e sudato, replicò: — Facendo così potresti privarti della vita eterna. O almeno, questo ti riporterebbe molto indietro nel tuo viaggio e allontanerebbe da te la meta finale.

— Cosa vuoi dire? — esclamò Burton.

Spruce non gli rispose, e invece mormorò: — Non possiamo sopportare il dolore. Siamo troppo sensibili.

— Allora hai intenzione di parlare? — chiese Targoff.

— Perfino il pensiero dell’autodistruzione è doloroso, e ad essa non bisogna mai fare ricorso se non in caso di necessità assoluta — bofonchiò Spruce. — Anche sapendo che dopo si rivivrà ancora.

— Mettetelo sul fuoco — ordinò Targoff ai due uomini che tenevano Spruce.

Monat s’intromise. — Un momento solo. Spruce, la scienza del mio popolo era molto più avanzata di quella dei terrestri, per cui io sono più adatto a formulare un’ipotesi probabile. Forse possiamo risparmiarti il dolore del fuoco, e il dolore di tradire la tua missione: basta che tu confermi quello che dirò. In questo modo non ci sarà da parte tua un vero e proprio tradimento.

— Ti ascolto — replicò Spruce.

— Secondo la mia ipotesi tu sei un terrestre, e appartieni a un’epoca situata in un lontano futuro rispetto all’anno 2008. Devi essere il discendente di uno dei pochi che sopravvissero alla morte data dal mio proiettore. A giudicare dalla tecnologia e dall’energia necessarie per rimodellare la superficie di questo pianeta in un unico enorme Fiume, la tua epoca dovrebbe essere collocata ben più in là del ventunesimo secolo. Diciamo nel cinquantesimo?

Spruce diede un’occhiata al fuoco, poi rispose: — Aggiungi altri duemila anni.

— Se le dimensioni di questo pianeta sono all’incirca quelle della Terra, il numero di abitanti non può essere di molto maggiore. Dove sono allora gli altri? I nati morti, i bambini morti prima del quinto anno, i dementi e gli idioti, e quelli che vissero dopo il ventesimo secolo?

— Sono in un altro luogo — rispose Spruce. Diede ancora un’occhiata al fuoco e serrò le labbra.

— Il mio popolo — continuò Monat — era convinto che prima o poi avrebbe potuto esplorare il passato. Senza entrare nei dettagli, questa teoria sosteneva la possibilità di vedere, e quindi registrare, i fatti già avvenuti. I viaggi nel tempo, naturalmente, sono pura fantasia. Ma se la tua civiltà fosse in grado di realizzare quello che per noi era solo una teoria? Se voi aveste registrato ogni essere umano mai vissuto? E scovato questo pianeta e costruito questa valle? Da qualche parte, forse sotto la vera superficie del pianeta stesso, ci sarebbero dei convertitori energia-materia, alimentati ad esempio dal calore del nucleo allo stato di plasma, nonché le registrazioni occorrenti per ricreare i corpi. Mediante tecniche biologiche i corpi verrebbero ringiovaniti, occhi, arti e così via ripristinati, e gli eventuali difetti fisici corretti.

«Dopo di che — continuò Monat — avete fatto le registrazioni dei corpi testé creati, immagazzinandole tutte in un archivio, e avete distrutto i corpi ricreandoli poi mediante lo stesso metallo conduttore che serve a riempire i graal. Questo potrebbe essere sepolto sotto terra. Secondo tale ipotesi, dunque, la resurrezione si spiega senza dover ricorrere al soprannaturale. Ma la questione fondamentale è: perché?

— Se fosse in tuo potere fare questo, non pensi che sarebbe anche un dovere etico? — ribatté Spruce.

— Sì, ma farei risorgere solo chi ne fosse degno.

— E se gli altri non accertassero i tuoi criteri? — obiettò Spruce. — Ritieni davvero di essere abbastanza saggio e buono da poter giudicare? Vorresti innalzarti al livello di Dio? No, tutti devono avere una seconda possibilità, per quanto bestiali o egoisti o meschini o stupidi siano stati. Dopo di che dipenderà da loro…

Spruce s’interruppe, come se si fosse pentito del suo sfogo e avesse deciso di non aggiungere altro.

— Inoltre — disse Monat — voi volevate studiare l’umanità del passato, e registrare tutte le lingue usate nel corso dei tempi, le usanze, i sistemi filosofici, la vita degli uomini importanti. Per far questo avevate bisogno di agenti, che si fingessero dei risorti e si mescolassero al Popolo del Fiume effettuando indagini, osservando, esaminando. Quanto tempo richiederà questo studio? Mille anni? Due? Dieci? Un milione? E per quanto riguarda la nostra collocazione? Dobbiamo stare qui per sempre?

— Starete qui per tutto il tempo necessario a riabilitarvi — gridò Spruce. — Poi…

Chiuse la bocca, lanciò uno sguardo torvo, quindi parlò di nuovo. — I continui contatti con voi fanno sì che anche il più resistente di noi assuma le vostre caratteristiche. Anche noi dobbiamo trascorrere un periodo di riabilitazione. Io mi sento già impuro…

— Mettetelo sul fuoco — disse Targoff. — Gli tireremo fuori tutta la verità.

— No, non potete! — gridò Spruce. — Avrei dovuto farlo da tanto tempo! Io non…

Cadde a terra, e la sua pelle divenne d’un grigio bluastro. Il dottor Steinborg, uno dei Consiglieri, lo esaminò, ma era chiaro per tutti che Spruce era morto.

Targoff disse: — Meglio che lo porti via subito, dottore. Gli faccia l’autopsia. Attenderemo qui il suo referto.

— Con coltelli di pietra e senza prodotti chimici né microscopio, che razza di referto volete che presenti? — replicò Steinborg. — Be’, farò del mio meglio.

Il cadavere fu portato via. Burton disse: — Sono contento che non ci abbia costretti ad ammettere che il nostro era tutto un bluff. Se avesse tenuto la bocca chiusa ci avrebbe battuti.

— Allora non avevate davvero intenzione di torturarlo? — chiese Frigate. — Speravo proprio che non avreste messo in pratica le vostre minacce. Se l’aveste fatto, io avevo già deciso di andarmene immediatamente e non rivedere più nessuno di voi.

— Certo che non intendevamo farlo — disse Ruach. — Spruce avrebbe avuto ragione: non ci saremmo comportati meglio di Goering. Ma c’erano altri sistemi. L’ipnotismo, per esempio: Burton, Monat, e Steinborg, erano esperti in tale campo.

— Il guaio — osservò Targoff — è che non sappiamo ancora se ci ha detto la verità. In effetti può averci mentito. Monat ha formulato delle ipotesi, e se queste erano sbagliate, Spruce, dicendo di sì a Monat, ci avrebbe fatti andare fuori strada. Secondo me non possiamo essere del tutto sicuri.

Gli altri furono d’accordo. La possibilità di scoprire un altro agente mediante l’assenza di segni sulla fronte era svanita. Ora che Essi, chiunque fossero, conoscevano la capacità di Kazz di vedere tali segni, avrebbero preso opportune misure per evitare che gli agenti fossero scoperti.

Tre ore dopo, Steinborg fu di ritorno. — Non c’era nulla che lo distinguesse da un altro esemplare di Homo sapiens. Tranne questo piccolo congegno.

Teneva in mano una sferetta nera e lucente, grande all’incirca come una capocchia di fiammifero.

— L’ho trovato all’esterno dei lobi frontali. Era collegato ad alcuni nervi con reofori così sottili che riuscii a scorgerli soltanto sotto un certo angolo, quando la luce li colpiva. Ritengo che Spruce si sia ucciso mediante questo congegno, e che l’abbia fatto pensando letteralmente di morire. In qualche modo questa sferetta traduce in realtà la volontà di morte. Forse reagisce al pensiero liberando un veleno che ora non ho la possibilità di analizzare. — Terminato il referto, Steinborg fece passare di mano in mano la sfera.

CAPITOLO DICIOTTESIMO

Erano passati trenta giorni. Burton, Frigate, Ruach, e Kazz, stavano tornando da una spedizione su per il Fiume.

Mancava pochissimo all’alba. La fredda e densa nebbia che nell’ultima parte della notte si era alzata dal Fiume fino a due metri circa, li avvolgeva completamente. La visibilità era di due o tre passi, ma Burton, in piedi sulla prua dell’imbarcazione, sapeva che non dovevano essere distanti dalla spiaggia occidentale. L’acqua scorreva con minor rapidità, su fondali più bassi. Avevano proprio allora fatto un’accostata a sinistra, dal centro del Fiume.

Se i calcoli di Burton erano esatti, da quelle parti dovevano esserci le rovine della «reggia» di Goering. Da un momento all’altro Burton si aspettava di vedere, al di sopra delle acque cupe, una macchia ancor più scura: la spiaggia della regione che ormai era divenuta la sua patria, la sua casa. «Patria», per Burton, aveva sempre significato un luogo da cui ripartire, un posto per riposare, una fortezza provvisoria in cui scrivere un libro sull’ultima spedizione, un rifugio in cui guarire dalle ferite recenti, una torretta di comando da cui cercare nuove terre da esplorare.

Fu così che Burton, appena due settimane dopo la morte di Spruce, sentì il bisogno di recarsi in un posto diverso da quello in cui si trovava. Era corsa voce che fosse stato scoperto del rame sulla riva occidentale del Fiume, un centocinquanta chilometri a monte. Era un tratto di spiaggia lungo neanche venti chilometri, abitato da Sarmati del quinto secolo a.C. e da Frisi del tredicesimo d.C.

Burton riteneva che la notizia fosse infondata, ma era un’ottima scusa per una spedizione. Ed era partito, senza badare ad Alice che lo supplicava di portarla con lui.

Ed ora era quasi arrivato a casa, dopo un mese e dopo molte avventure, non tutte gradevoli. La notizia relativa al giacimento di rame non era completamente infondata. Il rame c’era, ma solo in piccoli quantitativi. Così i quattro uomini si erano reimbarcati per il viaggio di ritorno, reso più facile dalla corrente favorevole e dal vento che non cessava mai di soffiare. Di giorno navigavano, fermandosi all’ora dei pasti dove c’erano tribù accoglienti che non avevano difficoltà ad acconsentire a stranieri di usare le loro pietre-fungo. Di notte dormivano presso popolazioni altrettanto amichevoli, oppure, se si trovavano in acque ostili, continuavano nell’oscurità la navigazione.

L’ultimo tratto del loro viaggio venne compiuto di notte. Prima di arrivare a casa dovettero percorrere un tratto del Fiume su una sponda del quale vivevano dei Mohawk del diciottesimo secolo, e sull’altra dei Cartaginesi del terzo secolo a.C; ed entrambe le popolazioni erano assetate di schiavi. Ma essendo passati via al riparo della nebbia, ormai erano sani e salvi.

Di colpo Burton esclamò: — Ecco l’argine! Pete, albero abbasso! Kazz, Lev, scia! E svelti!

Pochi istanti dopo, sbarcavano e trascinavano completamente in secco la leggera imbarcazione sul lieve pendio della spiaggia. Adesso che la nebbia si era dissolta poterono vedere il cielo sbiadito sopra le montagne orientali.

— Punto stimato perfetto! — esclamò Burton. — Siamo a dieci passi oltre la pietra-fungo vicina alle rovine!

Guardò attentamente verso le capanne di bambù sparse sulla pianura, e le costruzioni che spiccavano in mezzo all’erba alta, e gli alberi giganti sulle colline.

Neppure una persona era in vista. La valle sembrava addormentata.

Disse: — Non vi sembra strano che nessuno si sia ancora alzato? O che le sentinelle non ci abbiano dato il chi va là?

Frigate indicò la torre di guardia alla loro destra.

Burton imprecò e disse: — Stanno dormendo, perdio, o hanno disertato!

Ma pur dicendo così sapeva che non si trattava di abbandono del posto da parte delle sentinelle. Non ne aveva parlato agli altri, ma appena messo piede sulla spiaggia si era convinto che qualcosa non funzionava. Si mise a correre per la pianura verso la capanna in cui abitava con Alice.

Alice stava dormendo sul letto di bambù ed erba. Solo la testa era visibile, poiché si era avvolta in un buon numero di salviette assicurate l’una all’altra mediante le piastrine magnetiche. Burton le strappò via, si inginocchiò accanto al basso letto, e mise Alice a sedere. Il suo capo ciondolò in avanti, e le braccia oscillarono inerti. Ma colorito e respirazione erano normali.

Burton la chiamò tre volte per nome, ma Alice continuava a dormire. Le schiaffeggiò con violenza le guance, e su di esse apparvero delle chiazze rosse. Le palpebre vibrarono, poi la donna ripiombò nel suo sonno profondo.

In quel momento comparvero Frigate e Ruach. — Abbiamo guardato in qualcuna delle altre capanne — disse Frigate. — Dormono tutti. Ho cercato di svegliarne uno o due, ma sembra che abbiano perso i sensi. Cosa sarà successo?

— Secondo te — rispose Burton — chi avrebbe il potere o la necessità di fare questo? Spruce! Spruce e i suoi simili, chiunque Essi siano!

— Perché? — chiese Frigate con voce spaventata.

— Cercavano me! Devono essere venuti qui protetti dalla nebbia e aver fatto cadere addormentati tutti quanti!

— Un gas narcotico potrebbe essere più che sufficiente — disse Ruach. — Benché sia probabile che Essi, con tutti i Loro poteri, dispongano di congegni che neppure riusciremmo a immaginare.

— Cercavano me! — ripeté Burton gridando.

— Il che significa, se è vero, che possono tornare questa notte — osservò Frigate. — Ma perché dovrebbero cercare te?

Ruach rispose per Burton. — Perché, per quel che ne sappiamo è l’unico ad essersi svegliato nella fase pre-resurrezione. Per quale motivo ciò sia accaduto è un mistero, ma è evidente che qualcosa non funzionò. Può darsi che sia un mistero anche per Loro. Riterrei che Essi abbiano esaminato il problema decidendo alla fine di venire qui, forse per rapire Burton a scopo di osservazione, o con qualche altro sinistro intendimento.

— Può darsi che volessero cancellare dalla mia memoria tutto ciò che ho visto in quel posto dove fluttuavano i corpi — disse Burton. — Una simile operazione non dovrebbe essere impossibile per la Loro scienza.

— Ma tu hai raccontato il fatto a molte persone — osservò Frigate — Non è possibile che Essi le rintraccino tutte per togliere dalla loro mente il ricordo del tuo racconto.

— Non sarebbe necessario. Quanti mi hanno creduto? Talvolta ne dubito anch’io.

— È inutile stare ad arzigogolare — disse Ruach. — Adesso cosa facciamo?

Alice strillò: — Richard! — Essi si girarono e videro che la donna si era messa a sedere e li fissava.

Per alcuni minuti cercarono di farle capire cos’era accaduto. Alla fine Alice esclamò: — Ecco perché la nebbia aveva coperto anche la pianura! Pensai che era strano, ma naturalmente non potevo sapere cosa stava succedendo in realtà.

— Prendete i vostri graal — ordinò Burton. — Mettete nei vostri sacchi tutto quello che volete portar via. Partiremo subito. Voglio essere lontano da qui prima che gli altri si sveglino.

Gli occhi di Alice, già grandi, si spalancarono ancora di più. — Dove andiamo?

— In qualche altro posto che non sia questo. Non mi piace scappare, ma non posso mettermi a lottare con esseri come quelli, almeno finché Essi sanno dove mi trovo. Comunque ti dirò quali sono le mie intenzioni. Voglio trovare la fine del Fiume. Avrà pure una sorgente e una foce, e dev’essere possibile a un uomo arrivarci. Se c’è un modo lo troverò, ci puoi scommettere l’anima! Nel frattempo Essi mi cercheranno da un’altra parte. Almeno lo spero. Il fatto che non mi abbiano trovato qui m’induce a credere che non possono localizzare una persona sull’istante.

— Indicò i segni invisibili sulla propria fronte. — Ci hanno marchiati come bestiame, sì, ma anche in mezzo a una mandria ci sono degli individui che non seguono il branco. E noi siamo animali dotati di cervello.

Si rivolse agli altri. — Se vorrete venire con me sarete più che benvenuti. Anzi, sarà per me un onore.

— Vado a prendere Monat — disse Kazz. — Gli dispiacerebbe che lo lasciassimo solo.

Burton fece una smorfia. — Buon vecchio Monat! — esclamò. — Odio dovergli fare questo, ma non possiamo assolutamente portarlo con noi. È troppo riconoscibile. Gli agenti non avrebbero alcuna difficoltà a trovare uno come lui. Mi dispiace, ma non è possibile.

Delle lacrime apparvero negli occhi di Kazz, e poi gli scesero sugli zigomi sporgenti. Con voce soffocata disse: — Burton-naq, allora non posso neanch’io. Anch’io sono troppo diverso da voi.

Burton sentì gli occhi inumidirsi. — Affronteremo questo rischio — replicò. — Dopotutto, ci dev’essere un mucchio di tuoi simili in giro. Durante la nostra spedizione ne abbiamo visti trenta o più.

— Per il momento nessuna femmina — osservò Kazz con tristezza. Poi sorrise. — Forse ne troveremo una risalendo il Fiume.

Altrettanto rapidamente il suo sorriso scomparve. — No, maledizione, io non vengo! Non posso dare questo dolore a Monat. Gli altri giudicavano lui e me orribili a vedersi, e così siamo diventati buoni amici. Non è il mio naq, ma poco ci manca. Perciò rimango.

Si avvicinò a Burton, lo abbracciò con una stretta che fece uscire di colpo tutta l’aria dai polmoni di Burton, si staccò da lui, strinse le mani agli altri facendoli sobbalzare, poi si voltò allontanandosi col suo passo strascicato.

Ruach, tenendosi la mano semiparalizzata, disse: — Ti stai cacciando in una impresa balorda, Burton. Non capisci che potresti navigare su questo Fiume per mille anni ed essere ancora a milioni di chilometri dalla fine? Rimango anch’io. La mia gente ha bisogno di me. Inoltre Spruce ha fatto capire che dovremmo cercare di raggiungere la perfezione spirituale, e non combattere Chi ci ha dato la possibilità di farlo.

I candidi denti di Burton lampeggiarono nel volto abbronzato. Egli agitò il graal come se fosse un’arma.

— Non ho chiesto io di essere messo qui, come non ho chiesto di nascere sulla Terra. Non intendo inchinarmi alle imposizioni altrui! Voglio trovare la fine del Fiume. E se non ci riuscirò, almeno strada facendo mi sarò divertito e avrò imparato molte cose!

Ormai la gente cominciava a uscire dalle capanne, inciampando, sbadigliando, soffregandosi le palpebre appesantite. Ruach non prestò loro attenzione e rimase a osservare l’imbarcazione che faceva vela stringendo il vento, e si allontanava verso il centro del fiume dirigendosi a monte. Burton reggeva la barra: si voltò una volta agitando il graal, e il sole colpì il metallo facendone scaturire numerosi raggi brillanti.

Ruach pensò che Burton era senz’altro contento di aver preso quella decisione. Ora poteva sfuggire alle pesanti responsabilità inerenti al governo di quel piccolo stato, e avrebbe fatto ciò che voleva. Anzi, aveva già iniziato la più grande di tutte le sue avventure.

— Forse è meglio così — mormorò Ruach a se stesso. — Un uomo, se desidera davvero la salvezza, può trovarla anche viaggiando, così come la troverebbe rimanendo a casa. Dipende da lui. Nel frattempo io coltiverò il mio orticello, come quel tale personaggio di Voltaire. Come si chiamava? I ricordi della Terra cominciano a svanirmi.

Si interruppe, seguendo con lo sguardo Burton, non senza un certo rimpianto.

— Chissà che un giorno o l’altro non si imbatta in Voltaire.

Sospirò, poi sorrise.

— D’altra parte un giorno o l’altro Voltaire potrebbe imbattersi in me!

CAPITOLO DICIANNOVESIMO

— Hermann Goering, ti odio!

La voce echeggiò e poi si perse in lontananza, come se fosse stata un dente di ingranaggio entrato nel meccanismo del sogno di un altro, per uscirne subito dopo.

Sull’orlo crepuscolare del sonno, Richard Francis Burton capì che stava sognando. Ma non poteva reagire in alcun modo.

Il primo sogno tornò.

Le visioni erano indistinte, e si susseguivano l’una all’altra. Una fuggevole immagine di lui stesso nello sterminato archivio dei corpi fluttuanti; una rapida apparizione dei Custodi senza nome che lo scoprivano e lo facevano riaddormentare; poi una serie di sequenze del sogno che aveva fatto prima di risorgere in riva al Fiume.

Dio (un bell’uomo anziano, nei panni di un raffinato gentiluomo dell’epoca vittoriana) lo stava pungolando nelle costole con una verga di ferro, e gli ripeteva che egli era debitore per la carne.

— Che cosa? Quale carne? — chiese Burton, vagamente consapevole del fatto che stava borbottando nel sonno. Invece nel sogno non poteva udire le sue parole.

— Paga! - diceva Dio. Il suo volto si dissolse, poi si ricompose coi lineamenti di Burton.

Nel primo sogno, cinque anni prima, Dio non aveva risposto. Ora invece parlò. — Sciocco, fa’ in modo che la tua Resurrezione sia valsa la pena! Sono andato incontro a grandi spese e ad ancor più grandi dolori per dare una seconda possibilità a te e a tutti quegli altri disgraziati, meschini e buoni a nulla!

— Seconda possibilità per cosa? — chiese Burton. Aveva paura di quello che Dio avrebbe potuto rispondere, e fu assai sollevato vedendo che Dio Padre (solo ora Burton si accorse che un occhio di Jahvé-Odino mancava, e dall’orbita vuota brillavano le fiamme dell’inferno) non rispondeva. Era scomparso. No, non scomparso, ma trasformato in un’alta torre grigia, cilindrica, che si ergeva sopra le grigie nebbie attraverso le quali giungeva il ruggito del mare.

— Il Graal! — Burton vide di nuovo l’uomo che gli aveva parlato del Grande Graal. Costui era stato informato da un altro uomo, e questi da una donna, e la donna da… e così via. Il Grande Graal era una delle leggende narrate dai miliardi di persone che vivevano lungo il Fiume, quel Fiume che si attorcigliava come un serpente da un polo all’altro del pianeta, sgorgando dall’irraggiungibile e tuffandosi nell’inaccessibile.

Un uomo, o un subumano, aveva cercato di dirigersi al Polo Nord scalando le montagne, e prima di cadere aveva fatto in tempo a vedere il Grande Graal, la Torre Scura, il Castello Brumoso. Aveva inciampato, o era stato spinto. Urlando, era caduto a capofitto nel gelido mare al di sotto dello strato di nebbia, ed era morto. Quindi si era svegliato di nuovo accanto al Fiume.

L’uomo, o subumano che fosse, aveva narrato l’episodio, e la notizia si era diffusa lungo la valle del Fiume ad una velocità maggiore di quella di un’imbarcazione.

E così Richard Francis Burton, l’eterno pellegrino e giramondo, aveva avvertito l’irresistibile impulso di dare la scalata alle mura del Grande Graal. Voleva scoprire il segreto della resurrezione e di quel pianeta, poiché era convinto che gli Esseri che avevano modificato quel mondo avevano pure costruito la torre.

— Muori, Hermann Goering! Muori e lasciami in pace! — gridò qualcuno in tedesco.

Burton aprì gli occhi. Non vide altro che il fioco bagliore delle numerosissime stelle che proveniva dall’apertura praticata nel tetto della capanna.

Quando le sue retine si furono adattate al buio circostante poté scorgere Peter Frigate e Loghu che dormivano sulle loro stuoie, lungo la parete opposta. Girò la testa e vide la bianca salvietta, grande come una coperta, sotto alla quale dormiva Alice. Il suo volto, anch’esso bianco, era rivolto a lui, e la nera massa dei suoi capelli si spargeva per terra, accanto alla stuoia.

Quella sera, l’imbarcazione a un solo albero sulla quale Burton e gli altri tre avevano navigato lungo il Fiume era approdata a una spiaggia accogliente. Lo staterello di Sevieria era abitato in gran parte da inglesi del sedicesimo secolo, benché ne fosse capo un americano vissuto a cavallo del diciottesimo e del diciannovesimo. John Sevier, fondatore dello «stato perduto» di Franklin, divenuto poi il Tennessee, aveva dato il benvenuto a Burton e agli altri tre.

Sevier e la sua gente non praticavano la schiavitù, né avrebbero trattenuto un ospite più a lungo di quanto quello avesse desiderato. Sevier diede il permesso di caricare i graal per cibarsi; poi, essendo l’anniversario del Giorno della Resurrezione, invitò Burton e gli altri a una festicciola. Dopo di che li fece accompagnare alla foresteria.

Burton aveva sempre avuto il sonno leggero, e questa volta gli fu ancora più difficile addormentarsi. Prima che egli cedesse alla stanchezza, gli altri già da un pezzo respiravano profondamente o russavano. Dopo un sogno interminabile si era svegliato al suono della voce che si era intromessa nei suoi stessi sogni.

Hermann Goering, pensò Burton. Egli aveva ucciso Goering, ma questi doveva essere di nuovo vivo in qualche punto lungo il Fiume. E l’uomo che stava gemendo e gridando in una delle vicine capanne era forse uno che aveva sofferto a causa di Goering, sulla Terra o in quella valle?

Burton scostò la salvietta nera e si alzò con mossa agile, ma senza far rumore. Si avvolse intorno ai fianchi un gonnellino assicurandolo con le piastrine magnetiche, si strinse alla vita una cintura di pelle umana, e controllò che la guaina, di pelle umana anch’essa, contenesse il pugnale di selce. Prese una zagaglia (un corto manico di legno duro munito di punta di selce) e uscì dalla capanna.

Il cielo illune rifletteva una luce brillante come quella di una luna piena sulla Terra. Era acceso di enormi stelle di diverso colore e di pallidi ammassi di gas cosmico.

Le capanne della foresteria distavano due chilometri e mezzo dal Fiume, essendo state costruite sulla seconda fila di colline che cingevano la pianura. Erano sette, a locale unico, col tetto di foglie e le pareti di bambù. In lontananza, sotto gli enormi rami degli alberi del ferro o sotto pini e querce giganti, c’erano altre capanne. A un ottocento metri di distanza, in cima a un’alta collina, c’era un grande recinto circolare, chiamato familiarmente la «Casa Rotonda». Lì dormivano i governanti di Sevieria.

Lungo la riva del Fiume, a intervalli di ottocento metri, erano distribuite alte torri di bambù, dalle cui piattaforme le sentinelle vigilavano tutta la notte alla luce delle torce contro eventuali invasioni.

Burton, dopo aver dato un’attenta occhiata alle zone d’ombra sotto gli alberi, si avvicinò alla capanna dalla quale erano giunti i lamenti e le grida.

Scostò lo schermo d’erba. Attraverso la finestra aperta la luce delle stelle cadde sul volto del dormiente. Burton emise un fischio di sorpresa. La luce rivelava i capelli biondicci e i lineamenti volgari di un giovane che subito riconobbe.

Burton entrò lentamente, a piedi nudi. Il dormiente gemette, si coprì il volto con un braccio, e si girò dall’altra parte. Burton s’immobilizzò, poi riprese ad avanzare con passo felpato. Depose in terra la zagaglia, estrasse il pugnale, e ne appoggiò con delicatezza la punta contro la fontanella della gola del giovane. Il braccio si staccò dal volto; gli occhi si aprirono fissandosi in quelli di Burton. Burton mise una mano sulla bocca dell’uomo, che si era spalancata.

— Hermann Goering! Non muoverti e non cercare di strillare, o ti ucciderò!

Gli occhi di Goering, che erano d’un pallido azzurro, al buio sembravano scuri, ma il pallore del volto, causato dal terrore, era visibilissimo. Goering rabbrividì e fece per mettersi a sedere, ma si schiacciò all’indietro non appena il pugnale gli punse la pelle.

— Da quanto tempo sei qui? — chiese Burton.

— Chi…? — disse Goering in inglese; poi i suoi occhi si spalancarono ancor più. — Richard Burton? Sto sognando? Sei proprio tu?

Burton sentì che l’alito di Goering e la stuoia su cui giaceva, tutta inzuppata di sudore, sapevano di narcogomma. Il tedesco era molto più snello di quando l’aveva visto l’ultima volta.

Goering disse: — Non so da quanto tempo sono qui. Che ora è?

— Manca un’ora circa all’alba, direi. È il giorno successivo all’anniversario della Resurrezione.

— Allora sono qui da tre giorni. Potrei avere un sorso d’acqua? Ho la gola asciutta come un sarcofago.

— Nessuna meraviglia. Se sei dedito alla narcogomma sei un sarcofago vivente.

Burton si alzò, indicando con la zagaglia un vaso d’argilla posato lì vicino su un piccolo tavolo di bambù. — Se vuoi puoi bere. Ma non tentare scherzi.

Goering si alzò con fatica e si diresse al tavolo barcollando. — Anche se lo volessi, sarei troppo debole per lottare con te.

Bevve rumorosamente dal vaso, quindi prese una mela dal tavolo. Le diede un morso e disse: — Cosa stai facendo qui? Credevo di essermi liberato di te.

— Prima rispondi alla mia domanda — replicò Burton. — E fa’ in fretta. Tu costituisci un problema che non mi piace, lo sai bene.

CAPITOLO VENTESIMO

Goering riprese a masticare, si fermò, fissò Burton, poi disse: — E perché mai? Io qui non ho alcuna autorità, e anche se volessi non potrei farti nulla. Sono soltanto un ospite. Questo popolo è maledettamente discreto: non sono mai venuti a seccarmi, tranne di quando in quando per chiedermi se avevo bisogno di qualcosa. Però non so per quanto tempo mi lasceranno qui senza che mi guadagni il mantenimento.

— Non sei mai uscito dalla capanna? — replicò Burton. — Allora chi ti ha caricato il graal? E come hai fatto a procurarti tutta quella narcogomma?

Goering fece un sorriso astuto. — Avevo fatto una buona scorta nell’ultimo posto dov’ero, da qualche parte su per il Fiume, a più di mille chilometri da qui.

— Senza dubbio tolta con la forza a poveri schiavi — commentò Burton. — Ma se ti trovavi così bene là, perché ne sei venuto via?

Goering si mise a piangere. Le lacrime gli rotolavano giù per il viso, sulle clavicole, sul petto, e le spalle sussultavano.

— Io… io dovetti andarmene. Non ero di alcuna utilità agli altri. Stavo perdendo il mio potere su di essi: passavo troppo tempo a bere, a fumare marjiuana, a masticare narcogomma. Dissero che ero troppo smidollato. Mi avrebbero ucciso o ridotto in schiavitù. Così una notte me la svignai su una barca. Mi allontanai senza incidenti e continuai a procedere finché trovai questo posto. Ho dato a Sevier una parte della mia riserva in cambio dell’asilo per due settimane.

Burton fissò Goering con curiosità.

— Sapevi cosa ti sarebbe capitato se avessi preso troppa gomma — disse. — Incubi, allucinazioni, idee fisse. Completo deterioramento mentale e fisico. Avrai pur visto altri in queste condizioni.

— Sulla Terra ero un morfinomane! — gridò Goering. — Volli smettere, e per un bel po’ ci riuscii. Poi, quando le cose cominciarono ad andar male per il Terzo Reich, e ancor peggio per me, quando Hitler prese a gettare su di me le colpe, mi diedi di nuovo alle droghe!

Fece una pausa, poi continuò. — Ma qui, quando mi svegliai a una nuova vita e in un corpo giovane, e sembrava che io avessi davanti un’eternità di vita e di giovinezza e che non ci fosse alcun dio del cielo o demone dell’inferno che mi potesse fermare, pensai che potevo comportarmi esattamente come mi piaceva, e farla franca per di più. Sarei divenuto perfino più grande del Fueher! Quella piccola nazione in cui mi hai trovato la prima volta era soltanto l’inizio! Già vedevo il mio impero stendersi per migliaia di chilometri a monte e a valle, e su entrambe le sponde del Fiume. Sarei stato il dominatore di un popolo dieci volte più grande di quello mai immaginato da Hitler!

Si mise a piangere, poi bevve un altro sorso d’acqua e si mise in bocca un pezzo di narcogomma. Via via che masticava, il suo volto si faceva più rilassato e felice.

Poi proseguì: — Continuavo ad avere incubi nei quali m’infilavi la lancia nel ventre. Quando mi svegliavo il ventre mi doleva come se una lama mi fosse penetrata nelle viscere. Allora presi la gomma per allontanare il dolore e l’umiliazione. All’inizio la gomma giovò. Ero grande. Ero il padrone del mondo: Hitler, Napoleone, Giulio Cesare, Alessandro, Gengis Khan, tutti quanti insieme. Ero di nuovo il comandante dello Squadrone della Morte Rossa di von Richthofen. Quelli erano stati giorni felici; anzi, sotto molti aspetti, i più felici della mia vita. Ma l’euforia cedette ben presto il posto all’orrore. Precipitai nell’inferno; mi vidi accusato da un altro me stesso, dietro al quale stavano milioni di persone. Erano le vittime di quel grande e glorioso eroe, di quell’immondo pazzo di Hitler che io avevo adorato e nel cui nome avevo commesso così tanti delitti.

— Allora ammetti di essere stato un criminale? — disse Burton. — Questa versione è differente da quella che mi davi di solito. Una volta mi dicevi che tutto quanto avevi fatto era giustificato, e che eri stato tradito da…

Burton s’interruppe, accorgendosi di essersi allontanato dal primitivo intento. — È alquanto incredibile che tu sia tormentato dai rimorsi di coscienza. Ma forse questo spiega ciò che ha lasciato perplessi i puritani, cioè perché nei graal ci vengano offerti, insieme al cibo, liquori, tabacco, marjiuana, narcogomma. La gomma, almeno, sembra un dono a sorpresa, dannoso per chi ne abusa.

Si fece più vicino a Goering. Gli occhi del tedesco erano socchiusi, e la sua mandibola penzolava.

— Tu conosci la mia identità. Io sto viaggiando sotto uno pseudonimo, per buone ragioni. Ricordi Spruce, uno dei tuoi schiavi? Dopo la tua morte si scoprì, per un puro caso, che era uno di quelli che in un modo o nell’altro hanno fatto risorgere l’umanità. Li chiamiamo Etici, in mancanza di un termine migliore. Goering, mi ascolti?

Goering annuì.

— Spruce si uccise prima che potessimo cavargli fuori tutto ciò che volevamo sapere. Più tardi alcuni dei suoi simili vennero nella nostra zona e fecero cadere tutti in un sonno temporaneo, probabilmente mediante un gas, con l’intenzione di portarmi al loro quartier generale, dovunque esso sia. Ma non mi trovarono: io avevo risalito il Fiume per una spedizione commerciale. Quando tornai capii che Quelli mi erano alle calcagna, e da allora sto fuggendo. Goering, mi senti?

Burton diede a Goering un violento schiaffo sulla guancia. — Ach! — esclamò il tedesco, e fece un balzo indietro portando una mano sul volto. Aveva gli occhi ben aperti, e una smorfia sulle labbra.

— Ti ho sentito! — ringhiò. — Soltanto, non mi sembrava che valesse la pena di risponderti. Sembra che nulla valga la pena, nulla tranne che volar via, lontano da…

— Taci e ascolta! — ordinò Burton. — Gli Etici hanno seminato dovunque degli agenti alla mia ricerca. Non posso permettermi di lasciarti vivo, lo capisci? Non posso fidarmi di te. Neanche se tu fossi un amico potrei fidarmi di te. Sei un tossicomane!

Goering ridacchiò, si avvicinò a Burton, e fece per mettergli le braccia intorno al collo. Burton lo respinse con tale violenza che quello arretrò barcollando fino al tavolo, e sarebbe caduto se non si fosse aggrappato al bordo.

— Questo è molto divertente — disse Goering. — Il giorno in cui giunsi qui, un uomo mi chiese se ti avevo visto. Ti descrisse nei particolari e disse il tuo nome. Gli risposi che ti conoscevo bene, fin troppo bene, e che speravo di non rivederti più, tranne nel caso in cui ti avessi avuto in mio potere. Quello mi raccomandò di avvisarlo se ti vedevo ancora. Mi ricompenserebbe bene.

Burton non perse tempo. Balzò accanto a Goering e lo afferrò con entrambe le mani. Queste erano piccole e delicate, ma Goering sussultò per il dolore.

— Cosa vuoi fare, uccidermi un’altra volta? — disse.

— No, se mi dici il nome dell’uomo che ti ha chiesto di me. Altrimenti…

— Uccidimi pure — replicò Goering. — Che importa? Mi risveglierò da un’altra parte, a migliaia di chilometri da qui, ben lontano dalle tue grinfie.

Burton indicò una cassetta di bambù, in un angolo della capanna. Aveva intuito che conteneva la scorta di narcogomma. — E ti sveglieresti lontano anche da quella! — disse. — Come faresti a procurartene altrettanta seduta stante?

— Maledetto! — gridò Goering, e cercò di liberarsi per raggiungere la cassetta.

— Dimmi il suo nome! — ordinò Burton. — Se no piglio la gomma e la getto nel Fiume!

— Agneau. Roger Agneau. Dorme in una capanna a due passi dalla Casa Rotonda.

— Mi occuperò di te più tardi — disse Burton, e con la mano colpì Goering al collo, di taglio.

Si voltò e vide un uomo acquattato fuori dalla porta della capanna. L’uomo si rimise in piedi e fuggì. Burton gli corse dietro, e in pochi secondi si trovò in mezzo ai pini e alle querce delle colline. La sua preda scomparve nell’erba alta fino alla vita.

Burton rallentò l’andatura. Scorse un riflesso bianco (la luce delle stelle che batteva sulla pelle nuda) e fu di nuovo alle calcagna del fuggitivo. Sperò che l’Etico non si uccidesse subito, in quanto aveva un piano per ricavare informazioni da lui purché l’avesse abbattuto all’istante. Questo piano comprendeva l’ipnosi, ma prima doveva catturare l’Etico. Poteva darsi che l’uomo avesse una specie di trasmettitore inserito nel corpo, e che anche in quel momento fosse in comunicazione con i suoi simili, dovunque si trovassero. In tal caso Essi sarebbero giunti con le loro macchine volanti, ed egli, Burton, sarebbe stato perduto.

Si fermò. Aveva perso la preda, e l’unica cosa da fare ora era di svegliare Alice e gli altri e fuggire. Forse questa volta conveniva dirigersi alle montagne e nascondersi là per un po’.

Ma prima voleva andare nella capanna di Agneau. La probabilità che l’Etico fosse lì era piccola, ma valeva la pena di accertarsene.

CAPITOLO VENTUNESIMO

Burton arrivò in vista della capanna giusto in tempo per scorgere la schiena di un uomo che vi entrava. Fece un ampio giro per avvicinarsi dalla parte in cui l’ombra delle colline e degli alberi sparpagliati nella pianura gli poteva offrire qualche riparo. Piegò la schiena e corse fino alla porta della capanna.

Udì un forte grido dietro di sé. Si voltò e vide Goering che si dirigeva verso di lui con andatura barcollante. Stava urlando ad Agneau, in tedesco, che Burton era proprio lì fuori. Impugnava una lunga lancia, puntandola in direzione dell’inglese.

Burton girò di nuovo e si gettò contro la fragile porta di bambù. La colpì con le spalle, scardinandola. La porta crollò all’interno, investendo Agneau che si trovava proprio dietro. Burton, la porta, e Agneau, caddero a terra, e Agneau rimase sepolto.

Burton rotolò via, si rialzò, e saltò di nuovo sulla porta e trovò la sua preda priva di sensi e col naso sanguinante. Benissimo! Ora poteva portare a termine il suo piano, sempre che il rumore non avesse attirato le sentinelle ed egli fosse riuscito a sbrigarsela in fretta con Goering.

Alzò lo sguardo, e fece appena in tempo a scorgere il riflesso delle stelle su un lungo oggetto nero che stava piombando su di lui.

Balzò di lato, e la lancia si conficcò con uno schiocco nel pavimento di terra. L’asta vibrò, simile a un serpente a sonagli che si preparasse a colpire.

Burton entrò nella capanna, calcolò la distanza di Goering, e tirò. La lancia trafisse il ventre del tedesco. Goering sollevò le braccia e gridò, cadendo poi su un fianco. Burton si caricò sulle spalle il corpo inerte di Agneau e uscì dalla capanna.

Dalla Casa Rotonda provenivano delle grida, e si vedevano brillare delle torce. La sentinella della più vicina torre di guardia stava urlando qualcosa. Goering era seduto per terra, piegato in due, e impugnava la lancia appena sopra la ferita.

Guardò Burton a bocca aperta e disse: — L’hai fatto ancora! Tu…

Cadde a faccia in giù, con un rantolo di morte nella gola.

Di colpo Agneau riprese conoscenza. Si liberò dalla stretta di Burton e cadde a terra. Diversamente da Goering, non fece alcun rumore. Aveva gli stessi buoni motivi di Burton per rimanere zitto, se non di più. Burton fu assai sorpreso di trovarsi in mano soltanto il gonnellino dell’Etico. Stava per buttarlo via, ma avvertì un oggetto rigido e spigoloso assicurato tra la stoffa e la fodera. Prese l’indumento con la sinistra, strappò via la lancia dal cadavere di Goering, e corse dietro ad Agneau.

L’Etico aveva messo in acqua una delle canoe di bambù tirate in secco sulla spiaggia, e stava remando di furia nel Fiume illuminato dalle stelle, gettandosi frequenti occhiate dietro le spalle. Burton bilanciò la zagaglia col braccio teso e la scagliò. Era una lancia corta e dal manico robusto, più adatta per la lotta a corpo a corpo che per essere usata come giavellotto. Tuttavia la sua traiettoria non subì deviazioni e terminò nella schiena di Agneau. Questi cadde in avanti e su un fianco, facendo rovesciare la stretta imbarcazione. La canoa si capovolse del tutto, e Agneau non riapparve.

Burton imprecò. Avrebbe preferito catturare Agneau vivo, ma, per l’inferno, non gli avrebbe permesso di scappare. C’era qualche probabilità che non si fosse ancora messo in contatto con gli altri Etici.

Burton tornò verso le capanne della foresteria. Lungo tutta la spiaggia rullavano i tamburi, e sagome che portavano delle torce accese si stavano affrettando in direzione della Casa Rotonda. Burton fermò una donna e le chiese se gli poteva prestare un momento la sua torcia. Quella gliela diede, ma si mise a fare un mucchio di domande. Burton rispose che secondo lui c’era un’incursione dei Choctaw che stavano sull’altra riva del Fiume. Allora la donna si diresse di corsa al luogo di riunione davanti al recinto.

Burton conficcò l’estremità appuntita della torcia nella soffice sabbia dell’argine e prese a esaminare il gonnellino di Agneau. La fodera aveva una tasca, chiusa mediante due piastrine magnetiche. Burton ne estrasse l’oggetto e lo guardò alla luce della torcia.

Per un lungo istante rimase accucciato accanto alla luce tremolante, incapace di distogliere lo sguardo e di reagire allo stupore da cui era pressoché paralizzato. Una fotografia, in quel mondo privo di macchine fotografiche, era una cosa inaudita. Ma una fotografia di lui stesso era ancor più incredibile, dato che non era stata scattata su quel pianeta. Doveva risalire ai tempi della Terra, quella Terra ora sperduta nel cielo scintillante in mezzo a uno sciame di stelle e Dio solo sapeva a quante migliaia di anni lontana nel tempo.

Un’impossibilità dopo l’altra! Quell’istantanea era stata presa in un’epoca e in un luogo in cui egli sapeva per certo che nessuno aveva potuto puntare su di lui una macchina fotografica per conservare la sua immagine. I baffi erano cancellati, ma il ritoccatore non si era curato di fare altrettanto con lo sfondo e con gli abiti. Ed ecco lì Burton in persona, ritratto miracolosamente a mezzo busto e imprigionato in un pezzo piatto di chissà quale materiale. Piatto? Burton ruotò l’oggetto e vide comparire il proprio profilo. Tenendo la «fotografia» a un angolo appropriato poteva vedersi anche di tre quarti.

— Nel 1848 — mormorò tra sé e sé. — Quando avevo ventisette anni ed ero ufficiale subalterno nell’esercito dell’India orientale. E quelle sono le desolate montagne di Goa. Dev’essere stata presa quando ero là in convalescenza. Ma in che modo, mio Dio? E da chi? E come facevano ora gli Etici a esserne in possesso?

Era evidente che Agneau aveva portato con sé quella foto come sussidio mnemonico per la sua ricerca di Burton, e forse ognuno degli agenti ne aveva una uguale, nascosta negli indumenti. Lo stavano cercando su e giù per il Fiume: forse erano migliaia, forse decine di migliaia. Chi poteva sapere quanti agenti Essi avevano a disposizione, o quanto disperatamente lo ricercassero, e perché?

Burton rimise la fotografia nel perizoma e si diresse di nuovo alla capanna. E in quel momento alzò gli occhi alla cresta delle montagne, quelle cime invalicabili che delimitavano la valle da entrambi i lati.

Vide guizzare qualcosa sullo sfondo di un luminoso ammasso di gas cosmico. Fu visibile solo per un istante breve come un battito di ciglia, poi svanì.

Pochi secondi dopo riapparve dal nulla, sotto forma di oggetto scuro semisferico, e scomparì di nuovo.

Un secondo oggetto volante divenne visibile per un attimo, poi ricomparve a una quota minore, indi sparì come il primo.

Gli Etici erano venuti per portar via Burton, e il popolo di Sevieria si sarebbe chiesto che cosa l’avesse fatto cadere addormentato per un’ora o più.

Burton non aveva il tempo di tornare alla capanna e svegliare gli altri. Se avesse aspettato ancora un attimo sarebbe rimasto in trappola.

Si voltò, corse a buttarsi nel Fiume, e prese a nuotare verso l’altra riva, distante due chilometri e mezzo. Ma aveva appena percorso poco più di trenta metri che avvertì la presenza di un’enorme massa sopra di sé. Si mise sul dorso per poter guardare in su. C’era solo il tenue scintillio delle stelle. Ed ecco che un pezzetto di cielo, quindici metri sopra di lui, fu coperto da un disco dal diametro di circa diciotto metri. Scomparve quasi all’istante, per riapparire a soli sei metri d’altezza.

Così Essi avevano un sistema per vedere a distanza anche nel buio, e l’avevano localizzato mentre fuggiva.

— Sciacalli! — gridò Burton. — Non mi avrete mai!

Con un colpo di reni si immerse e nuotò verso il fondo. L’acqua divenne più fredda, e gli orecchi cominciarono a dolergli. Pur avendo gli occhi aperti non riusciva a vedere nulla. Di colpo avvertì una spinta trasmessagli dall’acqua, e capì che l’onda di pressione era stata provocata dallo spostamento di un grande oggetto.

L’imbarcazione volante si era tuffata dietro di lui.

C’era solo un sistema per uscire da quella situazione. Essi avrebbero avuto il suo corpo esanime, ma nulla più. Egli poteva farla in barba a Loro, svignandosela e tornando in vita in un altro punto del Fiume, pronto a riprendere la lotta.

Aprì la bocca e respirò a fondo.

I polmoni gli si riempirono d’acqua. Solo con un poderoso sforzo di volontà s’impedì di serrare le labbra e di reagire alla morte sopraggiungente. La mente sapeva che la vita sarebbe tornata, ma le cellule del suo corpo lo ignoravano. Combattevano per la vita in quell’istante effettivo, indifferenti a un futuro teorico. E attraverso la gola di Burton, satura d’acqua, fecero uscire un grido di disperazione.

CAPITOLO VENTIDUESIMO

— Yaaaaaaah!

Il grido lo fece rizzare dall’erba come se fosse rimbalzato da un trampolino. Al contrario della prima volta che era risorto, ora non si sentiva debole né sbigottito. Ora sapeva che si sarebbe svegliato sull’argine erboso del Fiume, accanto a una pietra-fungo. Ma non si aspettava di trovare quei giganti che combattevano.

Il suo primo pensiero fu di trovare un’arma. Non aveva nulla a portata di mano, tranne il graal che accompagnava sempre ogni risorto, e il mucchio di salviette di diverso formato, colore, e spessore. Fece un passo, afferrò il manico del graal, e attese. Se necessario avrebbe usato il graal a mo’ di clava. Sebbene leggero, era praticamente indistruttibile e assai robusto.

Sembrava però che i mostri accanto a lui potessero ricevere bastonate per tutto il giorno senza neanche accorgersene.

Erano alti per la maggior parte almeno due metri e mezzo, e qualcuno senz’altro poco meno di tre, e le loro spalle dalla muscolatura massiccia avevano una larghezza di un metro circa. I loro corpi erano umani, o quasi, e la loro pelle bianca era coperta da lunghi peli rossicci o brunastri. Non erano pelosi come uno scimpanzé, ma sempre di più di qualunque altro uomo Burton avesse mai visto: e sì che aveva conosciuto degli esseri umani davvero irsuti.

Ma era il volto a dare a quei giganti un aspetto inumano e spaventoso, specialmente perché stavano tutti ringhiando nel furore della lotta. Sotto una fronte bassa c’era una cresta ossea ininterrotta che circondava completamente gli occhi. Sebbene questi fossero grandi come quelli umani, sembravano piccoli a paragone dell’ampio volto nel quale si trovavano. Gli zigomi sporgevano notevolmente, ripiegandosi poi di colpo all’interno. Il naso colossale dava ai giganti l’aspetto di scimmie proboscidate.

In un altro momento Burton si sarebbe divertito alla loro vista. Ma non ora. Gli urli che uscivano dai loro petti, più ampi di quello di un gorilla, erano potenti come i ruggiti di un leone, e i denti enormi avrebbero indotto un orso Kodiak a pensare due volte prima di attaccare quei giganti. Le loro mani, grandi come la testa di Burton, impugnavano bastoni grossi come tronchi. Si colpivano l’uno con l’altro con tali armi, e quando raggiungevano il segno le ossa si fracassavano con lo schianto di un albero spezzato. Talvolta si rompevano anche i bastoni.

Burton si guardò intorno per un attimo. La luce era debole: il sole spuntava solo per metà dalla cima delle montagne. L’aria era fredda come Burton mai l’aveva sentita su quel pianeta, tranne durante il suo tentativo di scalare gli strapiombi.

Ed ecco che uno dei combattenti, avendo eliminato l’avversario, si guardò intorno in cerca di una nuova vittima e scorse Burton.

I suoi occhi si spalancarono. Per un attimo sembrò stupefatto come Burton quando era risorto per la prima volta. Forse non aveva mai visto prima un essere come Burton, così come Burton non ne aveva mai visto uno come quello. Se pur si trattava di stupore, il gigante non impiegò molto a riaversi. Emise un urlo, scavalcò con un salto il corpo straziato del suo avversario, e si precipitò verso Burton brandendo una clava che avrebbe abbattuto un elefante.

Anche Burton si mise a correre, tenendo il graal con una mano. Se l’avesse perso sarebbe stato meglio per lui morire. Senza di esso avrebbe dovuto patire la fame o campare di pesci e germogli di bambù.

Vide un tratto libero davanti a sé, e s’infilò tra due titani, che si tenevano strettamente abbracciati tentando di sopraffarsi a vicenda, e un altro che indietreggiava sotto la pioggia di bastonate di un quarto. Era quasi riuscito a passare quando i due lottatori crollarono sopra di lui.

Correva abbastanza in fretta da non rimanere schiacciato proprio sotto di loro, ma il braccio di uno, descrivendo un cerchio nell’aria, lo colpì al calcagno sinistro. L’urto fu così violento da fargli penetrare il piede nel terreno, bloccandogli all’istante la corsa. Burton cadde in avanti urlando. Il piede si era rotto senz’altro, e la gamba doveva aver riportato degli strappi muscolari.

Ciò malgrado Burton si rialzò mettendosi a saltellare verso il Fiume. Una volta in acqua avrebbe potuto allontanarsi a nuoto, purché non fosse svenuto dal dolore. Aveva appena spiccato due salti sulla gamba destra che fu afferrato da dietro.

Volò in aria roteando, e qualcosa lo raccolse prima che ricadesse.

Il titano lo teneva con una mano sola, a braccio teso, e il suo enorme e poderoso pugno si stringeva intorno al petto di Burton. Questi si sentiva mancare il respiro: le costole minacciavano di piegarsi in dentro.

Malgrado tutto ciò, Burton non si era lasciato sfuggire il graal, e si mise a colpire con quello la spalla del gigante.

Il titano diede un colpettino al graal col suo bastone, come se avesse allontanato una mosca, e il cilindro fu strappato dalla mano di Burton.

Il colosso digrignò i denti e piegò il braccio avvicinando a sé Burton. Questi pesava ottanta chili, ma il braccio non tremava per lo sforzo.

Per un attimo Burton si trovò a guardare direttamente negli occhi azzurrognoli incassati nella cresta ossea. Il naso era solcato da numerose vene contorte. Le labbra sporgevano a causa delle sottostanti mascelle prominenti, e non perché fossero spesse, come invece Burton aveva creduto in un primo momento.

Quindi il titano muggì e sollevò Burton sopra la testa. Burton martellò di pugni l’enorme braccio, ben sapendo che ciò non serviva a nulla ma non intendendo abbandonarsi come un coniglio catturato. Mentre così faceva poté notare alcuni particolari della zona, pur senza prestarvi piena attenzione.

Quando si era svegliato, il sole era appena spuntato da dietro le montagne. Sebbene fossero trascorsi solo pochi minuti da quando Burton si era rimesso in piedi, il sole avrebbe dovuto essere un pochino più alto. Invece no: si trovava all’esatto punto in cui egli l’aveva visto all’inizio.

E c’era un’altra cosa. La pendenza della valle permetteva di vedere almeno per sei chilometri: la pietra-fungo lì vicino era l’ultima. Al di là c’erano solo la pianura e il Fiume.

Quel punto era la fine — o l’inizio — del Fiume.

Burton non aveva tempo né voglia di apprezzare il significato di tale scoperta. Semplicemente la registrò, mentre passava dal dolore alla rabbia e quindi al terrore. Poi il gigante, mentre stava per calare il bastone sul cranio di Burton, s’irrigidì ed emise un grido, che a Burton parve un fischio di locomotiva. La stretta si allentò, ed egli cadde al suolo provando un terribile dolore al piede. Svenne.

Quando riprese conoscenza dovette stringere i denti per non urlare di nuovo. Si mise a sedere gemendo: la gamba gli faceva vedere le stelle. Tutt’intorno a lui rumoreggiava la battaglia, ma egli si trovava in un angolo morto. Accanto a lui giaceva il corpo del gigante che per poco non l’aveva ucciso, grosso come un tronco d’albero. Il suo cranio, che sembrava abbastanza robusto da reggere a colpi di maglio, aveva una rientranza nella regione occipitale.

Intorno al colossale cadavere strisciava carponi un ferito. Burton, scorgendolo, dimenticò per un attimo il dolore che provava. Quell’uomo così orrendamente straziato era Hermann Goering.

Entrambi erano risorti nello stesso punto. Non c’era tempo per pensare alle implicazioni di tale coincidenza: il dolore cominciava a tornargli, e inoltre Goering cercava di parlare.

Non sembrava però che gli rimanesse molto da dire, o molto tempo per dirlo. Era coperto di sangue. L’occhio destro non c’era più. Uno squarcio correva da un angolo della bocca all’orecchio. Una mano era spappolata. Una costola sbucava dalla pelle. In che modo riuscisse a trascinarsi, o anche solo a restare in vita, andava oltre la comprensione di Burton.

— Tu… tu! — disse Goering in tedesco, con voce roca; poi crollò. Un getto di sangue gli uscì dalla bocca spruzzando le gambe di Burton, e l’occhio rimasto si fece vitreo.

Burton si chiese se avrebbe mai saputo cos’avesse voluto dire Goering. Non che la cosa importasse davvero: ora aveva problemi molto più importanti cui pensare.

A nove metri circa di distanza c’erano due giganti che gli voltavano la schiena. Stavano ansando pesantemente tutt’e due, come se si fossero concessi un attimo di sosta prima di riprendere il combattimento. Poi uno parlò.

Non c’era alcun dubbio. Il gigante non stava emettendo dei semplici suoni inarticolati, bensì delle parole.

Burton non le capiva, ma fu sicuro che si trattasse di linguaggio. A conferma della sua convinzione udì la risposta dell’altro gigante, modulata in chiare sillabe.

Allora quei titani non erano qualcosa come scimmie preistoriche, ma dei pre-umani. Dovevano essere sconosciuti alla scienza terrestre del ventesimo secolo, poiché Frigate gli aveva descritto tutti i fossili noti fino al 2008.

Burton giaceva con la schiena appoggiata alle enormi costole del gigante caduto. Si liberò il viso dai lunghi e rossastri capelli sudaticci del morto, e cercò di vincere il disgusto, e il tremendo dolore che sentiva al piede e ai muscoli strappati. Se avesse fatto troppo rumore avrebbe attirato l’attenzione di quei due, che si sarebbero affrettati a dargli il colpo di grazia. E quand’anche? Con simili ferite, e in mezzo a tali mostri, che probabilità aveva di sopravvivere?

E ancor più doloroso dell’atroce sofferenza fisica era il pensiero di aver raggiunto la meta al suo primo viaggio su quello che chiamava il Direttissimo del Suicidio.

C’era una probabilità su dieci milioni di arrivare lì, e non l’avrebbe colta neanche annegando diecimila volte. Aveva avuto un colpo di fortuna veramente straordinario, che forse non gli sarebbe più capitato. E ora questa fortuna stava per sfuggirgli, e molto in fretta per di più.

Il sole, sempre visibile solo per metà, si andava spostando lungo la cima delle montagne. Quello era il luogo di cui egli aveva ipotizzato l’esistenza, e l’aveva raggiunto al primo colpo. Ma ora, accorgendosi che la vista gli si appannava e il dolore diminuiva, capì che stava morendo. La causa non era certo il piede fracassato: doveva avere un’emorragia interna.

Cercò ancora di rialzarsi. Voleva mettersi in piedi, anche su una gamba sola, e agitare il pugno verso le Parche beffarde e maledirle. Voleva morire con una maledizione sulle labbra.

CAPITOLO VENTITREESIMO

L’ala rosea dell’alba gli sfiorava gli occhi.

Si alzò in piedi, sapendo che le sue ferite erano scomparse e che era di nuovo tutto intero, e tuttavia dubitandone un po’. Accanto a lui c’erano un graal e una fila di sei salviette accuratamente piegate, di diverso formato, colore e spessore, piegate strettamente e ammucchiate una sull’altra.

A quattro metri circa di distanza un altro uomo, anch’egli nudo, si stava alzando dalla bassa erba d’un verde brillante. Burton si sentì accapponare la pelle. I capelli biondicci, il volto largo, gli occhi d’un azzurro pallido, erano quelli di Hermann Goering.

Il tedesco sembrò altrettanto stupefatto. — Qui c’è qualcosa che proprio non va — disse lentamente, come se si fosse appena destato da un sonno profondo.

— Sì, qualcosa di poco chiaro — rispose Burton. Intorno al meccanismo della resurrezione non sapeva gran che. Non ne aveva mai vista una, però conosceva la descrizione data da quelli che vi avevano assistito. All’alba, appena il sole sbucava da dietro la cima delle invalicabili montagne, un luccichio appariva nell’aria, accanto a una pietra-fungo. In un batter di ciglio l’immagine evanescente diveniva materia e sull’erba accanto all’argine spuntava dal nulla il corpo nudo di un uomo, o di una donna, o di un bambino. Accanto al «lazzaro» risorto c’erano sempre l’indispensabile graal e le salviette.

Si poteva ragionevolmente supporre che la valle del Fiume fosse lunga dai quindici ai trenta milioni di chilometri, che vi abitassero dai trentacinque ai trentasei miliardi di persone, e che ogni giorno ne morisse un milione. Vero che non c’erano malattie, tranne quelle mentali, ma detto milione rappresentava il numero probabile (benché non ci fossero statistiche) di persone morte ogni ventiquattr’ore nelle miriadi di guerre che scoppiavano tra l’uno e l’altro del milione e più di staterelli, oppure uccise in delitti passionali, o suicidate, o giustiziate, o perite in incidenti. C’era insomma un intenso e continuo andirivieni attraverso la cosiddetta «piccola resurrezione».

Ma Burton non aveva mai sentito che due morissero nello stesso momento e nello stesso luogo e risorgessero insieme. Il meccanismo di scelta della zona in cui il morto sarebbe risorto di nuovo era casuale, o almeno così egli aveva sempre ritenuto.

Naturalmente un caso simile poteva pure capitare, quantunque ci fosse una probabilità su venti milioni. Ma se la cosa si ripeteva due volte, una di seguito all’altra, allora si trattava di un miracolo.

Burton non credeva nei miracoli. Nulla accade che non si possa spiegare in base alle leggi della fisica, purché si conoscano tutti i dati.

Egli non li conosceva, per cui per il momento non si preoccupava per la «coincidenza». Era più urgente la soluzione di un altro problema: che fare, con Goering?

Il tedesco conosceva la sua identità e poteva indicarlo a un Etico che fosse stato alla sua ricerca.

Burton guardò rapido intorno, e vide un gruppetto di uomini e donne che si avvicinavano con aria amichevole. C’era tempo per dire soltanto due parole al tedesco.

— Goering, posso uccidere te o me. Nessuna delle due cose mi va, almeno per ora. Per me sei un pericolo, e il perché lo sai. Non dovrei correre rischi con te, iena infida. Però c’è qualcos’altro in te, qualcosa che mi sfugge. E…

Goering, noto per le sue capacità di recupero, parve essersi ripreso. Sorrise con aria astuta e disse: — Ti ho in pugno, eh?

Nel vedere il ringhio di Burton, si affrettò ad alzare una mano aggiungendo: — Ma ti giuro che non rivelerò a nessuno la tua identità. E non farò nulla che ti possa nuocere. Forse non siamo amici; ma almeno ci conosciamo, e ora siamo in terra straniera. È bello avere accanto una faccia nota. Lo so, ho sofferto troppo di malinconia e di solitudine spirituale: pensavo che sarei diventato matto. Questa è una delle ragioni per cui mi sono dato alla narcogomma. Ma credimi, non ti tradirò.

Burton non gli credette. Ritenne comunque di potersi fidare di lui per un po’. Goering aveva bisogno di un potenziale alleato, almeno finché avesse tastato il polso alla popolazione di quella zona e visto cosa poteva o non poteva fare. Inoltre era possibile che fosse cambiato in meglio.

No, disse Burton tra sé. No. Ci caschi di nuovo. Per quanto tu sia cinico a parole, sei poi sempre pronto a perdonare, a passar sopra alle offese che ti vengono fatte, a concedere al tuo nemico una seconda possibilità. Non comportarti un’altra volta da sciocco, Burton.

Tre giorni dopo, Burton era ancora indeciso riguardo a Goering.

Burton aveva assunto l’identità di Abdul ibn Harun, un abitante del Cairo del diciannovesimo secolo. Le ragioni di questa scelta erano numerose. Burton parlava un ottimo arabo, conosceva il dialetto del Cairo di quell’epoca, e aveva il pretesto per coprirsi il capo con una salvietta avvolta a mo’ di turbante. Sperava che questo contribuisse a fargli cambiare aspetto. Goering non svelò il travestimento: Burton ne era abbastanza sicuro, dal momento che il tedesco stava con lui per la maggior parte del tempo. Erano stati alloggiati nella stessa capanna, finché non si fossero abituati ai costumi locali e avessero superato il periodo di prova. Questo comprendeva, tra l’altro, un intensivo addestramento militare.

Burton era stato uno dei più grandi spadaccini del diciannovesimo secolo, e conosceva pure ogni tipo di lotta con le armi o con le mani. Dopo una dimostrazione delle sue capacità in una serie di prove, era stato ammesso come recluta. In più gli avevano promesso che, una volta imparata a sufficienza la lingua, l’avrebbero nominato istruttore.

Goering ottenne con altrettanta rapidità la stima degli indigeni. Malgrado i suoi difetti non gli mancava il coraggio. Sapeva maneggiare le armi con abilità ed energia, era allegro, si rendeva simpatico quando questo serviva ai suoi scopi, e si andava impadronendo della lingua con la stessa facilità di Burton. In breve tempo ottenne, e cominciò a usare, l’autorità, come si addiceva all’ex-Reichmarschal della Germania di Hitler.

Quel settore della sponda occidentale era abitato da gente che parlava una lingua sconosciuta perfino a Burton, superpoliglotta sia sulla Terra che sul pianeta del Fiume. Quando Burton l’ebbe imparata abbastanza da poter fare domande, arguì che si trattasse di una popolazione vissuta nell’Europa centrale all’inizio dell’Età del Bronzo. Aveva curiose abitudini, una delle quali era il coito in pubblico. Questo era assai interessante per Burton, che era stato, nel 1863, uno dei fondatori della Reale Società di Antropologia di Londra, e durante le sue esplorazioni sulla Terra aveva visto tante cose strane. Egli non partecipava a tale rito, ma neppure ne era scandalizzato.

Un’usanza che Burton adottò invece con entusiasmo, era quella dei baffi dipinti. I maschi erano seccati per il fatto che i Resurrettori avessero loro tolto per sempre il pelo dal volto, così come per essersi trovati circoncisi. Per il secondo «oltraggio» non potevano far nulla, ma potevano rimediare in parte al primo. Si spalmavano sul labbro superiore e sul mento un liquido scuro composto di carbone macinato finemente, colla di pesce, tannino di quercia, e parecchi altri ingredienti. I più raffinati si tatuavano con tale colorante, sottoponendosi a una dolorosa e interminabile serie di punzecchiature mediante un’acuminata scheggia di bambù.

Ora Burton era doppiamente camuffato, e tuttavia era nelle mani di uno che lo poteva tradire alla prima occasione. Egli desiderava attirare un Etico, ma non voleva che l’Etico fosse certo della sua identità.

In sostanza gli bastava essere sicuro di poter fuggire in tempo prima di cadere nella rete. Era un gioco pericoloso, come camminare su una fune tesa sopra un recinto di lupi affamati, ma gli piaceva giocarlo. Sarebbe scappato solo in caso di assoluta necessità; per il resto del tempo avrebbe fatto la parte dell’inseguito che insegue l’inseguitore.

Tuttavia l’immagine della Torre Scura, o Grande Graal, era sempre presente nei suoi pensieri. Perché giocare al gatto e al topo quando invece poteva addirittura dar l’assalto ai bastioni del castello in cui riteneva che gli Etici avessero il quartier generale? Ovvero (se «dar l’assalto» non era l’espressione esatta) introdursi di nascosto nella Torre, scavarsi un passaggio come fa un topo in una casa… o in un castello. Mentre i gatti guardavano da un’altra parte, il topo si sarebbe intrufolato nella Torre, e qui avrebbe potuto mutarsi in una tigre.

A questa immagine Burton scoppiò a ridere, provocando occhiate di curiosità da parte dei due uomini che dividevano con lui la capanna: Goering e un inglese del diciassettesimo secolo, di nome John Collop. La sua risata era di scherno verso di sé, all’idea della tigre. Cosa l’autorizzava a credere che egli, semplice uomo e da solo, potesse colpire in qualche modo i Creatori di quel pianeta, i Resurrettori di miliardi di morti, che provvedevano al cibo e alle necessità di chi era chiamato di nuovo in vita? Intrecciò le mani, sapendo che in esse e nel cervello che le guidava era racchiuso il potere di sconfiggere gli Etici. Ma ignorava quale fosse la spaventevole cosa che albergava in lui. Però Essi lo temevano. Se solo avesse potuto scoprire perché…

Ma solo per metà la sua risata era stata di scherno. Con l’altra metà di sé riteneva di essere una tigre in mezzo agli uomini. L’uomo è ciò che è la sua mente, mormorò.

Goering disse: — Amico mio, la tua risata è davvero singolare. Un po’ troppo femminea per un uomo così virile. Sembra… sembra una pietra che rimbalzi su un lago gelato. O il verso di uno sciacallo.

— Io ho qualcosa dello sciacallo — replicò Burton. — E anche della iena. Così affermavano i miei denigratori, e avevano ragione. Ma io sono ancora più di questo.

Si alzò dal letto e fece gli esercizi per scacciare dai muscoli il torpore del sonno. Entro pochi minuti si sarebbe recato con gli altri alla pietra-fungo accanto all’argine del Fiume, per caricare il graal. Poi ci sarebbe stata l’ora dedicata alle pulizie. Indi l’addestramento seguito da esercizi con la lancia, la clava, la frombola, la spada dalla lama di ossidiana, l’arco, l’ascia di selce; infine la lotta a mani e piedi nudi. Un’ora per riposare, chiacchierare, mangiare. Un’ora di lingua. Due ore di lavoro obbligatorio alla costruzione dei bastioni che segnavano i confini dello staterello. Mezz’ora di riposo, poi una corsa di un chilometro e mezzo, anche questa obbligatoria, per acquistare resistenza. Cena col solito sistema dei graal, quindi serata libera, tranne per chi aveva il turno di guardia o altre incombenze.

Simili programmi e attività erano svolti negli altri minuscoli stati a monte e a valle del Fiume. Quasi dovunque l’umanità era in guerra, o si apprestava ad entrarvi. Gli abitanti dovevano tenersi in forma ed essere in grado di combattere al massimo delle proprie capacità. Inoltre l’addestramento li teneva occupati. Per quanto monotona fosse la vita marziale, era sempre meglio che non sedersi in cerchio e chiedersi cosa fare per divertirsi. La mancanza di preoccupazioni per il cibo, l’affitto, le rate, e tutte le piccole e grandi seccature che avevano assillato i terrestri facendo saltar loro i nervi, non era un grande dono. Era in corso una lotta sistematica contro la noia, e i capi di ciascuno stato erano indaffarati a escogitare sistemi per tenere occupati i loro sudditi.

Nella valle del Fiume avrebbe dovuto esserci il paradiso: invece c’era guerra, guerra, guerra. Secondo alcuni, comunque, a parte altre considerazioni, in quel mondo la guerra era un’ottima cosa. Dava un significato alla vita ed eliminava il tedio. La bramosia e l’aggressività umane avevano il loro lato positivo.

Dopo cena, uomini e donne erano liberi di fare ciò che volevano, nei limiti consentiti dalle leggi locali. Si potevano barattare sigarette e liquori trovati nel proprio graal (oppure il pesce catturato nel Fiume) contro un arco migliore, o contro scudi, o ciotole e tazze, tavoli e sedie, flauti di bambù, trombe di argilla, tamburi di pelle d’uomo o di pesce, pietre rare (che erano rare davvero), collane fatte con le ossa meravigliosamente articolate e colorate dei pesci di profondità, oppure di giada o di legno intagliato; e specchi di ossidiana, sandali e scarpe, disegni a carboncino, carta di bambù (rara e costosa), inchiostro e penne ricavate dalle lische dei pesci, cappelli ottenuti intrecciando i lunghi e resistenti steli dell’erba delle colline, arpe di legno con corde di budella di «pescedrago», anelli di legno di quercia per dita di mani e piedi, figurine di terracotta, carretti con cui scendere lungo il pendio delle colline; e altri oggetti, utili o decorativi.

Più tardi, naturalmente veniva l’ora di far l’amore. Per il momento Burton e i suoi compagni di capanna ne erano esclusi. Solo quando fossero stati dichiarati cittadini a tutti gli effetti avrebbero potuto traslocare in abitazioni private e vivere con una donna.

John Collop era un giovane piccolo e snello, con lunghi capelli biondastri, un volto aguzzo ma gradevole, e grandi occhi azzurri con lunghissime ciglia nere piegate all’insù. La prima volta che aveva avuto l’occasione di parlare con Burton, dopo essersi presentato aveva detto: — Dalle tenebre del un grembo di mia madre (e di chi se no?) passai alla luce del Dio della Terra, nel 1625. Dopo un periodo incredibilmente breve tornai di nuovo in grembo, quello di Madre Natura. Avevo fede nella resurrezione, e come vedi non sono stato deluso. Debbo confessare però che questo aldilà non è quello in cui mi avevano fatto credere i sacerdoti. Ma come avrebbero potuto conoscere la verità quei poveri ciechi che guidavano altri ciechi?

Non passò molto tempo che Collop rivelò a Burton di essere membro della Chiesa della Seconda Possibilità.

Burton inarcò le sopracciglia. Aveva già incontrato quella nuova religione in molte zone lungo il Fiume. Benché fosse ateo si faceva un dovere di studiare a fondo ogni religione. Chi conosce il credo di un uomo conosce quell’uomo già per metà. Se poi conosce anche sua moglie, ne conoscerà l’altra metà.

Questa Chiesa aveva pochi semplici dogmi, alcuni basati su fatti reali, ma la maggior parte su supposizioni e speranze e desideri. In questo non differiva da nessuna religione nata sulla Terra. Ma i suoi seguaci avevano un vantaggio rispetto agli altri credenti: erano in grado di dimostrare senza difficoltà che i morti potevano risorgere, e non una sola volta ma parecchie.

— E perché gli uomini hanno avuto una Seconda Possibilità? — disse Collop con la sua voce bassa e calda. — Forse che la meritavano? No. Salvo poche eccezioni gli uomini sono una massa di esseri meschini, miserabili, gretti, viziosi, di mente angusta, esageratamente egoisti, sempre litigiosi, e insomma rivoltanti. Guardandoli, gli dèi, o Dio, dovrebbero vomitare. Ma in questo vomito divino c’è uno sputo di pietà, se mi consenti l’espressione. L’uomo, per quanto ignobile, ha in sé una scintilla divina. Che l’uomo sia stato creato a immagine di Dio non è una frase fatta. Nel peggiore di noi c’è qualcosa che merita di essere salvato, e da questo qualcosa si può formare un uomo nuovo.

«Chiunque ci abbia dato questa nuova occasione di salvarci l’anima conosce tale verità. Siamo stati portati in questa valle, su questo pianeta straniero sotto cieli stranieri, perché operiamo la nostra salvezza. Quanto tempo ci sia concesso, né io né i capi della Chiesa cui appartengo arrivano a ipotizzare. Forse un’eternità, forse soltanto cent’anni o mille. Ma dobbiamo far buon uso del tempo che ci è dato, amico mio, qualunque sia la sua durata.

Burton replicò: — Non sei stato sacrificato sull’altare di Odino da norvegesi rimasti fedeli alla vecchia religione, anche se questo mondo non è il Valhalla promesso dai loro preti? Non pensi di aver perso tempo e fiato tenendo loro delle prediche? Essi credono negli stessi dèi di prima, con la sola differenza che hanno apportato qualche modifica alla loro teologia per adattarla alle attuali condizioni. Anche tu sei rimasto fedele alla tua precedente religione.

— I norvegesi — ribatté Collop — non sanno dare alcuna spiegazione a questa nuova vita, ma io sì. Io ho una spiegazione ragionevole, che essi finiranno con l’accettare, e alla quale crederanno con lo stesso fervore dal quale sono animato io. Hanno ucciso me, ma un altro membro della mia Chiesa, più convincente, andrà presso di loro e riuscirà a parlare prima che lo sbattano sul grembo del loro idolo di legno e gli trafiggano il cuore. E se non lui, ci riuscirà il successivo missionario.

«Sulla Terra era vero che il sangue dei martiri è il seme della Chiesa. Qui è ancora più vero. Se uccidi un uomo per chiudergli la bocca, quello spunterà in un altro punto lungo il Fiume. E sarà rimpiazzato da un altro, martirizzato a centomila chilometri di distanza. La Chiesa della Seconda Possibilità finirà col prevalere. Allora gli uomini porranno termine a queste guerre inutili e generatrici di odio e intraprenderanno la vera occupazione, l’unica degna: quella di meritarsi la salvezza.

— Quello che dici intorno ai martiri — osservò Burton — vale per chiunque abbia dei propositi. Anche un malvagio quando viene ucciso rispunta da un’altra parte e continua a compiere i suoi misfatti.

— I buoni finiranno col prevalere, e la verità col risplendere incontrastata — dichiarò Collop.

— Non so se sulla Terra hai fatto lunghi viaggi, né quanto sia stata lunga la tua vita — disse Burton. — Ma l’una e gli altri devono essere stati assai limitati, a giudicare dalla tua cecità. Io so come stanno le cose in realtà.

— La mia Chiesa non si basa soltanto sulla fede — replicò Collop. — I suoi insegnamenti poggiano su qualcosa di assai concreto e reale. Dimmi, Abdul, amico mio: hai mai sentito parlare di qualcuno che sia risorto morto?

— Ma è assurdo! — esclamò Burton. — Cosa intendi con «risorto morto»?

— Ci sono almeno tre casi riconosciuti, e quattro altri di cui la Chiesa ha avuto notizia senza però poterli convalidare. Si tratta di uomini e donne uccisi in un punto lungo il Fiume e trasportati in un altro. Lo strano è che i loro corpi, pur creati di nuovo, mancavano della scintilla della vita. Perché mai?

— Non posso immaginarlo — rispose Burton. — Dillo tu. Io t’ascolto, dato che parli con tale autorità.

Burton invece poteva immaginare il motivo, dal momento che aveva già sentito altrove quella storia. Ma voleva vedere se la versione di Collop coincideva con le altre.

La storia era identica, perfino nel nome dei «lazzari» morti. Diceva che quegli uomini e donne erano stati identificati da altri che li avevano conosciuti sulla Terra, e che erano tutti dei mezzi santi: uno di essi, anzi, era già stato canonizzato. Secondo il parere della Chiesa della Seconda Possibilità, costoro avevano raggiunto un grado di santità che non richiedeva più il passaggio attraverso il «purgatorio» del pianeta del Fiume. Le loro anime erano andate in… in qualche altro luogo, abbandonando il bagaglio in eccedenza costituito dal corpo fisico.

Presto, asseriva la Chiesa, altri avrebbero acquisito tale condizione, e anche i loro corpi sarebbero rimasti senza vita. Dopo un certo periodo di tempo la valle del Fiume avrebbe finito col rimanere spopolata, e tutti si sarebbero spogliati di ogni odio e vizio, riempiendosi dell’amore verso i propri simili e verso Dio. Anche i più corrotti, quelli che sembravano essere perduti senza scampo, avrebbero potuto liberarsi dal retaggio del corpo. Tutto ciò che occorreva per conseguire questa grazia era l’amore.

Burton sospirò, scoppiò in una sonora risata e disse: — Plus ça change, plus c’est la mème chose. Un’altra fiaba per dare agli uomini la speranza. Le vecchie religioni sono state screditate, benché alcune rifiutino di ammetterlo: e così bisogna inventarne di nuove.

— È una cosa logica — replicò Collop. — Hai una spiegazione migliore del motivo per cui siamo qui?

— Forse. Anch’io so comporre fiabe.

In effetti Burton aveva una spiegazione, ma non poteva darla a Collop. Spruce gli aveva detto qualcosa circa identità, storia, scopi del suo gruppo, gli Etici. Molto di ciò che aveva spiegato concordava con la teologia di Collop.

Spruce si era ucciso prima di parlare dell’«anima». Presumibilmente l’«anima» doveva far parte del quadro generale della resurrezione: altrimenti, una volta che il corpo avesse raggiunto la «salvezza» e fosse stato privato della vita, l’essenza di un uomo sarebbe scomparsa anch’essa. Poiché la vita post-terrestre poteva essere spiegata in termini fisici, l’anima doveva essere un’entità fisica anch’essa, da non liquidare con l’etichetta «soprannaturale» come era avvenuto sulla Terra.

Burton ignorava ancora molto a questo riguardo, ma era al corrente di numerosi particolari, sul funzionamento del pianeta del Fiume, di cui nessun altro essere umano aveva la minima idea.

In possesso di tale piccola conoscenza, egli intendeva spingersi ancora più avanti, far saltare il coperchio, e intrufolarsi nel «sancta sanctorum». Per far questo doveva raggiungere la Torre Scura, e l’unico sistema per arrivarvi in fretta era di prendere il Direttissimo del Suicidio. Per prima cosa doveva essere scoperto da un Etico, e poi sopraffarlo, impedendogli di uccidersi e tirandogli fuori in un modo o nell’altro nuove informazioni.

Nel frattempo continuava a fingersi Abdul ibn Harun, medico egiziano del diciannovesimo secolo divenuto ora cittadino di Bargawhwdzys. Come tale decise di entrare a far parte della Chiesa della Seconda Possibilità. Annunciò a Collop che non credeva più in Maometto e nei suoi insegnamenti, e così fu il primo in quella regione ad essere convertito da Collop.

— Devi giurare — disse Collop — di non impugnare le armi contro nessun uomo, mio caro amico, e di non difendere la tua vita.

Burton si ribellò, dicendo che non sarebbe andato in giro disarmato né avrebbe permesso ad alcuno di aggredirlo.

— Non è una cosa innaturale quella che ti chiedo — replicò Collop con voce suadente. — È contraria all’abitudine, questo sì. Ma un uomo, sempre che lo desideri e abbia forza di volontà, può divenire qualcosa di diverso da quello che è sempre stato, qualcosa di meglio.

Burton uscì in un violento «No!», e gli voltò le spalle. Collop scosse tristemente il capo, ma conservò nei confronti di Burton il suo atteggiamento amichevole. Talvolta, con un certo senso dell’umorismo, lo chiamava «convertito di cinque minuti», intendendo non già il tempo impiegato per condurlo nel suo gregge, ma quello occorso a Burton per uscirne.

Circa in quell’epoca Collop fece la sua seconda conversione.

Goering non aveva fatto altro che schernire e beffare Collop. Poi riprese a masticare la narcogomma, e gli incubi tornarono.

Per due notti tenne svegli Collop e Burton con i suoi lamenti, i suoi sussulti, le sue urla. La sera del terzo giorno chiese a Collop se lo voleva accettare nella Chiesa. Però intendeva confessarsi: Collop doveva sapere che tipo di uomo era stato, sia sulla Terra sia sul pianeta del Fiume.

Collop stette ad ascoltare quel misto di autoumiliazione e autoesaltazione, poi disse: — Amico mio, non m’importa cosa puoi essere stato, ma solo quello che sei e sarai. Ho voluto ricevere la tua confessione soltanto perché essa dà sollievo all’anima. Ho potuto notare che sei profondamente turbato e che provi dolore e pentimento per quello che hai fatto, pur compiacendoti per ciò che una volta eri, cioè un uomo dotato di grande potere. Non ho compreso alcuni particolari di quanto mi hai detto, poiché non conosco molto della tua epoca; ma non ha importanza. Solo l’oggi e il domani devono riguardarci: gli altri giorni si governeranno da soli.

Burton ebbe l’impressione che Collop, più che non dar peso a quello che era stato Goering, non avesse creduto alla sua storia terrestre di gloria e di infamia. Gl’impostori erano così numerosi che gli autentici eroi o farabutti venivano svalutati. Burton aveva già incontrato tre Gesù Cristo, due Abramo, quattro Re Riccardo Cuor di Leone, sei Attila, una dozzina di Giuda (uno solo dei quali parlava l’aramaico), un George Washington, due Lord Byron, tre Jesse James, un’infinità di Napoleone, un generale Custer (che parlava con un forte accento dello Yorkshire), un Finn MacCool (che non conosceva l’irlandese antico), un Tchaka (che parlava il dialetto zulù sbagliato), e un mucchio di altri che probabilmente non erano ciò che affermavano di essere.

Qualunque cosa un uomo fosse stato sulla Terra, sul pianeta del Fiume doveva ricominciare da capo. Questo non era facile, in quanto le condizioni erano sostanzialmente diverse. Le vanterie dei grandi e dei potenti della Terra venivano accolte con scherno, e non era loro concesso di dimostrare la propria identità.

Tale umiliazione, secondo Collop, era una grazia divina. Prima l’umiliazione, diceva, e poi l’umiltà. Dopo di che, per forza di cose, sarebbe giunto il senso dell’umanità.

Goering era stato intrappolato nel Grande Progetto, come lo chiamava Burton, perché per sua natura era intemperante, soprattutto riguardo alle droghe. Pur sapendo che la narcogomma strappava quelle orribili cose nere dall’abisso del suo io riportandole alla luce e dilaniandolo in mille pezzettini, continuava a masticarla a più non posso. Per un po’, essendo stato momentaneamente disintossicato dalla seconda resurrezione, era riuscito a non accogliere il richiamo della droga. Ma poche settimane dopo il suo arrivo in quella regione aveva ceduto, e ora ogni notte era lacerata dal suo urlo: — Hermann Goering, ti odio!

— Se continua così — disse Burton a Collop — diventerà matto. O si ucciderà di nuovo o costringerà qualcuno a ucciderlo, così da potersi separare da se stesso. Ma il suicidio è inutile: una volta risorto ricomincerà da capo. Dimmi la verità, ora: questo non è l’inferno?

— Direi piuttosto il purgatorio — rispose Collop. — Il purgatorio è l’inferno con in più la speranza.

CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO

Erano passati due mesi. Burton teneva il conto dei giorni incidendo delle tacche su un ramo di pino con un coltello di selce. Quel giorno era il quattordicesimo del settimo mese del 5 d.R., il quinto anno dopo la Resurrezione. Burton si era assunto questo compito perché, tra le altre cose, amava diari e cronache. Ma il tempo non significava molto sul pianeta del Fiume. L’asse polare formava con l’eclittica un angolo costante di diciannove gradi, per cui non c’era avvicendamento di stagioni. Per di più le stelle sembravano quasi ammucchiate una sull’altra, e così diveniva impossibile catalogare i singoli astri e le costellazioni. Erano così numerose e così brillanti che neppure il sole di mezzogiorno riusciva a fare impallidire le più grandi. Si libravano nell’aria rovente, simili a fantasmi restii a ritirarsi al sopraggiungere della luce diurna.

Ma l’uomo ha bisogno del tempo, come il pesce ha bisogno dell’acqua; e se non c’è lo inventa. Così, secondo Burton, era il 14 giugno del 5 d.R.

Ma Collop, come molti altri, calcolava il tempo partendo dall’anno della propria morte. Per lui si era nel 1667. Egli non credeva che il suo dolce Gesù avesse voltato le spalle all’umanità. Anzi, quel Fiume era il Giordano, e quella valle la vallata della vita eterna. Ammetteva che l’aldilà non era quale egli si era aspettato, ma aggiungeva che sotto molti aspetti era un luogo di gran lunga più splendido. Inoltre era la prova dell’amore universale di Dio verso la Sua creazione. Egli aveva dato a tutti gli uomini una seconda possibilità, sebbene non meritassero simile dono. Se quel mondo non era la Nuova Gerusalemme, era un luogo preparato perché vi venisse costruita. Lì i mattoni, che erano l’amore di Dio, e la calce, che era l’amore tra gli uomini, dovevano essere preparati in quella fornace e in quella fabbrica: il pianeta del Fiume della Vallata.

Burton si faceva beffe di tale concezione, ma non poteva fare a meno di voler bene a quell’ometto. Collop era schietto: non alimentava il forno della propria gentilezza con le pagine di un libro di teologia. Non agiva secondo uno schema imposto: bruciava di una fiamma d’amore. Amore perfino verso le persone odiose, il più raro e difficile tipo di amore.

Raccontò a Burton qualcosa della propria vita sulla Terra. Era stato un agronomo, liberale ma con una fede incrollabile nella propria religione, benché pieno di dubbi sulla stessa sua fede e sulla società del suo tempo. Aveva scritto un atto di difesa per la tolleranza religiosa, che si era attirato lodi e condanne. Era stato anche poeta, celebre per breve tempo e poi negletto.

Signore, rivivi in me, compi nuovi miracoli
Che il miscredente possa vedere.
Fa’ che il lebbroso risani, il cieco riacquisti la vista,
Il morto risorga.

— Forse i miei versi sono morti, ma la verità in essi contenuta è tuttora valida — disse Collop a Burton. Agitò una mano per indicare le colline, il Fiume, le montagne, la gente. — Puoi constatarlo se apri gli occhi e non ti ostini a sostenere che tutto ciò è opera di uomini a nostra immagine. Basterebbe che tu ammettessi che codesti Etici stanno soltanto compiendo l’opera del Loro Creatore.

— Preferisco questi altri tuoi versi — replicò Burton. 

Anima insensibile, elevati:
Tu non sei la Terra. Sali più in alto!
I cieli hanno dato la scintilla:
Coglila, e fa’ divampare il fuoco.

Collop fu compiaciuto, non sapendo che Burton dava a quei versi un significato diverso da quello inteso dal poeta.

«Fa’ divampare il fuoco.»

Questo voleva dire, all’incirca, raggiungere la Torre Scura, scoprire i segreti degli Etici, e rivolgere contro di Essi le Loro stesse armi. Burton non provava riconoscenza per il fatto di aver ricevuto una seconda vita; anzi era offeso perché non gli avevano chiesto il permesso. Se proprio volevano dei ringraziamenti da parte sua, perché allora non gli spiegavano il motivo per cui gli avevano dato una seconda possibilità? Qual era il motivo per il quale tenevano celati i Loro scopi? Egli intendeva scoprire perché. La scintilla che Essi avevano riacceso in lui sarebbe mutata in un furioso incendio che Li avrebbe inceneriti.

Burton maledisse il destino che l’aveva portato così vicino alla sorgente del Fiume, e perciò alla Torre, e dopo pochi minuti l’aveva allontanato di nuovo, riconducendolo indietro in chissà quale punto del Fiume, lontano milioni di chilometri dalla sua meta. Tuttavia, se era stato là una volta poteva tornarvi ancora. Non via Fiume, dato che tale viaggio avrebbe richiesto almeno quarant’anni e forse più. Inoltre doveva calcolare che sarebbe stato catturato e fatto schiavo mille e mille volte. E se fosse stato ucciso nel frattempo, avrebbe potuto risorgere ancor più lontano dalla meta ed essere così costretto a ricominciare tutto da capo.

D’altra parte, data l’apparente casualità del punto in cui si risorgeva, non era impossibile che una volta o l’altra si risvegliasse ancora accanto alle sorgenti del Fiume. Fu questa considerazione a fargli concludere che doveva salire di nuovo sul Direttissimo del Suicidio. Però, pur sapendo che la morte sarebbe stata solo provvisoria, Burton non riuscì a mettere in pratica la sua determinazione. La mente gli diceva che la morte era soltanto una condizione temporanea, ma il corpo si ribellava. Il selvaggio istinto di sopravvivenza delle cellule era più forte della sua volontà.

Per un po’ cercò di illudersi di essere interessato allo studio della lingua e delle usanze degli esseri preistorici in mezzo ai quali viveva. Poi la sincerità trionfò, ed egli riconobbe che stava solo cercando scuse per rimandare il Lugubre Momento. Ciò malgrado non si decise ancora.

Burton, Collop e Goering furono tolti dalla capanna degli scapoli e nominati cittadini a tutti gli effetti. Presero abitazione in capanne singole, ed entro una settimana tutti e tre avevano trovato una donna con cui vivere. La Chiesa di Collop non richiedeva il celibato. Un membro, se lo desiderava, poteva pronunciare il voto di castità; ma poiché uomini e donne erano risorti in corpi che conservavano la piena efficienza sessuale degli originali, o la riacquistavano se sulla Terra era venuta meno, la Chiesa riteneva evidente che i Responsabili della Resurrezione avevano inteso che si facesse uso della sessualità. Era ben noto, sebbene ancora negato da alcuni, che il sesso aveva altri scopi oltre a quello della riproduzione. Orsù dunque, giovani, rotolatevi nell’erba.

Un altro risultato della logica inesorabile della Chiesa della Seconda Possibilità (che, a proposito, condannava la ragione in quanto ingannatrice) era che veniva permessa ogni forma di amore, purché fosse volontaria e non comportasse crudeltà o violenza. Lo sfruttamento dei bambini, invece, era proibito. Questo problema era destinato a scomparire entro un certo periodo di tempo: ancora pochi anni e tutti i bambini sarebbero diventati adulti.

Collop non volle prendersi una compagna che gli servisse solo da sfogo sessuale: esigeva una donna che egli potesse amare. Burton lo schernì per questo, e disse che si trattava di questione di ben poca importanza, in quanto facilmente risolvibile. Collop amava tutta l’umanità, per cui, in teoria, poteva prendersi la prima donna che gli avesse detto di sì.

— In realtà, amico mio, è andata proprio così — replicò Collop.

— È solo una coincidenza che costei sia bella, calda, e intelligente? — chiese Burton.

— Benché io mi sforzi di essere più che umano, o meglio di diventare del tutto umano, direi che lo sono fin troppo — rispose Collop. — Avresti voluto che mi martirizzassi intenzionalmente scegliendo un’orribile megera?

— In tal caso ti avrei giudicato ancor più sciocco di quello che già ti ritengo — commentò Burton. — Per quanto riguarda me, tutto ciò che chiedo a una donna è che sia bella e affezionata. Non m’importa nulla del suo cervello. E preferisco le bionde. C’è una corda in me che vibra sotto le dita di una donna dai capelli d’oro.

Goering si portò nella sua capanna una valchiria, una svedese del diciottesimo secolo alta e con spalle larghe e petto abbondante. Burton si chiese se questa era un surrogato della prima moglie di Goering, la cognata dell’esploratore svedese conte von Rosen. Goering ammise che non solo somigliava alla sua Karin, ma perfino aveva una voce quasi uguale. Sembrava che il tedesco fosse molto contento della donna e viceversa.

Poi una notte, durante l’immancabile pioggia antelucana, Burton fu strappato d’improvviso da un sonno profondo.

Gli pareva di aver udito un grido, ma tutto quello che poté sentire quando riuscì a destarsi completamente fu il rimbombo di un tuono e lo schianto di un fulmine caduto nelle vicinanze. Richiuse gli occhi, ma subito balzò a sedere. Una donna aveva strillato, in una delle capanne circostanti.

Si alzò, spalancò la porta di stecche di bambù, e mise fuori la testa. La pioggia fredda lo colpì in faccia. Tutto era immerso nell’oscurità, ad eccezione delle montagne occidentali illuminate dai lampi. Un fulmine gli cadde così vicino che ne fu assordato e abbagliato. Colse tuttavia una rapida visione di due spettrali figure bianche, proprio all’esterno della capanna di Goering. Il tedesco aveva le mani strette intorno al collo della sua donna, che cercava di spingerlo via afferrandolo per i polsi.

Burton si precipitò fuori dalla capanna, ma scivolò sull’erba bagnata e cadde. Proprio mentre si rialzava, un altro lampo mostrò la donna inginocchiata, col busto piegato all’indietro, e Goering che le stava sopra con la faccia sconvolta. Nello stesso istante Collop uscì dalla propria capanna, avvolgendosi una salvietta intorno ai fianchi. Burton si rimise in piedi e prese di nuovo a correre, sempre in silenzio. Ma Goering era scomparso. Burton s’inginocchiò accanto a Karla e le posò una mano sul cuore, ma non percepì alcun battito. Un altro fulmine gli permise di vedere il suo volto: bocca spalancata, occhi fuori dalle orbite.

Burton si alzò e gridò: — Goering! Dove sei?

Qualcosa lo colpì all’occipite, ed egli cadde a faccia in giù.

Intontito, cercò di mettersi ginocchioni, ma fu abbattuto da un altro colpo violento. Era sul punto di svenire, ma riuscì ugualmente a girarsi sulla schiena e a sollevare braccia e gambe per cercare di difendersi in qualche modo. Un fulmine gli permise di vedere Goering in piedi accanto a lui, con una clava in una mano. Il suo volto era quello di un pazzo.

L’oscurità era lacerata dai lampi. Una cosa bianca e indistinta uscì dalle tenebre balzando addosso a Goering. I due corpi pallidi caddero sull’erba, di fianco a Burton, e presero a rotolarsi. Strillavano come gatti, e un altro fulmine permise di vedere che si stavano graffiando a vicenda.

Burton si mise in piedi barcollando e fece un passo verso di loro, ma fu atterrato dal corpo di Collop, che Goering gli aveva spinto addosso. Di nuovo Burton si rialzò. Collop balzò in piedi e caricò Goering. Si udì un forte schianto, e Collop si accasciò a terra. Burton cercò di correre addosso a Goering, ma le gambe non gli obbedirono e lo portarono in un’altra direzione. Poi un altro lampo mostrò Goering immobilizzato, come in una foto col flash, nell’atto di abbattere una clava su Burton.

Burton, appena ricevette il colpo, perse la sensibilità del braccio sinistro. Ora anche questo, oltre alle gambe, non gli ubbidiva più. Tuttavia Burton agitò il braccio destro, cercando di raggiungere Goering. Ci fu un altro schianto, e gli parve che le costole gli si fossero disarticolate piegandosi all’interno contro i polmoni. Da questi uscì tutta l’aria, ed egli si trovò di nuovo sull’erba fredda e bagnata.

Qualcosa cadde accanto a lui. Malgrado la sua estrema sofferenza Burton allungò il braccio e trovò la clava, che Goering doveva aver buttato a terra. Si mise in ginocchio, con un brivido di dolore ad ogni respiro. Dov’era il pazzo? Due ombre indistinte oscillavano, sovrapponendosi e dividendosi. La capanna! Gli occhi erano diventati strabici, e Burton si chiese se avesse riportato una lesione al cervello. Poi non ci pensò più perché scorse la sagoma confusa di Goering alla luce di un lampo lontano. O meglio, due Goering. Sembrava che uno accompagnasse l’altro: quello di sinistra poggiava i piedi per terra, e quello di destra camminava a mezz’aria.

Entrambi avevano le braccia sollevate, come per farsele lavare dalla pioggia. E quando i due Goering si girarono avviandosi nella sua direzione, Burton si accorse che era proprio così. Gridavano in tedesco, con un’unica voce: — Cancella il sangue dalle mie mani! Oh, Dio, lavalo via!

Burton si avviò incespicando incontro a Goering, tenendo alta la clava, Intendeva abbattergliela addosso, ma d’improvviso Goering si voltò e fuggì. Burton lo seguì meglio che poté, giù per la collina, su per un’altra, e poi lungo la pianura. La pioggia cessò, tuoni e fulmini non si ripeterono più, e dopo cinque minuti, come al solito, le nubi scomparvero. Ora la luce delle stelle risplendeva sulla pelle bianca di Goering.

Procedeva davanti al suo inseguitore fluttuando come uno spettro, e sembrava volesse dirìgersi al Fiume. Burton gli teneva dietro, pur chiedendosi perché mai dovesse farlo. Le gambe avevano quasi ripreso a funzionare regolarmente, e la visione non era più sdoppiata. Alla fine raggiunse Goering. Questi se ne stava accucciato in riva al Fiume, e fissava le onde luccicanti per il riflesso delle stelle.

— Sei tornato in te? — chiese Burton.

Goering trasalì. Fece per alzarsi ma poi cambiò idea, e gemendo nascose la faccia tra le ginocchia.

— Mi rendevo conto di ciò che stavo facendo, ma non sapevo perché — disse con voce cupa. — Karla mi aveva annunciato che stamattina se ne sarebbe andata, perché non riusciva a dormire con tutto il chiasso che facevo durante i miei incubi. E anche perché mi comportavo in modo strano. Io la supplicai di rimanere, e le dissi che l’amavo moltissimo. Sarei morto se mi avesse abbandonato. Karla replicò che aveva della simpatia per me, o meglio l’aveva avuta, ma non mi amava. Di colpo mi balenò l’idea che se la volevo trattenere avrei dovuto ucciderla, e Karla scappò dalla capanna strillando. Il resto lo conosci.

— Pensavo di ucciderti — disse Burton. — Ma vedo che non sei più responsabile di quanto lo sia un pazzo. Però la gente di qui non accetterà questa giustificazione. Lo sai cosa ti faranno, no? Ti appenderanno a testa in giù per una caviglia, e ti lasceranno lì a penzolare finché morirai.

Goering gridò: — Io non capisco! Ma cosa mi succede? Tutti quegli incubi! Credimi, Burton: se ho peccato, ne ho più che pagato il fio! E invece continuo a pagare! Le mie notti sono un inferno, e presto lo diventeranno anche i miei giorni! Perciò mi rimane un solo sistema per avere la pace! Mi ucciderò! Ma non ne ricaverò alcun vantaggio: appena mi risveglierò, di nuovo l’inferno!

— Sta’ lontano dalla narcogomma — disse Burton. — Dovrai farne a meno del tutto, e puoi riuscirvi. Mi avevi detto che sulla Terra hai smesso di essere un morfinomane.

Goering si alzò, mettendosi di fronte a Burton. — Ma se non ne prendo più! Non l’ho più toccata da quando sono arrivato qui!

— Cosa? Avrei giurato…

— L’hai immaginato perché mi comportavo come se la prendessi! Non ne ho masticato più neanche un pezzettino, ma il risultato non è cambiato!

Malgrado la ripugnanza, Burton ebbe compassione di Goering. — Hai aperto il tuo vaso di Pandora, e ora sembra che tu non riesca a richiuderne il coperchio — osservò. — Non so come andrà a finire, ma non vorrei essere nei tuoi panni. Comunque te lo meriti.

Goering, con voce tranquilla e decisa, disse: — Li sconfiggerò.

— O meglio dominerai te stesso — replicò Burton. Fece per andarsene, ma si fermò per aggiungere un’ultima domanda. — Cos’hai intenzione di fare?

Goering indicò il Fiume. — Affogarmi — rispose. — Voglio ricominciare da capo. Forse alla prossima resurrezione mi troverò più forte. Quel che è certo è che non intendo lasciare che Essi facciano di me ciò che vogliono.

— Au revoir, allora — disse Burton. — E buona fortuna.

— Grazie. Sai, dopotutto sei un bravo ragazzo. Senti, vorrei dirti una cosa.

— Cioè?

— Farai meglio a tenerti lontano anche tu dalla narcogomma. Finora sei stato fortunato, ma uno di questi giorni ti capiterà quello che è capitato a me. Le tue colpe non saranno le mie, ma ti appariranno altrettanto mostruose e terrificanti.

Burton scoppiò in una sonora risata. — Sciocchezze! Non ho nulla da nascondere a me stesso! E ho masticato tanta di quella gomma da saperlo bene.

Voltò le spalle a Goering, ma rifletté sull’avvertimento ricevuto. Aveva preso la narcogomma ventidue volte, e ogni volta aveva giurato a se stesso di non riprovarci.

Quando ebbe camminato per un po’ si voltò indietro. La sagoma bianca e indistinta di Goering stava affondando lentamente nelle acqua nere e argentee del Fiume. Burton, amante com’era dei gesti melodrammatici, fece il saluto militare. Dopo di che non pensò più a Goering. Il dolore all’occipite, momentaneamente scomparso, gli ritornò più acuto di prima. Le ginocchia gli si mutarono in acqua, e a solo pochi metri dalla sua capanna fu costretto a sedersi in terra.

Doveva aver perduto i sensi, o quasi, dal momento che non ricordava di essere stato trascinato sull’erba. Quando riprese conoscenza si trovò a giacere su un letto di bambù, dentro una capanna.

C’era buio: l’unica luce era quella delle stelle, che filtrava attraverso le tre sbarre di legno assicurate all’esterno della finestra. Burton girò la testa e vide la sagoma biancastra e indistinta di un uomo accucciato accanto a lui. L’uomo aveva davanti agli occhi un minuscolo oggetto metallico, la cui estremità scintillante era puntata contro Burton.

CAPITOLO VENTICINQUESIMO

Appena Burton voltò il capo, l’uomo depose l’oggetto. — Ho impiegato molto tempo per trovarti, Richard Burton — disse in inglese.

Con la mano sinistra, nascosta alla vista dell’uomo, Burton frugò sul pavimento alla ricerca di un’arma, ma le sue dita incontrarono soltanto terra. — Adesso che mi hai trovato, maledetto Etico, cosa intendi farmi? — disse.

L’uomo cambiò leggermente posizione e ridacchiò. — Nulla — rispose. Fece una pausa, poi aggiunse: — Non sono uno di Essi. — Burton emise un’esclamazione soffocata, e l’uomo rise di nuovo. — Non è del tutto esatto. Sono con Loro, ma non sono dei Loro.

Raccolse l’oggetto che aveva puntato contro Burton. — Questo mi dice che hai il cranio fratturato e la commozione cerebrale. Devi essere molto robusto, altrimenti, con una ferita così grave, saresti già morto. Puoi cavartela, purché te la prenda con calma. Sfortunatamente però non hai il tempo per una convalescenza. Gli Altri sanno che sei in questa regione, quaranta chilometri più o meno. In un giorno o due ti avranno scovato.

Burton cercò di mettersi a sedere, ma si accorse che le sue ossa erano diventate molli come cera al sole, e avvertì una trafittura alla base del cranio. Con un gemito si rimise disteso.

— Chi sei, e cosa fai qui?

— Non posso dirti il mio nome. Se (o molto più verosimilmente quando) Essi ti piglieranno, esamineranno la tua memoria risalendo a ritroso fino al momento in cui ti svegliasti nella camera di preresurrezione. Non scopriranno che cosa ti abbia destato anzitempo, ma verranno a sapere di questa conversazione. Però potranno vedermi solo come mi vedi tu, una pallida ombra priva di lineamenti. Udranno pure la mia voce, ma non la riconosceranno. Sto usando un trasmutatore. Rimarranno comunque inorriditi. Quello che finora sospettano soltanto, e con una certa riluttanza, si rivelerà tutto d’un tratto vero. Nelle Loro fila c’è un traditore.

— Vorrei capire di cosa stai parlando — disse Burton.

— Te lo spiego subito — replicò l’uomo. — Ti hanno raccontato una mostruosa menzogna sullo scopo della Resurrezione. Quello che ti ha detto Spruce, e quello che insegna la creatura degli Etici, la Chiesa della Seconda Possibilità è tutta una menzogna! La verità è che voialtri esseri umani avete ricevuto una nuova vita solo per partecipare ad un esperimento scientifico. Gli Etici (nome sbagliato quanto mai) hanno trasformato questo pianeta in una valle, hanno costruito le pietre-fungo, vi hanno richiamati tutti in vita, solo per uno scopo: registrare la vostra storia e le vostre usanze. E in più, come obiettivo secondario, per studiare come reagivate alla Resurrezione stessa e alla mescolanza di diverse genti di epoche diverse. Si tratta soltanto di questo: un esperimento scientifico. E quando avrete adempiuto alla vostra funzione, giù di nuovo nella polvere! La storiella che vi hanno dato una seconda possibilità di meritare la salvezza eterna in quanto è Loro dovere etico, è un’altra menzogna! In realtà la mia gente non crede che voi meritiate di essere salvati: anzi, ritiene che neppure abbiate un’anima!

Per un po’ Burton rimase in silenzio. Lo sconosciuto era senz’altro sincero; o almeno, a giudicare dal suo respiro affannoso, era implicato nella faccenda, e ne era per di più turbato.

Alla fine Burton parlò. — Non capisco come mai qualcuno abbia affrontato tali spese e fatiche solo per condurre un esperimento scientifico, o registrare la storia antica.

— Per gli immortali il tempo non passa mai. Saresti sorpreso se sapessi cosa facciamo per rendere interessante l’eternità. Inoltre, avendo tutto il tempo a nostra disposizione, possiamo prendercela comoda, e nessun progetto, per quanto sconcertante, ci può spaventare. Dopo che l’ultimo terrestre morì, il lavoro necessario per organizzare la Resurrezione richiese parecchie migliaia di anni, anche se per la fase finale occorse un giorno soltanto.

— E tu? — replicò Burton. — Che cosa stai facendo tu? E, qualunque cosa sia, perché lo fai?

— Io sono l’unico vero Etico di quella razza mostruosa! A me non piace baloccarmi con voi come se foste delle bambole, o semplici oggetti da esaminare, o animali da laboratorio! Dopotutto, per quanto primitivi e immorali, siete senzienti. In un certo senso siete… siete…

La sagoma indistinta agitò un’altrettanto indistinta mano, come per tirar fuori dall’oscurità la parola. Poi continuò: — Userò il termine col quale vi riferite a voi stessi. Voi siete umani al pari di noi. Così come i subumani che inventarono la lingua erano umani come voi. E siete anche i nostri progenitori. Per quello che ne so, io potrei essere il tuo diretto discendente. Tutto il mio popolo potrebbe discendere da te.

— Ne dubito — disse Burton. — Non avevo figli. Almeno non mi risulta.

Burton voleva sapere molte cose, e cominciò a porre domande: ma l’uomo non gli prestò attenzione. Teneva quello strano oggetto puntato contro la propria fronte. Di colpo lo abbassò, e interruppe Burton nel bel mezzo di una frase.

— Ho… voi non avete una parola per questo… Ho… diciamo, ascoltato. Hanno localizzato il mio… wathan… Credo che si possa chiamarlo col vostro termine aura. Non sanno a chi corrisponde questo wathan, ma solo che è di un Etico. Caleranno qui entro cinque minuti. Devo andare.

La pallida sagoma si alzò. — Anche tu devi andare.

— Dove mi vuoi portare? — chiese Burton.

— Da nessuna parte. Tu devi morire: occorre che Essi trovino solo il tuo cadavere. Non posso portarti con me: è impossibile. Ma se tu muori qui, Essi ti perderanno di nuovo, e noi ci troveremo un’altra volta. Allora?

— Aspetta! — esclamò Burton. — Non capisco. Perché Essi non possono localizzarmi? Hanno costruito Loro gli impianti per la Resurrezione: non sanno dov’è il mio resurrettore personale?

L’uomo ridacchiò ancora. — No. La Loro registrazione dei terrestri era soltanto visiva, non anche sonora. E la collocazione nella camera di preresurrezione è stata casuale, poiché Essi avevano stabilito di seminarvi lungo il Fiume in una sequenza approssimativamente cronologica, se pur con una certa mescolanza. Intendevano passare in un secondo momento all’esame dei singoli. Allora, naturalmente, non immaginavano che uno di Essi si sarebbe opposto. Né che io avrei scelto alcuni dei Loro soggetti affinché mi aiutassero a mandare all’aria il Piano. Perciò non sanno in che zona tu e gli altri spunterete la prossima volta.

«Ora forse ti chiederai perché io non possa regolare il tuo resurrettore in maniera tale da farti arrivare alla tua meta, la sorgente del Fiume. In realtà lo predisposi in modo che appena ti fosse capitato di morire ti risvegliassi accanto alla primissima pietra-fungo. Ma tu non giungesti alla Torre, per cui presumo che i Titantropi ti abbiano ucciso prima. È un vero peccato, perché non oso più entrare nella camera di preresurrezione finché non avrò trovato un pretesto. L’ingresso è vietato a tutti quelli che non hanno l’autorizzazione. Essi sono diffidenti: sospettano qualche macchinazione. Perciò dipende da te, e dal caso, di tornare nella zona del Polo Nord. E per quanto riguarda gli altri, non ho mai avuto l’occasione di regolare il loro resurrettore. Anch’essi devono affidarsi alla legge delle probabilità. E queste sono di una contro venti milioni circa.

— Gli altri? — ripeté Burton. — Ma perché ci hai scelti?

— Avete l’aura adatta. Credimi, so quello che faccio. Ho scelto bene.

— Ma tu mi hai fatto capire di aver regolato il mio resurrettore in modo che mi risvegliassi prima del tempo, nella camera di preresurrezione. Qual era lo scopo?

— Era l’unica cosa in grado di convincerti che la Resurrezione non è un evento soprannaturale. E di metterti sulle tracce degli Etici. Avevo ragione? Be’, certo che l’avevo. Su, prendi questa.

Tese a Burton una minuscola capsula. — Mandala giù. Morirai all’istante, e per un po’ sarai lontano dalle Loro grinfie. E le tue cellule cerebrali verranno disgregate in modo tale che Essi non potranno ricavarne alcuna informazione. Svelto! Io devo andare!

— E se non la prendo? — disse Burton. — Se lascio che Essi mi catturino?

— Un uomo con la tua aura non lo farebbe mai — rispose lo sconosciuto.

Burton fu lì lì per decidere di non inghiottire la capsula. Perché doveva permettere a quell’arrogante di dargli ordini?

Poi considerò che non doveva darsi la zappa sui piedi. Così come stavano le cose, poteva soltanto fare il gioco dello sconosciuto o cadere nelle mani degli Altri.

— D’accordo — disse. — Ma perché non mi uccidi tu? Perché vuoi che lo faccia io?

L’uomo scoppiò a ridere, poi disse: — In questo gioco ci sono delle regole, che ora non ho tempo di spiegarti. Ma tu sei intelligente, e sei in grado di immaginartele quasi tutte da solo. Una è che noi siamo Etici. Possiamo dare la vita, ma non possiamo riprenderla direttamente. Non è che sia per noi inconcepibile, o al di fuori delle nostre capacità; è soltanto molto difficile.

Di colpo l’uomo scomparve. Burton non esitò, e inghiottì la capsula. Ci fu un lampo accecante…

CAPITOLO VENTISEIESIMO

… E i suoi occhi furono colpiti dalla luce del sole appena spuntato. Ebbe appena il tempo per una rapida occhiata circolare, con cui poté vedere il graal, il mucchio di salviette piegate strettamente… ed Hermann Goering.

Poi Burton e il tedesco furono afferrati da piccoli uomini scuri con la testa grossa e gambe arcuate. Costoro portavano asce di selce e lance, e indossavano salviette ma solo come cappe assicurate al collo corto e tozzo. Strisce di cuoio (senza dubbio pelle umana) erano avvolte intorno alla fronte sproporzionatamente grande e al cranio per trattenere i lunghi capelli ruvidi e neri. Sembravano un po’ dei mongoli, e parlavano una lingua sconosciuta a Burton.

Gli ficcarono sul capo un graal aperto, con l’imboccatura in basso, e con una cinghia di cuoio gli legarono le mani dietro la schiena. Cieco e impotente, con le lance dalla punta di pietra che lo pungolavano da tergo, Burton fu spinto attraverso la pianura.

Aveva fatto trecento passi allorché venne fermato. Cosa diavolo sarebbe accaduto? Forse quella era una cerimonia religiosa, in cui alla vittima veniva impedito di vedere? Perché no? Sulla Terra c’erano state molte popolazioni che non permettevano a chi era sacrificato in un assassinio rituale di riconoscere quelli che spargevano il suo sangue, altrimenti il fantasma dell’ucciso sarebbe tornato a vendicarsi degli uccisori.

Ma ormai tutti gli abitanti del pianeta del Fiume dovevano sapere che i fantasmi non esistevano. Oppure questi consideravano i «lazzari» appunto come tali, come fantasmi che si potevano rispedire alla loro terra d’origine semplicemente uccidendoli di nuovo?

Goering! Anch’egli era risorto lì. Accanto alla stessa pietra-fungo. La prima volta poteva essere stata una coincidenza, benché le probabilità contrarie fossero molto alte. Ma tre volte una dopo l’altra? No, questo era…

Al primo colpo la parete del graal si piegò contro il capo di Burton, facendolo quasi svenire. Tutto il corpo vibrò, macchie di luce presero a danzargli davanti agli occhi, ed egli cadde in ginocchio. Non riuscì a sentire il secondo colpo, e invece si svegliò un’altra volta in un posto diverso…

CAPITOLO VENTISETTESIMO

… E accanto a lui c’era Hermann Goering.

— Tu ed io dobbiamo essere anime gemelle — disse Goering. — Sembra che il Responsabile di tutto ciò ci abbia accoppiati.

— L’asino e il bue erano insieme — replicò Burton, lasciando al tedesco di decidere chi dei due era l’asino. Poi entrambi ebbero un gran daffare a presentarsi (o a tentare di presentarsi) agli abitanti della regione. Costoro, come Burton scoprì più tardi, erano Sumeri dell’epoca classica, vissuti cioè tra il 2500 e il 2300 a.C. Gli uomini si radevano il capo, cosa non facile con rasoi di selce, e le donne andavano a petto scoperto. In genere avevano corpo basso e tozzo, occhi sporgenti, e faccia, secondo Burton, orribile.

Ma se tra i Sumeri l’indice di bellezza non era elevato, i Samoani di epoca precolombiana che costituivano il trenta per cento della popolazione erano più che attraenti. E naturalmente c’era l’immancabile dieci per cento di gente di ogni luogo ed epoca, con prevalenza del ventesimo secolo. Questo era logico, poiché il loro totale costituiva un quarto dell’intera umanità. Naturalmente Burton non possedeva statistiche precise, ma i suoi spostamenti l’avevano convinto che gli uomini del ventesimo secolo erano stati sparpagliati lungo il Fiume in misura maggiore di quanto egli si fosse aspettato. Questo era un altro particolare del pianeta del Fiume che egli non capiva. Cosa avevano voluto ottenere gli Etici con quella distribuzione?

C’erano ancora troppe domande senza risposta. Burton aveva bisogno di tempo per riflettere, e non avrebbe concluso nulla se avesse continuato a compiere un viaggio dopo l’altro sul Direttissimo del Suicidio. Quella regione, a differenza della maggior parte delle altre, poteva offrire la quiete necessaria alla meditazione. Perciò Burton decise di rimanervi per un po’.

E poi c’era Hermann Goering. Burton intendeva osservare la sua strana forma di intossicazione. Una delle molte domande che non aveva potuto rivolgere allo Straniero Misterioso (Burton aveva la tendenza a pensare in lettere maiuscole) riguardava appunto la narcogomma. In che punto del quadro generale andava collocata? Faceva anch’essa parte del Grande Esperimento?

Sfortunatamente Goering non durò a lungo.

La prima notte cominciò a urlare. Poi si precipitò fuori dalla sua capanna e corse verso il Fiume, fermandosi di quando in quando per colpire l’aria o afferrare esseri invisibili o rotolarsi avanti e indietro nell’erba. Burton lo seguì fino in riva al Fiume. Qui giunto, Goering si preparò a gettarsi in acqua, probabilmente per affogarsi. Ma d’improvviso s’irrigidì, poi prese a rabbrividire, e infine crollò a terra, immobile come una statua. I suoi occhi erano aperti, ma nulla vedeva di ciò che lo circondava. La visione era esclusivamente interna. Dal momento che era incapace di parlare, non si poteva capire a quali orrori stesse assistendo.

Le sue labbra tremavano senza però emettere alcun suono, e non si fermarono per tutti e dieci i giorni in cui egli sopravvisse. Gli sforzi di Burton per farlo mangiare furono vani: la mandibola era bloccata. Goering si assottigliava davanti agli occhi di Burton: la carne si dissolveva, la pelle si ritirava, lo scheletro diventava evidente. Una mattina Goering ebbe le convulsioni, poi si alzò a sedere e gridò. Un attimo dopo era morto.

Burton, incuriosito, gli fece l’autopsia con quello che aveva a disposizione: coltelli di selce e seghe di ossidiana. La vescica di Goering, dilatatasi, era scoppiata spargendo l’urina in tutto il corpo.

Burton, prima di seppellire il cadavere, gli estrasse i denti. I denti avevano un valore commerciale, perché potevano essere infilati su budella di pesce o su tendini formando collane assai richieste. Lo scalpo fece la stessa fine. I Sumeri avevano copiato dai loro nemici, gli Shawnee del diciassettesimo secolo che stavano dall’altra parte del Fiume, l’abitudine di togliere lo scalpo ai morti. Poi avevano aggiunto la trovata «civile» di cucirne insieme un certo numero ricavandone mantelli, gonne, e perfino tende. Alla borsa-merci uno scalpo non valeva quanto un dente, però aveva sempre una buona quotazione.

Mentre scavava una fossa accanto a un grosso macigno, alla base delle montagne, Burton ebbe un lampo di memoria che lo illuminò. Aveva interrotto un attimo il lavoro per bere un sorso d’acqua, quando gli capitò di dare un’occhiata a Goering. I lineamenti distesi come quelli di un dormiente e la testa completamente nuda fecero scattare una molla nella sua mente.

Quando si era svegliato in quello sterminato locale, trovandosi a fluttuare in una fila di corpi, aveva visto quel volto. Apparteneva a un corpo della fila accanto alla sua. Goering, come tutti gli altri dormienti, aveva la testa glabra. Burton l’aveva notato solo di sfuggita nel breve tempo trascorso prima che i Guardiani lo scoprissero sveglio. Più tardi, dopo la Resurrezione generale, quando aveva incontrato Goering non si era accorto della somiglianza tra lui e l’altro, in quanto il tedesco aveva una folta capigliatura biondastra.

Ma ora seppe che quell’uomo si era trovato accanto a lui nella camera di preresurrezione.

Era possibile che i loro resurrettori, così vicini l’uno all’altro materialmente, fossero anche entrati in risonanza? Se era così, ogniqualvolta la morte sua e di Goering fosse avvenuta all’incirca nello stesso istante, entrambi sarebbero risorti accanto alla medesima pietra-fungo. La battuta di Georing, cioè che essi erano anime gemelle, poteva essere non troppo lontana dal vero.

Burton riprese a scavare, imprecando al tempo stesso perché aveva tante domande e così poche risposte. Se avesse avuto un’altra possibilità di mettere le mani su un Etico gli avrebbe strappato fuori le risposte, in un modo o nell’altro.

Nei tre mesi che seguirono, Burton fu impegnato nell’adattarsi alla strana società di quella regione. Si trovò affascinato dalla nuova lingua che si era formata dalla fusione del sumero col samoano. Poiché i sumeri erano in maggior numero, la loro lingua aveva avuto il sopravvento sulle altre. Ma, come in ogni altro luogo, la lingua dominante aveva riportato una vittoria di Pirro. Il risultato della fusione era un dialetto ibrido con flessione assai ridotta e sintassi semplificata. Il genere grammaticale era stato eliminato, le parole troncate, tempi e modi del verbo ridotti al solo presente, che era usato anche per il futuro, mentre avverbi di tempo indicavano il passato. Le frasi idiomatiche erano state sostituite da espressioni che potessero essere comprese tanto dai sumeri quanto dai samoani, anche se le prime volte sembravano goffe e banali. E molte parole samoane, con qualche modifica alla pronuncia, avevano preso il posto delle corrispondenti sumere.

Una simile nascita di nuovi dialetti si stava verificando lungo tutta la valle del Fiume. Burton pensò che gli Etici dovevano affrettarsi se avevano intenzione di registrare tutte le lingue dell’umanità: quelle originali stavano scomparendo, o meglio si trasformavano. Ma, per quello che ne sapeva, Essi potevano aver già provveduto a tale compito. Forse i loro registratori, così necessari ai fini della Resurrezione, erano in grado di ricevere ogni lingua.

Nel frattempo Burton, di sera, quando aveva la possibilità di rimanere da solo, fumava i sigari così generosamente offerti dai graal e cercava di analizzare la situazione. A chi doveva credere? Agli Etici o al Traditore, lo Straniero Misterioso? O sia l’uno che gli altri mentivano?

Perché lo Straniero Misterioso aveva bisogno di lui per bloccare la macchina cosmica degli Etici? Com’era possibile che Burton, semplice essere umano intrappolato in quella valle e così limitato dalla sua ignoranza, fosse utile al Giuda?

Una cosa era certa: se lo Straniero non avesse avuto bisogno di lui non sarebbe andato a cercarlo. Invece voleva che egli raggiungesse quella Torre situata al Polo Nord.

Perché?

A Burton occorsero due settimane per trovare l’unica risposta ragionevole.

Lo Straniero aveva detto che né lui né gli altri Etici potevano togliere direttamente la vita a qualcuno. Però non aveva alcuno scrupolo a compiere tale azione per interposta persona, come dimostrava il fatto che aveva dato il veleno a Burton. Perciò, se voleva che Burton entrasse nella Torre, ciò significava che egli aveva bisogno di Burton come sicario. Egli avrebbe aperto la finestra all’assassino prezzolato, facendo entrare in mezzo alla propria gente una tigre in libertà.

Un assassino esige il compenso. Che compenso offriva lo Straniero?

Burton aspirò il fumo del sigaro sino in fondo ai polmoni, poi lo espirò di nuovo e buttò giù un sorso di bourbon. Lo Straniero avrebbe cercato di sfruttarlo? Benissimo! Ma che stesse in guardia: anche Burton avrebbe sfruttato lo Straniero.

Alla fine del terzo mese Burton decise di aver riflettuto abbastanza. Era tempo di andarsene.

In quel momento stava nuotando nel Fiume, e seguendo l’impulso si diresse al centro di esso. Si immerse e scese alla maggior profondità che poté, prima che l’insopprimibile istinto di sopravvivenza del suo corpo lo costringesse a salire con furiose bracciate per respirare l’amata aria. Ma non salì. I pesci necrofagi avrebbero divorato il suo corpo, e le sue ossa sarebbero cadute sul fondo del Fiume, in mezzo al fango, a trecento metri dalla superficie. Tanto meglio. Burton non voleva che il suo corpo finisse nelle mani degli Etici. Se era vero quanto aveva detto lo Straniero Misterioso, Essi erano in grado di estrarre dalla sua mente tutto ciò che aveva visto e udito, sempre che l’avessero trovato prima che le cellule cerebrali fossero danneggiate.

Burton ritenne che non ci fossero riusciti. Durante i successivi sette anni, a quel che gli risultò, non fu mai localizzato dagli Etici. Se il Traditore sapeva dove egli era, non lo volle spiegare a Burton. Questi dubitava che qualcuno lo sapesse: egli stesso non era in grado di stabilire in quale parte del pianeta si trovasse, e quanto lontano o vicino fosse al quartier generale della Torre. Ma andava sempre avanti, avanti, senza fermarsi mai. E un giorno rifletté che doveva aver battuto un singolarissimo record. La morte era divenuta per lui una seconda natura.

Se il suo conto era esatto, aveva compiuto 777 viaggi sul Direttissimo del Suicidio.

CAPITOLO VENTOTTESIMO

Talvolta Burton si paragonava a una cavalletta: migrava per il pianeta spiccando un salto nel buio della morte, atterrando, rosicchiando un po’ d’erba con un occhio teso a cogliere l’ombra che avrebbe annunciato l’attacco dell’uccello nemico, ossia di un Etico. In quel vasto prato di umanità aveva fatto un breve assaggio di numerose erbe, spiccando subito un nuovo salto.

Altre volte si paragonava ad una rete che raccogliesse qua e là dei campioni nell’immenso mare dell’umanità. Aveva preso pochi pesci grossi e molte sardine, ma dai pesci piccoli imparava tanto quanto da quelli più grandi, se non di più.

Però l’immagine della rete non gli piaceva molto, perché gli ricordava l’altra rete ben più ampia tesa per acchiappare lui.

Metafore a parte, non poteva negare di essere divenuto un vero giramondo. Spesso s’imbatte nella leggenda di Burton lo Zingaro, oppure, in una regione dove predominava la lingua inglese, di Richard lo Scout, oppure ancora, in un’altra, di Lazzaro Saltatore. Questo lo preoccupava un poco, perché gli Etici avrebbero potuto ricavarne un indizio del suo sistema di fuga e prendere delle misure atte a farlo cadere in trappola. O addirittura intuire la sua meta finale e sistemare delle guardie vicino alle sorgenti del Fiume:

Alla fine del settimo anno Burton, mediante molte osservazioni delle stelle diurne e molte conversazioni, si era fatto un’idea del percorso del Fiume.

Nasceva a nord, dal mare polare, zigzagava su e giù per l’emisfero settentrionale, poi faceva altrettanto in quello meridionale sfociando nel mare opposto, al polo sud. E il Titantropo, il subumano che affermava di aver visto la Torre Brumosa, aveva detto, sempre che gli si dovesse prestar fede, che la Torre si ergeva da un mare avvolto dalle nebbie.

Burton aveva udito la storia solo di seconda mano. Ma al suo primo «balzo» aveva visto i Titantropi accanto alla sorgente del Fiume, e non sembrava impossibile che uno di essi avesse effettivamente attraversato le montagne riuscendo da lì a cogliere una visione del mare polare. Dove un uomo era andato, anche un altro poteva recarsi.

E come faceva il Fiume a scorrere in salita?

La sua velocità sembrava costante, anche là dove avrebbe dovuto diminuire o addirittura scendere a zero. Da ciò Burton ipotizzò l’esistenza di campi gravitazionali locali che spingessero in avanti l’enorme massa d’acqua finché questa fosse giunta in una zona dove l’avrebbe fatta procedere la gravità naturale del pianeta. Da qualche parte dovevano trovarsi i relativi impianti, forse sepolti sotto il Fiume stesso, e il campo da essi prodotto doveva essere molto circoscritto, in modo da non sottoporre gli abitanti della zona ad una gravità sensibilmente diversa da quella della Terra.

C’erano ancora troppe domande. Era necessario che Burton procedesse ancora, fino ad arrivare nel luogo in cui avrebbe trovato le risposte, o presso gli Esseri che gliele avrebbero fornite.

E sette anni dopo la sua prima morte raggiunse il posto desiderato.

Aveva effettuato il 777° «balzo». Burton era convinto che il sette era per lui un numero fortunato. Malgrado le derisioni dei suoi amici del ventesimo secolo, credeva fermamente nella maggior parte delle superstizioni che aveva avuto sulla Terra. Spesso rideva di quelle altrui, eppure riteneva che certi numeri gli portassero fortuna, e che pezzi d’argento posati sugli occhi gli ripristinassero il vigore del corpo stanco e giovassero alla sua «seconda vista», cioè quella sorta di sesto senso che lo preavvertiva dell’arrivo di situazioni spiacevoli. Verissimo che su quel pianeta povero di minerali non sembrava esserci argento, ma se ne avesse trovato l’avrebbe potuto usare a proprio vantaggio.

Per tutto quel primo giorno rimase in riva al Fiume. Non prestò molta attenzione a quelli che cercavano di parlare con lui, e si limitò a indirizzar loro un fuggevole sorriso. Diversamente dalla maggior parte delle popolazioni da lui incontrate, questa gente non sembrava ostile. Il sole si spostava lungo le cime orientali, illuminandone soltanto la cresta. Poi l’astro sfolgorante attraversò la valle, più basso di quanto Burton avesse mai visto prima, eccetto quando si era svegliato in mezzo ai Titantropi. Per un po’ il sole inondò la valle di luce e calore, poi prese a calare dietro le montagne occidentali. L’oscurità invase la valle, e l’aria si fece più fredda di quanto Burton avesse mai sentito, ad eccezione sempre del punto d’arrivo del suo primo «balzo». Il sole continuò il suo giro finché si trovò di nuovo dove l’aveva visto Burton appena aveva aperto gli occhi.

Stanco per la veglia di ventiquattr’ore, ma soddisfatto, Burton si guardò intorno per vedere dov’erano le capanne. Così facendo si accorse di essere nella regione artica. Però non nella zona vicina alle sorgenti del Fiume: questa volta era risorto all’altra estremità, la foce.

Udì una voce familiare, ma non riuscì a identificarla. Ormai ne aveva conosciute talmente tante!

Anima insensibile, elevati:
Tu non sei la Terra. Sali più in alto!
I cieli hanno dato la scintilla:
Coglila, e fa’ divampare il fuoco.

— John Collop!

— Abdul ibn Harun! E qualcuno dice che i miracoli non esistono! Cosa ti è capitato dall’ultima volta che t’ho visto?

— Sono morto la stessa notte in cui moristi tu — rispose Burton. — E parecchie volte ancora. Ci sono molti malvagi in questo mondo.

— È più che naturale: ce n’erano molti sulla Terra. Oserei dire però che il loro numero è assai diminuito: infatti la Chiesa, sia lode a Dio, ha potuto fare un buon lavoro, soprattutto in questa regione. Ma seguimi, amico mio: ti presenterò alla mia compagna. È una donna deliziosa, e in più fedele: questo significa molto in un mondo che sembra dar così poco valore alla fedeltà coniugale o meglio ancora a qualsiasi virtù. È nata nel ventesimo secolo, e per quasi tutta la vita ha insegnato inglese. Talvolta, in verità, penso che mi ami non tanto per quello che sono quanto perché può apprendere la lingua della mia epoca.

Fece una strana risatina nervosa, dalla quale Burton capì che Collop stava scherzando.

Attraversarono la pianura dirigendosi alle colline. Alla base di queste c’erano delle capanne, davanti a ciascuna delle quali era acceso un fuoco su una piccola lastra di pietra. Uomini e donne si erano per la maggior parte avvolti intorno al capo le salviette, per proteggersi dal freddo della notte.

— Che luogo tetro e gelido! — esclamò Burton. — A chi verrebbe voglia di vivere qui?

— Quasi tutti costoro sono finlandesi e svedesi della fine del ventesimo secolo. Erano già avvezzi al sole di mezzanotte. A parte questo dovresti essere contento di trovarti qui. Ricordo la tua ardente curiosità intorno alle regioni polari, e le congetture che facevi al riguardo. Ci sono stati altri che, come te, hanno seguito il corso del Fiume per cercare la loro Ultima Tule, o, se questo termine non ti piace, il secchio pieno d’oro alla base dell’arcobaleno. Ma molti non sono stati più visti, e gli altri hanno dovuto tornare indietro, scoraggiati da ostacoli insuperabili.

— Vale a dire? — chiese Burton, stringendo il braccio a Collop.

— Amico mio, mi fai male. Primo, le pietre-fungo terminano, cosicché non c’è più la possibilità di ricaricare i graal. Secondo, a un certo punto la pianura cessa di colpo, e il Fiume prosegue il suo corso direttamente in mezzo alle montagne, in una gelida gola tenebrosa. Terzo, non so cosa ci sia al di là, perché nessuno di quelli che vi sono andati è tornato indietro a dirmelo. Ma temo che abbiano fatto la fine di tutti coloro che commettono il peccato di superbia.

— Quanto dista questo luogo senza ritorno?

— Con tutti i serpeggiamenti del Fiume, circa quarantamila chilometri. Navigando in continuazione puoi arrivarci in un anno o poco più. Solo il Padre Onnipotente sa quanto dovrai camminare ancora da quel punto per giungere all’effettivo termine del Fiume. Probabilmente moriresti prima di fame, perché là non ci sono più pietre-fungo.

— Ho un solo modo per esseme sicuro — commentò Burton.

— Nulla dunque ti fermerà, Richard Burton? — esclamò Collop. — Non desisterai mai da questo sterile scopo fisico, mentre invece dovresti proseguirne uno metafisico?

Burton afferrò di nuovo il braccio di Collop. — Hai detto Burton?

— Proprio così. Tempo fa il tuo amico Goering mi riferì che questo era il tuo vero nome. Mi disse anche altre cose su di te.

— Goering è qui?

— È andato via due anni fa — rispose Collop facendo segno di no col capo. — Ora vive a un paio di chilometri da qui. Domani stesso potrai vederlo, e so che sarai lieto del cambiamento che noterai in lui. Ha vinto la dissoluzione operata in lui dalla narcogomma, ricostruendo con i frammenti di se stesso un uomo nuovo e migliore. In effetti ora è il capo della sezione locale della Chiesa della Seconda Possibilità.

«Mentre tu, amico mio, andavi in cerca di un insignificante graal fuori di te, egli ha trovato dentro di sé il Santo Graal. Mancava poco che fosse ucciso dalla pazzia, o che piombasse di nuovo nelle malvagie abitudini della sua vita terrestre. Ma con la grazia di Dio, e mediante il suo sincero desiderio di mostrarsi degno della Seconda Possibilità, egli… Ma vedrai da te domani. E io prego che tu possa trarre profitto dal suo esempio.

Collop entrò nei particolari. Goering era morto tante volte quanto Burton, di solito per suicidio. Incapace di sopportare gl’incubi e l’auto-ripugnanza, aveva cercato a più riprese di farla finita. Inutilmente: godeva solo di una breve sospensione, e il giorno dopo si trovava di nuovo di fronte a se stesso. Ma una volta giunto in quella regione e chiesto aiuto a Collop, l’uomo che egli aveva ucciso, Goering aveva trionfato su di sé.

— Sono sbalordito — commentò Burton. — E anche contento per lui. Ma io ho altre mete da raggiungere, e vorrei che tu mi promettessi di non rivelare a nessuno la mia vera identità. Lascia che io continui ad essere Abdul ibn Harun.

Collop rispose che avrebbe mantenuto il silenzio. Però gli dispiaceva, aggiunse, che Burton non potesse rivedere Goering e giudicare da sé in che modo la fede e l’amore fossero in grado di operare perfino nell’essere apparentemente più corrotto e irrecuperabile. Poi condusse Burton nella propria capanna e lo presentò alla moglie, una brunetta dal corpo minuto. Questa accolse l’ospite con estrema cordialità, e volle accompagnare a tutti i costi i due uomini nella loro visita al capo locale.

Ville Ahonen era un uomo colossale, che parlava con molta calma. Ascoltò pazientemente Burton, il quale, rivelando solo metà del suo progetto, disse che voleva costruire un’imbarcazione per navigare fino al termine del Fiume. Burton non accennò al fatto che intendeva poi procedere oltre, ma era chiaro che Ahonen aveva già incontrato dei tipi come lui.

Sorrise con aria d’intesa, rispondendo che Burton poteva costruirsi la sua imbarcazione. C’era un fatto, però: gli abitanti di quella regione erano piuttosto conservatori, e non volevano che la loro terra fosse spogliata degli alberi. Querce e pini non si potevano toccare; però era disponibile il bambù, e Burton l’avrebbe avuto in cambio di sigarette e liquori.

Questo significava un certo tempo di attesa, necessario per accumulare mediante il rifornimento del graal il quantitativo richiesto. Burton ringraziò e se ne andò. Più tardi si coricò in una capanna vicina a quella di Collop, ma non riuscì a prender sonno.

Un po’ prima che arrivasse l’inevitabile pioggia decise di lasciare la capanna. Si sarebbe diretto alle montagne, riparandosi sotto una cengia finché la pioggia fosse cessata, le nubi sparite, e l’eterno e debole sole riapparso. Adesso che era così vicino alla meta non voleva che Essi lo scoprissero. Ed era più che probabile che gli Etici avessero concentrato i Loro agenti in quella zona. Per quel che ne sapeva Burton, la stessa moglie di Collop poteva essere dei Loro.

Non aveva ancora camminato per un chilometro che la pioggia sopraggiunse, e un fulmine cadde a poca distanza da lui. Alla luce abbagliante, Burton vide guizzare qualcosa davanti a sé, a poco più di cinque metri.

Fece dietro-front e corse verso un boschetto per nascondervisi, sperando che Essi non l’avessero visto. Se non era stato scorto poteva inerpicarsi con sicurezza sulle montagne. E una volta che l’intera regione fosse sprofondata nel sonno artificiale, Essi avrebbero scoperto che egli era riuscito a fuggire di nuovo…

CAPITOLO VENTINOVESIMO

— La caccia è stata lunga e difficile, Burton — disse un uomo in inglese.

Burton riaprì gli occhi, e per un attimo rimase esterrefatto di trovarsi in quel luogo. Era seduto in una poltrona di un materiale assai soffice ed elastico. Il locale era una sfera perfetta, di un verde slavato e semitrasparente. Burton scorse altre sfere simili tutt’attorno: davanti, dietro, sopra, sotto: ma lo sbalorditivo era che esse non erano adiacenti a quella in cui egli si trovava, bensì la intersecavano. Ne intravide infatti le calotte all’interno della sua sfera, per quanto fossero incolori e traslucide.

Sulla superficie della sfera, in un punto diametralmente opposto a quello in cui stava Burton, c’era un ovale di un verde più scuro, concavo anch’esso, in cui si vedeva una foresta spettrale. Un daino fantasma attraversò la scena, da cui proveniva odor di pino e sanguinella.

Davanti a Burton, all’interno della sfera, dodici persone sedevano su poltrone uguali alla sua. Sei erano uomini, e sei donne. Tutti avevano un aspetto magnifico, e, tranne due, capelli neri o molto scuri e pelle assai abbronzata.

Una donna aveva una lunga chioma bionda e ondulata, e un uomo era rosso di pelo, di un rosso-volpe. I lineamenti dell’uomo erano irregolari, il suo naso grande e aquilino, gli occhi di un verde scuro.

Tutti e dodici portavano un camiciotto color argento o porpora dalle maniche corte e rigonfie e dal colletto arricciato, una sottile cintura luminescente, un gonnellino e sandali. Sia uomini che donne avevano gli orecchini, e le dita delle mani e dei piedi smaltate, le labbra tinte col rossetto, gli occhi truccati.

Sopra le teste di ciascuno, quasi a contatto con i capelli, ruotava un globo di una trentina di centimetri di diametro, che cambiava continuamente di colore passando attraverso tutte le sfumature dello spettro. Di quando in quando ogni globo emetteva lunghe diramazioni esagonali, di color verde o blu o nero o bianco brillante. Poi le diramazioni scomparivano e di lì a poco il ciclo si ripeteva.

Burton posò gli occhi sul proprio corpo. Indossava solo una salvietta nera avvolta intorno ai fianchi.

— Anticipo la tua prima domanda precisandoti che non ti daremo alcuna informazione circa il luogo in cui ti trovi.

A parlare era stato l’uomo dai capelli rossi. Fece un sorrisetto a Burton, rivelando denti di un candore non umano.

— Benissimo — replicò Burton. — Non so chi sei, ma dimmi: a quali domande risponderete? Per esempio, come avete fatto a trovarmi?

— Io sono Loga. Ti abbiamo trovato in parte grazie al nostro lavoro di ricerca, in parte per caso. È stata una cosa complicata, ma te la spiegherò molto semplicemente. Ti abbiamo messo alle calcagna un certo numero di agenti: un numero penosamente piccolo, considerando quello dei candidati che vivono lungo il Fiume, che è di trentasei miliardi sei milioni novemilaseicentotrentasette.

Candidati? pensò Burton. Candidati a cosa? Alla vita eterna? Allora Spruce aveva detto il vero circa lo scopo della Resurrezione?

— Non avevamo la minima idea che tu stessi sfuggendo alle nostre ricerche mediante il suicidio — continuò Loga. — Non lo sospettammo neppure scoprendoti in zone così remote che non avresti potuto raggiungerle se non con una nuova resurrezione: pensammo solo che eri stato ucciso. Gli anni passarono, e non sapevamo dove fossi. Avevamo altre cose da fare, e così ritirammo tutti gli agenti assegnati al Caso Burton, come lo chiamavamo, tranne alcuni appostati a entrambe le estremità del Fiume. In qualche modo venisti a conoscenza della Torre Polare, e più tardi scoprimmo come. I tuoi amici Goering e Collop ci furono assai d’aiuto, benché naturalmente non sapessero che stavano parlando con un Etico.

— Chi ti avvertì che ero vicino alla fine del Fiume? — chiese Burton.

Loga fece un sorriso. — Non c’è alcun bisogno che tu lo sappia. In ogni caso avremmo finito col prenderti. Vedi, ogni loculo della camera di ringiovanimento (quel posto dove stranamente ti svegliasti durante la fase di preresurrezione) è munito di contatore automatico, a scopo di statistica e di studio. Noi vogliamo prendere nota di tutto quello che succede. Un candidato che muore un numero di volte superiore alla media, per esempio, presto o tardi diviene oggetto di studio. Di solito tardi, in quanto non abbiamo molti tecnici. Infatti fu solo quando eri già morto settecentosettantasette volte che cominciammo a esaminare i casi di resurrezione più frequente. Tu avevi raggiunto il totale più alto: suppongo che dobbiamo farti le nostre congratulazioni per questo.

— Ce ne sono altri nelle mie condizioni?

— Non ci siamo messi sulle loro tracce, se è questo che intendi dire. Comunque sono relativamente pochi. Noi non avevamo la minima idea che fossi proprio tu quello che aveva raggiunto un totale così sorprendente di resurrezioni. Quando iniziammo l’esame della camera di P.R., il tuo loculo era vuoto. I due tecnici che ti avevano scorto quando ti svegliasti anzitempo ti identificarono mediante la … fotografia. Noi regolammo il tuo resurrettore in modo che un allarme scattasse la prima volta che il tuo corpo fosse stato ricreato: così fummo in grado di portarti qui.

— E se io non fossi più morto? — disse Burton.

— Non avresti potuto evitarlo! Avevi progettato di arrivare al mare polare attraverso la foce del Fiume, giusto? È una cosa impossibile. Per gli ultimi centocinquanta chilometri il Fiume scorre in un tunnel sotterraneo: qualsiasi imbarcazione sarebbe fatta a pezzi. Avresti trovato la morte, come gli altri che hanno osato affrontare il viaggio.

Burton disse ancora: — La mia fotografia, quella che presi ad Agneau, è stata evidentemente scattata sulla Terra quando ero ufficiale in India. In che modo?

— Prova un po’ a indovinare, Burton! — rispose Loga sorridendo di nuovo.

Burton sentì il desiderio di far scomparire quel sorrisetto di superiorità dalla faccia di Loga. Sembrava che nulla lo trattenesse, e che egli potesse avvicinarsi a Loga e suonargliele. Ma non era verosimile che gli Etici si trovassero nello stesso locale con lui senza aver previsto un sistema di difesa. Sarebbe stato come mettere in libertà una iena rabbiosa.

— Siete riusciti a scoprire che cosa ha fatto svegliare anzitempo me e gli altri? — chiese.

Loga ebbe un sussulto, e parecchi dei suoi colleghi emisero un’esclamazione soffocata.

Loga fu il primo a riaversi. — Abbiamo esaminato da cima a fondo il tuo corpo — rispose. — Non hai idea di quanto minuzioso sia stato tale esame. Abbiamo analizzato ogni componente del tuo… della tua aura, come credo che diciate. — Indicò il globo che aveva sopra il capo. — Non abbiamo trovato il minimo indizio.

Burton gettò la testa all’indietro e scoppiò in una lunga e sonora risata.

— Così voialtri bastardi non sapete ogni cosa!

Loga fece un sorriso forzato. — No. Né mai ci arriveremo. Solo Uno è onnipotente.

Con le tre dita centrali della mano destra si toccò la fronte, labbra, cuore, genitali. Gli altri lo imitarono.

— Comunque, se questo ti può far piacere, ti dirò che ci hai spaventati, e che ci spaventi tuttora. Vedi, noi siamo assolutamente sicuri che tu sia uno degli uomini dai quali dobbiamo stare in guardia.

— Stare in guardia? Perché?

— Così disse un… una specie di gigantesco calcolatore, vivente. E la cosa fu confermata dal suo operatore. — Di nuovo Loga fece lo strano gesto con le tre dita. — Questo è tutto ciò che intendo dirti, malgrado il fatto che poi, quando ti rimanderemo nella valle del Fiume, provvederemo a cancellarti ogni ricordo di quanto è successo quaggiù.

Burton si sentì scoppiare di collera, ma non tanto da non accorgersi che Loga aveva detto «quaggiù». Questo significava che gli impianti per la resurrezione, e il nascondiglio degli Etici, si trovavano sotto la superficie del pianeta?

— I dati — continuò Loga — indicano che tu sei potenzialmente in grado di rovesciare i nostri piani. Perché dovresti farlo, e in che modo, non lo sappiamo. Ma abbiamo fiducia nella nostra fonte di informazioni: non puoi immaginare fino a che punto.

— Se siete convinti di questo — osservò Burton — perché non mi rimettete semplicemente nella camera di preresurrezione? Potete appendermi tra quelle due barre e lasciarmi ruotare come un pollo sullo spiedo finché i vostri piani siano portati a termine.

— Non potremmo farlo! — esclamò Loga. — Questa sola azione rovinerebbe tutto! Come conseguiresti in tal modo la salvezza? Inoltre ciò costituirebbe un’imperdonabile violenza da parte nostra! È inconcepibile!

— Siete stati pur violenti quando mi avete costretto a fuggire e nascondermi — replicò Burton. — E lo siete anche ora, tenendomi qui contro la mia volontà. E lo sarete quando distruggerete il mio ricordo di questo piccolo tête-à-tête con voi.

Loga si torse le mani. Se era lui l’Etico traditore, lo Straniero Misterioso, era un grande attore. Con voce triste disse: — Questo è vero solo in parte. Noi dobbiamo prendere certe misure per proteggerci. Se tu fossi stato un altro ti avremmo lasciato assolutamente in pace. È vero che abbiamo infranto il nostro codice etico facendoti fuggire da noi e studiandoti, ma questo doveva essere compiuto per forza. E credimi, lo stiamo scontando con un’estrema sofferenza mentale.

— Potete compensarmi in parte spiegandomi perché io e tutti gli esseri umani mai vissuti siamo risorti. E in che modo.

Loga parlò, interrotto di tanto in tanto da qualcuno degli altri. Più di tutti interloquì la donna dai capelli biondi, e dopo un po’ Burton dedusse dall’atteggiamento di lei e di Loga che la donna doveva essere sua moglie oppure avere un alto grado.

Burton osservò un altro Etico. Quando interrompeva Loga, veniva ascoltato con tale attenzione e rispetto che Burton fu convinto che si trattasse del capo del gruppo. Una volta girò il capo in modo tale che la luce gli si riflettesse su un occhio. Burton rimase stupefatto, perché non si era accorto che l’occhio sinistro di quell’uomo era un rubino.

Burton pensò che probabilmente si trattava di un dispositivo che gli dava dei poteri negati agli altri. Da quel momento, tutte le volte che lo pseudo-occhio si posava su di lui Burton si sentiva a disagio. Cosa poteva vedere, quella pietra rutilante?

Alla fine della spiegazione Burton non sapeva molto di più di quello che già conoscesse. Gli Etici potevano scrutare nel passato con una specie di cronoscopio, e mediante questo strumento erano stati in grado di registrare qualsiasi essere vivente che avessero voluto. Usando queste registrazioni come modelli, avevano poi provveduto alla resurrezione grazie a convertitori di energia-materia.

— Cosa sarebbe successo — chiese Burton — se aveste ricreato contemporaneamente due corpi dello stesso individuo?

Loga fece un mezzo sorriso e rispose che l’esperimento era stato tentato. Uno solo dei due corpi era tornato in vita.

Burton sogghignò come un gatto che ha appena mangiato un topo. — Credo che mi stiate mentendo — disse. — O propinando delle mezze verità. C’è qualcosa che non funziona in tutto questo. Se gli esseri umani possono raggiungere un livello etico così alto da riuscire a ottenere la «salvezza», come mai voialtri Etici, ritenuti superiori agli esseri umani, siete ancora qui? Neanche voi avete ancora ottenuto la salvezza?

Tutti, tranne Loga e l’uomo dal rubino, si irrigidirono in volto. Loga scoppiò a ridere. — Davvero astuto — disse. — Domanda assai intelligente. Posso solo rispondere che alcuni di noi l’hanno già ottenuta. Ma a noi è richiesto di più, dal punto di vista etico, che non a voi risorti.

— Continuo a pensare che tu stia mentendo — replicò Burton. — Ma ad ogni modo non posso farci nulla. — Sogghignò e aggiunse: — Per ora, almeno.

— Se persisti in questo atteggiamento non raggiungerai mai la salvezza — disse Loga. — A noi è solo sembrato doveroso nei tuoi confronti spiegarti meglio che potevamo quello che stiamo facendo… Quando prenderemo gli altri faremo lo stesso.

— C’è un Giuda fra voi — annunciò Burton, pregustando l’effetto delle sue parole.

Ma l’uomo dall’occhio di rubino esclamò: — Perché non gli dici la verità, Loga? Servirà a cancellargli quel sorrisetto ripugnante e a fargli passare la boria.

Loga ebbe un attimo di esitazione. — Benissimo, Thanabur — replicò alla fine. — Burton, d’ora in poi dovrai stare molto attento. Non devi più commettere suicidio, e devi difendere la tua vita come facevi sulla Terra, quando sapevi di averne una sola. C’è un limite al numero di volte in cui un uomo può risorgere. A un certo punto l’aura diviene, per così dire, incapace di riunirsi al corpo. Non si può dire quando, perché il fenomeno varia da individuo a individuo. Ogni morte successiva indebolisce l’attrazione tra corpo e aura, alla fine questa diventa, per usare un’espressione non scientifica, un’«anima perduta», e prende a vagare per l’universo priva del suo corpo originale. Possiamo avvistare senza strumenti queste aure vaganti, a differenza di quelle dei… come chiamarli… dei «salvati», che scompaiano del tutto dalla nostra vista. Capisci pertanto che devi cessare questo tipo di viaggio attraverso la morte. Il suicidio ripetuto, da parte degli infelici che non riescono ad affrontare la vita, è un peccato non tanto imperdonabile quanto irrevocabile.

L’uomo dall’occhio di rubino aggiunse: — Il traditore, l’immondo sconosciuto che afferma di aiutarti, in realtà ti ha usato per i suoi scopi. Non ti ha spiegato che portando a termine i suoi (e tuoi) progetti, avresti esaurito le tue possibilità di conseguire la vita eterna. Uomo o donna che sia il traditore, è un essere malvagio! Pertanto d’ora in poi devi stare molto attento. Forse ti rimane ancora una dozzina di morti o giù di lì, o forse la tua prossima morte sarà l’ultima!

Burton balzò in piedi gridando: — Non mi volete far arrivare alla fine del Fiume? Perché? Perché?

— Addio — disse Loga. — Perdonaci per averti usato questa violenza.

Burton non vide nessuno dei dodici puntare verso di lui uno strumento: tuttavia, con la rapidità con cui una freccia scatta dall’arco, perse la conoscenza, e poi si svegliò di nuovo…

CAPITOLO TRENTESIMO

Il primo a dargli il benvenuto fu Peter Frigate. Frigate perse l’abituale riserbo, e si mise a piangere. Anche Burton era commosso, e per un po’ non poté rispondere al mitragliar di domande da parte di Frigate. Poi Burton volle sapere cos’avevano fatto Frigate, Loghu, e Alice, dopo che egli era scomparso. Frigate rispose che l’avevano cercato in lungo e in largo, e poi avevano risalito il Fiume fino a Theleme.

— E tu dove sei stato? — chiese Frigate.

— «Avanti e indietro e su e giù per il mondo» — rispose Burton. — Comunque, al contrario di Satana, sono riuscito a trovare parecchi uomini onesti, timorati di Dio e nemici del male. Maledettamente pochi, però. Già, perché in massima parte, gli uomini e le donne continuano ad essere le stesse creature egoiste, ignoranti, superstiziose, grette, ipocrite, codarde e miserabili, esattamente com’erano sulla Terra. E molto spesso, dentro di loro, la vecchia scimmia assassina lotta contro il suo guardiano — la società — perché vorrebbe scorrazzare liberamente con le mani grondanti di sangue.

Mentre camminavano verso l’immenso recinto che racchiudeva la sede del governo dello stato di Theleme, Frigate continuava a chiacchierare. Ma Burton lo ascoltava a metà. Stava tremando, e il cuore gli batteva all’impazzata: ma non per l’emozione di essere tornato fra amici.

Egli ricordava!

Contrariamente a quanto aveva annunciato Loga, Burton ricordava sia il risveglio nella camera di preresurrezione, avvenuto tanti anni prima, sia l’interrogatorio davanti ai dodici Etici.

Non c’era che una spiegazione: uno dei dodici doveva aver impedito la cancellazione della sua memoria, e all’insaputa degli altri.

Uno dei dodici era lo Straniero Misterioso, il Traditore.

Ma quale? Al momento non c’era modo di stabilirlo, ma un giorno o l’altro Burton l’avrebbe scoperto. E nel frattempo aveva un protettore nelle alte sfere, anche se costui lo stava usando per i propri scopi. Ma prima o poi sarebbe stato Burton a usare lui.

C’erano poi gli altri umani che lo Straniero aveva avvicinato. Forse Burton li avrebbe trovati, e tutti insieme avrebbero dato l’assalto alla Torre.

Ulisse aveva Minerva. Ulisse aveva sempre potuto uscire dai pericoli grazie all’intelligenza e al coraggio, ma la dea gli aveva dato una mano tutte le volte che le era stato possibile.

Ulisse aveva Minerva; Burton, lo Straniero Misterioso.

— E ora cosa pensi di fare, Dick? — chiese Frigate.

— Voglio costruire un’imbarcazione e risalire il Fiume, su su fino alle sorgenti. Vieni con me?

FINE