La sfida dei gemelli
Margaret Weis e Tracy Hickman
A mio fratello, Gerry Hickman, che mi ha insegnato quello che dovrebbe essere un fratello.
A Tracy, con un grazie di cuore per avermi invitato nel vostro mondo.
Ringraziamenti:
Vorremmo ringraziare i membri originari della compagine che ha concepito la storia delle DRAGONLANCE: Tracy Hickman, Harold Johnson, Jeff Grubb, Michael Williams, Gali Sanchez, Gary Spiegle e Cari Smith.
Vogliamo ringraziare coloro che sono venuti a raggiungerci a Krynn: Doug Niles, Laura Hickman, Michael Dobson, Bruce Nesmith, Bruce Heard, Michael Breault e Roger E. Moore.
Vorremmo ringraziare il nostro curatore, Jean Blashfield Black, che ci e stato accanto durante tutte le nostre vicissitudini e i nostri trionfi.
E infine vogliamo esprimere i nostri ringraziamenti a tutti coloro che ci hanno offerto incoraggiamento e sostegno: David “Zeb” Cook, Larry Elmore, Keith Parkinson, Clyde Caldwell, Jeff Easley, Ruth Hoyer, Carolyn Vanderbilt, Patrick L. Price, Bill Larson, Steve Sullivan, Denis Beauvais, Valerie Valusek, Dezra e Terry Phillips, Janet e Gary Pack, le nostre famiglie e, per ultimi ma non meno importanti, tutti voi che ci avete scritto.
Libro primo.
Il Martello degli Dei.
Come acciaio tagliente, lo squillo di una tromba ruppe l’aria dell’autunno, quando gli eserciti dei nani di Thorbardin discesero, in sella ai loro destrieri, nelle Pianure di Dergoth per incontrare il loro nemico: i loro consanguinei. Secoli di odio e di malintesi fra i nani delle colline e i loro cugini delle montagne tinsero di rosso, quel giorno, le pianure. La vittoria divenne priva di senso, un obbiettivo che nessuno cercava. Vendicare i torti commessi da bisavoli morti da lungo tempo era lo scopo di entrambe le fazioni. Uccidere e uccidere e uccidere ancora, era questa la guerra di Dwarfgate, della Porta dei Nani. Fedele alla sua parola Kharas, l’eroe dei nani, combatté per il suo Re sotto la Montagna. Rasato, la barba sacrificata per la vergogna di dover combattere i suoi consanguinei, Kharas si trovava fra le avanguardie dell’esercito, piangendo mentre uccideva. Ma mentre combatteva, arrivò d’un tratto a capire che la parola vittoria era stata distorta fino ad acquistare il significato di annientamento. Vide cadere gli stendardi di entrambi gli eserciti, li vide giacere calpestati e dimenticati sulla pianura insanguinata mentre la follia della vendetta inghiottiva tutte e due le armate in una spaventosa onda rossa. E quando vide che non aveva importanza la vittoria di questo o di quello, poiché non vi sarebbe stato in realtà nessun vincitore, Kharas scagliò a terra il suo Martello, il martello forgiato con l’aiuto di Reorx, il dio dei nani, e lasciò il campo.
Molte furono le voci che urlarono “Codardo!”. Se Kharas le sentì, non vi prestò nessuna attenzione.
Conosceva nel suo cuore il proprio valore, lo conosceva meglio di chiunque altro. Asciugandosi le lacrime amare dagli occhi, lavandosi le mani dal sangue dei suoi consanguinei, Kharas cercò in mezzo ai morti fino a quando non trovò i corpi dei due amati figli di Re Duncan. Sollevò i corpi mutilati e storpiati dei due giovani nani e li gettò sul dorso di un cavallo; poi Kharas lasciò le Pianure di Dergoth e si avviò verso Thorbardin con il suo fardello.
Kharas, in sella al suo destriero, andò molto lontano, ma non abbastanza da sfuggire al frastuono delle voci rauche che gridavano vendetta, del cozzare dell’acciaio, delle urla dei morenti. Non si voltò a guardare. Sentì che avrebbe continuato a udire quelle voci fino alla fine dei suoi giorni.
L’eroe dei nani era giunto, cavalcando, alle prime pendici dei Monti Kharolis, quando udì l’inizio d’un rimbombo arcano. Il suo cavallo si adombrò. Il nano lo trattenne e si fermò a tranquillizzare l’animale. Mentre lo faceva, si guardò intorno inquieto. Cos’era mai? Non era un fragore di guerra e neppure un suono della natura.
Kharas si voltò. Il suono proveniva da dietro di lui, dalle terre che aveva appena lasciato, terre dove i suoi consanguinei si stavano ancora massacrando nel nome della giustizia. Il suono crebbe d’intensità, diventando un rombo sordo e profondo che si avvicinava sempre più. L’eroe dei nani rabbrividì e abbassò la testa, quando l’orrendo rimbombo fu su di lui, tuonando attraverso le pianure.
È Reorx, pensò con dolore e orrore. È la voce del dio infuriato. Siamo condannati.
Il suono colpì Kharas, insieme all’onda d’urto: una raffica di calore e un vento bruciante, fetido, che quasi lo spazzò via dalla sella. Raffiche di sabbia e di polvere e di ceneri lo avvolsero, trasformando il giorno in un’orribile notte. Gli alberi intorno a lui si piegarono e si contorsero, i cavalli urlarono per il terrore e quasi s’imbizzarrirono.
Accecato dalla nube di polvere pungente, soffocando e tossendo, Kharas si coprì la bocca e cercò meglio che poteva, in quella strana oscurità, di coprire anche gli occhi dei cavalli. Perse il conto del tempo, in quella nuvola di sabbia e cenere e di venti roventi. Ma con la stessa repentinità con cui era venuta, la tempesta cessò.
La sabbia e la polvere si depositarono. Gli alberi si raddrizzarono. I cavalli si calmarono. La nuvola si allontanò, sospinta dai venti più dolci dell’autunno, lasciandosi alle spalle un silenzio più spaventoso del frastuono rimbombante.
Carico di orrendi presentimenti, Kharas pungolò i suoi cavalli affaticati perché proseguissero quanto più rapidamente possibile e s’inoltrò in mezzo alle montagne, cercando disperatamente un punto da cui la visuale potesse spaziare. Alla fine trovò una sporgenza rocciosa. Impastoiati a un albero gli animali con il loro triste fardello, Kharas si spinse con il suo cavallo sulla roccia e guardò sopra le Pianure di Dergoth. Sbigottito, fissò ciò che gli si parava davanti agli occhi.
Nessun essere vivente si muoveva laggiù. In realtà, là sotto non c’era niente del tutto; niente, salvo una distesa di roccia e di sabbia annerita e devastata.
Entrambi gli eserciti erano stati completamente spazzati via. L’esplosione era stata talmente devastante che neppure i cadaveri erano rimasti sulle pianure coperte di cenere. Perfino l’immagine del territorio era cambiata. Lo sguardo inorridito di Kharas andò al luogo dove un tempo si ergeva la magica fortezza di Zhaman, con le sue guglie che dominavano la Pianura. Anch’essa era stata distrutta, ma non totalmente. La fortezza era crollata su se stessa e adesso, cosa ancora più orribile, le sue rovine assomigliavano ad un cranio umano conficcato, ghignante, sulla spoglia Pianura della Morte.
“Reorx, Padre, Forgiatore, perdonaci,” mormorò Kharas, con le lacrime che gli offuscavano la vista.
Poi, la testa china per il dolore, l’eroe dei nani lasciò quel luogo per far ritorno a Thorbardin.
I nani avrebbero creduto, poiché così Kharas avrebbe riferito, che la distruzione di entrambi gli eserciti sulle Pianure di Dergoth era stata causata da Reorx. Che il dio aveva, nella sua collera, scagliato il proprio martello contro il paese, colpendo i propri figli.
Ma le Cronache di Astinus registrano in modo veritiero ciò che accadde quel giorno sulle Pianure di Dergoth:
Adesso, all’apice dei suoi poteri, l’arcimago Raistlin, conosciuto come Fistandantilus, e il chierico dalle Vesti Bianche di Paladine, Crysania, cercarono di entrare nel Portale che conduce all’Abisso, per sfidare la Regina delle Tenebre.
L’arcimago aveva commesso crimini tenebrosi per raggiungere quel punto, il vertice della sua ambizione. Le Vesti Nere che indossava erano macchiate di sangue: in parte il suo stesso sangue.
Eppure quell’uomo conosceva l’animo umano. Sapeva come distorcerlo e piegarlo, inducendo ad ammirarlo coloro che invece avrebbero dovuto vituperarlo e respingerlo. Una di questi era Dama Crysania della Casa di Tarinius, una Reverenda Figlia della Chiesa. Crysania soffriva d’una breccia fatale nel candido marmo della sua anima. E tale breccia Raistlin aveva scoperto e allargato in modo che la crepa si estendesse a tutto il suo essere, per arrivare infine al suo cuore...Crysania lo aveva seguito fino al temuto Portale. Qui lei aveva invocato il suo dio, e Paladine aveva risposto, poiché era lei la sua eletta. Raistlin aveva fatto appello alla propria magia e aveva avuto successo, perché fino a quel giorno non era mai vissuto uno stregone potente quanto quel giovane.
Il Portale si era aperto.
Raistlin si era mosso per valicarlo, ma un magico congegno per i viaggi nel tempo fatto funzionare da Caramon, fratello gemello del mago, e dal kender Tasslehoff Burrfoot interferì con il potente incantesimo dell’arcimago. Il campo magico era stato disgregato... ... con impreviste e disastrose conseguenze.
Capitolo primo.
“Umpf,” fece Tasslehoff Burrfoot. Caramon fissò il kender con occhio severo.
“Non è colpa mia! Davvero, Caramon!” protestò Tas.
Ma proprio mentre parlava, lo sguardo del kender andò al territorio circostante... Alzò gli occhi a fissare Caramon, poi li riportò sul territorio circostante. Il labbro inferiore di Tas cominciò a tremare e il kender allungò la mano verso il fazzoletto, nel caso in cui avesse starnutito. Ma il suo fazzoletto non era là, le sue borse non erano là. Tas sospirò. Nell’eccitazione del momento se n’era dimenticato: tutto era rimasto nelle segrete di Thorbardin.
Era stato un momento eccitante. Un attimo prima lui e Caramon si trovavano nella magica fortezza di Zhaman, intenti ad attivare il magico congegno per i viaggi nel tempo; l’attimo successivo Raistlin aveva operato la sua magia e, prima che Tas avesse il tempo di accorgersene, c’era stata una terribile baraonda: le pietre cantavano, le rocce si frantumavano... e l’orribile sensazione di venire tirati contemporaneamente in sei direzioni diverse e poi, wuush, si erano trovati là.
Dovunque fosse là. Comunque, non pareva trovarsi dove avrebbe dovuto.
Lui e Caramon erano su un sentiero di montagna accanto a un grosso macigno, affondando fino alle caviglie in un fango viscido, color grigio cenere, che ricopriva completamente il terreno sotto di loro fin dove Tas riusciva a spingere lo sguardo. Qua e là, bordi frastagliati di rocce infrante sporgevano dalla cedevole superficie di quella coltre di cenere. Non c’era alcun segno di vita.
Niente avrebbe potuto esser vivo in quella desolazione. Non c’era nessun albero in piedi, soltanto moncherini anneriti dal fuoco spuntavano dallo spesso strato di fango. Fin dove poteva arrivare l’occhio, fino all’orizzonte, in ogni direzione, non c’era nulla se non la devastazione più totale e definitiva. Il cielo stesso non offriva nessun sollievo. Sopra le loro teste, si stendeva grigio e vuoto.
Ma a occidente sfumava in uno strano colore violetto, un cumulo ribollente di nuvole luminescenti inghirlandate da lampi d’un vivido azzurro. Fatta eccezione per il lontano rombare del tuono, non c’erano suoni... né movimenti... niente.
Caramon esalò un profondo sospiro e si sfregò una mano sul viso. Il calore era intenso, e già, malgrado si trovassero là soltanto da pochi minuti, la sua pelle intrisa di sudore era coperta da un sottile strato di cenere grigia.
“Dove siamo?” chiese, con voce calma e misurata.
“Sono... sono certo di non averne la minima idea, Caramon,” dichiarò Tas. E dopo qualche istante:
“E tu?”
“Ho fatto tutto come mi hai detto tu,” replicò Caramon, e la sua voce suonò ancora sinistramente calma. “Hai detto che Gnimsh aveva detto che tutto quello che dovevamo fare era pensare a dove volevamo andare, e che lì ci saremmo trovati. Io so che pensavo a Solace...”
“Anch’io!” gridò Tas. Poi, vedendo Caramon che lo fissava infuriato, il kender esitò. “Per lo meno ci ho pensato per la maggior parte del tempo...”
“La maggior parte del tempo?” chiese Caramon con la voce ancor più orrendamente calma.
“Insomma...” deglutì Tas, “io ho... ho pen... pensato, ma solo per un istante intendiamoci, a quanto... ehm... a quanto sarebbe stato interessante e unico, visitare... uhm... uhm...”
“Uhm cosa?” incalzò Caramon.
“Una... uhmmmm.”
“Una cosa?”
“Mmmmmm,” bofonchiò Tas.
Caramon inspirò fragorosamente.
“Una luna!” esclamò Tas.
“Una luna!” ripetè Caramon incredulo. “Quale luna?” chiese un istante dopo, guardandosi intorno.
“Oh,” Tas scrollò le spalle, “una qualunque delle tre. Suppongo che una valga l’altra. Molto simili, immagino. Salvo, naturalmente, che tutte le rocce di Solinari dovrebbero luccicare d’argento, e quelle di Lunitari essere d’un rosso smagliante. E immagino che la terza debba essere tutta nera, anche se non posso dirlo di sicuro, non avendo mai visto...”
A questo punto Caramon cacciò un ringhio, e Tas decise che sarebbe stato assai meglio mettere a freno la lingua. E riuscì anche a farlo, per circa tre minuti, durante i quali Caramon continuò a scrutare i dintorni con una faccia solenne. Ma ci sarebbe voluta una capacità di autocontrollo ben maggiore di quanta il kender possedeva (oppure un coltello acuminato alla gola) per costringere la sua lingua a star zitta più a lungo.
“Caramon,” farfugliò, “tu pe... pensi che ci siamo davvero riusciti? Che siamo arrivati su una... uhm... luna, intendo dire. Questo non assomiglia certo a nessun posto in cui sono stato prima. Non che queste rocce siano d’argento, rosse, o anche soltanto nere. Hanno più che altro il colore della roccia, ma...”
“Non ne dubiterei affatto,” disse Caramon, cupo. “Dopotutto, non ci hai già condotto in una città marittima che si trovava nel bel mezzo di un deserto...”
“Neanche quella è stata colpa mia!” esclamò Tas, indignato. “Diamine, perfino Tanis ha detto...”
“Tuttavia,” il volto di Caramon s’increspò, perplesso, “questo posto sembra davvero strano, ma per qualche motivo ha un aspetto familiare.”
“Hai ragione,” annuì Tas un istante dopo, tornando a fissare il paesaggio desolato, soffocato dalle ceneri intorno a loro. “Mi ricorda qualcosa, adesso che l’hai detto. Soltanto che,” il kender rabbrividì, “non ricordo di essere mai stato in un posto così orribile... salvo l’Abisso,” aggiunse sottovoce.
Le nubi ribollenti si avvicinavano sempre di più mentre i due parlavano, stendendo un’ulteriore, plumbea cappa sopra quella terra spoglia. Cominciò a soffiare un vento rovente e a cadere una pioggia sottile, mescolandosi con la cenere che aleggiava nell’aria. Tas stava giusto per commentare la qualità melmosa della pioggia quando, all’improvviso, senza nessun preavviso, il mondo esplose.
Per lo meno, fu questa la prima impressione che ebbe Tas: una luce vivida, accecante, un crepitio assordante, un rombo che scosse il suolo, e Tasslehoff si trovò seduto nel fango grigio, fissando istupidito un gigantesco foro che era stato aperto nella roccia da un’esplosione a non più di cento passi da lui.
“In nome degli dei!” rantolò Caramon. Tese le braccia verso il basso, agguantò Tas e lo trascinò in piedi. “Stai bene?”
“Penso... penso di sì,” disse Tas, un po’ scosso. Mentre guardava, la folgore colpì di nuovo, sprizzando dalla nube fino al suolo, scagliando in aria rocce e ceneri.
“Caspita! Questa sì che è stata un’esperienza davvero interessante. Anche se non m’importa affatto ripeterla subito,” si affrettò ad aggiungere, timoroso che il cielo, che di momento in momento stava diventando più buio, potesse decidere di riservargli un’altra volta quell’elettrizzante esperienza.
“Dovunque siamo, sarà meglio lasciare quest’altura,” borbottò Caramon. “Vedo che, almeno, qui c’è un sentiero. Deve condurre da qualche parte.”
Lanciando un’occhiata lungo il sentiero intasato dal fango, giù fino alla valle sottostante parimenti soffocata dal fango, Tas ebbe il fugace pensiero che Da Qualche Parte dovesse essere ugualmente grigio e melmoso come Qui, ma dopo aver dato un’occhiata al volto cupo di Caramon, il kender decise prontamente di tenere per sé quel pensiero.
Mentre arrancavano giù per il sentiero in mezzo alla melma, il vento rovente prese a soffiare con maggior forza, conficcando nella loro pelle frammenti di legno annerito e di cenere. Le folgori danzavano in mezzo agli alberi, facendoli esplodere in globi fiammeggianti verdi o azzurri. Il terreno continuava a essere scosso dal violento rimbombo del tuono. Le nubi tempestose continuavano ad ammassarsi all’orizzonte. Caramon accelerò il passo.
Mentre scendevano lungo il pendio, entrarono in quella che un tempo doveva essere stata, così immaginò Tas, una bellissima valle. In un’altra epoca, pensò Tas, qui gli alberi dovevano essere stati un avvampare d’oro e di arancione autunnali, oppure del verde tenero della primavera.
Qua e là vide spirali di fumo arricciarsi verso il cielo per venire spazzate via immediatamente dal vento tempestoso. Senza alcun dubbio generate da altri fulmini abbattutisi al suolo, pensò Tas. Ma in una strana maniera, anche questo gli ricordò qualcosa. Come Caramon, anche lui cominciava a convincersi sempre di più che conosceva quel posto.
Guadando il fango, cercando d’ignorare ciò che quella sgradevole sostanza stava causando alle sue scarpe verdi e ai suoi gambali azzurri, Tas decise di tentare un antico espediente kender Da-Usare-
Quando-Si-È-Smarriti. Chiudendo gli occhi e cancellando ogni cosa dalla sua mente, ordinò al cervello di fornirgli un’immagine del paesaggio davanti ai suoi occhi. La logica kender, piuttosto interessante, dietro a questo concetto era che, essendo probabile che qualche kender della famiglia di Tasslehoff fosse stato in precedenza in quel posto, il ricordo fosse stato in qualche modo trasmesso al suo discendente. Anche se ciò non era mai stato scientificamente verificato (gli gnomi ci stavano lavorando e avevano affidato il compito a un comitato), era sicuramente vero che, fino a quel giorno, non si era mai saputo che anche un solo kender si fosse smarrito su Krynn.
In ogni caso Tas, immerso fino agli stinchi nel fango, chiuse gli occhi e cercò di evocare un’immagine dei suoi dintorni. E, subito, una si manifestò alla sua mente, così chiara nella sua precisione che lo colse quasi di sorpresa (certo le mappe mentali dei suoi antenati non erano mai state così perfette). C’erano alberi, alberi giganteschi, e c’erano montagne all’orizzonte. E c’era anche un lago...
Riaprendo gli occhi, Tas rantolò. C’era un lago! Prima non l’aveva notato, probabilmente perché aveva lo stesso colore grigio, melmoso, del terreno coperto di cenere. C’era ancora acqua, là dentro?
Oppure anche il lago era pieno di fango?
“Mi chiedo,” rifletté Tas, “se lo zio Trapspringer abbia mai visitato una luna. Se è così, questo giustificherebbe il fatto che io riconosca questo posto. Ma certamente l’avrebbe detto a qualcuno... Forse lo avrebbe fatto, se i goblin non l’avessero mangiato prima che ne avesse avuto la possibilità. Parlando di cibo, questo mi ricorda...”
“Caramon!” urlò Tas al di sopra del vento e del rimbombare dei tuoni. “Hai portato acqua con te? Io no. E non ho niente da mangiare. Non pensavo che ne avremmo avuto bisogno, visto che stavamo per tornare a casa e tutto il resto. Ma...”
D’un tratto Tas vide qualcosa che scacciò dalla sua mente ogni pensiero di cibo o di acqua, e dello zio Trapspringer.
“Oh, Caramon!” Tas si strinse al grosso guerriero, additandogli qualcosa. “Guarda, pensi che quello sia il sole?”
“E cos’altro potrebbe essere?” sbottò Caramon, burbero, con lo sguardo puntato su un disco acquoso, giallo-verdognolo, che era comparso attraverso uno squarcio delle nubi tempestose. “E, no, non ho portato acqua, con me. Perciò, non parlarne, eh?”
“Oh, insomma, non c’è proprio bisogno che tu sia sgarb...” cominciò a dire Tas. Poi vide la faccia di Caramon e subito si azzittì.
Si erano fermati, dopo un lungo diguazzare nel fango, a metà strada lungo il pendio. Il vento caldo soffiava tutt’intorno a loro facendo svolazzare il ciuffo di Tas come uno stendardo e sferzando il mantello di Caramon. Il grosso guerriero stava fissando il lago, lo stesso lago della cui presenza Tas si era accorto. La faccia di Caramon era pallida, gli occhi turbati. Un attimo dopo riprese a camminare, arrancando con espressione cupa lungo il sentiero. Con un sospiro, Tas lo seguì nello squish squash del fango appiccicoso. Aveva raggiunto una decisione.
“Caramon,” riprese a dire, “andiamocene da qui. Lasciamo questo posto. Anche se è una luna come quella che lo zio Trapspringer deve aver visitato prima che i goblin lo mangiassero, non è un gran divertimento. La luna, voglio dire, non l’essere mangiato dai goblin che, suppongo, non sia neanche quello molto divertente. A dirti la verità, questa luna è noiosa almeno quanto l’Abisso, e altrettanto puzzolente. Inoltre, là nell’Abisso non avevo sete... Non che io abbia sete adesso,” si affrettò ad aggiungere, ricordandosi troppo tardi che non avrebbe dovuto parlarne, “ma la lingua mi si è quasi asciugata, se capisci quello che voglio dire, il che mi rende difficile parlare. Abbiamo il congegno magico.” Stringeva nella mano sollevata il congegno a forma di scettro incrostato di gioielli, nel caso in cui Caramon avesse dimenticato, nell’ultima mezz’ora, che aspetto aveva. “E ti prometto... Io giuro solennemente... che questa volta penserò a Solace con tutto il mio cervello, Caramon. Caramon, io...” “Zitto, Tas,” gli intimò Caramon.
Avevano raggiunto il fondovalle, dove il fango arrivava fino alle caviglie di Caramon, il che significava che arrivava a mezzo polpaccio di Tas. Caramon aveva ricominciato a zoppicare da quando era caduto, storcendosi il ginocchio, là nella magica fortezza di Zhaman. Adesso, oltre alla preoccupazione, c’era un’espressione di viva sofferenza sul suo viso, e c’era anche un’altra espressione. Un’espressione che fece provare a Tas, nel suo intimo, un formicolio: un’espressione di autentica paura. Tas sussultò, si guardò rapidamente intorno, chiedendosi cosa mai Caramon avesse visto. Le condizioni, lì sul fondo della valle, parevano uguali a quelle che avevano incontrato più in alto: un’orribile, desolata distesa grigia. Niente era cambiato, salvo il fatto che si stava facendo più buio. Le nubi della tempesta avevano nuovamente nascosto il sole, con un certo sollievo da parte di Tas, poiché si trattava di un sole malsano che rendeva quel paesaggio ancora più squallido e grigio.
La pioggia batteva, più intensa a mano a mano che le nuvole tempestose si facevano vicine. A parte questo, non pareva ci fosse nient’altro di spaventevole.
Il kender si sforzò al massimo per mantenere il silenzio, ma le parole gli schizzarono fuori dalla bocca prima che riuscisse a fermarle.
“Che cosa succede, Caramon? Non vedo niente. Il ginocchio ti fa male? lo...”
“Stai zitto, Tas!” gli ordinò Caramon, con voce tesa e tirata. Guardava attorno a sé con gli occhi spalancati, serrando e disserrando nervosamente le mani.
Tas sospirò e si tappò la bocca con la mano per imbottigliare le parole, deciso a restarsene zitto anche se questo avesse dovuto ucciderlo. E quando fece silenzio, si rese conto che lì intorno c’era davvero molto silenzio. Non c’era assolutamente nessun suono, quando il tuono non rimbombava, neppure l’usuale combinazione di suoni che era abituato a sentire quando pioveva: l’acqua che sgocciolava giù dalle foglie degli alberi, spiaccicandosi sul terreno, il vento che soffiava tra i rami, gli uccelli che si dedicavano ai loro canti della pioggia, per lamentarsi delle piume bagnate...
Tas provava una strana, tremante sensazione dentro di sé. Guardò i moncherini degli alberi bruciati con più attenzione. Anche se bruciati, erano giganteschi, quasi certamente gli alberi più grandi che avesse mai visto in vita sua, salvo per...
Tas deglutì. Le foglie, il colore dell’autunno, il fumo dei fuochi delle cucine che si levava arricciandosi dalla valle, il lago, azzurro e liscio come il cristallo...
Sbattendo più volte le palpebre, si sfregò gli occhi per liberarli dalla pellicola gommosa di fango e di pioggia. Si guardò intorno, sollevando lo sguardo sul tratto di sentiero che si erano lasciati alle spalle, verso quel gigantesco macigno... Fissò il lago, che poteva vedere molto chiaramente attraverso i moncherini bruciati degli alberi. Fissò le montagne con i loro picchi aguzzi e frastagliati.
Non era stato lo zio Trapspringer a trovarsi là, prima...
“Oh, Caramon!” bisbigliò, in preda all’orrore.
Capitolo secondo.
“Che c’è?” Caramon si voltò, guardando Tas in maniera così strana che il kender sentì il formicolio che provava dentro di sé diffondersi all’esterno. La pelle d’oca gli stava comparendo lungo tutte le braccia.
“N... niente,” balbettò Tas. “Soltanto la mia immaginazione. Caramon,” si affrettò poi ad aggiungere, “andiamocene! Subito. Possiamo andare dove vogliamo! Possiamo tornare indietro nel tempo, quando eravamo tutti insieme, quando eravamo tutti felici! Possiamo tornare indietro, fino a quando Flint e Sturm erano vivi e Raistlin indossava ancora le Vesti Rosse, e Tika...”
“Chiudi il becco, Tas!” sbottò Caramon, minaccioso. Le sue parole vennero accentuate da un lampo che fece sussultare perfino il kender.
Il vento stava crescendo d’intensità, sibilando con un suono arcano attraverso i resti degli alberi morti, come se qualcuno stesse esalando un tremulo respiro attraverso i denti stretti. La pioggia calda e viscida era cessata. Le nuvole sopra di loro passarono via turbinando, rivelando il pallido sole che sembrava ondeggiare nel cielo grigio. Ma all’orizzonte le nuvole continuavano ad ammassarsi, e diventavano sempre più nere. Lampi multicolori guizzavano in mezzo a esse, impartendo alla coltre turbinante una lontana, micidiale bellezza.
Caramon riprese a camminare lungo il sentiero fangoso, serrando i denti per il dolore alla gamba ferita. Ma Tas, guardando in fondo al sentiero che adesso conosceva fin troppo bene, anche se era talmente diverso da lasciare sgomenti, potè vedere dove svoltava. Sapendo ciò che si trovava dietro quella curva, rimase là dov’era, piantato saldamente in mezzo alla strada, gli occhi fissi sulla schiena di Caramon.
Dopo qualche istante di anormale silenzio, Caramon si rese conto che c’era qualcosa di sbagliato e si guardò intorno. Si fermò, il volto tirato per il dolore e la fatica.
“Su, vieni, Tas!” lo sollecitò, irritato.
Attorcigliandosi un ciuffo di capelli intorno a un dito, Tas scosse la testa.
Caramon lo fissò furibondo.
Tas alla fine esplose: “Quelli sono vallenwood, Caramon!”
L’espressione severa sul volto dell’omone si addolcì. “Lo so, Tas,” disse con voce stanca. “Questa è Solace.”
“No, non lo è!” gridò Tas. “È... è soltanto un posto dove c’erano dei vallenwood! Devono esserci un sacco di posti dove crescono i vallenwood!”
“E ci sono un sacco di posti dove c’è il lago Crystalmir, Tas, o dove s’innalzano i Monti Kharolis, o dove si erge quel macigno lassù dove tutti e due abbiamo visto Flint seduto che scolpiva il legno, o dove si stende questa strada che conduce a...”
“Non puoi saperlo!” gridò Tas con rabbia. “Sì, non puoi saperlo.” All’improvviso corse avanti, o tentò di farlo, trascinando i piedi in mezzo al fango appiccicoso quanto più velocemente possibile.
Incespicò su Caramon, afferrò la mano dell’omone e la tirò. “Andiamo! Andiamo via da qui!”.
Ancora una volta alzò la mano che stringeva il congegno per i viaggi nel tempo. “Po... possiamo tornare a Tharsis! Là, dove i draghi mi hanno fatto crollare addosso un edificio! Quella era un’epoca in cui ci divertivamo, era molto interessante. Non ricordi?”. La sua voce acuta stridette attraverso gli alberi bruciati.
Allungando una mano, la faccia scura, Caramon tirò via il congegno magico dalla mano del kender.
Ignorando le frenetiche proteste di Tas, strinse il congegno tra le dita e cominciò a torcere e a girare il gioiello, trasformando gradualmente l’oggetto da uno scettro scintillante in un semplice, anonimo ciondolo. Tas lo contemplò con aria infelice.
“Ma perché non ce ne andiamo via, Caramon? Questo posto è orribile. Non abbiamo né cibo né acqua e, da quello che ho potuto vedere, ci sono assai poche probabilità di trovarne qui intorno. Inoltre, abbiamo buone possibilità di venire sparati fuori dalle nostre scarpe, se una di quelle saette ci colpisse, e quella tempesta si sta avvicinando sempre di più, e tu sai che questa non è Solace.”
“Non lo so, Tas,” replicò Caramon con calma. “Ma lo scoprirò. Cosa c’è? Non sei curioso? Da quando in qua un kender ha mai rifiutato la possibilità di vivere un’avventura?”. Riprese a scendere il sentiero con passo claudicante.
“Sono curioso come qualunque altro kender,” borbottò Tas, abbassando la testa e trascinandosi dietro a Caramon. “Ma un conto è essere curiosi di un posto dove non si è mai stati prima, e un altro essere curiosi di casa propria. Non bisogna mai essere curiosi delle cose di casa tua! La casa non dovrebbe mai cambiare. Se ne sta là in attesa del tuo ritorno. La ; casa è un posto che ti fa dire:
“Perdiana, sembra proprio uguale a come l’ho lasciata quando me ne sono andato!”, e non:
“Perdiana, pare che sei milioni di draghi ci siano volati dentro e abbiano distrutto tutto!”. La casa non è un posto per le avventure, Caramon!”
Tas sollevò lo sguardo sbirciando la faccia di Caramon per vedere se la sua argomentazione avesse fatto una qualche impressione. Se l’aveva fatta, non si notava. C’era un’espressione di severa determinazione su quella faccia colma di dolore, che lasciò Tas piuttosto sorpreso... sorpreso e anche stupito.
D’un tratto Tas si rese conto che Caramon era cambiato. E non soltanto per aver rinunciato allo spirito dei nani. C’era qualcosa di diverso in lui: era più serio e... sì, responsabile. Ma c’era qualcos’altro, rifletté Tas. L’orgoglio, decise dopo un minuto di profonda riflessione. L’orgoglio di sé, l’orgoglio e una ferma decisione.
Questo non è un Caramon disposto ad arrendersi facilmente, pensò Tas con un tuffo al cuore.
Questo non è un Caramon che ha bisogno di un kender che lo tenga lontano dai guai e dalle taverne.
Tas sospirò desolato. Avrebbe sentito la mancanza di quel vecchio Caramon.
Arrivarono a una curva della strada. Tutti e due la riconobbero, anche se nessuno disse niente:
Caramon, perché non c’era niente da dire, e Tas perché si rifiutava di ammettere di averla riconosciuta. Entrambi scoprirono che il loro passo si era fatto strascicato.
Un tempo i viaggiatori che aggiravano quella curva avrebbero visto la Locanda dell’Ultima Casa risplendente di luci. Avrebbero sentito il profumo delle patate speziate di Otik, avrebbero udito il chiasso delle risate e dei canti aleggiare fuori dalla porta tutte le volte che veniva aperta per accogliere i pellegrini o i clienti fissi di Solace. Come per un tacito accordo, sia Tas sia Caramon si fermarono prima di svoltare quell’angolo.
Non dissero ancora nulla, ma ognuno fissò la desolazione davanti a sé, i moncherini degli alberi riarsi e distrutti, il suolo coperto di cenere, le rocce annerite. Nelle loro orecchie risuonava un silenzio più intenso e spaventoso del rombo del tuono. Perché entrambi sapevano che avrebbero dovuto udire Solace, anche se non potevano ancora vederla. Avrebbero dovuto udire i suoni della città: il martellare del fabbro, il cicaleccio del giorno del mercato, i richiami dei venditori ambulanti, dei bambini, dei bottegai, il vociare della Locanda.
Ma non c’era nulla, soltanto il silenzio. E, molto lontano, in distanza, il sinistro rombo del tuono.
Infine, Caramon sospirò. “Andiamo,” disse, e si incamminò zoppicando.
Tas lo seguì lentamente. Le sue scarpe erano talmente incrostate di fango che gli pareva di portare gli stivali ferrati di un nano. Ma le scarpe non erano neppure lontanamente pesanti quanto il suo cuore. Più e più volte bofonchiò tra sé: “Questa non è Solace, questa non è Solace, questa non è Solace...” fino a quando non cominciò a sembrargli uno degli incantesimi di Raistlin.
Aggirando la curva, Tas sollevò gli occhi intimorito...
... e dette in un enorme sospiro di sollievo.
“Cos’è che ti ho detto, Caramon?” gridò, sopra il gemito del vento. “Guarda, non c’è niente, niente del tutto. Nessuna locanda, nessuna città, niente.” Infilò la piccola mano in quella grande di Caramon e cercò di tirarlo indietro. “Adesso andiamo via. Ho un’idea. Possiamo tornare indietro, al tempo in cui Fizban ha fatto scaturire dal cielo l’arco dorato...”
Ma Caramon, scrollandosi di dosso il kender, stava già procedendo con passo zoppicante, il volto cupo. Poi si fermò, e fissò il suolo. “Cos’è questo allora, Tas?” chiese, con voce tesa per la paura.
Masticandosi nervosamente l’estremità del ciuffo, il kender si avvicinò, fermandosi accanto a Caramon. “Cos’è?” replicò, cocciuto.
Caramon glielo indicò.
Tas tirò su col naso. “Be’, è un gran tratto di terreno che è stato sgombrato. D’accordo, forse c’era qualcosa. Forse un grosso edificio. Ma adesso non c’è, e allora, perché preoccuparsi? Io... oh, Caramon!”.
All’improvviso, il ginocchio ferito dell’omone aveva ceduto. Caramon vacillò, e sarebbe caduto se Tas non l’avesse sorretto. Con l’aiuto del kender, Caramon raggiunse il ceppo di quello che era stato un vallenwood insolitamente grande, sul confine di quel tratto di terreno vuoto e coperto di fango.
Appoggiandosi a esso col volto pallido per il dolore e gocciolando sudore, Caramon si sfregò il ginocchio ferito.
“Cosa posso fare per aiutarti?” chiese Tas, ansioso, torcendosi le mani. “Ecco! Ti fabbricherò una gruccia! Dev’esserci una quantità di rami spezzati qui intorno. Vado a cercarli.”
Caramon non disse niente, si limitò ad annuire stancamente. Tas corse via, i suoi occhi acuti rastrellarono il suolo grigio e viscido, alquanto sollevato, adesso, di aver qualcosa da fare e di non dover rispondere a nuove domande su quegli stupidi spazi liberi. Trovò ben presto quello che cercava: l’estremità del ramo di un albero che sporgeva dal fango. Il kender lo afferrò e gli diede uno strattone. Le sue mani scivolarono via dal ramo umido, facendolo ruzzolare all’indietro.
Rialzandosi in piedi e fissando il fango che gl’imbrattava i gambali azzurri, il kender cercò senza successo di ripulirlo via. Poi sospirò, e risolutamente tornò ad afferrare il ramo. Questa volta lo sentì cedere per un attimo. “Ci sono quasi riuscito, Caramon!” riferì Tas ad alta voce. “Io...” Un grido assai poco kenderiano si levò sopra il vento sibilante. Caramon levò lo sguardo, allarmato, e vide il ciuffo di Tas scomparire in un’ampia dolina che sembrava essersi aperta sotto i suoi piedi.
“Sto arrivando, Tas!” gridò Caramon, correndo e incespicando. “Tieni duro...”
Ma si arrestò alla vista di Tas che stava strisciando fuori dalla fenditura. Il volto del kender non assomigliava a niente che Caramon avesse mai visto prima. Era cinereo, le labbra sbiancate, gli occhi spalancati e fissi.
“Non avvicinarti di più, Caramon,” bisbigliò Tas, facendogli segno di allontanarsi con la piccola mano infangata. “Per favore, rimani indietro!”
Ma era troppo tardi. Caramon aveva raggiunto l’orlo della dolina e stava guardando in basso. Tas si rannicchiò accanto a lui, sulla distesa fangosa, e cominciò a tremare e a singhiozzare.
“Sono tutti morti,” piagnucolò. “Tutti morti.” Affondò il viso tra le braccia, dondolandosi avanti e indietro e piangendo amaramente.
In fondo alla buca rivestita di roccia che era stata ricoperta da una spessa crosta di fango giacevano dei corpi, pile di corpi... corpi di uomini, donne e bambini. Conservati dal fango, alcuni erano ancora pietosamente riconoscibili, o così parve allo sguardo febbrile di Caramon. I suoi pensieri andarono alle ultime fosse comuni che aveva visto: il villaggio colpito dalla peste trovato da Crysania. Ricordava il volto incollerito, addolorato, di suo fratello. Ricordava Raistlin che chiamava i fulmini perché si abbattessero sul villaggio, bruciandolo e riducendolo in cenere.
Digrignando i denti, Caramon si costrinse a guardare dentro a quella tomba, si costrinse a cercare una massa di riccioli rossi...
Si voltò e si allontanò, con un tremante singhiozzo di sollievo, poi, guardandosi intorno con occhi spiritati, tornò di corsa in direzione della Locanda. “Tika!” urlò.
Tas sollevò la testa, balzando in piedi, allarmato. “Caramon!” gridò, scivolò nel fango e cadde.
“Tika!” urlò ancora Caramon con voce roca, sovrastando l’ululare del vento e il tuono lontano.
Dimentico del dolore causatogli dalla gamba ferita, avanzò barcollando lungo un tratto ampio e sgombro, libero da ceppi d’albero. Tas, pur non riuscendo a pensare con chiarezza, si rese conto che quella era la strada che conduceva oltre la Locanda. Alzandosi di nuovo in piedi, il kender si affrettò a correre dietro a Caramon, ma l’omone lo distanziò rapidamente, arrancando con passo vacillante in mezzo al fango. La paura e la speranza gli davano forza.
Tas lo perse ben presto di vista in mezzo a quei ceppi anneriti, ma poteva sentire ancora quella voce che invocava il nome di Tika. Adesso Tas sapeva dov’era diretto l’omone. Rallentò il proprio passo.
La testa gli faceva male a causa del calore e del tremendo puzzo di quel posto, il cuore gli faceva male a causa di ciò che aveva appena visto. Trascinando le scarpe tremendamente appesantite dalle incrostazioni di fango, timoroso di ciò che avrebbe trovato davanti a sé, il kender proseguì inciampando a ogni passo.
Ed infatti Caramon era là, immobile in uno spiazzo spoglio, accanto a un altro ceppo di vallenwood.
Teneva in mano qualcosa che stava fissando con lo sguardo di qualcuno che si ritrova, alla fine, sconfitto.
Coperto di fango, zuppo d’acqua, affranto, il kender si fermò davanti a lui. “Cos’è?” chiese, indicando con la mano tremante l’oggetto tra le dita dell’omone.
“Un martello,” rispose Caramon, con voce soffocata. “Il mio martello.”
Tas lo guardò. Era davvero un martello. O per lo meno, sembrava esserlo stato. Il manico di legno era stato bruciato per tre quarti. Tutto quello che ne rimaneva era un frammento di legno carbonizzato e la testa metallica, annerita dalla fiamma.
“Come... come puoi esserne sicuro?” balbettò Tas, ancora lottando, ancora rifiutandosi di credere.
“Ne sono sicuro,” ribadì Caramon con amarezza. “Guarda qui.” Il manico si mosse, la testa metallica traballò quando la toccò. “L’ho fatto quando... quando ancora bevevo”. Si asciugò gli occhi con la mano. “Non è fabbricato molto bene. La testa veniva via spesso. Ma d’altronde,” soffocò, “non ci ho mai lavorato molto.”
Indebolita dalla corsa affannosa, la gamba ferita di Caramon tutto a un tratto cedette. L’omone, questa volta, non cercò neppure di aggrapparsi a qualcosa, ma si lasciò andare in mezzo al fango.
Seduto sul tratto di terreno sgombro che un tempo era stato la sua casa, strinse il martello che aveva in mano e cominciò a piangere.
Tas girò altrove la testa. Il dolore dell’omone era una cosa sacra, troppo privata perfino per i suoi occhi. Ignorando le sue stesse lacrime che gli stavano gocciolando dalla punta del naso, Tas si guardò intorno desolato. Non si era mai sentito così impotente, così smarrito e così solo. Cos’era successo? Cos’era andato storto? Certamente doveva esserci un indizio, una risposta.
“Va... vado a dare un’occhiata in giro,” borbottò, rivolto a Caramon, il quale neppure lo sentì.
Con un sospiro, Tas arrancò tra il fango, allontanandosi. Adesso sapeva dove si trovava, naturalmente. Non poteva più rifiutarsi di ammetterlo. La casa di Caramon si era trovata vicino al centro della città, non lontano dalla Locanda. Tas proseguì lungo quella che un tempo era una strada che correva tra file di case. Anche se adesso non restava più nulla, né le case, né le strade, né i vallenwood che sorreggevano le case, sapeva esattamente dove si trovava. Avrebbe desiderato non saperlo. Vide qua e là dei rami che sporgevano dal fango, e rabbrividì, poiché non c’era nient’altro.
Nient’altro salvo...
“Caramon!” gridò Tas, grato che gli si presentasse qualcosa su cui indagare e che, lo sperava, avrebbe sottratto Caramon al suo dolore. “Caramon, penso che dovresti venire a vedere questo!”
Ma l’omone continuò a ignorarlo, così Tas si allontanò per esaminare da solo l’oggetto. Proprio all’estremità della strada, in quello che un tempo era stato un piccolo parco, si ergeva un obelisco di pietra. Nell’esaminarlo Tas si rese conto che non si trovava là l’ultima volta che lui era stato a Solace.
Alto, rozzamente scolpito, era tuttavia sopravvissuto alle devastazioni del fuoco, del vento e delle tempeste. La sua superficie era annerita e carbonizzata ma, Tas lo notò quando fu più vicino, c’erano lettere scolpite su di esso, lettere che, una volta liberate dal fango, pensò di poter leggere.
Tas sfregò via la fuliggine e lo strato di fango che copriva la pietra. Quindi fissò la scritta per un lungo momento e infine chiamò con voce sommessa: “Caramon.”
Quella strana nota nella voce del kender penetrò la nebbia di dolore di Caramon. Vedendo lo strano obelisco, e accanto a esso Tas con il volto insolitamente serio, l’omone si risollevò, con grande sforzo, in piedi e si avvicinò zoppicando.
“Cos’è?” chiese.
Tas non riuscì a rispondere, potè soltanto scuotere la testa e indicarglielo.
Caramon girò sul davanti dell’obelisco e si fermò. Lesse in silenzio le lettere rozzamente scolpite e la scritta incompiuta.
Eroe delle Lance
Tika Waylan Majere
Morta nell’anno 358
L’albero della tua vita è caduto troppo presto
Ho paura, per timore che nelle mie mani venga trovata l’ascia
“Mi... mi spiace, Caramon,” mormorò Tas, facendo scivolare la mano tra le dita flaccide e snervate del l’omone.
Caramon chinò la testa. Appoggiando la mano sull’obelisco, ne accarezzò la superficie fredda e umida mentre il vento si abbatteva intorno a loro con le sue raffiche rabbiose. Qualche goccia di pioggia si spiaccicò contro la pietra. “È morta sola,” disse. Chiudendo la mano a pugno, la calò con violenza contro la roccia, tagliandosi la pelle sugli orli dentellati. “L’ho lasciata sola! Avrei dovuto essere qui! Maledizione, avrei dovuto essere qui!”
Le sue spalle cominciarono a sussultare per i singhiozzi. Tas, lanciando un’occhiata alle nuvole tempestose e rendendosi conto che erano di nuovo in movimento e si stavano avvicinando, strinse con forza la mano di Caramon.
“Non credo che avresti potuto fare niente, Caramon, anche se ti fossi trovato qui...” cominciò a dire il kender, con convinzione.
Ma all’improvviso troncò le proprie parole, quasi mordendosi la lingua nel farlo. Ritraendo la mano da Caramon (l’omone neppure se ne accorse) il kender s’inginocchiò nel fango. I suoi occhi acuti avevano intravisto qualcosa che luccicava ai raggi malati del pallido sole. Tas abbassò una mano tremante e si affrettò a rimuovere il fango.
“In nome degli dei!” esclamò, sgomento, appoggiandosi all’indietro sui propri calcagni. “Caramon, tu eri qui!”
“Cosa?” grugnì l’omone.
Tas gliel’indicò.
Caramon sollevò la testa e guardò giù. Lì, ai suoi piedi, giaceva il suo scheletro.
Capitolo terzo.
Per lo meno, sembrava il cadavere di Caramon. Indossava l’armatura che Caramon aveva comperato a Solamnia, l’armatura che aveva indossato durante la Guerra della Porta dei Nani, l’armatura che aveva indossato quando lui e Tas avevano lasciato Zhaman. L’armatura che indossava adesso...
Ma, oltre all’armatura, non c’era niente di specifico che identificasse il corpo. A differenza degli altri corpi che Tas aveva scoperto, e che erano stati conservati sotto strati e strati di fango, questo corpo giaceva relativamente vicino alla superficie e si era decomposto. Tutto quello che rimaneva era lo scheletro di quello che ovviamente era stato un uomo grande e grosso, che giaceva ai piedi dell’obelisco. Una mano, che stringeva uno scalpello, era appoggiata alla base del monumento di pietra, come se il suo ultimo gesto fosse stato quello di scolpire l’ultima frase.
Non c’era nessun indizio di ciò che l’aveva ucciso.
“Cosa sta succedendo, Caramon?” chiese Tas con voce tremante. “Se quello sei tu, e per giunta morto, come puoi essere qui, nel medesimo tempo?”. Un improvviso pensiero gli balenò nella mente. “Oh, no! E se tu non fossi qui?”. Si strinse il ciuffo, torcendolo più e più volte. “Se non sei qui, allora ti ho inventato io. Cielo!” Tas deglutì. “Non ho mai saputo di avere un’immaginazione così accesa. Una cosa è certa: sembri vivo.” Allungò una mano tremante e toccò Caramon. “Dai la sensazione di essere vero e, se non ti spiace che te lo dica, puzzi anche di vero!” Tas si torse le mani. “Caramon! Sto impazzendo!” gridò senza freni. “Come uno di quei nani scuri di Thorbardin!”
“No, Tas,” borbottò Caramon. “Questo è reale, anche troppo reale.”
Fissò il cadavere, poi l’obelisco che adesso era visibile a malapena alla luce che si andava rapidamente affievolendo. “E comincia ad avere senso. Se soltanto potessi...”. S’interruppe, fissando intensamente l’obelisco. “Ci sono! Tas, guarda la data sul monumento!”
Con un sospiro, Tas sollevò la testa. “Trecentocinquantotto,” lesse con voce smorta. Poi sgranò gli occhi. “Trecentocinquantotto?” ripetè. “Caramon, era il trecentocinquantasei quando abbiamo lasciato Solace!”
“Siamo arrivati troppo lontano, Tas,” mormorò Caramon, sgomento. “Siamo arrivati nel nostro stesso futuro.”
Le ribollenti nuvole nere che avevano visto ammassarsi lungo l’orizzonte come un esercito intento a raccogliere le proprie forze per l’attacco, si avventarono su di loro, cancellando misericordiosamente gli ultimi pochi momenti di esistenza di quel sole striminzito.
La tempesta colpì fulminea e con furia incredibile. Una raffica di vento rovente sollevò Tas in aria e sbatté Caramon all’indietro contro l’obelisco. Poi la pioggia cominciò a cadere martellandoli con gocce simili a piombo fuso. La grandine tempestò le loro teste, flagellando e ammaccando la loro pelle.
Ancora più terribili del vento e della pioggia erano tuttavia i micidiali lampi multicolori che guizzavano dalle nubi fino al suolo, colpendo i ceppi degli alberi, infrangendoli e riducendoli a vivide sfere di fuoco, visibili per molte miglia intorno. Il tuono rombava in continuità, uno scrosciare assordante che scuoteva lo stesso terreno e intorpidiva i loro sensi.
Cercando disperatamente di trovare rifugio dalla violenza della tempesta, Tas e Caramon si rannicchiarono sotto il vallenwood caduto, rintanandosi in una buca che Caramon aveva scavato nel fango grigio e appiccicoso. Da quel misero rifugio, guardarono increduli la tempesta che seminava ulteriori devastazioni su una terra già morta.
Gli incendi spazzavano i fianchi delle montagne; potevano sentir l’odore del legno bruciato. Una folgore si abbatté lì vicino, facendo esplodere gli alberi e scagliando in aria grosse zolle di terreno.
Il tuono investì come un maglio le loro orecchie.
L’unico beneficio offerto dalla tempesta era l’acqua piovana. Caramon si tolse l’elmo, lo girò, e quasi subito raccolse acqua da bere a sufficienza. Ma aveva un sapore orribile, di uova marce, urlò Tas, stringendosi il naso mentre beveva, e servì a poco per alleviare la loro sete.
Nessuno dei due disse, anche se entrambi lo pensavano, che non avevano nessun modo per immagazzinare l’acqua, e che non c’era niente da mangiare.
Tasslehoff, sentendosi, ora, un po’ più se stesso, poiché adesso sapeva dove si trovava (anche se non esattamente perché ci si trovava o come c’era arrivato), riuscì perfino a godersi la tempesta, unica pausa di serenità nell’ultima ora.
“Non ho mai visto lampi di questo colore,” urlò al di sopra del rombare dei tuoni, osservandoli con rapito interesse. “Sono belli come lo spettacolo di un illusionista ambulante!”. Ma ben presto quello scenario cominciò ad annoiarlo.
“Dopotutto,” urlò ancora, “anche guardare gli alberi che vengono sparati fuori dal suolo perde qualcosa, dopo la cinquantesima volta. Se non ti sentirai troppo solo, Caramon,” aggiunse, con uno sbadiglio da spaccargli la mascella, “credo che mi farò un pisolino. Non ti spiace fare la guardia, vero?”
Caramon scosse la testa, e stava per rispondere qualcosa, quando un’esplosione assordante lo fece sobbalzare. Il ceppo di un albero, a non più di cento passi dal punto in cui si trovavano, scomparve in una sfera di fuoco azzurroverde.
Avremmo potuto essere noi, pensò, fissando le ceneri fumanti e arricciando il naso all’intensa puzza di zolfo. Noi potremmo essere i prossimi! Un desiderio inconsulto si affacciò alla sua mente, un desiderio così forte che i suoi muscoli si contrassero e dovette costringersi a rimanere dove si trovava.
Là fuori c’era la morte certa. Per lo meno qui, dentro a questa buca, erano al di sotto del livello del suolo. Ma, perfino mentre guardava, vide una folgore aprire una gigantesca buca nel terreno, e sorrise amaramente. No, nessun luogo, lì, era sicuro. Non ci rimane altro, pensò, che resistere fino in fondo e confidare negli dei.
Lanciò un’occhiata in direzione di Tas, preparandosi a dire qualcosa di confortante al kender. Poi le parole gli morirono sulle labbra. Sospirando, scosse la testa. Alcune cose non cambiavano mai, e fra queste i kender. Arricciato a palla, completamente dimentico degli orrori che stavano infuriando intorno a lui, Tas se la dormiva della grossa.
Caramon si rannicchiò ancora di più in fondo alla buca, con lo sguardo sulle nuvole ribollenti merlettate di lampi sopra di lui. Per distogliere la mente dalle proprie paure, cercò di dipanare la matassa di ciò che era accaduto, di capire come avevano finito per trovarsi in quella situazione.
Chiudendo gli occhi per proteggersi da quella luce accecante, vide, ancora una volta, il suo gemello in piedi davanti al terribile Portale. Poteva ancora udire la voce di Raistlin che invocava le cinque teste di drago che custodivano il Portale, perché lo aprissero e permettessero il suo ingresso nell’Abisso. Vide Crysania, chierico di Paladine, che pregava il suo dio, smarrita nell’estasi della sua fede, accecata dal male di suo fratello.
Caramon rabbrividì, riascoltando dentro di sé le parole di Raistlin come se l’arcimago si trovasse accanto a lui.
Lei entrerà nell’Abisso insieme a me. Mi precederà e combatterà le mie battaglie. Affronterà i chierici scuri, gli usufruitori scuri della magia, gli spiriti dei morti condannati a vagare in quella terra maledetta, oltre agli incredibili tormenti che la mia Regina sa concepire. Tutto questo lederà il suo corpo, divorerà la sua mente e frantumerà la sua anima. Infine, quando non ce la farà più a resistere, si accascerà ai miei piedi... sanguinante, infelice, morente.
Lei mi tenderà la mano con le sue ultime forze per cercare conforto. Non mi chiederà di salvarla. E troppo forte per farlo. Darà la sua vita per me, volontariamente, con gioia. Mi chiederà soltanto di rimanere con lei mentre morirà...
Ma io le passerò davanti senza guardarla, senza dire una sola parola. Perché? Perché io non avrò più bisogno di lei...
Era stato dopo aver udito quelle parole che Caramon aveva finalmente capito che suo fratello era al di là di ogni redenzione. E così l’aveva lasciato.
Lascia pure che vada nell’Abisso! aveva pensato Caramon con amarezza. Che sfidasse pure la Regina delle Tenebre. Che diventasse pure un dio... Per me non ha importanza. Non m’importa più di quello che gli accadrà. Mi sono finalmente liberato di lui, come lui si è liberato di me.
Lui e Tas avevano attivato il congegno magico, recitando le rime che Par-Salian gli aveva insegnato. E lui aveva sentito cantare le pietre, come le aveva sentite cantare le altre due volte che era stato presente al lancio dell’incantesimo del viaggio nel tempo.
Ma poi era successo qualcosa. Qualcosa che era diverso. In quel momento, poiché aveva il tempo di pensare e di valutare, si ricordò di chiedersi, afferrato da un’improvvisa sensazione di panico, se non ci fosse qualcosa di sbagliato, ma non riuscì a pensare cos’era.
Comunque, non avrei potuto far niente, pensò con amarezza. Non ho mai capito la magia, e neppure me ne sono mai fidato, se è per questo.
Un altro lampo caduto lì vicino infranse la sua concentrazione e fece perfino sussultare Tas nel sonno. Bofonchiando irritato, il kender si coprì gli occhi con le mani e continuò a dormire, assomigliando a un ghiro rannicchiato nella sua tana.
Con un sospiro, Caramon allontanò i suoi pensieri dalla tempesta e tornò agli ultimissimi momenti, quando il magico incantesimo era stato attivato.
Si rese conto d’un tratto di essere stato tirato, tirato e sformato, come se una forza impietosa stesse tentando di trascinarlo in una direzione, mentre un’altra faceva lo stesso in direzione opposta. Cosa mai stava facendo Raistlin in quel momento? Caramon si sforzò di ricordarlo. Una vaga immagine di suo fratello gli si formò nella mente. Vide Raistlin, il volto contorto per l’orrore, che fissava il Portale in preda allo shock. Vide Crysania immobile sulla soglia del Portale, ma non stava più pregando il suo dio. Il suo corpo pareva distrutto dal dolore, gli occhi spalancati per il terrore.
Caramon rabbrividì e si inumidì le labbra. L’acqua dall’amaro sapore gli aveva lasciato in bocca una specie di patina che sapeva di chiodi arrugginiti. Sputando, si pulì la bocca con la mano e si abbandonò all’indietro, esausto. Un altro violento scoppio lo fece sussultare. E così la risposta alla sua domanda.
Suo fratello aveva fallito.
Ciò che era accaduto a Fistandantilus, si era ripetuto con Raistlin. Aveva perso il controllo della propria magia. Il campo magico del congegno dei viaggi nel tempo aveva senza alcun dubbio scombussolato l’incantesimo che stava lanciando. Quella era l’unica spiegazione verosimile...
Caramon si accigliò. No, Raistlin doveva aver certamente previsto la possibilità che ciò accadesse.
Se era così, avrebbe loro impedito di usare il congegno, li avrebbe uccisi, proprio come aveva ucciso l’amico di Tas, lo gnomo.
Scuotendo energicamente la testa per schiarirsela, Caramon ricominciò a esaminare la cosa un’altra volta, studiando il problema così come aveva studiato l’odiato cifrario che sua madre gli aveva insegnato quand’era bambino. Il campo magico era stato sconvolto, questo era ovvio. Aveva scagliato lui e il kender troppo avanti nel tempo, spedendoli nel loro futuro.
Il che significava che tutto ciò che doveva fare era attivare il congegno, e questo l’avrebbe riportato al presente, da Tika, a Solace...
Riaprì gli occhi e si guardò intorno. Ma quando fossero tornati... avrebbero dovuto affrontare quello visto nel futuro?
Caramon rabbrividì. Era fradicio a causa della pioggia torrenziale. La notte si stava facendo gelida, ma non era il freddo che lo tormentava. Sapeva che avrebbe dovuto vivere sapendo ciò che sarebbe accaduto nel futuro. Sapeva che sarebbe vissuto senza speranza. Come avrebbe potuto tornare indietro e guardare in faccia Tika e i suoi amici, sapendo che era questo il destino che li aspettava?
Pensò allo scheletro sotto il monumento. Come poteva tornare indietro sapendo ciò che lo aspettava?
Sempre che quello fosse lui. Ricordava l’ultima conversazione che aveva tenuto con suo fratello.
Tas aveva alterato il tempo, così aveva detto Raistlin. Poiché quelle dei kender, dei nani e degli gnomi erano razze create per caso e non per un preciso disegno, esse non si trovavano nel flusso del tempo come quelle degli umani, degli elfi e degli orchi. Così ai kender era proibito viaggiare indietro nel tempo perché avevano il potere di alterarlo.
Ma Tas era stato mandato indietro a causa di un incidente, essendo balzato dentro il campo magico proprio mentre Par-Salian, capo della Torre della Grande Stregoneria, stava lanciando l’incantesimo per spedire indietro nel tempo Caramon e Crysania. Perciò Tas aveva alterato il tempo. E così Raistlin sapeva di non essere intrappolato nella condanna di Fistandantilus. Aveva il potere di cambiare il risultato. Là dove Fistandantilus era morto, Raistlin avrebbe potuto vivere.
Le spalle di Caramon s’infossarono. Si sentì d’un tratto nauseato e stordito. Cosa mai significava quel fatto? Cosa stava facendo qui? Come poteva esser morto e vivo allo stesso tempo? Quello era poi davvero il suo scheletro? Dal momento che Tas aveva alterato il tempo, poteva essere il corpo di qualcun altro. Ma, cosa più importante, cosa sarebbe successo a Solace?
“È stato Raist a causare questo?” borbottò Caramon fra sé, giusto per udire il suono della propria voce fra il balenare dei lampi e le violente scosse delle esplosioni. “Questo ha qualcosa a che fare con lui? È successo perché lui ha fallito, oppure...”
Caramon trattenne il respiro. Accanto a lui, Tas si agitò nel sonno, piagnucolò e urlò. Caramon gli batté distrattamente una mano sulla spalla con fare assente. “Un brutto sogno,” commentò, sentendo il piccolo corpo del kender contrarsi sotto la sua mano. “Un brutto sogno, Tas. Torna a dormire.”
Tas rotolò su se stesso, schiacciando il suo piccolo corpo contro quello di Caramon, sempre coprendosi gli occhi con le mani. Caramon continuò ad accarezzarlo per tranquillizzarlo.
Un brutto sogno. Desiderò che non si trattasse d’altro. Desiderò con la massima disperazione di risvegliarsi nel proprio letto, con la testa che gli martellava per aver bevuto troppo. Desiderò di poter sentire Tika che sbatteva i piatti in giro per la cucina, maledicendolo perché era uno sciagurato pigro e sbronzo perfino quando lei si arrabattava per preparargli la sua prima colazione preferita. Desiderò di aver potuto continuare quell’esistenza miseranda, intrisa di alcool, poiché allora sarebbe morto, morto senza sapere...
Oh, per favore, fai che sia solo un sogno! pregò Caramon, abbassando la testa sulle ginocchia e sentendo le lacrime amare sotto le palpebre chiuse.
Rimase seduto là, senza neppure avvertire più il tormento della tempesta, schiacciato dal peso di quella sua improvvisa constatazione. Tas sospirò e rabbrividì, ma continuò a dormire tranquillo.
Caramon non si mosse. Non dormì. Non ci riusciva. Il sogno nel quale camminava era un sogno da sveglio, un incubo a occhi aperti. Gli serviva soltanto una cosa per avere la conferma di ciò che, nel suo cuore, sapeva non richiedere nessuna conferma.
La tempesta passò, spostandosi lentamente verso sud. Caramon letteralmente la sentì andar via: il tuono marciava sul terreno come se avesse i piedi d’un gigante. Quando terminò, il silenzio echeggiò nelle sue orecchie più forte delle esplosioni che precedevano i lampi. Caramon sapeva che adesso il cielo sarebbe stato sgombro. Sgombro fino alla prossima tempesta. Avrebbe visto la luna, le stelle...
Le stelle...
Doveva soltanto sollevare la testa e guardare il cielo, il cielo limpido, e avrebbe saputo. Per qualche altro istante rimase seduto là, bramando con tutto il cuore che l’odore delle patate speziate arrivasse fino a lui, bramando che la risata di Tika bandisse il silenzio... che il dolore di un’ubriacatura nella sua testa sostituisse il terribile dolore che aveva nel cuore.
Ma non c’era nulla. Soltanto il silenzio di quella terra morta e spoglia, interrotto dal lontano, desolato rombo del tuono.
Con un lieve sospiro, che lui stesso udì appena, Caramon levò la testa e fissò il firmamento.
Inghiottì la saliva amara che aveva in bocca, quasi soffocando. Le lacrime gli punsero gli occhi, ma le ricacciò indietro sbattendo le palpebre, così da poter vedere con chiarezza.
Era là: la conferma delle sue paure, il sigillo della sua condanna.
Una nuova costellazione nel cielo.
E
Una clessidra...
“Cosa significa?” chiese Tas sfregandosi gli occhi, e fissando insonnolito le stelle, sveglio soltanto a metà.
“Significa che Raistlin c’è riuscito,” rispose Caramon con una strana mescolanza di paura, dolore e orgoglio nella voce. “Significa che è entrato nell’Abisso e ha sfidato la Regina delle Tenebre... sconfiggendola.”
“Non l’ha sconfitta, Caramon,” lo corresse Tas, studiando con attenzione il cielo e puntando il dito.
“Là c’è la sua costellazione, ma è nel posto sbagliato. È laggiù in fondo, mentre dovrebbe essere da questa parte. E là c’è Paladine.” Sospirò. “Povero Fizban. Mi chiedo se abbia dovuto combattere contro Raistlin. Non credo che gli sarebbe piaciuto. Ho sempre avuto la sensazione che capisse Raistlin, forse meglio di chiunque di noi.”
“Allora, forse, la battaglia continua ancora,” rifletté Caramon. “Forse è questa la ragione delle tempeste.” Rimase silenzioso per un attimo, fissando la luccicante forma della clessidra in alto nel cielo. Nella sua mente poteva vedere gli occhi di suo fratello come lo erano stati quand’era emerso, tanto tempo prima, da quella terribile prova nella Torre della Grande Stregoneria... le pupille dei suoi occhi avevano assunto la forma di clessidre.
“Così, Raistlin, vedrai il tempo mentre cambia tutte le cose,” gli aveva detto Par-Salian. “Così, c’è da sperare che acquisirai la pietà da quelli che ti stanno intorno.”
Ma non aveva funzionato.
“Raistlin ha vinto,” disse Caramon con un sommesso sospiro. “È quello che voleva essere: un dio. E adesso regna su un mondo morto.”
“Un mondo morto?” domandò Tas, allarmato. “V... vuoi dire che tutto il mondo è così? Ogni cosa su Krynn... Palanthas e Haven e Qualinesti? K... Kendermore? Ogni cosa?”.
“Guardati intorno,” replicò Caramon con voce cupa. “Cosa pensi? Hai visto altri esseri viventi da quando ci troviamo qui?”. Agitò una mano intravista a malapena alla pallida luce di Solinari, visibile in cielo adesso che le nuvole se n’erano andate, luminosa come un occhio fisso nel cielo.
“Hai visto il fuoco spazzare il fianco della montagna. Adesso posso vedere i lampi all’orizzonte.”
Puntò il dito verso est. “E laggiù c’è un’altra tempesta in arrivo. No, Tas. Niente può sopravvivere a questo. Saremo morti anche noi tra non molto, o ridotti in briciole dalle esplosioni, oppure...”
“Oppure... oppure qualcos’altro...” disse Tas, miseramente. “Io... io non mi sento affatto bene, Caramon. O si... si tratta dell’acqua, o mi sto prendendo di nuovo la peste.” Torcendo il volto per il dolore, si portò le mani allo stomaco. “Comincio a sentirmi tutto strano dentro, come se avessi inghiottito un serpente.”
“L’acqua,” annuì Caramon, con una smorfia. “Lo sento anch’io. E probabile che si tratti di qualche veleno che arriva da quelle nuvole.”
“Allora... allora finiremo per morire qui, Caramon?” chiese Tas dopo un minuto di silenziosa contemplazione. “Poiché, se è così, credo proprio che mi piacerebbe andare laggiù e giacere accanto a Tika, se non ti spiace. Mi... mi farebbe sentire più a casa. Fino a quando non sarò arrivato a Flint e al suo albero.” Sospirando, appoggiò la testa contro il robusto braccio di Caramon. “Certamente avrò un sacco di cose da dire a Flint, non è vero, Caramon? Tutto, sul cataclisma e la montagna di fuoco, e io che ti ho salvato la vita e Raistlin che diventa un dio. Scommetto che non vorrà credere a questa parte. Ma forse tu sarai con me, Caramon e potrai garantirgli che davvero non sto, ehm, esagerando.”
“Morire sarebbe certamente facile,” mormorò Caramon, guardando malinconicamente in direzione dell’obelisco.
Adesso si stava levando anche Lunitari, la sua luce rossosangue si fondeva con la mortale luce bianca di Solinari diffondendo una purpurea radiosità sul terreno coperto di ceneri. L’obelisco di pietra, umido di pioggia, luccicava alla luce delle lune, le sue lettere nere rozzamente scolpite risaltavano nitide contro la pallida superficie.
“Sarebbe facile morire,” ripetè Caramon, più a se stesso che a Tas. “Sarebbe facile distendersi e lasciare che l’oscurità mi prenda.” Poi, digrignando i denti, si alzò in piedi barcollando. “Strano,” aggiunse, sfoderando la spada e mettendosi a segare un ramo del vallenwood caduto che avevano usato come riparo. “Una volta Raist mi ha chiesto proprio questo: “Mi seguiresti nella tenebra?”, queste furono le sue parole.”
“Cosa stai facendo?” chiese Tas, fissando Caramon, incuriosito.
Ma Caramon non rispose, e continuò a segare il ramo dell’albero.
“Ti stai fabbricando una gruccia?” chiese Tas, poi balzò in piedi in preda a un improvviso allarme.
“Caramon, non puoi pensare questo! E... è pazzesco! Ricordo quando Raistlin ti ha posto questa domanda, e ricordo anche come ha replicato quando gli hai detto di sì. Disse che per te sarebbe stata la morte, Caramon! Per quanto tu sia forte, finirebbe per ucciderti!”
Caramon continuò a non dargli risposta. Schegge di legno umido continuarono a schizzare via mentre segava il ramo dell’albero. Di tanto in tanto lanciava un’occhiata alle proprie spalle, in direzione delle nuove nuvole tempestose che si stavano avvicinando, cancellando un poco per volta le costellazioni e strisciando verso le lune.
“Caramon!” Tas afferrò il braccio dell’omone. “Anche se tu andassi... là,” il kender scoprì di non riuscire a pronunciare quel nome, “che cosa faresti?”
“Qualcosa che avrei dovuto fare molto tempo fa,” dichiarò Caramon, risoluto.
Capitolo quarto.
“Vai a dargli la caccia, vero?” gridò Tas, arrampicandosi fuori dal buco, una mossa che, più o meno, lo portò al livello degli occhi di Caramon che stava ancora tagliando il ramo. “È folle, semplicemente folle! Come farai ad arrivare là?”. Un improvviso pensiero lo colpì. “Dov’è là, comunque? Non sai neppure dove stai andando! Non sai dove lui si trova!”
“Ho un modo per arrivare là,” replicò Caramon, gelido, rinfoderando la spada. Prendendo il ramo tra le forti mani, lo piegò e lo torse, e alla fine riuscì a romperlo. “Prestami il tuo coltello,” borbottò, rivolto a Tas.
Il kender glielo porse con un sospiro e fece per ricominciare con le sue proteste, mentre Caramon tagliava via i ramoscelli, ma l’omone lo interruppe.
“Ho il congegno magico. In quanto a dove si trova il là,” Caramon fissò Tas con severità, “tu lo sai!”
“L... l’Abisso?” balbettò Tas.
Il sordo rimbombare di un tuono costrinse ambedue a lanciare un’occhiata apprensiva alla tempesta che si avvicinava, poi Caramon tornò al suo lavoro con rinnovato vigore mentre Tas tornava alle sue argomentazioni. “Il congegno magico ha fatto uscire Gnimsh e me da là, Caramon, ma sono sicuro che non ti permetterà di entrare. E comunque tu non vuoi andare là,” aggiunse il kender, in tono risoluto. “Non è un bel posto.”
“Forse potrà anche non farmi entrare,” cominciò a dire Caramon, poi fece segno a Tas di avvicinarsi. “Vediamo se questa gruccia che mi sono fatto funziona, prima che c’investa un’altra tempesta. Andremo da Tika... l’obelisco.”
Tagliata con la spada una parte del suo mantello infangato, il guerriero l’avvolse intorno alla cima del ramo, che poi si cacciò sotto il braccio appoggiandosi con tutto il suo peso, per saggiarlo. Quella rozza gruccia affondò nel fango per parecchi pollici. Caramon la strappò fuori e fece un altro passo.
Affondò di nuovo ma Caramon riuscì ad avanzare almeno un po’ e a non gravare col proprio peso sul ginocchio ferito. Tas si avvicinò per aiutarlo a camminare e, zoppicando insieme, lentamente si aprirono la strada attraverso il terreno umido e viscido.
Dove stiamo andando? Tas ardeva dalla voglia di chiederlo, ma aveva paura della risposta che avrebbe sentito. Una volta tanto non trovò difficile stare zitto. Sfortunatamente Caramon pareva sentire i suoi pensieri, poiché rispose alla sua tacita domanda.
“Forse quel congegno potrà anche non farmi entrare nell’Abisso,” ripetè Caramon, respirando affannosamente, “ma conosco qualcuno che può farlo. Il congegno ci porterà da lui.”
“Chi?” chiese il kender, dubbioso.
“Par-Salian. Sarà in grado di dirci quello che è successo. Sarà in grado di mandarmi... dovunque io abbia bisogno di andare.”
“Par-Salian?” Tas parve allarmato, quasi che Caramon avesse fatto il nome della Regina delle Tenebre in persona. “È ancora più folle!” cominciò a dire, soltanto che all’improvviso fu colto da un violento malore. Caramon si fermò ad aspettarlo. Anche lui, alla luce della luna, aveva un aspetto pallido e malato.
Convinto di aver vomitato tutto quello che aveva dentro, dal ciuffo fin giù nei calzini, Tas si sentì un po’ meglio. Annuendo a Caramon, ancora troppo esausto per riuscire a parlare, riprese ad avanzare vacillando.
Facendosi strada a fatica in mezzo alla melma e al fango, raggiunsero l’obelisco. Entrambi si accasciarono al suolo e si appoggiarono contro di esso, esausti per lo sforzo che era loro costato perfino quel breve percorso di venti passi o poco più. Il vento caldo si stava levando di nuovo, il fragore del tuono si stava facendo sempre più vicino. Il sudore copriva il volto di Tas, il quale aveva assunto una sfumatura verdastra intorno alle labbra, ma riuscì tuttavia a sorridere a Caramon, con quello che sperò fosse un silenzioso, innocente appello.
“Noi che andiamo a trovare Par-Salian?” fece con noncuranza, asciugandosi il viso col gran ciuffo dei capelli. “Oh, non credo proprio che sia una buona idea. Non sei affatto in forma per fartela tutta a piedi. Non abbiamo né cibo né acqua, e...”
“Non ho intenzione di camminare.” Caramon tirò fuori il ciondolo dalla tasca e diede inizio al procedimento di trasformazione che l’avrebbe trasformato in un bellissimo scettro ingioiellato.
Tas deglutì leggermente e continuò a parlare, sempre più rapido.
“Sono sicuro che Par-Salian ha... uh... ha parecchio da fare... Da fare! Ecco!” Esibì un sorriso spettrale. “Ha troppo da fare per riceverci adesso. Probabilmente ha un sacco di cose da sbrigare, con tutto questo caos che si ritrova intorno. Perciò dimentichiamocene e torniamo indietro in qualche posto del tempo dove ci siamo divertiti. Che ne diresti di quando Raistlin ha lanciato l’incantesimo su Bupu e lei si è innamorata di lui? Quello sì che è stato davvero divertente! Quella disgustosa nana dei fossi che lo seguiva dappertutto...”
Caramon non rispose. Tas torse l’estremità del ciuffo intorno al dito.
“Morto,” disse all’improvviso, uscendo in un sospiro addolorato. “Povero Par-Salian. Probabilmente è morto come la maniglia di una porta. Dopotutto.” fece notare allegramente il kender, “era vecchio quando l’abbiamo incontrato nel 356. E non aveva affatto un aspetto sano. Questo dev’essere stato un vero shock per lui: Raistlin diventato un dio e tutto il resto. Probabilmente troppo per il suo cuore. Bum! Probabilmente è stramazzato a terra fulminato.”
Tas guardò Caramon di sottecchi. C’era un lieve sorriso sulle enormi labbra dell’omone, ma questi non disse niente, continuò soltanto a girare e a torcere le varie parti del ciondolo. Un lampo abbagliante lo fece sussultare. Lanciò un’occhiata in direzione del temporale. Il suo sorriso scomparve.
“Scommetto che la Torre della Grande Stregoneria neppure esiste più!” gridò Tas, disperato. “Se quello che dici è giusto e tutto il mondo è ridotto co... così,” agitò la piccola mano mentre quella pioggia dall’odore fetido ricominciava a cadere, “allora la Torre dev’essere stata uno dei primi posti a venire distrutto! Colpita dalle folgori! Sbum! Dopotutto, la Torre era molto più alta della maggior parte degli alberi che ho visto...”
“La Torre ci sarà,” dichiarò Caramon con voce cupa, effettuando l’ultima regolazione del congegno magico. Lo tenne alto. I suoi gioielli trassero vividi riflessi dai raggi di Solinari e, per un istante, l’oggetto brillò radioso. Poi le nubi della tempesta si accavallarono davanti alla luna, divorandola. E l’oscurità intensa fu rotta soltanto dai bellissimi e micidiali lampi multicolori.
Serrando i denti contro il dolore, Caramon afferrò la sua gruccia e si tirò tenacemente in piedi. Tas lo imitò più lentamente, fissando Caramon con aria infelice.
“Vedi, Tas, ho imparato a conoscere Raistlin,” riprese Caramon, ignorando l’espressione afflitta del kender. “Troppo tardi, forse, ma adesso lo conosco. Odia quella Torre, proprio come odiava i maghi per quello che gli hanno fatto là dentro. Ma, pur odiandola, la ama lo stesso, perché fa parte della sua Arte, Tas. E la sua Arte, la sua magia, significano per lui più della vita stessa. No, la Torre sarà là.”
Levando in alto il congegno che reggeva in mano, Caramon diede inizio al canto: “Il tuo tempo è il tuo. Anche se attraverso il tempo tu viaggi-”
Ma venne interrotto.
“Oh, Caramon!” gemette Tas, aggrappandosi a lui. “Non riportarmi da Par-Salian! Mi farà qualcosa di spaventoso! Lo so! Potrebbe trasformarmi in un... in un pipistrello!”. Tas fece una pausa. “E, anche se suppongo che potrebbe rivelarsi interessante essere un pipistrello, non sono sicuro che riuscirei ad abituarmi a dormire a testa in giù, appeso per i piedi. E sono piuttosto affezionato al fatto di essere un kender, adesso che ci penso, e...”
“Di che cosa stai parlando?” Caramon lo fissò furente, poi sollevò lo sguardo alle nubi tempestose.
La furia della pioggia stava aumentando, i lampi si abbattevano sempre più vicini.
“Par-Salian!” gridò Tas, frenetico. “Io... io ho sconvolto il suo incantesimo per i viaggi nel tempo! Sono partito quando non avrei dovuto! E poi ho rub... ehm... ho trovato un anello magico che qualcuno aveva lasciato in giro, che mi ha trasformato in un sorcio! Sono sicuro che dev’essere piuttosto irritato per questo! E poi ho rotto il congegno magico, Caramon. Non ricordi? Be’, non è stata esattamente colpa mia, è stato Raistlin a farmelo rompere! Ma una persona davvero rigida e severa potrebbe assumere lo sfortunato atteggiamento di chi afferma che, se l’avessi lasciato stare fin dall’inizio, come sapevo che avrei dovuto fare, allora tutto questo non sarebbe successo. E Par-Salian sembra un tipo di persona spaventosamente rigida, non ti pare? E anche se l’ho fatto riparare a Gnimsh, lui non l’ha riparato proprio a dovere, sai...”
“Tasslehoff,” disse Caramon con voce stanca, “chiudi il becco.”
“Sì, Caramon,” disse Tas docilmente, tirando su con il naso.
Caramon fissò la piccola figura avvilita illuminata dal riflesso dei lampi che continuavano a imperversare, e sospirò. “Ascolta, Tas, non permetterò che Par-Salian ti faccia qualcosa. Te lo prometto. Prima, dovrà trasformare me in un pipistrello.”
“Davvero?” chiese Tas, ansioso.
“Parola mia,” dichiarò Caramon, con gli occhi puntati sulla tempesta. “Adesso, dammi una mano e andiamocene via da qui.”
“Sicuro,” esclamò Tas, di nuovo allegro, infilando la sua mano dentro quella ben più grande di Caramon.
“E, Tas...”
“Sì, Caramon?”
“Questa volta pensa alla Torre della Grande Stregoneria a Wayreth! Niente lune!”
“Sì, Caramon,” replicò Tas con un profondo sospiro. Poi riprese a sorridere. Sì, disse fra sé, mentre Caramon ricominciava a intonare il canto, scommetto che Caramon sarebbe davvero un colossale pipistrello!
Si ritrovarono ai margini di una foresta.
“Non è colpa mia, Caramon!” si affrettò a dichiarare Tas. “Ho pensato alla Torre con tutto il mio cuore e la mia anima. Sono sicuro di non aver pensato neppure una volta a una foresta!”
Caramon fissò attentamente la distesa d’alberi. Era ancora notte, ma il cielo era limpido, anche se alcune nubi tempestose erano visibili lungo l’orizzonte. Lunitari brillava d’un rosso smorto, e sembrava covare chissà quali silenziosi pensieri. Solinari stava calando precipitosamente in mezzo alla tempesta. E sopra di loro... quella clessidra di stelle.
“Be’, siamo nel giusto periodo di tempo. Ma dove ci troviamo, in nome degli dei?” borbottò Caramon, appoggiandosi alla stampella e fissando irritato il congegno magico. Il suo sguardo si appuntò nuovamente sugli alberi in penombra, i loro tronchi visibili al chiarore lunare. D’un tratto la sua espressione si schiarì. “Va tutto bene, Tas,” aggiunse, sollevato. “Non la riconosci? E la foresta di Wayreth, la foresta magica che protegge la Torre della Grande Stregoneria!”
“Ne sei proprio sicuro?” chiese Tas, dubbioso. “Certo, non assomiglia a quella che ho visto l’ultima volta. Allora era brutta, con un mucchio di alberi morti annidati in mezzo alle ombre, che mi fissavano, e quando ho cercato di entrare non voleva permettermelo, e neppure voleva permettermi di andar via...”
“È questa,” borbottò Caramon, ripiegando lo scettro e restituendogli la sua anonima forma di ciondolo.
“Allora, cos’è successo alla foresta?”
“La stessa cosa che è successa al resto del mondo, Tas,” rispose Caramon, tornando a infilare con cura il ciondolo nella borsa di cuoio. I pensieri di Tas riandarono all’ultima volta che aveva visto la magica
Foresta di Wayreth. Posta a protezione della Torre della Grande Stregoneria, tenendo lontani gli intrusi sgraditi, la Foresta era un luogo strano e arcano. Tanto per cominciare, non eravate voi a trovare la Foresta magica, ma era la Foresta che trovava voi. E la prima volta che aveva trovato Tas e Caramon era stato subito dopo che Lord Soth aveva lanciato l’incantesimo della morte contro Dama Crysania. Tas si era svegliato da un sonno profondo per scoprire che la Foresta si ergeva là dove la sera prima non c’era stata nessuna foresta!
Allora gli alberi gli erano sembrati morti. I loro rami erano spogli e contorti, una nebbia gelida esalava da sotto i loro tronchi. All’interno albergavano forme scure e terribili. Ma gli alberi in realtà non erano morti, in effetti avevano l’arcana abitudine di seguire una persona. Tas ricordava di aver tentato di allontanarsi dalla Foresta, soltanto per scoprire che in realtà si stava addentrando sempre più in mezzo a essa, in qualunque direzione volgesse i suoi passi.
Quello era stato abbastanza sinistro, ma quando Caramon si era inoltrato nella Foresta, questa era cambiata in modo drammatico. Gli alberi morti avevano cominciato a crescere trasformandosi in vallenwood! La Foresta si era trasformata da un bosco cupo e minaccioso, colmo di morte, in una bellissima distesa di vegetazione dorata piena di vita. Gli uccelli cantavano soavemente in mezzo ai rami dei vallenwood, invitandoli a entrare.
E adesso la Foresta era cambiata di nuovo. Tas la fissò, perplesso. Pareva essere entrambe le foreste che ricordava, ma allo stesso tempo nessuna delle due. Gli alberi apparivano morti, i loro rami contorti erano nudi e spogli. Ma mentre guardava, gli parve di vederli muovere in modo tale da dare l’impressione che fossero vivissimi! Protendendosi come braccia pronte a ghermirlo...
Voltando le spalle alla sinistra Foresta di Wayreth, Tas esaminò i propri dintorni. Tutto il resto appariva esattamente com’era stato a Solace. Nessun altro albero si levava, vivo o morto. Era circondato soltanto da moncherini anneriti e distrutti. Il suolo era coperto dallo stesso fango grigio e viscido. In effetti, fin dove arrivava il suo occhio non c’era nulla, soltanto desolazione e morte...
“Caramon!” gridò Tas all’improvviso, puntando il dito.
Caramon si girò di scatto, guardando in quella direzione. Accanto a uno dei ceppi anneriti giaceva, rannicchiata, una figura.
“Una persona!” gridò Tas, afferrato da un’eccitazione incontenibile. “C’è qualcun altro qui!”
“Tas!” lo chiamò Caramon in tono ammonitore, ma prima che potesse agguantarlo, il kender si era precipitato di corsa in quella direzione.
“Ehi!” urlò Tas. “Ehi! Stai dormendo? Su, svegliati.” Allungò una mano e diede uno scossone alla figura la quale, però, al suo tocco, rotolò su se stessa, continuando a giacere nel fango immobile e rigida.
“Oh!” Tas fece istintivamente un passo indietro, poi si fermò. “Oh, Caramon,” aggiunse poi con voce sommessa. “È Bupu!”
Una volta, molto tempo addietro, Raistlin si era mostrato amico della nana dei fossi. Adesso, Bupu fissava il cielo con occhi vuoti e ciechi. Vestita d’indumenti sudici e sbrindellati, il suo piccolo corpo era pietosamente magro, il volto sudicio sciupato e scarno. Aveva intorno al collo una cinghia di cuoio. Legata all’estremità della cinghia c’era una lucertola stecchita. In una mano Bupu stringeva un topo morto, nell’altra una zampa di pollo secca. Con l’avvicinarsi della morte aveva chiamato a raccolta tutta la magia che possedeva, pensò Tas con tristezza, ma non era servito.
“Non è morta da molto,” disse Caramon. Si avvicinò zoppicando e s’inginocchiò dolorante accanto al piccolo corpo macilento. “Pare che sia morta di fame.” Tese la mano e delicatamente chiuse quegli occhi fissi sul vuoto. Poi scosse la testa. “Chissà come ha fatto a vivere così a lungo? I corpi che abbiamo visto a Solace devono esser morti ormai da mesi.”
“Forse Raistlin l’ha protetta,” sbottò Tas, senza pensare.
Caramon corrugò la fronte. “Bah! È soltanto una coincidenza, nient’altro,” replicò in tono aspro.
“Tu conosci i nani dei fossi, Tas. Possono vivere di qualsiasi cosa. Immagino che siano state le ultime creature a sopravvivere, qui. Bupu, essendo la più scaltra del gruppo, è riuscita a sopravvivere più a lungo degli altri. Ma... alla fine, perfino un nano dei fossi non poteva fare altro che perire in questa terra maledetta da dio.” Scrollò le spalle. “Ecco, aiutami ad alzarmi.”
“Cosa... cosa ne faremo di lei, Caramon?” chiese Tas, sconsolato. “La... la lasceremo qui e basta?”
“Che altro potremmo fare?” borbottò Caramon, burbero. La vista della nana dei fossi e la vicinanza della foresta gli riportavano alla memoria ricordi dolorosi e sgraditi. “Tu, vorresti venire seppellito in quel fango?”. Rabbrividì e lanciò un’occhiata intorno. Le nubi tempestose si stavano avvicinando a precipizio; si vedevano chiaramente i fulmini che guizzavano abbattendosi al suolo, e il tuono rimbombava ormai non tanto lontano. “Inoltre non abbiamo molto tempo, a giudicare dalla velocità con cui quelle nuvole stanno arrivando.”
Tas continuò a fissarlo, mesto.
“Comunque, non è rimasto niente in vita che possa darle fastidio, Tas,” esclamò Caramon, irritato.
Poi, vedendo l’espressione addolorata sulla faccia del kender, Caramon si sfilò il mantello e lo distese con cura sopra quel corpo emaciato. “Faremo meglio a muoverci,” disse.
“Addio, Bupu,” disse Tas con voce sommessa. Accarezzando la piccola mano irrigidita che stringeva ancora il topo morto, fece per tirare l’angolo del mantello su di essa, quando vide qualcosa luccicare al rosso bagliore di Lunitari. Tas trattenne il fiato, pensando di aver riconosciuto l’oggetto.
Con cautela aprì le dita irrigidite dalla morte. Il topo cadde al suolo e, insieme ad esso, uno smeraldo.
Tas afferrò il gioiello. Nella sua mente era tornato a... qual era stato il posto? Xak Tsaroth?
Si erano infilati in un condotto fognario per nascondersi alle truppe draconiche. Raistlin era stato colto da un accesso di tosse... Bupu lo fissò con ansia, poi affondò le piccole mani dentro la sua borsa, vi frugò per alcuni minuti, poi tirò fuori un oggetto che sollevò alla luce. Lo fissò socchiudendo gli occhi, poi sospirò e scosse la testa. “Non è questo che voglio,” borbottò.
Tasslehoff, avendo intravisto un lampeggiare vivido e colorato, strisciò più vicino. “Cos’è?” chiese, anche se già sapeva la risposta.
Anche Raistlin fissò l’oggetto con gli occhi lucidi e spalancati.
Bupu scrollò le spalle. “Graziosa roccia,” disse con scarso interesse, mettendosi nuovamente a frugare nella borsa.
“Uno smeraldo!” esclamò Raistlin, con voce ansimante.
Bupu sollevò lo sguardo dalla borsa. “ Ti piace?” chiese a Raistlin.
“Moltissimo,” rispose il mago, boccheggiante.
“Tu tieni.” Bupu mise il gioiello nella mano del mago. Poi con un grido di trionfo, tirò fuori quello che aveva cercato. Tas, sporgendosi da vicino per vedere la nuova meraviglia si ritrasse disgustato.
Era una lucertola morta, molto morta. C’era un pezzo di cuoio masticato legato intorno alla coda rigida della lucertola. Bupu la porse a Raistlin.
“Tu porta intorno al collo,” gli disse. “Cura tosse.”
“Così, Raistlin era qui,” mormorò Tas. “È stato lui a darglielo, deve averlo fatto! Ma perché? Un amuleto... un dono...?”
Il kender scosse la testa, sospirò e si alzò in piedi. “Caramon,” cominciò a dire. Poi vide l’omone che, immobile, fissava la Foresta di Wayreth. Vide il volto pallido di Caramon e indovinò quello che stava pensando.
Tasslehoff si infilò lo smeraldo in tasca.
La Foresta di Wayreth appariva morta e desolata come il resto del mondo intorno a loro. Ma, per Caramon, era viva di ricordi. Innervosito, si mise a fissare quegli strani alberi, i loro tronchi umidi e i rami in putrefazione sembravano luccicare al bagliore sanguigno di Lunitari.
“La prima volta che sono arrivato qui avevo paura,” disse Caramon a se stesso, con la mano sull’elsa della spada. “Non ci sarei mai entrato se non fosse stato per Raistlin. La seconda volta avevo ancora più paura, quando ho condotto qui Dama Crysania alla ricerca di aiuto. Allora non ci sarei mai entrato se non fosse stato per gli uccelli che mi hanno attirato con il loro dolce canto.” Sorrise cupamente. “Calma la foresta, calme le case completate. Dove cresciamo e non marciamo più” cantavano. Pensavo che promettessero aiuto. Pensavo che mi promettessero tutte le risposte. Ma adesso capisco il significato della canzone. La morte, quella è la sola dimora perfetta, la sola dimora in cui cresciamo e non andiamo più in putrefazione!”
Scrutando l’interno del bosco, Caramon rabbrividì, malgrado il calore opprimente dell’aria notturna.
“Questa volta ho più paura di quanta ne abbia mai avuta prima,” borbottò. “C’è qualcosa di sbagliato là dentro.” Un lampo accecante illuminò il cielo e il suolo, seguito da un sordo boato e dallo spiaccicarsi di una goccia di pioggia sulla sua guancia. “Ma per lo meno, è ancora in piedi,” commentò. “La sua magia dev’essere forte per riuscire a sopravvivere alla tempesta.” Il suo cuore si contrasse dolorosamente. Ricordandosi che aveva sete, si leccò le labbra asciutte e screpolate.
“‘Calma è la foresta’” citò ancora.
“Cos’hai detto?” gli chiese Tas, arrivando al suo fianco. “Ho detto che una morte vale l’altra,” rispose Caramon scrollando le spalle.
“Tu sai che sono morto tre volte,” disse Tas, solennemente. “La prima volta è stata a Tharsis, dove i draghi mi hanno fatto crollare addosso un edificio. La seconda volta è stato a Neraka, là sono stato avvelenato da una trappola e Raistlin mi ha salvato. E l’ultima volta è stata quando gli dei mi hanno fatto cadere addosso una montagna di fuoco. E, tutto considerato,” rifletté per un momento, “credo che sia un’affermazione giusta, la tua. Una morte ne vale press’a poco un’altra. Vedi, quel veleno mi ha fatto un sacco di male, ma è finito molto in fretta, mentre l’edificio, d’altro canto...”
“Suvvia,” Caramon sogghignò stancamente, “risparmia il fiato per dirlo a Flint.” Sfoderò la spada.
“Pronto?”
“Pronto,” rispose Tas in tono risoluto. “Lascia il meglio per ultimo”, aveva l’abitudine di dire mio padre. Anche se,” il kender fece una pausa, “penso che intendesse riferirsi alla cena, e non alla morte. Ma, con tutta probabilità, ha l’identico significato.”
Sguainando il suo pugnaletto, Tas seguì Caramon nell’incantata Foresta di Wayreth.
Capitolo quinto.
L’oscurità li inghiottì. Né la luce della luna, né quella delle stelle potevano penetrare la profonda notte della Foresta di Wayreth. Là dentro si smarriva perfino il fulgore dei micidiali, magici lampi.
E malgrado si potesse udire il rombare del tuono, questo pareva soltanto un’eco lontana di se stesso.
Inoltre, Caramon poteva udire dietro di loro il continuo martellare della pioggia e il crepitare della grandine. Ma lì, nella Foresta, era tutto asciutto. Soltanto gli alberi che si trovavano al limitare erano toccati dalla pioggia.
“Oh, insomma, questo sì che è un sollievo!” esclamò Tas, con voce allegra. “Se soltanto potessimo avere un po’ di luce, io...”
Le sue parole vennero interrotte da un gorgoglio soffocato. Caramon sentì un tonfo e il crepitare del legno, e il sordo frusciare di qualcosa che veniva trascinato sul terreno.
“Tas?” gridò.
“Caramon!” gridò Tas in affannata risposta. “È un albero! Un albero mi ha preso! Aiuto, Caramon, Aiuto!”
“Stai scherzando, Tas?” replicò Caramon in tono severo. “Perché non è divertente...”
“No!” urlò Tas. “Mi ha preso e mi sta trascinando da qualche parte!”
“Cosa... dove?” urlò di rimando Caramon. “Non riesco a veder niente in questa maledetta oscurità! Tas?”
“Qui, qui!” gridò ancora Tas, fuori di sé. “Mi ha agguantato un piede e sta cercando di squartarmi!”
“Continua a gridare, Tas!” urlò Caramon, incespicando in mezzo a quella frusciante oscurità.
“Credo di essere vicino...”
Il gigantesco ramo di un invisibile albero colpì Caramon in pieno petto, sbattendolo al suolo e facendogli mancare il fiato per la violenza dell’impatto. L’omone giacque là, cercando d’inspirare l’aria, quando sentì uno scricchiolio alla sua destra. Sferrò alla cieca un fendente con la sua spada, rotolando via, e qualcosa di pesante si abbatté proprio là dove era giaciuto fino a un attimo prima.
Caramon si alzò in piedi barcollando, ma un altro ramo lo colpì in fondo alla schiena, facendolo cadere lungo disteso a faccia in giù sul suolo brullo della Foresta.
Il colpo alla schiena l’aveva anche raggiunto ai reni, facendolo rantolare per il dolore. Caramon si sforzò di rialzarsi, ma il ginocchio gli pulsava di dolore e la testa gli girava. Non riusciva più a sentire la voce di Tas. Non riusciva a sentire niente tranne il crepitio e il frusciare degli alberi che si stavano rinserrando intorno a lui. Qualcosa gli raschiò il braccio. Caramon sussultò e strisciò fuori dalla sua portata, ma soltanto per sentire qualcos’altro che lo afferrava per un piede. Disperato, lo colpì con il taglio della spada. Le schegge del legno schizzarono via pungendolo alla gamba, ma parve che il suo assalitore non subisse alcuna conseguenza.
Nei rami massicci dell’albero c’era la forza dei secoli. La magia dava all’albero energia e determinazione. Caramon aveva violato la terra che l’albero sorvegliava, una terra proibita a coloro che non vi erano stati invitati. Sapeva che l’albero l’avrebbe ucciso.
Un altro ramo si avvinghiò alla grossa coscia di Caramon. Altri tralci lo afferrarono per le braccia, cercando una presa ancor più solida. Nel giro di pochi istanti sarebbe stato squartato... Sentì Tas urlare per il dolore...
Alzando la voce, Caramon urlò disperato: “Sono Caramon Majere, fratello di Raistlin Majere! Devo parlare a Par-Salian o a chiunque sia Padrone della Torre adesso!”
Vi fu un attimo di silenzio... un attimo di esitazione. Caramon sentì esitare la volontà degli alberi e i rami che allentavano impercettibilmente la loro presa.
“Par-Salian, sei là? Par-Salian, tu mi conosci! Io sono il suo gemello. Sono la tua sola speranza.”
“Caramon?” Una tremula domanda gli arrivò alle orecchie. “Zitto, Tas!” sibilò Caramon.
Il silenzio gravava pesante su di loro, come l’oscurità. E poi, lentamente, Caramon sentì che i rami allentavano la loro presa. Sentì di nuovo i fruscii e i crepitìi, soltanto che questa volta si allontanavano a poco a poco da lui. Ansimando di sollievo, indebolito dalla paura e dal dolore, e dal malessere che cresceva dentro di lui, Caramon appoggiò la testa sul braccio, cercando di riprendere fiato.
“Tas, stai bene?” riuscì a stento a chiocciare.
“Sì, Caramon,” risuonò accanto a lui la voce del kender. Allungando la mano, Caramon lo afferrò e lo tirò a sé.
Malgrado sentisse il rumore di qualcosa che si muoveva nel buio e sapesse che gli alberi si stavano ritirando, aveva anche la sensazione che gli stessi alberi stessero osservando ogni sua singola mossa, ascoltando ogni sua parola. Lentamente e con cautela, rinfoderò la sua spada.
“Ti sono davvero grato per aver pensato di dire a Par-Salian chi sei, Caramon,” disse Tas, ansando per recuperare il fiato. “Stavo giusto cercando d’immaginare come avrei spiegato a Flint che ero stato assassinato da un albero. Non sono ancora certo che sia permesso di ridere nell’Oltretomba, ma scommetto che Flint si sarebbe messo a ridere a crepa...”
“Sst!” gli intimò Caramon, con un filo di voce.
Tas si azzittì. Poi bisbigliò: “Stai bene?”
“Sì. Lasciami solo il tempo di riprendere fiato. Ho perso la gruccia.”
“È qui. Ci sono caduto sopra.” Tas si allontanò strisciando e ritornò qualche istante più tardi, trascinandosi dietro il ramo imbottito. “Ecco.” Aiutò Caramon a risollevarsi in piedi, l’omone barcollava.
“Caramon,” chiese un attimo dopo, “quanto tempo pensi che impiegheremo ad arrivare alla Torre? Ho... ho una sete terribile, e, anche se le mie interiora stanno un po’ meglio di quando mi sono sentito male, poco fa, di tanto in tanto sento ancora delle strane contrazioni allo stomaco.”
“Non so, Tas,” Caramon sospirò. “Non riesco a vedere un bel niente in questa oscurità. Non so dove stiamo andando, o quale sia la strada giusta, o come faremo a camminare senza andare a sbattere dritti contro qualcosa...”
All’improvviso, i fruscii ricominciarono, come se un vento di tempesta stesse scuotendo i rami degli alberi. Caramon divenne teso e perfino Tas s’irrigidì allarmato, quando sentirono gli alberi che ricominciavano a rinserrarsi su di loro. Tas e Caramon erano impotenti nel buio, mentre gli alberi si avvicinavano sempre di più. I rami toccarono la loro pelle e le foglie morte sfiorarono i loro capelli, bisbigliando strane parole ai loro orecchi. La mano tremante di Caramon tornò a chiudersi sopra l’elsa della spada, anche se sapeva che sarebbe servito a ben poco. Ma poi, quando gli alberi li premevano ormai da ogni lato, i movimenti e i bisbigli cessarono. Gli alberi erano di nuovo immoti.
Allungando la mano, Caramon toccò i solidi tronchi alla sua destra e alla sua sinistra. Poteva sentirli ammassati alle sue spalle. Gli venne un’idea: tese un braccio nel buio e tastò intorno a sé. Il terreno era sgombro.
“Tienti vicino a me, Tas,” ordinò e per una volta nella sua vita il kender non discusse. Insieme, avanzarono inoltrandosi nell’apertura lasciata dagli alberi.
Dapprima si mossero con cautela, timorosi d’inciampare su una radice o su un ramo caduto, o di rimanere impigliati in un cespuglio o di ruzzolare dentro una buca. Ma a poco a poco si resero conto che il suolo della foresta era liscio e asciutto, sgombro da ogni ostacolo, libero da qualunque vegetazione. Non avevano nessuna idea di dove stavano andando. Camminavano nella più assoluta oscurità, sospinti lungo un sentiero irreversibile dagli alberi che si dischiudevano davanti a loro per poi rinchiudersi alle loro spalle. Qualunque deviazione dal sentiero stabilito li conduceva a ridosso di una muraglia di tronchi e di rami aggrovigliati, di foglie morte e sussurranti.
Il calore era opprimente. Non c’era vento, non cadeva pioggia. La sete, smarritasi nella loro paura, tornò a tormentarli. Asciugandosi il sudore sul viso, Caramon si meravigliò dello strano, soffocante calore, poiché era assai più intenso qui che all’esterno della Foresta. Pareva che il calore venisse generato dalla Foresta stessa. La Foresta era più viva di quanto avesse notato le ultime due volte che era stato lì. Certamente era più viva del mondo esterno: sentiva, o gli pareva di sentire, tra il frusciare degli alberi, i movimenti di animali o il frullio delle ali degli uccelli, e talvolta sorprese un luccichio nel buio. Ma il fatto di trovarsi di nuovo in mezzo a esseri viventi non fece provare nessuna sensazione di conforto a Caramon. Percepiva il loro odio e la loro rabbia ma, nel medesimo istante in cui li sentiva, si rese conto che non erano diretti contro di lui. Erano diretti contro se stessi.
E poi sentì di nuovo il canto degli uccelli, come li aveva sentiti l’ultima volta che era penetrato in quel luogo arcano. Alto e dolce e puro, levandosi al di sopra della morte e dell’oscurità e della sconfitta, risuonava il canto dell’allodola. Caramon smise di ascoltare, con le lacrime che gli pungevano gli occhi per la bellezza di quella canzone, e il dolore del suo cuore che si allentava.
La luce nei cieli d’oriente
è immobile, ed è sempre mattino,
e l’aria rinnova in se
stessa fede e struggimento.
E le allodole si levano come angeli
e come angeli le allodole ascendono
dall’erba illuminata dalla gloria del sole come gemme
nel vento cullante.
Ma proprio mentre il canto dell’allodola gli penetrava nel cuore con la sua dolcezza, un aspro gracidio lo fece sussultare, spaventandolo. Ali nere sbatterono intorno a lui e la sua anima si riempì di ombre.
La chiara luce a oriente
ricompone dalla tenebra
gli ingranaggi del giorno,
e il canto ora più fievole dell’allodola
ma i corvi cavalcano la notte
e l’oscurità dell’occidente,
il palpito d’ali dei loro cuori
trae echi in un nido sepolto.
“Cosa significa, Caramon?” chiese Tas, stupito e sgomento, mentre continuavano ad avanzare a tentoni attraverso la Foresta, sempre sospinti dagli alberi incolleriti.
La risposta a quella domanda giunse, non da Caramon, ma da altre voci, dolci, profonde, tristi, con l’antica saggezza del gufo.
Attraverso la notte le stagioni cavalcano dentro la tenebra, gli anni si arrendono alle luci mutevoli, il respiro si svuota all’imbrunire o all’alba, ma c’è sempre il papavero nei campi e i fuochi fatui sul cimitero, e a mezzogiorno inoltrato i rami più alti degli ombrosi vallenwood sfolgorano di luce.
“Significa che la magia è fuori controllo,” replicò Caramon con voce sommessa. “Qualunque forza di volontà controlli ancora questa Foresta, riesce a farcela a stento.” Rabbrividì. “Chissà cosa troveremo quando arriveremo alla Torre.”
“Se arriveremo alla Torre,” borbottò Tas. “Come facciamo a sapere che questi vecchi, orrendi alberi non ci stiano conducendo sull’orlo di un burrone?”
Caramon si fermò, ansando, per riprendere il respiro in quel terribile calore. La rozza gruccia gli affondava dolorosamente nell’ascella. Sentì che il ginocchio cominciava a irrigidirsi, perché non aveva potuto appoggiare il proprio peso sulla stampella. La gamba era infiammata e gonfia, e sapeva che non sarebbe riuscito ad andare avanti per molto. Anche lui si era sentito male, aveva vomitato per purgare il corpo dal veleno, e adesso stava un po’ meglio. Ma la sete era un tormento.
E, come Tas gli aveva ricordato, non aveva nessuna idea di dove quegli alberi li stessero conducendo.
Alzando la voce, con la gola inaridita, Caramon gridò con asprezza: “Par-Salian! Rispondimi, altrimenti non muoverò un altro passo! Rispondimi!”
Gli alberi esplosero in un grande clamore, i rami si scossero e ondeggiarono come se stesse soffiando un vento violento, anche se nessuna brezza rinfrescava la pelle febbricitante di Caramon.
La voce degli uccelli si levò in una spaventevole cacofonia, sovrapponendo, fondendo e deformando i loro canti in orribili, sgradevoli melodie che riempivano la mente di terrore e di cattivi presagi.
Persino Tas rimase un po’ scosso da tutto questo, e si strinse ancora di più a Caramon (nel caso in cui l’omone avesse bisogno d’essere confortato), ma Caramon rimase fermo e risoluto, gli occhi fissi sull’interminabile notte, ignorando il tumulto che lo circondava.
“Par-Salian!” gridò ancora una volta.
Poi, la risposta si fece udire: un grido sottile e acuto.
Un suono terribile. Caramon si sentì accapponare la pelle. Il grido trafisse l’oscurità e il calore. Si levò al di sopra dell’incredibile schiamazzo degli uccelli e soffocò lo schianto degli alberi.
Parve a Caramon che tutto il dolore e l’orrore di quel mondo morente fosse stato risucchiato e infine liberato in quell’urlo spaventoso.
“In nome degli dei,” bisbigliò Tas in preda al più vivo sgomento e afferrando la mano di Caramon (nel caso in cui l’omone fosse spaventato). “Cosa sta succedendo?”
Caramon non rispose. Poteva sentire la collera della Foresta diventare più intensa, mescolata però, adesso, a una paura e a una tristezza insopportabili. Gli alberi parevano pungolarli ancora di più perché proseguissero, spingendoli, sollecitandoli. L’urlo continuò per tutto il tempo che un uomo poteva impiegare a esaurire il proprio fiato poi cessò per lo spazio di tempo che un uomo avrebbe impiegato per riempirsi d’aria i polmoni, poi ricominciò. Caramon sentì ghiacciarsi il sudore su tutto il corpo.
Continuò a camminare, con Tas vicinissimo a lui. Il loro progredire era lento, peggiorato anche dal fatto che non avevano la minima idea se stessero o no facendo progressi, dal momento che non potevano vedere la loro destinazione, e neppure rendersi conto se stavano procedendo nella giusta direzione. L’unica guida che avevano per arrivare alla Torre era quel grido stridente e disumano.
Continuarono ad avanzare incespicando quasi a ogni passo, e nonostante Tas facesse del suo meglio per aiutarlo, per Caramon ogni passo era un’agonia. Il dolore delle ferite s’impadronì di lui, e ben presto Caramon perse ogni concetto del tempo. Dimenticò perché erano venuti, e perfino dov’erano diretti. Avanzare un passo per volta in un’oscurità che era diventata un buio profondo della mente e dell’anima era il solo pensiero di Caramon.
Continuò a camminare... e a camminare... e a camminare... un passo, un passo, un passo...
E per tutto il tempo quell’urlo orribile e imperituro continuò a stridergli negli orecchi...
“Caramon!”
La voce penetrò il suo cervello stanco, intorpidito dal dolore. Adesso, ebbe la sensazione di averla udita già da un po’ di tempo, al di sopra dell’urlo ma, se era così, non aveva penetrato la nebbia tenebrosa che lo avvolgeva.
“Cosa?” borbottò, e adesso divenne consapevole che delle mani lo afferravano, scuotendolo.
Sollevò la testa e si guardò intorno.
“Cosa?” chiese un’altra volta, lottando per recuperare il controllo della realtà. “Tas?”
“Guarda, Caramon!”. La voce gli giunse come attraverso una nebbia, e allora scrollò la testa, disperato, per spazzare via la nebbia che aveva nel cervello.
E si rese conto di poter vedere. C’era luce: la luce delle lune! Sbattendo le palpebre, si guardò intorno. “La Foresta?”
“Dietro di noi,” bisbigliò Tas, come se parlarne ad alta voce potesse all’improvviso riportarla indietro. “Almeno ci ha fatto arrivare da qualche parte. Anche se non so di sicuro dove. Guardati intorno. Ti ricordi di questo?”
Caramon diede un’occhiata. L’ombra della Foresta era scomparsa. Lui e Tas si trovavano in una radura. Rapidamente, pieno di timore, si guardò intorno.
Ai suoi piedi si spalancava un abisso tenebroso.
Dietro di loro la Foresta aspettava. Caramon non dovette voltarsi per vederla, sapeva che era là, proprio come sapeva che non avrebbero potuto rientrarvi e uscirne vivi. Li aveva condotti fin là, e qui li avrebbe lasciati. Ma dov’era qui? Gli alberi erano alle loro spalle, ma davanti a loro si stendeva il nulla: soltanto un vuoto sconfinato e oscuro. Avrebbero potuto benissimo trovarsi sull’orlo di un precipizio, come Tas aveva detto.
Nubi tempestose oscuravano l’orizzonte ma, per il momento, nessuna di esse pareva vicina. In alto, poteva vedere le lune e le stelle nel cielo. Lunitari ardeva di un rosso fiammeggiante, la luce argentea di Solinari risplendeva d’un fulgore che Caramon non aveva mai visto prima. E adesso, forse a causa del netto contrasto fra l’oscurità e la luce, poteva vedere Nuitari: la luna nera, la luna che era stata visibile soltanto agli occhi di suo fratello. Intorno alle lune, le stelle splendevano vivide, ma nessuna di esse era più luminosa di quella strana costellazione a forma di clessidra.
Gli unici suoni che poteva udire erano i borbottii rabbiosi della Foresta alle sue spalle e, davanti a lui, quell’urlo orribile e stridente.
Non avevano scelta, pensò Caramon con stanchezza. Non c’era modo di tornare indietro. La Foresta non l’avrebbe consentito. E cos’era, comunque, la morte se non la fine di quel dolore, di quella sete, di quell’amara sofferenza nel suo cuore?
“Rimani qui, Tas,” cominciò a dire, cercando di staccarsi di dosso le piccole mani del kender mentre si preparava ad avanzare nel buio. “Andrò un po’ avanti a esplorare...”
“Oh, no!” gridò Tas. “Tu non andrai da nessuna parte senza di me!” Le mani del kender strinsero ancora più saldamente. “Diamine, guarda in quanti guai ti sei cacciato da solo durante le guerre dei nani!” aggiunse, cercando di sbarazzarsi di una noiosa sensazione di soffocamento che provava alla gola. “E quando sono arrivato là, ho dovuto salvarti la vita.” Tas guardò giù, nell’oscurità che si stendeva ai loro piedi, poi digrignò con fare risoluto i denti e sollevò lo sguardo per incontrare quello dell’omone. “Io ere... credo... che mi sentirei tremendamente solo nell’Oltretomba senza di te e, inoltre, sento già quello che direbbe Flint: “Be’, pomolo d’una porta che non sei altro, cosa hai combinato stavolta? Sei riuscito a perdere quella grossa fetta di lardo, vero? C’era da immaginarlo. Adesso, suppongo che dovrò lasciare il mio sedile bello e morbido sotto quest’albero e mettermi a cercare quell’idiota tutto muscoli. Non ha mai saputo come mettersi al riparo dalla pioggia...”
“Molto bene, Tas,” lo interruppe Caramon con un sorriso, avendo avuto un’improvvisa visione di quel vecchio nano bisbetico. “Bisogna assolutamente che cerchiamo di non disturbare Flint. Non la finirebbe più con i suoi discorsi.”
“Inoltre,” proseguì Tas, sentendosi più allegro, “perché mai dovrebbero averci spinto in avanti per tutta questa strada, per farci precipitare dentro un pozzo?”
“Perché mai, infatti?” si chiese a sua volta Caramon, riflettendo. Stringendo la propria gruccia, sentendosi più fiducioso, avanzò di un passo.
Capitolo sesto.
La Torre della Grande Stregoneria si profilava davanti a lui, un oggetto di tenebra, che si stagliava contro la luce delle lune e delle stelle, dando l’impressione di essere stata creata dalla notte stessa.
Per secoli si era erta, bastione di magia, ricettacolo dei libri e dei manufatti dell’Arte, raccolti nel corso del tempo.
Qui i maghi erano venuti quando erano stati cacciati dalla Torre della Grande Stregoneria di Palanthas dal Gran Sacerdote, qui avevano portato con sé gli oggetti di maggior valore salvati dalle mani della plebaglia inferocita. Qui avevano dimorato in pace, protetti dalla Foresta di Wayreth.
Qui i giovani apprendisti usufruitori della magia affrontavano la Prova, la Prova snervante che significava la morte per quanti fallivano.
Qui Raistlin era venuto e aveva perso la propria anima iniziando la sua sfida a Fistandantilus. Qui Caramon era stato costretto a guardare Raistlin che assassinava un alter ego illusorio del proprio gemello.
Qui Caramon e Tas erano tornati con la nana dei fossi, Bupu, trasportando il corpo esanime di Dama Crysania. Qui avevano assistito a un conclave delle Tre Vesti: Nera, Rossa e Bianca. Qui avevano appreso quale fosse l’ambizione di Raistlin: sfidare la Regina delle Tenebre. Qui avevano incontrato il suo apprendista e spia del Conclave: Dalamar. Qui il grande arcimago Par-Salian aveva lanciato il suo incantesimo per i viaggi nel tempo su Caramon e Dama Crysania, inviandoli a Istar nei giorni che avevano preceduto la caduta della montagna sulla città.
Qui Tasslehoff aveva inavvertitamente sconvolto l’incantesimo balzando dentro il cerchio, per partire insieme a Caramon. Così, la presenza del kender, proibita da tutte le leggi della magia, aveva fatto sì che il tempo si trovasse modificato.
Adesso Caramon e Tas erano tornati... per trovare che cosa?
Caramon fissò la Torre, con il cuore appesantito dai timori e dai brutti presentimenti. Il coraggio gli era venuto meno. Non poteva entrare, non con l’echeggiare inarrestabile di quel penoso urlo inumano che gli trapassava le orecchie. Meglio tornare indietro, meglio affrontare una morte rapida nella Foresta. Inoltre, si era dimenticato dei cancelli. Fatti d’argento e oro, essi si ergevano ancora bloccando saldamente il suo accesso alla Torre. Parevano sottili come ragnatele, apparivano come strisce nere dipinte sul cielo illuminato dalle stelle. Il tocco della mano di un kender avrebbe potuto aprirli. Ma intorno a essi erano strettamente avvolti degli incantesimi... incantesimi così potenti che un esercito di orchi avrebbe potuto scagliarsi contro quei cancelli dalla parvenza così fragile, senza nessun effetto.
Sempre quell’urlo, adesso più forte e più vicino. Così vicino che, in realtà, avrebbe potuto provenire da... Caramon fece un altro passo avanti, la sua fronte si corrugò. E mentre faceva questo, i cancelli comparvero chiaramente alla sua vista.
Rivelando l’origine dell’urlo...
I cancelli non erano né sbarrati, né chiusi a chiave. Uno di essi si ergeva ancora saldamente, come se fosse ancora protetto dall’incantesimo. Ma l’altro era infranto, e adesso oscillava su un cardine, avanti e indietro, avanti e indietro, all’incessante vento caldo. E, mentre oscillava lentamente avanti e indietro sospinto dal vento, produceva un urlio acuto e stridente.
“Non sono chiusi a chiave,” constatò Tas con disappunto. La sua piccola mano si era già protesa verso i suoi arnesi da scassinatore.
“No,” disse Caramon fissando il cardine cigolante. “E questa la voce che abbiamo sentito... la voce del metallo arrugginito.”
Avrebbe dovuto provare sollievo a questa constatazione, ma in realtà il mistero diventava ancora più profondo. “Se non è stato Par-Salian o qualcuno lassù,” i suoi occhi andarono alla Torre che si ergeva, nera e in apparenza vuota davanti a loro, “che ci hanno permesso di attraversare la Foresta, allora chi è stato?”
“Forse nessuno,” replicò Tas, speranzoso. “Se lassù non c’è nessuno, allora, Caramon, possiamo andarcene?”
“Ma dev’esserci qualcuno,” borbottò Caramon. “Qualcuno, o qualcosa, ha indotto gli alberi a lasciarci passare.”
Tas sospirò, abbassando la testa. Caramon poteva distinguerlo chiaramente alla luce delle lune, il suo piccolo volto era pallido e coperto d’uno strato di sudiciume. C’erano ombre scure sotto i suoi occhi, il suo labbro inferiore tremolava, e una lacrima stava scendendo lungo un lato del suo piccolo naso.
Caramon gli batté una mano sulla spalla. “Soltanto ancora un po’” gli disse con dolcezza. “Resisti ancora un po’, per favore, Tas!”
Sollevando di scatto lo sguardo, inghiottendo quella lacrima traditrice e la sua compagna che gli erano appena sgocciolate in bocca, Tas ebbe un sogghigno allegro. “Ma sicuro, Caramon,” replicò.
Neppure il fatto che la gola gli faceva male ed era inaridita dalla sete riuscì a impedirgli di aggiungere mentre lanciava un’occhiata alla Torre silenziosa: “Tu mi conosci, sono sempre pronto all’avventura. Dovranno per forza esserci un sacco di cose magiche e meravigliose là dentro, non credi? Cose delle quali nessuno può sentire la mancanza. Non anelli magici, naturalmente, l’ho finita per sempre con gli anelli magici. Prima, un anello mi fa finire nel castello di un mago dove incontro il più cattivo dei demoni, poi, un altro mi trasforma in un sorcio. Io...”
Lasciando che Tas continuasse a ciarlare, contento che il kender, almeno all’apparenza, si sentisse tornato alla normalità, Caramon avanzò barcollando e appoggiò la mano sul cancello oscillante per spingerlo da parte. Con suo vivo stupore, il cancello si ruppe: il cardine indebolito aveva finalmente ceduto. Il cancello cadde sferragliando sulla pietra grigia della pavimentazione sottostante, con un clangore che fece sussultare sia Tas sia Caramon, inducendoli ad arretrare di qualche passo. Gli echi ridondarono dalle lucide mura nere della Torre, risuonando attraverso la notte rovente e infrangendo il profondo silenzio.
“Bene, adesso sanno che siamo qui,” disse Tas.
La mano di Caramon si chiuse un’altra volta sull’elsa della spada, ma non sguainò la lama. Gli echi si spensero. Il silenzio tornò a chiudersi su di loro. Non successe nulla. Non venne nessuno.
Nessuna voce parlò.
Tas si voltò per aiutare Caramon, zoppicante, a proseguire. “Per lo meno non dovremo più ascoltare quell’orrendo suono,” disse scavalcando il cancello rotto. “Adesso non m’importa di dirlo, ma quell’urlio cominciava a darmi sui nervi. Certamente aveva un suono assai poco da cancello, se capisci quello che voglio dire. Assomigliava a... assomigliava a...”
“A questo,” bisbigliò Caramon.
L’urlo tagliò l’aria, solcando l’oscurità illuminata dal chiarore lunare, soltanto che questa volta era diverso. C’erano parole in quell’urlo, parole che potevano essere percepite, anche se non definite.
Girando involontariamente la testa, anche se sapeva quello che avrebbe visto, Caramon fissò il cancello dietro di sé. Giaceva sulle pietre, morto, senza vita.
“Caramon,” disse Tas, deglutendo. “Questo prò... proviene dalla... Torre...”
“Smettila!” urlò Par-Salian. “Metti fine a questo tormento! Non costringermi a sopportarlo ancora.”
Quanto mi hai costretto a sopportare, o Grande Mago dalle Vesti Bianche? giunse la voce sommessa e deridente, nella mente di Par-Salian. Lo stregone si contorceva in preda all’agonia, ma la voce persisteva, spietata, scorticando la sua anima come un flagello. Mi hai portato qui e mi hai consegnato a lui, Fistandantilus! Sei rimasto seduto a guardare mentre mi strappava la forza vitale, prosciugandola, così da poter vivere su questo piano.
“Sei stato tu a concludere l’accordo,” gridò Par-Salian, la sua voce antica risuonò lungo i vuoti corridoi della Torre. “Avresti potuto rifiutarglielo...”
E cosa? Morire onorevolmente? La voce rise. Che razza di scelta è mai questa? Io volevo vivere!
Crescere nella mia Arte! E sono vissuto. E tu, nella tua acredine, mi hai dato questi occhi a clessidra, questi occhi che non vedevano nient’altro, intorno a sé, che morte e putrefazione. Adesso tocca a te guardare, Par-Salian! Cosa vedi intorno a te? Nient’altro che morte... Morte e putrefazione... Così siamo pari.
Par-Salian gemette. La voce continuò, spietata, impietosa.
Pari, sì. E adesso ti ridurrò in polvere, poiché nei tuoi ultimi, torturati momenti, Par-Salian, sarai testimone del mio trionfo. Già la mia costellazione risplende nel cielo. E quella della Regina rimpicciolisce. Ben presto si affievolirà e scomparirà per sempre. Adesso il mio ultimo nemico, Paladine, mi aspetta. Lo vedo avvicinarsi. Ma non è certo una sfida: un vecchio, curvo, la faccia accorata e piena di quel dolore che si rivelerà la sua disfatta. È debole... debole e ferito al di là di qualunque guarigione, come lo era Crysania, il suo povero chierico, morta nell’Abisso. Mi vedrai mentre lo distruggerò, Par-Salian, e quando anche questa battaglia sarà conclusa, quando la costellazione del Drago di Platino precipiterà dal cielo, quando il bagliore di Solinari si sarà estinto, quando avrai visto e riconosciuto il potere della Luna Nera e avrai reso omaggio al nuovo e unico Dio, a me, allora verrai liberato, Par-Salian, per trovare qualunque sollazzo ti sia possibile nella morte!
Astinus di Palanthas registrò le parole, così come aveva registrato l’urlo di Par-Salian, scrivendo il tutto con le sue lettere nitide, chiare, ornate, con il suo stile lento, per nulla affrettato. Sedeva davanti al Grande Portale della Torre della Grande Stregoneria, fissando le profondità in ombra del Portale, vedendo in quella profondità una figura più nera perfino dell’oscurità intorno ad essa. Erano visibili soltanto due occhi dorati, le loro pupille avevano la forma di clessidra, che lo fissavano a loro volta, allo stesso modo in cui fissavano lo stregone vestito di bianco intrappolato lì accanto.
Poiché Par-Salian era prigioniero nella sua stessa Torre. Dalla vita in su era un uomo vivo, i bianchi capelli gli ricadevano lungo le spalle, le vesti bianche coprivano un corpo sottile ed emaciato, gli occhi scuri erano fissi sul Portale. Lo spettacolo che aveva visto era stato orrendo e aveva, molto tempo addietro, quasi distrutto il suo equilibrio mentale. Ma non poteva distogliere lo sguardo.
Dalla vita in su, Par-Salian era un uomo vivo. Dalla vita in giù, era un pilastro di marmo. Maledetto da Raistlin, Par-Salian era costretto a restare immobile nella stanza più alta della Torre e a osservare, in amara agonia, la fine del mondo.
Accanto a lui sedeva Astinus, Storico del Mondo, Cronista, intento a scrivere quell’ultimo capitolo della breve e vivida storia di Krynn. Palanthas la Bella, dove Astinus era vissuto e dove si ergeva la Grande Biblioteca, adesso non era altro che un mucchio di cenere e di corpi carbonizzati. Astinus era venuto nell’ultimo luogo ancora in piedi su Krynn, per testimoniare e registrare le ultime, terrificanti ore del mondo. Quando tutto fosse finito, avrebbe preso il libro chiuso e l’avrebbe deposto sull’altare di Gilean, il Dio della Neutralità. E quella sarebbe stata la conclusione irrevocabile.
Percependo che la figura abbigliata di nero dentro il Portale stava girando lo sguardo su di lui, quando arrivò alla fine della frase Astinus sollevò lo sguardo per incontrare gli occhi dorati.
Così come sei stato il primo, Astinus, disse la figura, così tu sarai l’ultimo. Quando avrai registrato la mia ultima vittoria, il libro verrà chiuso. Io regnerò incontrastato.
“È vero, regnerai incontrastato. Regnerai su un mondo morto. Un mondo che la tua magia ha distrutto. Regnerai da solo. E sarai solo, solo nel vuoto informe ed eterno,” rispose gelidamente Astinus, continuando a scrivere mentre parlava. Accanto a lui, Par-Salian gemeva e si strappava i bianchi capelli.
Vedendo, come vedeva ogni cosa, senza dar l’impressione di vedere,
Astinus osservò le mani della figura abbigliata di nero che si serravano. Questa è una menzogna, vecchio amico! Io creerò! Saranno miei nuovi mondi. Nuovi popoli che creerò, nuove razze che mi faranno oggetto di venerazione!
“Il male non può creare,” osservò Astinus. “Può soltanto distruggere. Aggredisce se stesso, corrodendosi. Già senti che ti stai corrodendo. Già puoi sentire la tua anima che si rattrappisce.
Guarda il volto di Paladine, Raistlin. Guardalo, come l’hai guardato una volta, là sulle Pianure di Dergoth, quando giacevi morente, ferito dalla spada del nano, e Dama Crysania posò su di te le sue mani guaritrici. Vedesti il patimento e il dolore del dio, allora, come lo vedi adesso, Raistlin. E allora sapevi, come anche adesso sai, pur rifiutandoti di ammetterlo, che Paladine soffre non per se stesso, ma per te.
“Sarà facile per noi scivolare di nuovo nel nostro sonno senza sogni. Per te, Raistlin, non ci sarà nessun sonno. Soltanto una veglia interminabile... Tenderai interminabilmente l’orecchio per udire suoni che non verranno mai, fisserai interminabilmente un vuoto che non contiene né luce né tenebra, interminabilmente urlerai parole che nessuno udrà e alle quali nessuno risponderà.
Congiurerai e complotterai interminabilmente senza nessun frutto, girandoti e rigirandoti su te stesso. Alla fine, nella tua follia e disperazione, afferrerai la coda della tua esistenza e, come un serpente affamato, divorerai te stesso per intero nello sforzo di trovare cibo per la tua anima.
“Ma non troverai altro che il vuoto. E continuerai a esistere per sempre dentro questo vuoto, un minuscolo punto di niente, che succhierà ogni cosa intorno a sé per nutrire la tua fame interminabile...”
Il Portale luccicò. Astinus si affrettò a sollevare lo sguardo da ciò che stava scrivendo, sentendo vacillare la volontà dietro quegli occhi dorati. Scrutando oltre la loro superficie simile a uno specchio, guardando nelle loro profondità, vide, nello spazio d’un battito di cuore, proprio il tormento e la tortura che aveva appena descritti. Vide un’anima, spaventata, sola, invischiata nella sua stessa trappola che cercava di fuggire. Per la prima volta nella sua esistenza, Astinus si sentì toccare dalla compassione. Segnando con la mano il punto nel suo libro dov’era rimasto, si alzò a metà dalla sua sedia, tendendo l’altra mano all’interno del Portale...
Poi, una risata... una risata arcana, amara, beffarda. Una risata diretta non a lui, ma a colui che aveva riso.
La figura abbigliata di nero all’interno del Portale era scomparsa.
Con un sospiro, Astinus tornò a sedersi e, quasi nel medesimo istante, un lampo magico guizzò all’interno del Portale. Gli rispose un lampo bianco e smagliante, l’incontro finale tra Paladine e il giovane che aveva sconfitto la Regina delle Tenebre prendendone il posto.
I lampi guizzarono anche all’esterno, trafiggendo con il loro accecante fulgore gli occhi dei due uomini che stavano guardando. Il tuono scrosciò, le pietre della Torre tremarono e anche le sue fondamenta furono scosse. Il vento ululò, il suo gemito soffocò il lamento di Par-Salian.
Sollevando il volto teso e scarno, l’antico stregone torse la testa per guardar fuori dalle finestre, con un’espressione di orrore.
“Questa è la fine,” mormorò e le sue mani nodose, devastate dal tempo, annasparono debolmente nell’aria. “La fine di ogni cosa.”
“Sì,” confermò Astinus, corrugando la fronte infastidito, quando un improvviso sussulto della Torre gli fece commettere un errore. Strinse il libro con maggior fermezza, con gli occhi fissi sul Portale, scrivendo, registrando l’ultima battaglia mentre si svolgeva.
Nel giro di pochi istanti tutto terminò. La luce bianca guizzò brevemente, meravigliosamente, per un istante. Poi si spense. All’interno del Portale tutto era tenebra. Par-Salian pianse. Le sue lacrime caddero sul pavimento di pietra e, al loro tocco, la Torre fu scossa come una creatura vivente, come se anch’essa presentisse la propria condanna e tremasse per l’orrore.
Ignorando le pietre che cadevano e le rocce che si sollevavano dal suolo, Astinus vergò con freddezza le ultime parole:
In questo Quartogiorno, Quintomese, Anno 358, il mondo termina.
Poi, con un sospiro, Astinus cominciò a chiudere il libro.
Una mano calò con violenza sulle pagine.
“No,” disse una voce ferma. “Non terminerà qui.”
Le mani di Astinus tremarono, dalla sua penna una macchia d’inchiostro cadde sulla pagina, cancellando le ultime parole.
“Caramon... Caramon Majere!” gridò Par-Salian, penosamente, tendendo verso l’uomo le sue deboli mani. “Eri tu quello che ho sentito nella Foresta!”
“Dubitavi di me?” ringhiò Caramon. Malgrado la vista del miserando stregone in preda ai tormenti lo sbigottisse e lo facesse inorridire, Caramon trovò difficile provare un po’ di compassione per l’arcimago. Fissando Par-Salian, vedendo la sua metà inferiore trasformata in marmo, Caramon ricordò anche troppo chiaramente il tormento del suo gemello nella Torre, e il suo stesso tormento per essere stato mandato a Istar con Crysania.
“No, non ho dubitato di te!” Par-Salian si torse le mani. “Ho dubitato del mio equilibrio mentale! Non riesci a capire? Come puoi essere qui? Come puoi essere riuscito a sopravvivere alle battaglie magiche che hanno distrutto il mondo?”
“Non l’ha fatto,” interloquì Astinus, con voce severa. Avendo ripreso la propria compostezza, appoggiò il libro aperto sul pavimento, ai propri piedi, e si alzò. Fissò Caramon con occhi furenti e gli puntò contro un dito accusatore. “Che razza di trucco è mai questo? Tu sei morto! Qual è il significato...”
Senza dire una parola, Caramon trascinò avanti Tas da dietro le proprie spalle. Profondamente impressionato dalla solennità e dalla serietà della circostanza, Tas si rannicchiò accanto a Caramon, fissando Par-Salian con gli occhi spalancati e lo sguardo implorante.
“Vuoi... vuoi che glielo spieghi io, Caramon?” chiese Tas gentilmente, con un filo di voce appena udibile sopra il fragore del tuono. “Io... io penso proprio che dovrei spiegare perché ho scombussolato l’incantesimo per i viaggi nel tempo, e poi c’è il fatto di come Raistlin mi abbia dato le istruzioni sbagliate, facendomi rompere il congegno magico, anche se in parte è stata colpa mia, suppongo, e come io sia finito nell’Abisso dove ho incontrato il povero Gnimsh.” Gli occhi di Tas si riempirono di lacrime. “E di come Raistlin l’abbia ucciso...”
“Tutto questo mi è noto,” lo interruppe Astinus che si rivolse a Caramon. “Così, sei stato in grado di arrivare fin qui grazie al kender. Ci rimane poco tempo. Cosa intendi fare, Caramon Majere?”
L’omone girò lo sguardo su Par-Salian. “Non ho nessun amore per te, stregone. In questo sono tutt’uno con il mio gemello. Forse avevi le tue ragioni per ciò che facesti a me e a Dama Crysania là a Istar. Se è così,” Caramon sollevò una mano per fermare Par-Salian che, a quanto pareva, stava per replicare, “se è così, allora sei tu che devi vivere con esse, non io. Ora, sappi che è in mio potere alterare il tempo. Come lo stesso Raistlin mi disse, a causa del kender possiamo cambiare quello che è accaduto.
“Ho il congegno magico. Posso tornare indietro in qualunque punto del tempo. Dimmi quando. Dimmi cos’è accaduto, che ha portato a questa distruzione, e io m’impegnerò a impedirla, se potrò farlo.”
Lo sguardo di Caramon andò da Par-Salian ad Astinus. Lo storico scosse la testa. “Non guardare me, Caramon Majere. Sono neutrale in questo, come in qualunque altra cosa. Non posso offrirti nessun aiuto. Posso soltanto darti questo ammonimento: puoi tornare indietro, ma potresti scoprire di non poter cambiare nulla. Un sasso in un fiume che scorre impetuoso è tutto quello che potresti essere.”
Caramon annuì. “Se questo è tutto, allora per lo meno morirò sapendo che ho cercato di porre riparo al mio fallimento.”
Astinus fissò Caramon con uno sguardo acuto e penetrante. “Di quale fallimento parli, guerriero? Hai rischiato la tua vita per tornare indietro nel tempo all’inseguimento di tuo fratello. Hai fatto del tuo meglio, ti sei sforzato di convincerlo che quel sentiero di tenebra che percorreva l’avrebbe condotto soltanto alla sua condanna.” Astinus indicò con un gesto il Portale. “Hai sentito che gli parlavo? Sai cosa si troverà ad affrontare?”
Senza parlare, Caramon annuì di nuovo, il suo volto era pallido e angosciato.
“Allora dimmelo,” gli intimò Astinus, con freddezza.
La Torre tremò. Il vento martellava le sue mura, i lampi trasformavano le luci morenti della notte del mondo in quelle sgargianti e accecanti del giorno. La piccola stanza spoglia della Torre in cui si trovavano fu scossa da tremiti e da sussulti. Malgrado fossero soli all’interno di essa, a Caramon parve di udire un pianto di molte voci, e a poco a poco si rese conto che si trattava delle pietre della Torre stessa. Si guardò intorno inquieto.
“Hai tempo,” disse Astinus. Tornò a sedersi sul suo sgabello e raccolse il libro. Ma non lo chiuse.
“Non molto, forse, ma hai ancora tempo. Dove hai fallito?”
Caramon emise un tremulo sospiro. Poi le sue sopracciglia s’intrecciarono. Corrugò la fronte per la collera, e il suo sguardo andò a Par-Salian. “Un trucco, non è vero, stregone? Un trucco per farmi fare quello che voi maghi non riuscivate a compiere: fermare Raistlin e la sua terribile ambizione. Ma hai fallito. Hai mandato Crysania a morire nel passato perché avevi paura di lui. Ma la volontà e l’amore di quella donna erano più forti di quanto supponevi. Lei è sopravvissuta e, accecata dal suo amore e dalla sua ambizione, ha seguito Raistlin nell’Abisso.” Caramon lo fissò furente. “Non capisco quale scopo avesse Paladine nell’esaudire le sue preghiere dando loro il potere di andare là...”
“Non è tua facoltà capire le strade degli dei, Caramon Majere,” lo interruppe Astinus con freddezza.
“Chi sei tu per giudicarli? Può darsi che anch’essi talvolta falliscano. O che scelgano di rischiare il meglio che possiedono con la speranza che possa diventare ancora migliore.”
“Sia quello che sia,” proseguì Caramon, il volto scuro e preoccupato, “i maghi hanno mandato indietro nel tempo Crysania dando così a mio fratello una delle chiavi di cui aveva bisogno per varcare il Portale. Hanno fallito. Gli dei hanno fallito. E io ho fallito.” Caramon si passò una mano tremante fra i capelli.
“Pensavo di poter riuscire a convincere Raistlin con parole che lo inducessero a tornare indietro dal sentiero fatale che aveva imboccato. Avrei dovuto sapere che non era possibile.” L’omone rise amaramente. “Quali, tra le mie povere parole, l’avevano mai influenzato? Quando si trovò davanti al Portale, preparandosi a entrare nell’Abisso, dicendomi quali erano le sue intenzioni, lo lasciai. Era tutto così facile. Mi sono limitato semplicemente a voltargli le spalle e ad andarmene.”
“Bah!” sbuffò Astinus. “Cosa avresti potuto fare? Allora era forte, più potente di quanto chiunque di noi può anche soltanto cominciare a immaginare. Teneva insieme il campo magico anche solo grazie alla sua potenza e alla sua forza di volontà. Non avresti potuto ucciderlo...”
“No,” annuì Caramon. Il suo sguardo si allontanò dai presenti nella stanza, appuntandosi all’esterno, sulla tempesta che infuriava più ferocemente che mai. “Ma avrei potuto seguirlo... seguirlo nella tenebra, anche se ciò avesse significato la mia morte. Per mostrargli che ero disposto a sacrificare per amore ciò che lui era disposto a sacrificare per la sua magia e la sua ambizione.”
Caramon riportò lo sguardo dentro la stanza. “Allora mi avrebbe rispettato,” dichiarò. “Forse, allora, mi avrebbe ascoltato. E perciò tornerò indietro. Entrerò nell’Abisso”. Ignorò il grido di orrore di Tasslehoff. “E là farò ciò che dev’essere fatto.”
“Ciò che dev’essere fatto,” ripetè Par-Salian con voce febbrile. “Non sai cosa significa! Dalamar...”
Una saetta accecante esplose all’interno della stanza, sbattendo contro le pareti coloro che si trovavano al suo interno. Nessuno potè vedere o sentire più nulla, mentre il tuono scrosciava intorno a loro. Poi, al di sopra dello schianto, si levò un grido tormentato.
Scosso da quell’urlo strangolato, stracolmo di dolore, Caramon riaprì gli occhi, per desiderare soltanto che si chiudessero per sempre, per non vedere più uno spettacolo così macabro. Par-Salian si era trasformato da un pilastro di marmo a un pilastro di fiamma! Intrappolato nell’incantesimo di Raistlin, lo stregone era impotente. Non poteva far altro che urlare mentre le fiamme risalivano lungo il suo corpo immobilizzato, strisciando lente.
Spaventato, Tasslehoff si coprì il viso con le mani e si accucciò, gemendo, in un angolo. Astinus si rialzò dal pavimento, dov’era stato scagliato, portando subito le mani sul libro che ancora stringeva, e subito ricominciò a scrivere... ma la mano gli ricadde inerte, la penna gli scivolò fuori dalle dita.
Ancora una volta cominciò a chiudere la copertina...
“No!” urlò Caramon. Allungò il braccio e appoggiò la mano sulle pagine.
Astinus sollevò lo sguardo su di lui, e Caramon esitò, davanti a quegli occhi immortali. Le mani gli tremarono, ma rimasero saldamente schiacciate sulla eburnea pergamena del volume rilegato in cuoio. Lo stregone morente continuava a gemere in preda a una spaventosa agonia.
Astinus lasciò andare il libro aperto.
“Tienilo tu,” ordinò Caramon, chiudendo il prezioso volume e spingendolo fra le mani di Tasslehoff. Annuendo come istupidito, il kender avvolse le braccia intorno al libro, che era grande quasi quanto lui, e rimase rannicchiato nel suo angolo, guardandosi intorno con orrore, mentre Caramon attraversava la stanza barcollando in direzione dello stregone morente.
“No!” urlò Par-Salian con voce stridula. “Non avvicinarti a me!” I suoi bianchi capelli ondulati e la lunga barba crepitavano, la sua pelle gorgogliava e sfrigolava, il terribile puzzo della carne bruciata si mescolava all’odore dello zolfo.
“Dimmi!” gridò Caramon, alzando le braccia per proteggersi dal calore, avvicinandosi al mago quanto più poteva. “Dimmi, Par-Salian! Cosa devo fare? Come posso impedire tutto questo?”
Gli occhi dello stregone si stavano liquefacendo. La sua bocca-era un buco spalancato nella massa nera e informe che era il suo volto. Ma le sue parole morenti colpirono Caramon come un’altra saetta, rimanendo impresse a fuoco nella sua mente per sempre.
“A Raistlin non dev’essere permesso di lasciare l’Abisso!”.
Libro Secondo.
Il Cavaliere della Rosa Nera.
Lord Soth sedeva sul trono sbriciolato e annerito dal fuoco tra le rovine desolate di Dargaard Keep.
I suoi occhi fiammeggiavano nelle loro orbite invisibili, l’unico segno palese della vita maledetta che ardeva dentro l’armatura carbonizzata di un Cavaliere di Solamnia.
Soth sedeva solo.
Il Cavaliere della Morte aveva congedato i suoi assistenti, ex cavalieri come lui, che gli erano rimasti fedeli in vita, per cui erano stati maledetti e costretti a restargli fedeli anche nella morte.
Aveva mandato via anche le banshee, le donne elfe che avevano avuto un molo nella sua caduta e che adesso erano condannate a servirlo in eterno. Per centinaia d’anni, sin dalla terribile notte della sua morte, Lord Soth aveva ordinato a quelle sfortunate donne di rivivere insieme a lui la sua condanna. Ogni notte, mentre sedeva sul suo trono in rovina, le costringeva a esibirsi, intonando una canzone che raccontava la storia della sua disgrazia e della loro.
Quella canzone causava a Lord Soth un amaro dolore, ma lui benediceva quel dolore. Era dieci volte meglio del nulla che pervadeva il suo empio sopravvivere alla morte in tutti gli altri momenti.
Ma questa notte non aveva ascoltato la canzone. Ascoltava invece la sua storia come gli veniva bisbigliata dall’amaro vento della notte che s’insinuava attraverso i grondoni della rocca in rovina.
«Una volta, molto tempo fa, ero un Lord Cavaliere di Solamnia. Allora ero tutto: aitante, affascinante, coraggioso, sposato a una donna che possedeva una grande fortuna, anche se non la bellezza. I miei cavalieri mi erano devoti. Sì, gli uomini mi invidiavano: ero Lord Soth di Dargaard Keep.
La primavera che precedette il Cataclisma, lasciai Dargaard Keep e cavalcai con il mio seguito fino a Palanthas. C’era un Consiglio dei Cavalieri e la mia presenza era stata richiesta. M’importava poco di quell’incontro del Consiglio, che si sarebbe dilungato con interminabili discussioni relative a regole insignificanti. Ma ci sarebbe stato da bere, una buona compagnia, storie di battaglie e di avventure. Era per quello che ci andavo.
Cavalcavamo lentamente, prendendocela con comodo, le nostre giornate erano piene di canti e di lazzi. Durante la notte alloggiavamo nelle locande quando potevamo, e dormivamo sotto le stelle quando non potevamo. Il tempo era bello, era una primavera mite. Il sole era caldo, le brezze della sera ci rinfrescavano. Avevo trentadue anni, quella primavera. Nella mia vita ogni cosa andava per il meglio. Non ricordo di essere mai stato più felice.
E poi, una notte, maledetta la luna d’argento che l’illuminava, eravamo accampati nella selva. Un grido nel buio ci destò dai nostri sonni. Era il grido di una donna, poi sentimmo le grida di molte donne mescolate alle urla aspre degli orchi.
Ghermendo le nostre armi ci precipitammo nella pugna. Fu una facile vittoria: era soltanto una banda errabonda di ladroni. Per la maggior parte fuggirono al nostro avvicinarsi, ma il capo, o più coraggioso o più ubriaco degli altri, si rifiutava di essere privato della sua preda. Personalmente non lo potevo biasimare. Aveva catturato una giovane e adorabile fanciulla elfa. Alla luce della luna la sua bellezza era radiosa, la sua paura dava un risalto ancora maggiore alla sua fragile avvenenza. Da solo lo sfidai. Combattemmo ed io fui il vincitore. E fu la mia ricompensa, ah, quale dolceamara ricompensa, trasportare fra le mie braccia la fanciulla elfa svenuta là dove si trovavano i miei compagni.
Posso ancora vedere i suoi bellissimi capelli dorati risplendere alla luce delle lune. Posso ancora vedere i suoi occhi, quando si ridestò, fissarsi sui miei, e posso vedere perfino adesso, come lo vidi allora, nascervi l’amore per me. E lei vide, nei miei occhi, l’ammirazione che non potevo nascondere. I pensieri di mia moglie, del mio onore, del mio castello, ogni cosa fuggì via mentre fissavo quel bellissimo volto.
Mi ringraziò, e con quanta timidezza mi parlò! La riconsegnai alle donne elfe, erano un gruppo di chierici in viaggio per Palanthas, e da lì fino a Istar in pellegrinaggio. Lei era soltanto una novizia.
E durante quel viaggio sarebbe stata fatta Reverenda Figlia di Paladine. Lasciai lei e le donne e tornai con i miei uomini all’accampamento. Cercai di dormire, ma sentivo ancora quel corpo snello e giovane fra le mie braccia. Mai prima di allora avevo bruciato a tal punto di passione per una donna.
Quando mi addormentai, i miei sogni furono una dolce tortura. Quando mi svegliai, il pensiero che avremmo dovuto separarci fu come una coltellata nel mio cuore. Mi alzai presto, e tornai al campo elfico. Inventandomi una storia di bande di goblin raminghi che si aggiravano fra quel luogo e Palanthas, non mi fu difficile convincere le donne elfe dell’indispensabilità della mia protezione. I miei uomini non erano contrari a una tale piacevole compagnia, e così viaggiammo con loro. Ma questo non servì ad alleviare la mia sofferenza. Al contrario, la intensificò. Giorno dopo giorno l’osservavo cavalcare accanto a me, ma non abbastanza accanto. Notte dopo notte dormivo solo, con i pensieri in subbuglio.
La volevo. La volevo più di quanto avessi mai voluto una qualunque cosa al mondo. Ma ero un Cavaliere impegnato dal più severo giuramento a rispettare il Codice e la Misura, impegnato dai sacri voti a rimanere fedele a mia moglie, impegnato dai giuramenti di comandante a guidare i miei uomini nel nome dell’onore. A lungo combattei con me stesso e, alla fine, credetti di esserne uscito vittorioso. Domani, dissi, partirò, e sentii la pace discendere su di me.
Intendevo davvero partire, e l’avrei fatto. Ma, maledetto destino, presi parte a una partita di caccia nel bosco e là, lontano dal campo, la incontrai. Era stata mandata a raccogliere erbe.
Lei era sola, io ero solo. I nostri compagni erano lontani. L’amore che avevo visto nei suoi occhi vi risplendeva ancora. Lei aveva sciolto i capelli, che le ricadevano fino ai piedi in una nube dorata. Il mio onore, la mia ferma decisione si dissolsero in un istante, bruciati dalla fiamma del desiderio che mi aveva travolto. Fu facile sedurla, povera, piccola creatura. Un bacio, poi un altro. Poi, trascinandola giù nell’erba fresca, accarezzandola con le mani, facendo tacere le sue proteste con la mia bocca sulla sua, e... una volta che l’ebbi fatta mia... le asciugai le lacrime baciandogliele.
Quella notte venne di nuovo da me, nella mia tenda. Ero smarrito nella beatitudine. Le promisi che l’avrei sposata, naturalmente. Che altro potevo fare? Dapprima non parlavo sul serio. Come avrei potuto? Avevo una moglie, una moglie ricca. Avevo bisogno dei suoi soldi. Le mie spese erano alte.
Ma poi una notte, mentre stringevo la fanciulla elfa tra le mie braccia, seppi che non avrei mai potuto rinunciare a lei. E sistemai le cose in modo che mia moglie venisse rimossa in maniera permanente...
Continuammo il nostro viaggio. Ormai le donne elfe avevano cominciato a sospettare. E come non avrebbero potuto? Era difficile per noi nascondere i nostri segreti sorrisi durante il giorno, difficile evitare ogni occasione per rimanere insieme.
Venimmo, di necessità, separati quando raggiungemmo Palanthas. Le donne elfe andarono ad alloggiare in una delle più belle case usate dal Gran Sacerdote quando veniva a visitare la città.
Insieme ai miei uomini, io raggiunsi i nostri acquartieramenti. Ma ero fiducioso che lei avrebbe trovato il modo di venire da me, dal momento che io non potevo andare da lei. Passata la prima notte, non mi preoccupai troppo. Ma poi passò la seconda, e la terza, e ancora nessuna notizia.
Alla fine, udii bussare alla mia porta. Ma non era lei. Era il capo dei Cavalieri di Solamnia, accompagnato dal capo di ciascuno dei tre Ordini dei Cavalieri. Capii, quando li vidi, quello che doveva essere accaduto. Lei aveva scoperto la verità, e mi aveva tradito.
Invece, non era stata lei a tradirmi, bensì le donne elfe. La mia amante si era ammalata, e quando erano venute a curarla, avevano scoperto che aveva in grembo il mio bambino. Non l’aveva detto a nessuno, neppure a me. Le dissero che ero sposato e, cosa ancora peggiore, nello stesso momento arrivò a Palanthas la notizia che mia moglie era “misteriosamente” scomparsa.
Fui arrestato. Trascinato attraverso le strade di Palanthas, pubblicamente umiliato, fui bersaglio delle rozze battute e dei più ignobili nomignoli della plebaglia. Non c’era niente che alla feccia piacesse di più che vedere un Cavaliere ridotto al loro livello. Giurai che un giorno mi sarei vendicato di tutti loro e della loro bella città. Ma questo pareva senza speranza. Il mio processo fu rapido. Venni condannato a morte, come traditore della cavalleria. Spogliato delle mie terre e del mio titolo, sarei stato giustiziato, la gola mi sarebbe stata tagliata con la mia stessa spada. Accettai la mia morte. Giunsi ad aspettarla con impazienza, convinto ancora che fosse stata lei a respingermi.
Ma la notte prima della mia esecuzione, i miei uomini, che mi erano rimasti fedeli, mi liberarono dalla prigione. Lei si trovava con loro. Mi raccontò tutto, mi disse che portava in grembo il mio bambino.
Le donne elfe l’avevano perdonata, disse, e, anche se adesso non avrebbe potuto mai più diventare una Reverenda Figlia di Paladine, avrebbe ancora potuto vivere fra la sua gente, anche se la sua disgrazia l’avrebbe seguita fino all’ultimo dei suoi giorni. Ma non aveva potuto sopportare il pensiero di andarsene via senza dirmi addio. Mi amava, questo era evidente. Ma capivo che le storie che aveva sentito raccontare su di me la tormentavano.
Inventai alcune bugie su mia moglie alle quali lei credette. Avrebbe creduto che il buio era luce, se gliel’avessi detto. Con l’animo in pace, acconsentì a fuggire con me. Adesso sapevo che era soprattutto per questo che era venuta lì da me. Accompagnato dai miei uomini, fuggii fino a Dargaard Keep.
Avrei dovuto essere soddisfatto di me stesso, della mia vita, della mia nuova sposa... che presa in giro fu quella cerimonia di matrimonio! Ma ero tormentato dal senso di colpa e, cosa ancora peggiore, dalla perdita del mio onore. Mi resi conto di esser fuggito da una prigione soltanto per trovarmi rinchiuso in un’altra... un’altra di mia scelta. Ero sfuggito alla morte soltanto per vivere un’esistenza tenebrosa e sciagurata. Divenni imbronciato, scontroso. Ero sempre pronto agli scatti di collera, pronto a colpire, e adesso le cose andavano peggio. I servitori fuggirono, dopo che ne ebbi colpiti molti. I miei uomini cominciavano a evitarmi. E poi, una notte, picchiai anche lei, lei, l’unica persona a questo mondo che potesse darmi anche soltanto un brandello di conforto.
Guardando nei suoi occhi pieni di lacrime, vidi il mostro che ero diventato. La presi tra le braccia e invocai il suo perdono. I suoi adorabili capelli mi ricaddero intorno. Potei sentire il mio bambino che scalciava nel suo ventre. Inginocchiati là, insieme, pregammo Paladine. Avrei fatto qualsiasi cosa, dissi al dio, per ripristinare il mio onore. Chiesi soltanto che mio figlio, o mia figlia, non crescesse conoscendo la mia vergogna.
E Paladine rispose. Mi parlò del Gran Sacerdote, e di quali arroganti pretese quell’uomo sciocco accampasse nei confronti degli dei. Mi disse che il mondo avrebbe sentito la collera degli dei a meno che, come Huma aveva fatto prima di me, un uomo non fosse stato disposto a sacrificarsi per salvare gli innocenti.
La luce di Paladine sfavillò intorno a me. La mia anima tormentata era colma di pace. Come mi pareva piccolo quel sacrificio di offrire la mia vita, in modo che il mio bambino venisse cresciuto nell’onore e il mondo potesse venire salvato. Cavalcai fino a Istar del tutto intenzionato a fermare il Gran Sacerdote, sapendo che Paladine era con me.
Ma anche un altro cavalcava al mio fianco durante quel viaggio: la Regina delle Tenebre. Così, ella conduce una continua guerra per conquistare le anime che si diletta ad ammaliare. Che cosa usò per sconfiggermi?
Quelle stesse donne elfe, chierici del dio per il quale avevo intrapreso la mia missione.
Quelle donne avevano da tempo dimenticato il nome di Paladine. Come il Gran Sacerdote, esse si trovavano intrappolate nella loro rettitudine e non potevano vedere niente attraverso i veli della loro benignità. Colmato dalla mia ipocrisia, feci saper loro ciò che intendevo compiere. La loro paura fu grande. Non credettero che gli dei avrebbero punito il mondo. Anzi, la loro più grande e convinta aspettativa era il giorno in cui soltanto il bene (intendendo gli elfi) sarebbe esistito su Krynn.
Dovevano fermarmi. Ed ebbero successo.
La Regina è saggia. Conosce le tenebrose regioni del cuore di un uomo. Avrei travolto un esercito, se mi avesse intralciato il cammino. Ma le sommesse parole di quelle donne elfe s’insinuarono nel mio sangue come il veleno. Com’era stato facile per la fanciulla elfa sbarazzarsi di me, dissero.
Adesso aveva il mio castello, la mia ricchezza, tutto per sé, senza l’inconveniente d’un marito umano. Ero certo che quel bambino fosse mio? Era stata vista in compagnia di uno dei giovani del mio seguito. Dov’era andata, dopo aver lasciato la mia tenda durante la notte?
Non mentirono mai una sola volta. Mai una sola volta dissero qualcosa contro di lei. Ma le loro domande divoravano la mia anima, la corrodevano. Ricordai parole, episodi, espressioni. Fui certo di essere stato tradito. Li avrei sorpresi insieme! Avrei ucciso lui! Avrei fatto soffrire lei!
Voltai le spalle a Istar.
Arrivato a casa, abbattei le porte del mio castello. Mia moglie, allarmata, mi venne incontro, stringendo tra le braccia il suo bambino. E c’era un’espressione disperata sul suo volto: la presi per un’ammissione di colpevolezza. La maledissi, maledissi il bambino. E in quel medesimo istante la montagna fiammeggiante colpì Ansalon.
Le stelle caddero dal cielo. Il suolo tremò e si spaccò. Un lampadario illuminato da cento candele venne giù dal soffitto. In un istante, mia moglie fu avvolta dalle fiamme. Sapeva che stava morendo, ma mi porse il bambino perché lo salvassi dal fuoco che la stava divorando. Esitai, poi, con la collera gelosa che ancora mi riempiva il cuore, mi allontanai.
Con il suo ultimo, morente respiro invocò su di me la collera degli dei. “Morirai questa notte tra le fiamme!” gridò. “Proprio come moriamo tuo figlio ed io. Ma vivrai per sempre nella tenebra. Vivrai una vita per ogni altra vita che la tua follia ha condotto alla fine stanotte.” E, con queste parole, morì.
Le fiamme si propagarono. Il mio castello fu ben presto un unico, immenso rogo. Tentammo, ma niente potè spegnere quell’arcano fuoco. Bruciava perfino la roccia. I miei uomini cercarono di fuggire. Ma, mentre guardavo, anch’essi esplosero in fiamme. Non era rimasto in vita nessuno, su quella montagna, nessuno, salvo io. Mi trovavo nella grande sala, solo, circondato da ogni lato dal fuoco che ancora non mi toccava. Ma, mentre mi trovavo là, lo vidi chiudersi su di me, avvicinarsi sempre di più... di più...
Morii lentamente, in una insopportabile agonia. Quando finalmente giunse la morte, non mi portò nessun sollievo, poiché chiusi i miei occhi soltanto per riaprirli di nuovo, contemplando intorno a me un mondo di vuota, desolante disperazione e di eterno tormento. Notte dopo notte, per interminabili anni, sono rimasto seduto su questo trono e ho ascoltato quelle donne elfe che cantavano la mia storia.
Ma questo è finito. È finito con te, Kitiara...
Quando la Regina delle Tenebre mi convocò perché l’aiutassi nella guerra, le dissi che avrei servito il primo Signore dei Draghi che avesse avuto abbastanza coraggio da passare la notte in Dargaard Keep. Ve ne fu uno soltanto, tu, mia bellezza. Tu, Kitiara. Per questo ti ammirai. Ti ammirai per il tuo coraggio, per la tua abilità, per la tua spietata determinazione. In te vedo me stesso. Vedo quello che avrei potuto diventare.
Ti ho aiutato ad assassinare gli altri Signori dei Draghi quando siamo fuggiti da Neraka in subbuglio in seguito alla sconfitta della Regina, ti ho aiutata a raggiungere Sanction, e là ti ho aiutata a consolidare ancora una volta il tuo potere su questo continente. Ti ho aiutato quando hai cercato di ostacolare i piani di tuo fratello, Raistlin, per sfidare la Regina delle Tenebre. No, non mi ha sorpreso il fatto che ti abbia battuto in astuzia. Fra tutti i viventi che ho incontrato, lui è il solo che temo.
Le tue vicende amorose mi hanno perfino divertito, mia Kitiara. Noi morti non possiamo provare istinti erotici. Quella è una passione del sangue, e nessun sangue scorre in queste braccia e in queste gambe di ghiaccio. Ti ho osservato mentre rovesciavi come un guanto quell’imbelle, Tanis mezzelfo, e mi sono goduto ogni istante, tanto quanto te.
Ma adesso, Kitiara, cosa sei diventata? La padrona è diventata la schiava. E per cosa? Per un elfo!
Oh, ho visto brillare i tuoi occhi quando pronunci il suo nome. Ho visto tremare le tue mani quando stringi le sue lettere. Pensi a lui, quando invece dovresti progettare la guerra. Perfino i tuoi generali non riescono più a richiamare la tua attenzione.
No, noi morti non possiamo provare impulsi sessuali. Ma possiamo provare odio, possiamo provare invidia. Possiamo provare gelosia e bramosia di possesso.
Potrei uccidere Dalamar. L’elfo scuro, l’apprendista, è bravo, ma non è in grado di tenermi testa. Il suo maestro? Raistlin? Ah, quella sarebbe una storia diversa.
Oh, mia Regina, nel tuo Abisso tenebroso, guardati da Raistlin! In lui stai per affrontare la tua sfida più grande, e devi, alla fine, affrontarla da sola. Non posso aiutarti su quel piano, Maestà Oscura, ma forse posso aiutarti su questo.
Sì, Dalamar, potrei ucciderti. Ma ho imparato cosa vuol dire morire, e la morte è una cosa scialba e meschina. Il suo dolore è agonia, ma ben presto finisce. Quale dolore assai maggiore è continuare a vivere, morti, nel mondo dei vivi, sentire l’odore del loro sangue caldo, vedere le loro carni morbide, e sapere che non potranno mai più essere tue... sì, mai più. Ma anche tu verrai a conoscere fin troppo bene tutto questo, elfo scuro...
In quanto a te, Kitiara, sappi questo: sopporterò questo dolore, vivrò un altro secolo di esistenza torturata piuttosto che vederti di nuovo fra le braccia di un uomo vivente!»
Il cavaliere morto rifletteva e complottava. La sua mente continuava a girare e a contorcersi come i rami spinosi delle rose nere che coprivano il suo castello. Gli scheletrici guerrieri andavano su e giù per i bastioni in rovina, ognuno librandosi vicino al luogo in cui aveva incontrato la propria morte.
Le donne elfe si torcevano le mani scarnificate gemendo per il loro destino, in preda alla più amara sofferenza.
Soth non sentiva nulla, non era consapevole di nulla. Se ne stava seduto sopra il suo trono annerito, fissando, senza vederla, la chiazza scura e carbonizzata sul pavimento di pietra: una chiazza che per anni aveva tentato di cancellare con tutta la potenza della sua magia, ma quella chiazza rimaneva ancora là, una chiazza che disegnava i contorni di un corpo di donna...
E poi, alla fine, quelle labbra invisibili sorrisero, e la silenziosa vampa di quegli occhi arancione arse vivida nella notte interminabile.
«Tu, Kitiara, sarai mia per sempre...»
Capitolo primo.
La carrozza si arrestò sferragliando. I cavalli sbuffarono, con energiche scrollate, facendo tintinnare le bardature, pestando gli zoccoli sulle lisce pietre del selciato come se avessero fretta di finire quel viaggio e di far ritorno alle loro comode stalle.
Una testa sporse dal finestrino della carrozza.
«Buon giorno, signore. Benvenuto a Palanthas. La prego di dichiarare il suo nome e il motivo della sua visita.» Ciò venne detto con voce squillante e in tono formale da un giovane ufficiale dall’aspetto smagliante, che doveva essere appena entrato in servizio. La guardia sbirciò dentro la carrozza e sbatté gli occhi, cercando di aggiustare lo sguardo per distinguere ciò che si trovava là dentro, nelle fresche ombre. Il tardo sole di primavera risplendeva luminoso quanto il volto del giovane, probabilmente perché anch’esso era entrato in servizio da poco.
«Mi chiamo Tanis Mezzelfo,» dichiarò l’occupante della carrozza, «e sono stato invitato dal Reverendo Figlio Elistan. Ho qui una lettera. Se vuole aspettare un istante, io...»
«Lord Tanis!» Il volto dell’ufficiale che si profilava nel finestrino della carrozza divenne scarlatto come l’uniforme adorna di alamari e di spalline da lui indossata. «Mi scusi, signore, io... io non l’avevo riconosciuta, non potevo veder bene, altrimenti sono sicuro che avrei riconosciuto...»
«Maledizione, uomo,» l’interruppe Tanis, irritato, «non stia a scusarsi per aver fatto il suo dovere.
Ecco qui la lettera...»
«Non lo farò, signore. Vale a dire, lo farò, signore. Vale a dire che sì, mi scuso, signore.
Terribilmente dispiaciuto, signore. La lettera? No, non è proprio necessaria, signore.»
Balbettando, l’ufficiale di guardia lo salutò, scattando sull’attenti, batté la testa contro il piccolo parasole del finestrino della carrozza, facendosi male, s’impigliò nella portiera con il polsino merlettato della manica, scattò di nuovo sull’attenti e alla fine fece ritorno barcollando al suo posto, dando l’impressione di essere appena uscito da un combattimento contro una banda di hobgoblin.
Sogghignando fra sé, ma di un cupo sogghigno, Tanis si lasciò andare contro lo schienale mentre la carrozza proseguiva lungo la sua strada, varcando le porte delle Mura della Città Vecchia. Le sentinelle erano state un’idea sua. C’erano volute moltissime discussioni e una grande dose di persuasione da parte di Tanis per convincere Lord Amothus di Palanthas che le porte della città non soltanto dovevano essere sbarrate, ma anche attentamente sorvegliate.
«Ma la gente potrebbe non sentirsi benvenuta. Potrebbe offendersi,» aveva protestato Amothus, debolmente. «E, dopotutto, la guerra è finita.»
Tanis sospirò di nuovo. Quando avrebbero imparato? Mai, suppose, cupo, contemplando fuori del finestrino la città che, più di ogni altra nel continente di Ansalon, incarnava la compiacenza nella quale il mondo era caduto dalla fine della Guerra delle Lance, due anni prima. Due anni prima a primavera, a esser più precisi.
Ciò strappò a Tanis un altro sospiro. Maledizione! Se n’era dimenticato! Il Giorno della Fine della Guerra! Quand’era? Tra due settimane? Tre? Avrebbe dovuto infilarsi quello stupido costume: l’armatura da cerimonia di un Cavaliere di Solamnia, le insegne elfiche, le bardature nanesche. Ci sarebbero state cene con cibi troppo ricchi che l’avrebbero tenuto sveglio metà della notte, discorsi che l’avrebbero fatto dormire dopo cena, e Laurana...
Tanis gemette. Laurana! Lei se ne sarebbe ricordata! Naturalmente! Come poteva essere stato così stupido? Erano rientrati a casa a Solanthas soltanto poche settimane prima, dopo aver partecipato ai funerali di Solostaran a Qualinesti, e quando lui era tornato a Solace per cercare Dama Crysania, ma senza successo, era arrivato un messaggio a Laurana redatto nella scorrevole scrittura elfica:
Tua presenza richiesta urgentemente a Silvanesti!
«Sarò di ritorno fra quattro settimane, mio caro,» lei gli aveva detto, baciandolo teneramente. Ma c’era stata una risata in quegli occhi... quegli occhi adorabili!
Lei lo aveva lasciato! Lo aveva lasciato perché partecipasse a quella dannata cerimonia! E lei sarebbe tornata nelle terre natie degli elfi che, pur lottando ancora per sfuggire agli orrori a essi inflitti dall’incubo di Lorac, erano infinitamente preferibili a una serata insieme a Lord Amothus...
D’un tratto Tanis si rese conto di ciò che aveva pensato. Un ricordo mentale di Silvanesti riaffiorò in lui, con i suoi alberi orrendamente torturati che piangevano sangue, i volti tormentati e contorti dei guerrieri elfi che guardavano fuori dalle ombre. Un’immagine sorse nella sua mente, di una delle cene di Lord Amothus, a mo’ di paragone...
Tanis cominciò a ridere. Sarebbe stato pronto ad affrontare in qualunque momento i guerrieri nonmorti !
In quanto a Laurana, be’, non poteva biasimarla. Queste cerimonie erano abbastanza ardue per lui, ma Laurana era la prediletta di Palanthas, il loro Generale Dorato, colei che aveva salvato la loro bella città dalle devastazioni della guerra. Non c’era niente che non avrebbero fatto per lei, salvo lasciarle un po’ di tempo per se stessa. Durante l’ultima celebrazione del Giorno della Fine della Guerra, Tanis aveva portato a casa sua moglie tenendola fra le braccia, più esausto di quanto lo sarebbe stata lei dopo tre giorni ininterrotti di battaglia.
La immaginò a Silvanesti, intenta a ripiantare i fiori, a lavorare per alleviare i sogni degli alberi torturati, riportandoli un po’ per volta alla vita, a far visita ad Alhana Starbreeze, adesso sua cognata, che doveva esser tornata anche lei a Silvanesti, ma senza il suo nuovo marito, Porthios.
Finora, il loro matrimonio era stato gelido e senza amore, e Tanis si chiese per un breve istante se Alhana non avesse cercato rifugio a Silvanesti proprio per questo motivo. Il Giorno della Fine della Guerra doveva essere arduo anche per Alhana. I suoi pensieri andarono a Sturm Brightblade, il cavaliere che Alhana aveva amato, il quale giaceva morto nella Torre del Grande Chierico e, di qui, i pensieri di Tanis vagarono su altri amici... e nemici.
Come se fosse stata evocata da quei ricordi, un’ombra scura si allungò sopra la carrozza. Tanis guardò fuori dal finestrino. In fondo a una strada lunga, vuota e deserta, intravide una chiazza di tenebra: il Bosco di Shoikan, la foresta guardiana della Torre della Grande Stregoneria di Raistlin.
Perfino da quella distanza, Tanis poteva percepire il gelo che fluiva da quegli alberi, un gelo che riempiva di freddo il cuore e l’anima. Il suo sguardo andò alla Torre che si levava al di sopra dei bellissimi edifici di Palanthas come una punta di lancia di ferro nero conficcata attraverso il bianco seno della città.
I suoi pensieri andarono alla lettera che l’aveva condotto lì a Palanthas. Abbassò lo sguardo su di essa e ne rilesse le parole: Tanis Mezz’elfo.
Dobbiamo incontrarti subito. Emergenza gravissima. Il Tempio di Paladine. Dopoveglia Nascente 12, Quartigiorno, anno 356.
E questo era tutto. Nessuna firma. Tanis sapeva soltanto che Quartigiorno era oggi e, avendo ricevuto la missiva soltanto due giorni prima, era stato costretto a viaggiare giorno e notte per raggiungere Palanthas in tempo. La lingua di quel breve messaggio era l’elfico, la calligrafia anch’essa elfica. Non era insolito. Elistan aveva molti chierici elfi... ma perché non l’aveva firmata?
Sempre che fosse stata compilata davvero da Elistan. Eppure, chi, altrimenti, avrebbe potuto mandare un tale invito a recarsi nel Tempio di Paladine?
Con una scrollata mentale di spalle, ricordando di essersi posto quelle stesse domande più di una volta senza mai arrivare a una conclusione soddisfacente, Tanis tornò a infilare la lettera nella borsa. Il suo sguardo andò, poco volentieri, alla Torre della Grande Stregoneria.
«Scommetto che ha qualcosa a che fare con te, vecchio amico,» mormorò fra sé, corrugando la fronte e pensando, ancora una volta, alla strana scomparsa di quel chierico, Dama Crysania.
La carrozza tornò a fermarsi, strappando un’altra volta Tanis dai suoi cupi pensieri. Guardò fuori dal finestrino, intravedendo il Tempio, ma si costrinse ad aspettare pazientemente sul suo sedile fino a quando il valletto non venne ad aprirgli la portiera. Sorrise fra sé. Poteva quasi vedere Laurana, seduta davanti a lui, che lo fissava furente, sfidandolo ad allungare la mano verso la maniglia della porta. Laurana aveva impiegato parecchi mesi per eliminare la vecchia, impetuosa abitudine di Tanis di precipitarsi a spalancare la portiera, mandando a ruzzolare per terra il valletto, di lato, proseguendo poi per la sua strada senza un solo pensiero per il conducente, la carrozza, i cavalli e qualunque altra cosa.
Adesso era diventata una battuta privata fra loro. A Tanis piaceva osservare gli occhi di Laurana che si socchiudevano in un finto allarme quando la sua mano si allungava provocante verso la maniglia della portiera. Ma questo non faceva altro che ricordargli quanto sentiva la sua assenza.
Comunque, dov’era finito quel dannato valletto? Per gli dei, lui era solo. Questa volta, tanto per cambiare, avrebbe fatto a modo suo...
La portiera si spalancò. Il valletto stava armeggiando col gradino pieghevole.
«Oh, dimenticatene,» sbottò Tanis, impaziente, balzando a terra. Ignorando la vaga espressione di sensibilità oltraggiata del valletto, Tanis tirò un profondo sospiro, lieto di essere finalmente sfuggito ai soffocanti confini della carrozza.
Si guardò intorno, lasciando che la meravigliosa sensazione di pace e di benessere che s’irradiava dal Tempio di Paladine filtrasse nella sua anima. Nessuna foresta proteggeva quel luogo sacro.
Vasti prati di morbida erba verde, lisci come il velluto, invitavano il viaggiatore a passeggiare, a sedersi e a riposare. Giardini pieni di fiori dai vivaci colori deliziavano l’occhio, con il loro profumo che riempiva l’aria di soavità. Qua e là, boschetti di alberi offrivano la loro ombra come rifugio dall’abbagliante luce del sole. Un’acqua fresca e pura sgorgava dalle fontane. Chierici vestiti di bianco passeggiavano nei giardini, a testa china, impegnati in solenni discussioni.
Levandosi dal sapiente disegno dei giardini e dei boschetti ombreggiati e dal tappeto d’erba, il Tempio di Paladine rifletteva un soffuso chiarore, alla luce del sole mattutino. Costruito con marmo bianco, era una struttura semplice e disadorna che arricchiva quell’impressione di pace e di tranquillità che prevaleva tutt’intorno a esso.
C’erano cancelli, ma non guardie. Tutti erano invitati a entrare, e molti, infatti, lo facevano. Quello era un rifugio per i sofferenti, per gli infelici, gli affaticati. Quando Tanis cominciò a farsi strada attraverso il prato ben tenuto, vide molte persone sedute o distese sull’erba, tutte con un’espressione rilassata sul volto dalla quale, a giudicare dai segni della stanchezza e degli affanni, non erano stati molto spesso confortati.
Tanis aveva fatto soltanto pochi passi quando si ricordò, con un nuovo sospiro, della carrozza. Si fermò e si girò. «Aspettami,» stava per dire, quando una figura emerse dalle ombre di un boschetto di pioppi tremoli che si ergeva proprio sul confine del terreno del Tempio. «Tanis Mezzelfo?» chiese la figura.
Quando la figura uscì in piena luce, Tanis ebbe un sussulto. Era vestita di nero. Numerose borse e altri congegni per lanciare incantesimi erano appesi alla sua cintura, rune d’argento erano abbondantemente ricamate sulle sue maniche e sul cappuccio del suo mantello nero. Raistlin! pensò Tanis all’istante, poiché aveva avuto in mente l’arcimago solo pochi istanti prima.
Ma no, non era lui. Il respiro di Tanis si fece più tranquillo. Quell’usufruitore di magia era più alto di Raistlin, almeno di una testa e delle spalle. Il suo corpo era dritto e ben formato, perfino muscoloso, il suo passo era giovanile e vigoroso. Inoltre, adesso che Tanis lo fissava con maggiore attenzione, si rese conto che la sua voce era ferma e profonda, del tutto diversa dal sussurro malefico e inquietante di Raistlin.
E, se la cosa non fosse stata troppo strana, Tanis avrebbe anche giurato di aver sentito quell’uomo parlare con accento elfico. «Sono Tanis Mezzelfo,» rispose, un po’ in ritardo. Malgrado non potesse vedere il volto della figura, nascosto com’era profondamente nelle ombre del suo cappuccio nero, ebbe l’impressione che l’uomo avesse sorriso.
«Sì, mi era parso di averla riconosciuta. Mi è stato descritto molto spesso. Ora può congedare la sua carrozza. Non ce ne sarà bisogno. Lei passerà molti giorni, perfino settimane, qui a Palanthas.»
Quell’uomo parlava elfico! Elfico di Silvanesti! Per qualche istante Tanis rimase così sorpreso da riuscire soltanto a fissarlo. Il conducente della carrozza scelse quel momento per schiarirsi la gola.
Era stato un viaggio lungo e arduo, e c’erano ottime locande a Palanthas, con della birra che era leggendaria dovunque, su Ansalon...
Ma Tanis non aveva alcuna intenzione di congedare la carrozza basandosi unicamente sulla parola di un mago vestito di nero. Aprì la bocca per fargli altre domande, quando l’usufruitore di magia tirò fuori le mani dalle maniche della sua veste, dove finora le aveva tenute piegate, e fece un rapido cenno di diniego con una, mentre eseguiva un cenno d’invito con l’altra.
«Per favore,» interloquì di nuovo in elfico. «Le spiace camminare con me? Poiché sono diretto anch’io nello stesso luogo. Elistan ci attende.»
Ci attende! Confuso, Tanis si arrovellò il cervello. Da quando in qua Elistan invitava gli usufruitori di magia vestiti di nero nel Tempio di Paladine? E da quando in qua gli usufruitori di magia vestiti di nero mettevano volontariamente il piede su quei terreni sacri?
Be’, era ovvio che l’unico modo di scoprirlo era accompagnare quella strana persona e risparmiarsi le domande fino a quando non fossero rimasti soli. Perciò, un po’ confusamente, Tanis impartì le sue istruzioni al cocchiere. La figura vestita di nero rimase in silenzio accanto a lui, osservando la carrozza che si allontanava. Poi Tanis si rivolse alla Veste Nera.
«Lei è in vantaggio su di me, signore,» disse il mezzelfo in un silvanesti esitante, una lingua che era un elfico più puro del qualinesti che Tanis aveva imparato a parlare fin dalla nascita.
La figura s’inchinò, poi buttò indietro il cappuccio in modo che la luce del mattino cadesse sulla sua faccia, illuminandogliela. «Io sono Dalamar,» dichiarò, tornando a infilare le mani nelle maniche della veste. Su Krynn erano pochi che avrebbero stretto le mani a un mago dalle Vesti Nere.
«Un elfo scuro,» disse Tanis, stupefatto, parlando prima di pensare. Arrossì. «Mi spiace,» aggiunse poi, impacciato. «È soltanto che non ho mai incontrato...»
«Uno della mia razza?» terminò Dalamar con disinvoltura. Un sorriso appena accennato gì’increspò i lineamenti elfici, freddi, ben strutturati e senza espressione. «No, suppongo di no. Noi che siamo stati “cacciati dalla luce”, come dicono, non ci avventuriamo spesso sui piani dell’esistenza illuminati dal sole.» D’un tratto il suo sorriso divenne più caldo, e Tanis vide un’espressione malinconica negli occhi dell’elfo scuro, mentre il suo sguardo si posava sul boschetto di pioppi tremoli dov’era rimasto celato, fino a poco prima, nell’ombra. «Talvolta, però, anche noi proviamo nostalgia di casa.»
Anche Tanis rivolse lo sguardo verso i pioppi, i più amati dagli elfi fra tutti gli alberi. Anche lui sorrise, sentendosi molto più a proprio agio. Tanis... aveva percorso anche lui i propri sentieri tenebrosi, ed era stato molto vicino a cadere in parecchi precipizi che gli si erano spalancati sotto i piedi. Poteva capire.
«L’ora del mio appuntamento si avvicina,» disse. «E, da quello che hai detto, suppongo che tu sia in qualche modo coinvolto in questa faccenda. Forse dovremmo proseguire...»
«Certo.» Dalamar parve riprendersi. Seguì Tanis sul prato verde senza nessuna esitazione. Tanis, nel voltarsi, rimase considerevolmente colpito nel vedere un fugace spasimo di dolore contorcere i delicati lineamenti dell’elfo, insieme a un visibile sussulto.
«Cosa c’è?» Tanis si fermò. «Non ti senti bene? Posso aiutarti...»
Dalamar costrinse i propri lineamenti sprizzanti dolore a trasformarsi in un sorriso contorto. «No, Mezzelfo,» disse. «Non c’è niente che tu possa fare per aiutarmi. Né in realtà io mi sento male.
Assai peggiore sarebbe il tuo aspetto se entrassi nel Bosco di Shoikan che protegge la mia dimora.»
Tanis annuì, mostrando di comprendere. Poi, quasi di malavoglia, lanciò un’occhiata in distanza verso la Torre scura e tetra che si stagliava sopra Palanthas. Mentre la guardava, fu afferrato da una strana impressione. Guardò il Tempio, bianco nella sua semplicità, alle proprie spalle, poi di nuovo la Torre. Vedendoli insieme, fu come se vedesse ognuno di essi per la prima volta. Entrambi avevano un aspetto più completo, finito, intero, di quanto l’avessero quando venivano visti separatamente, staccati l’uno dall’altro. Quella era soltanto un’impressione fugace alla quale non ripensò fino a qualche tempo dopo. Adesso poteva pensare a una cosa soltanto...
«Allora, vive là? Con Rai... Con lui?». Per quanto ci provasse, Tanis sapeva di non poter pronunciare il nome dell’arcimago senza provare una rabbia amara, e così evitava del tutto di farlo.
«È il mio Shalafi, » rispose Dalamar, con la voce tesa per il dolore.
«Così, lei è il suo apprendista,» replicò Tanis, avendo riconosciuto la parola elfica per Maestro.
Inarcò le sopracciglia. «Ma allora, cosa mai fa qui? È lui che l’ha mandata?». Se fosse così, pensò il mezzelfo, lascerò subito questo posto, anche se dovessi tornare a piedi fino a Palanthas.
«No,» rispose Dalamar. Il suo volto si svuotò d’ogni colore. «Ma è di lui che parleremo.» L’elfo scuro si buttò il cappuccio sopra la testa. Quando riprese a parlare, fu ovvio che questo gli costava uno sforzo notevole. «E adesso devo pregarla di affrettarsi a proseguire. Ho un amuleto, datomi da Elistan, che mi aiuterà ad affrontare questa prova. Ma prolungarla non mi fa affatto piacere.»
Elistan che dava amuleti a un usufruitore di magia dalle Vesti Nere? All’apprendista di Raistlin?
Pieno di perplessità, Tanis acconsentì di accelerare il proprio passo.
«Tanis, amico mio!»
Elistan, chierico di Paladine e capo della chiesa del continente di Ansalon, porse la mano al mezzelfo. Tanis la strinse con calore, cercando di non far caso a quanto ora fosse debole, spenta, la stretta un tempo salda e robusta del chierico. Tanis lottò anche per controllare la propria faccia, sforzandosi d’impedire che i sentimenti di sbigottimento e di pietà affiorassero nei suoi lineamenti mentre fissava la figura fragile, quasi scheletrica, adagiata su un letto e sostenuta dai cuscini.
«Elistan...» cominciò a dire Tanis con calore.
Uno dei chierici vestiti di bianco che gravitava vicino al suo capo sollevò lo sguardo sul mezzelfo e corrugò la fronte.
«Intendevo dire, Re... Reverendo Figlio.» Tanis prese a balbettare, su quel titolo ufficiale. «Hai un bell’aspetto.»
«E tu, Tanis Mezzelfo, hai preso l’abitudine di mentire,» osservò Elistan, sorridendo nel vedere l’espressione addolorata che Tanis cercava disperatamente di non far trasparire dalla sua faccia.
Elistan batté sulla mano abbronzata dal sole di Tanis le sue dita bianche e sottili. «E non fare il buffone con quella sciocchezza del “Reverendo Figlio”. Sì, so che è corretto e appropriato, Garad, ma quest’uomo mi conosceva quand’ero uno schiavo nelle miniere di Pax Tharkas. Adesso, andate pure, voi tutti,» disse ai chierici che gli orbitavano intorno. «Portate quello che abbiamo per mettere comodi i nostri ospiti.»
Il suo sguardo andò all’elfo scuro che era crollato su una poltrona accanto al fuoco che ardeva nelle sue stanze private. «Dalamar,» disse Elistan, in tono gentile, «questo viaggio non può essere stato facile per te. Sono in debito nei tuoi confronti per averlo intrapreso. Ma qui, nei miei alloggi, puoi trovare la quiete. Cosa gradisci?»
«Del vino,» riuscì a rispondere l’elfo scuro, attraverso le labbra rigide e cineree. Tanis colse il tremito delle mani dell’elfo sui braccioli della poltrona.
«Portate del vino e del cibo per i nostri ospiti,» disse Elistan ai chierici che stavano uscendo in fila dalla stanza, molti di loro lanciando sguardi di disapprovazione al mago in veste nera.
«Accompagnate subito Astinus qui da me, non appena arriverà, poi fate in modo che nessuno ci disturbi.»
«Astinus?» domandò Tanis, a bocca aperta. «Astinus, il Cronista?».
«Sì, mezzelfo.» Elistan sorrise di nuovo. «La morte ci impartisce un significato tutto speciale.
“Fanno la fila per vedermi, coloro che un tempo non avrebbero neppure girato lo sguardo dalla mia parte.” Non è così che dice la poesia del vecchio? Ecco, Mezzelfo, adesso l’aria è sgombra. Sì, lo so che sto morendo. Lo so da molto tempo. I miei mesi sono ridotti a settimane. Suvvia, Tanis, non è la prima volta che vedi morire degli uomini. Cos’è che mi dicesti, che il Maestro della Foresta ti aveva detto nel Bosco Scuro: “Non piangiamo la perdita di coloro che muoiono realizzando il loro destino.” La mia vita è stata realizzata, Tanis, più di quanto avrei mai potuto immaginare.» Elistan lanciò un’occhiata fuori della finestra, sui prati spaziosi, sui giardini spaziosi e, più lontana, sulla Torre Scura della Grande Stregoneria.
«È stato affidato a me il compito di ridare la speranza al mondo, Mezzelfo,» disse Elistan con voce sommessa. «Speranza e guarigione. Quale uomo può dire di più? Me ne vado sapendo che la chiesa è stata di nuovo saldamente ristabilita. Adesso ci sono chierici di ogni razza. Sì, perfino kender.»
Sorridendo, Elistan si passò una mano tra i bianchi capelli. «Ah,» sospirò, «che momento difficile è stato quello per la nostra fede, Tanis! Ancora oggi siamo incapaci di stabilire con precisione tutto quello che manca. Ma c’è gente dal cuore d’oro, di animo buono. Tutte le volte che sentivo di esser sul punto di perdere la pazienza, pensavo a Fizban, Paladine, come poi si è rivelato a noi, e a tutto l’affetto che manifestava per il tuo piccolo amico, Tasslehoff.»
Il volto di Tanis si oscurò nell’udire il nome del kender, e gli parve che Dalamar distogliesse lo sguardo per un istante dalle fiamme danzanti, dove lo teneva fisso. Ma Elistan non se ne accorse.
«Il mio unico rincrescimento è che non lascio nessuno realmente capace di prendere il mio posto dopo di me.» Elistan scosse la testa. «Garad è un brav’uomo. Troppo bravo. Vedo in lui prendere forma un altro Gran Sacerdote. Ma non capisce ancora che l’equilibrio va mantenuto, che siamo tutti necessari per formare questo mondo. Non è così, Dalamar?»
Con grande sorpresa di Tanis, l’elfo scuro annuì. Aveva buttato all’indietro il suo cappuccio ed era riuscito a bere un po’ del vino rosso che i chierici gli avevano portato. Il colorito era ritornato sul suo volto, e le mani non gli tremavano più. «Sei saggio, Elistan,» gli disse con voce sommessa.
«Vorrei che gli altri fossero altrettanto illuminati.»
«Forse non si tratta di saggezza, quanto della capacità di vedere le cose da ogni lato, e non da uno soltanto.» Elistan tornò a rivolgersi a Tanis. «Tu, Tanis, amico mio, non hai notato e apprezzato il panorama quando sei arrivato?». Indicò con un debole gesto la finestra, attraverso la quale la Torre della Grande Stregoneria era chiaramente visibile.
«Non sono certo di capire quello che vuoi dire,» fu l’evasiva risposta di Tanis, a disagio come sempre quando si trattava di condividere i suoi sentimenti.
«Sì, tu lo capisci, Mezzelfo,» replicò Elistan, tornando alla sua antica vivacità. «Hai guardato la Torre e hai guardato il Tempio e hai pensato quant’era giusto che fossero così vicini. Oh, ci sono molti che hanno dissertato a lungo contro la scelta di questo sito per il tempio. Garad e, naturalmente, Dama Crysania...»
Nel sentire quel nome, Dalamar parve soffocare, tossì, e si affrettò a mettere giù il bicchiere di vino.
Tanis si alzò in piedi, cominciando senz’accorgersene a camminare avanti e indietro per la stanza, com’era sua abitudine, quando, rendendosi conto che ciò poteva disturbare l’uomo morente, tornò a sedersi, agitandosi a disagio. «Ci sono state sue notizie?» chiese a bassa voce. «Mi spiace, Tanis,» disse Elistan con gentilezza. «Non era mia intenzione addolorarti. Davvero, devi smetterla d’incolpare te stesso. Ciò che lei ha fatto, ha scelto di farlo di propria volontà. Né avrei accettato altrimenti. Tu non avresti potuto né fermarla, né salvarla dal suo destino, qualunque questo possa essere. No, non abbiamo avuto nessuna notizia su di lei.»
«Sì, c’è stata,» replicò Dalamar, con voce gelida, del tutto priva d’emozione, che attirò subito l’attenzione di entrambi gli uomini nella stanza. «È questa una ragione per cui vi ho convocati qui, insieme...»
«Lei ci ha convocati!» esclamò Tanis, balzando di nuovo in piedi. «Ero convinto che fosse stato Elistan a chiederci di venire qui. C’è il suo Shalafi dietro a tutto questo? E lui il responsabile della scomparsa di questa donna?». Fece un passo avanti, il suo volto sotto la barba fulva s’imporporò.
Dalamar si alzò a sua volta in piedi, i suoi occhi scintillarono pericolosamente, la sua mano si mosse in maniera quasi impercettibile verso una delle borse che portava alla cintura. «Perché,» continuò impetuosamente Tanis, «per gli dei, se le ha fatto del male, gli torcerò quel suo collo dorato...»
«Astinus di Palanthas,» annunciò un chierico dalla soglia.
Lo storico era immobile nel vano della porta. Il suo volto senza tempo era del tutto privo d’espressione mentre i suoi occhi grigi esaminavano la stanza, assimilando tutto e tutti con una minuta attenzione per i particolari che la sua penna avrebbe ben presto registrato. Il suo sguardo andò dal volto imporporato per la collera di Tanis a quello orgoglioso e spavaldo dell’elfo e, infine, a quello affaticato e paziente del chierico morente.
«Fatemi indovinare,» osservò Astinus, entrando imperturbabile nella stanza e mettendosi a sedere.
Posando su un tavolo un enorme libro, lo aprì su una pagina vuota, sfilò una penna d’oca da un astuccio di legno che portava con sé, esaminandone con attenzione la punta, poi sollevò lo sguardo.
«Inchiostro, amico,» disse rivolto a uno stupefatto chierico che, dopo un cenno del capo di Elistan, si affrettò a lasciare la stanza. Poi, lo storico continuò la sua frase iniziale: «Fatemi indovinare...
Stavate discutendo di Raistlin Majere.»
«E vero,» annuì Dalamar. «Sono stato io a convocarvi qui.» L’elfo scuro aveva ripreso il suo posto accanto al fuoco. Tanis, sempre accigliato, tornò al suo posto accanto a Elistan. Il chierico, Garad, tornando con l’inchiostro per Astinus, chiese se volevano qualcos’altro. Avendo ricevuto una risposta negativa, lasciò la stanza, aggiungendo con severità, a beneficio di tutti i presenti, che Elistan non stava bene e non doveva venire disturbato per molto.
«Vi ho chiamati qui tutti insieme,» ripetè Dalamar, con lo sguardo sul fuoco. Poi sollevò gli occhi guardando direttamente Tanis. «Lei è venuto fin qui affrontando qualche piccola scomodità. Ma io ci sono venuto sapendo che avrei patito il tormento che tutti quelli della mia fede patiscono, calcando questo suolo sacro. Ma è d’importanza assoluta che io parli a voi tutti, insieme. Sapevo che Elistan non poteva venire da me. Sapevo che Tanis Mezzelfo non sarebbe venuto da me. E così, non avevo altra scelta se non quella di...»
«Procedi,» lo sollecitò Astinus con la sua voce fredda e profonda. «Il mondo scorre mentre noi sediamo qui. Ci hai convocati qui tutti insieme. Questo è stabilito. Per quale ragione?».
Dalamar rimase silenzioso per un momento, il suo sguardo tornò di nuovo al fuoco. Quando parlò, continuò a fissarlo.
«I nostri peggiori timori si sono realizzati,» disse con voce sommessa. «Lui ha avuto successo.».
Capitolo secondo.
La voce si attardò nei suoi ricordi. Qualcuno, inginocchiato accanto alla pozza della sua mente, lasciava cadere le parole dentro la superficie calma e limpida. Increspature di consapevolezza lo disturbavano, risvegliandolo dal suo sonno tranquillo e pacifico.
«Torna a casa... Figlio mio, torna a casa.»
Raistlin aprì gli occhi e vide il volto di sua madre.
Sorridendo, lei gli tese la mano, accarezzandogli i capelli che, in ciuffi bianchi, gli ricadevano sulla fronte. «Povero figlio mio,» mormorò; i suoi occhi scuri erano ammorbiditi dal dolore, dalla pietà e dall’amore. «Cosa ti hanno fatto! Ho osservato. Lo faccio da tanto tempo, ormai... E ho pianto. Sì, figlio mio, perfino i morti piangono. È l’unico conforto che abbiamo. Ma adesso tutto questo è finito. Sei con me. Qui puoi riposare...»
Raistlin lottò per rizzarsi a sedere. Abbassando lo sguardo su se stesso vide, con orrore, che era coperto di sangue. Eppure, non sentiva nessun dolore, pareva che non ci fosse nessuna ferita. Trovò difficile respirare, e annaspò per cercare aria.
«Su, lascia che ti aiuti,» disse sua madre. Cominciò a sciogliere il cordone di seta che lui portava alla vita, il cordone al quale erano appese le borse, con i preziosi materiali per i suoi incantesimi. Di riflesso, Raistlin spinse via la sua mano. Il respiro gli venne più facile. Si guardò intorno.
«Cos’è successo? Dove mi trovo?». Era tremendamente confuso. Gli ritornavano alla mente i ricordi della sua infanzia. Gli ritornavano alla mente i ricordi di due infanzie, la sua, e quella di qualcun altro! Guardò sua madre, lei era qualcuno che lui conosceva... e anche un’estranea!
«Cos’è successo?» ripetè irritato, respingendo i ricordi che salivano nella sua mente come un’onda in piena, minacciando di fargli perdere il controllo del suo equilibrio mentale.
«Tu sei morto, figlio mio,» gli disse sua madre con gentilezza. «E adesso sei qui con me.»
«Morto!» ripetè Raistlin, inorridito.
Riordinò freneticamente i propri ricordi. Ricordò di essere stato vicino alla morte... Come mai aveva fallito? Si portò la mano alla fronte e sentì... carne, ossa, calore... E poi ricordò...
Il Portale!
«No!» gridò furibondo, in preda alla collera, fissando sua madre. «È impossibile.»
«Hai perso il controllo della magia, figlio mio,» disse sua madre, tendendo di nuovo la mano per toccarlo. Raistlin si ritrasse da lei. Con il suo sorriso tenue e triste, un sorriso che lui ricordava fin troppo bene, lei lasciò ricadere la mano in grembo. «Il campo si è spostato, le forze ti hanno lacerato. C’è stata una terribile esplosione che ha completamente spianato le Pianure di Dergoth. La magica fortezza di Zhaman è crollata.» La voce di sua madre tremò. «La vista della tua sofferenza era più di quanto potessi sopportare.»
«Me lo ricordo,» bisbigliò Raistlin, portandosi le mani alla testa. «Ricordo il dolore, ma...»
Ricordava anche qualcos’altro: vivide esplosioni di luci multicolori, ricordava una sensazione di esultanza e di estasi che si gonfiava nella sua anima come una marea, ricordava le teste dei draghi poste a guardia del Portale che urlavano furiose, ricordava di aver avvolto le braccia intorno a Crysania.
Alzandosi in piedi, Raistlin si guardò intorno. Si trovava su un terreno piatto, pianeggiante, un qualche tipo di deserto. In lontananza poteva distinguere delle montagne. Gli parevano familiari, naturalmente! Thorbardin! Il regno dei nani. Si girò. C’erano le rovine della fortezza che parevano un cranio intento a divorare la terra con la bocca eternamente sogghignante. Così, si trovava sui Pianori di Dergoth. Riconosceva il paesaggio. Ma, pur riconoscendolo, gli pareva strano. Ogni cosa era tinta di rosso come se stesse guardando tutti gli oggetti attraverso occhi velati dal sangue. E, anche se quegli oggetti sembravano uguali a come lui li ricordava, allo stesso tempo gli apparivano estranei.
Aveva già visto il Teschio durante la Guerra delle Lance, ma non ricordava di averlo visto sogghignare in quella maniera oscena. Anche le montagne erano nitide e si stagliavano con chiarezza contro il cielo... Il cielo! Raistlin tirò un respiro. Era vuoto! Guardò rapidamente in tutte le direzioni. No, non c’era il sole, eppure non era notte. Non c’erano né lune, né stelle, e aveva un colore così strano... una specie di rosa tenue, spento: il riflesso di un tramonto.
Abbassò lo sguardo sulla donna inginocchiata al suolo davanti a lui.
Raistlin sorrise, le sue labbra sottili premute insieme con espressione cupa.
«No,» disse, e questa volta la sua espressione era ferma e fiduciosa. «No, non sono morto! Ho avuto successo.» Fece un gesto. «Questa è la prova del mio successo. Riconosco questo posto. Il kender me l’ha descritto. Mi ha detto che era tutti i posti nei quali era stato. Questo è il luogo in cui ho varcato il Portale, e adesso mi trovo nell’Abisso.»
Chinandosi, Raistlin afferrò la donna per le braccia, trascinandola in piedi. «Demone, apparizione!
Dov’è Crysania? Dimmi, chiunque o qualsiasi cosa tu sia! Dimmi, o per gli dei, io...»
«Raistlin! Fermati, mi stai facendo male!»
Raistlin trasalì, spalancando gli occhi. Era stata Crysania a parlare, ed era di Crysania il braccio che stringeva! Scosso, mollò la presa ma, nel giro di un istante, fu di nuovo padrone di se stesso. Lei cercò di liberarsi, ma lui la tenne salda, attirandola più vicino a sé.
«Crysania?» l’interrogò, studiandola con attenzione.
Crysania sollevò perplessa lo sguardo su di lui. «Sì,» balbettò confusamente. «Cosa c’è che non va, Raistlin? Hai parlato in maniera così strana...»
L’arcimago accentuò ancora di più la stretta. Crysania lanciò un grido per il dolore. Sì, il dolore nei suoi occhi era reale, e così anche la sua paura.
Sorridendo, sospirando, Raistlin la cinse fra le braccia, premendola contro il proprio corpo.
Crysania era carne, calore, profumo, un cuore che batteva...
«Oh, Raistlin!» Crysania si rannicchiò contro di lui. «Avevo tanta paura... Questo orribile posto.
Ero completamente sola.»
La sua mano s’infilò tra i capelli neri di Crysania. La morbidezza e la fragranza del suo corpo lo intossicavano, colmandolo di desiderio. Lei si strinse ancora di più a lui, piegando indietro la testa.
Le sue labbra erano morbide, bramose. Raistlin chinò lo sguardo su di lei e fissò i suoi occhi ardenti.
Così, sei tornato a casa, finalmente, o mio mago!
Una risata calda e soffocante bruciò la sua mente mentre il corpo snello fra le sue braccia si contorceva furiosamente... stava stringendo un collo di un drago a cinque teste... l’acido sgocciolava dalle fauci spalancate sopra di lui... il fuoco ruggiva intorno a lui... nuvolaglie sulfuree gli facevano mancare il respiro. La testa si abbassò con movimenti serpentini...
Disperatamente, furiosamente, Raistlin fece appello alla sua magia. Però, nel medesimo istante in cui formava le parole del canto dell’incantesimo difensivo, nella sua mente avvertì una punta di dubbio. Forse la magia non avrebbe funzionato. Sono debole, il transito attraverso il Portale ha prosciugato le mie forze. La paura, sottile e tagliente come la lama di una spada, ha trafitto la mia anima. Le parole del canto gli scivolarono via dalla mente. Il panico invase il suo corpo. La Regina!
Mi sta facendo questo! Ast takar ist... No, non è giusto! Sentì delle risate, delle risate vittoriose...
Una folgorante luce bianca lo accecò. Stava cadendo, cadendo, cadendo interminabilmente, scendendo a spirale, passando dall’oscurità al giorno.
Quando riaprì gli occhi, Raistlin vide il volto di Crysania.
Il suo volto... ma non era il volto che ricordava. Stava invecchiando, morendo, anche mentre la stava guardando. Stringeva nella mano il medaglione dì platino di Paladine. La sua radiosità bianca e pura risplendeva luminosa nell’arcana luce rosata che li avvolgeva da ogni lato.
Raistlin chiuse gli occhi per escludere la vista del volto del chierico che invecchiava, richiamando alla memoria i ricordi dell’aspetto che aveva avuto in passato: delicata, bella, viva d’amore e di passione. La voce di lei gli giunse agli orecchi, fredda, ferma.
«Ti avevo quasi perduto.»
Alzando le mani, ma senza aprire gli occhi, afferrò le braccia del chierico, aggrappandosi a lei disperatamente. «Che aspetto ho? Dimmelo! Sono cambiato, vero?»
«Sei com’eri quando ti ho incontrato la prima volta nella Grande Biblioteca,» replicò Crysania, con voce ancora ferma, troppo ferma, tesa.
Sì, pensò Raistlin: sono com’ero. Il che significa che sono ritornato al presente. Sentì l’antica fragilità, l’antica debolezza, il dolore bruciante nel petto, e con esso la soffocante asprezza della tosse, come se delle ragnatele venissero intessute nei suoi polmoni. Sapeva che doveva soltanto guardare e avrebbe visto la pelle dalla coloritura dorata, i capelli bianchi, gli occhi a clessidra...
Spingendo via Crysania, si rotolò sullo stomaco, serrando i pugni in preda al furore, singhiozzando per la rabbia e la paura.
«Raistlin!». Adesso nella voce di Crysania c’era autentico terrore. «Cosa succede? Raistlin, dove ci troviamo? Cosa c’è che non va?»
«Ci sono riuscito,» lui ringhiò. Aprendo gli occhi vide il volto della donna, che appassiva a vista d’occhio. «Ci sono riuscito, siamo nell’Abisso.»
Crysania spalancò completamente gli occhi. Le sue labbra si dischiusero. La paura si mischiò alla gioia.
Raistlin ebbe un sorriso amaro. «E la mia magia se n’è andata.»
Sorpresa, Crysania lo fissò. «Non capisco...»
Torcendosi in preda all’agonia, Raistlin le gridò: «La mia magia non c’è più! Qui, nel suo regno, sono debole, impotente!» D’un tratto, ricordandosi che lei poteva essere intenta ad ascoltarlo, osservandolo e godendone, Raistlin s’immobilizzò. Il suo urlo morì in una schiuma color sangue, sulle sue labbra. Si guardò intorno, preoccupato.
«Ma no, non mi hai sconfitto!» bisbigliò. La sua mano si chiuse sul Bastone di Magius, che giaceva al suo fianco. Appoggiandosi pesantemente su di esso, lottò per alzarsi in piedi. Crysania lo cinse col suo braccio robusto, aiutandolo ad alzarsi.
«No,» mormorò, fissando la vastità delle pianure vuote, il cielo rosa e vuoto. «So dove sei! Lo sento! Sei a Godshome. Conosco la configurazione del terreno. So dove andare. Il kender me ne ha dato la chiave durante le sue farneticazioni febbricitanti. La terra sottostante riflette quella sovrastante. Ti scoverò, anche se il viaggio sarà lungo e insidioso.
«Sì,» e si guardò intorno, «sento che stai sondando la mia mente, che stai leggendo i miei pensieri, anticipando tutto ciò che dico e faccio. Tu pensi che sarà facile sconfiggermi! Ma io sento anche la tua confusione. Qui con me c’è qualcuno a cui non puoi toccare la mente! Lei mi difende e mi protegge. Non è vero, Crysania?»
«Sì, Raistlin,» fu la risposta di Crysania, con voce sommessa, mentre sorreggeva l’arcimago.
Raistlin fece un passo, poi un altro, e un altro ancora. Si appoggiò a Crysania, si appoggiò al suo bastone. Ma, anche così, ogni suo passo era uno sforzo, ogni suo respiro sembrava bruciargli i polmoni. Quando guardava quel mondo intorno a sé, tutto quello che vedeva era il vuoto.
Dentro di lui tutto era vuoto. La magia non c’era più.
Raistlin inciampò. Crysania lo afferrò e lo sorresse, stringendolo a sé. Le lacrime gli scorrevano lungo le guance.
Poteva udire delle risate...
Forse dovrei arrendermi adesso! pensò, con amara disperazione. Sono stanco, così stanco... E senza la mia magia, cosa sono?
Niente. Niente, soltanto un bambino debole e sventurato...
Capitolo terzo.
Per lunghi momenti, dopo la dichiarazione di Dalamar, nella stanza vi fu silenzio. Poi il silenzio venne interrotto dal raschiare di una penna mentre Astinus registrava le parole dell’elfo scuro sul grande libro.
«Possa Paladine essere misericordioso,» mormorò Elistan.
«Lei è con lui?»
«Naturalmente,» esclamò Dalamar, irritato, rivelando un nervosismo che tutta l’abilità della sua Arte era impotente a nascondere. «Come pensi altrimenti che possa aver avuto successo? Il Portale è chiuso per tutti salvo che alle forze unite di uno stregone dalle Vesti Nere, potente come lo è lui, e un chierico dalle Vesti Bianche, con una fede come quella di Crysania.»
Tanis, confuso, fece passare lo sguardo dall’uno all’altro. «Ascoltate,» disse con collera, «non capisco. Cosa sta succedendo? Di chi state parlando? Di Raistlin? Cos’ha fatto? Ha qualcosa a che fare con Crysania? E Caramon? E scomparso anche lui, insieme a Tas! Io...»
«Cerca di controllare quell’impaziente metà umana della tua natura, Mezzelfo,» lo rampognò Astinus, continuando a scrivere con tratti neri e fermi. «E tu, elfo scuro, comincia dall’inizio, invece che dal mezzo.»
«Oppure dalla fine, a seconda del caso,» aggiunse Elistan a bassa voce.
Bagnatesi le labbra con del vino, Dalamar, con lo sguardo ancora fìsso sul fuoco, raccontò la strana storia che Tanis, fino a quel momento, aveva conosciuto soltanto in parte. Molte cose il mezzelfo avrebbe potuto indovinarle, molte altre lo colsero di sorpresa, molte lo riempirono di orrore.
«Dama Crysania è stata ammaliata da Raistlin. E, se dobbiamo dire la verità, anche lui era attirato da lei, credo. Chi può dirlo con certezza, con un individuo come Raistlin? L’acqua gelida è ancora troppo calda per poter scorrere nelle sue vene. Chi può sapere da quanto tempo progettava questo, da quanto lo sognava? Ma, alla fine, era pronto. Aveva programmato un viaggio indietro nel tempo, per cercare quell’unica cosa che gli mancava, le conoscenze del più grande stregone che sia mai vissuto: Fistandantilus.
«Preparò una trappola per Dama Crysania, avendo progettato di attirarla indietro nel tempo insieme a lui, oltre al proprio fratello gemello...»
«Caramon?» chiese Tanis, in preda allo stupore.
Dalamar lo ignorò. «Ma accadde qualcosa d’imprevisto. La sorellastra dello Shalafi, Kitiara, un Signore dei Draghi...»
Il sangue pulsava nella testa di Tanis, offuscando la sua visione e ottundendo il suo udito. Sentì lo stesso sangue pulsargli nel volto. Aveva la sensazione che la sua pelle bruciasse a toccarla, tanto era calda.
Kitiara!
Si ergeva davanti a lui, gli occhi che lampeggiavano, i capelli scuri e riccioluti che le ricadevano sul viso, le sue labbra leggermente dischiuse in quell’incantevole, furfantesco sorriso, la luce che traeva vividi riflessi dalla sua armatura...
Abbassò lo sguardo su di lui dal dorso del suo drago azzurro, circondata dai suoi tirapiedi, altera e possente, forte e spietata...
Giaceva tra le sue braccia, languida, amorosa, sorridente...
Tanis sentì, anche se non poteva vederlo, lo sguardo pieno di comprensione, ma anche di pietà, di Elistan. Si ritrasse davanti all’espressione severa e consapevole di Astinus. Invischiato nel proprio senso di colpa, nella propria vergogna, nella propria infelicità, Tanis non si accorse che anche Dalamar stava avendo problemi con la propria espressione che, dopo essersi imporporata, ora stava impallidendo. Non percepì il tremolio nella voce dell’elfo scuro quando pronunciò il nome della donna.
Dopo aver lottato, Tanis recuperò il controllo di sé e fu in grado di riprendere l’ascolto. Ma sentì, ancora una volta, quell’antico dolore nel suo cuore, il dolore che aveva pensato fosse scomparso per sempre. Era felice con Laurana, l’amava più profondamente e teneramente di quanto fosse possibile per un uomo amare una donna. Era in pace con se stesso. La sua vita era ricca, piena. E adesso era stupito nello scoprire quell’oscurità nelle profondità del suo spirito... quell’oscurità che pensava di aver bandito per sempre.
«A un ordine di Kitiara, il cavaliere della morte, Lord Soth, lanciò un incantesimo su Dama Crysania, un incantesimo che avrebbe dovuto ucciderla. Ma Paladine intervenne: prese la sua anima facendola dimorare con sé, lasciando sulla terra l’involucro vuoto del suo corpo. Credevo che lo Shalafi fosse stato sconfitto. Ma no, tramutò in vantaggio questo tradimento da parte di sua sorella.
Suo fratello gemello, Caramon, e il kender, Tasslehoff, condussero Dama Crysania fino alla Torre della Grande Stregoneria a Wayreth, sperando che i maghi fossero in grado di curarla. Non potevano farlo, naturalmente. Come Raistlin sapeva benissimo. Potevano soltanto mandarla indietro nel tempo nell’unico periodo della storia di Krynn in cui viveva un Gran Sacerdote abbastanza potente da poter invocare Paladine perché ripristinasse l’anima della donna dentro il suo corpo. E questo, naturalmente, era proprio quello che Raistlin voleva.»
Dalamar strinse il pugno. «Lo dissi ai maghi! Sciocchi! Dissi loro che stavano proprio facendo il suo gioco.»
«Lei gliel’ha detto?». Adesso Tanis si sentiva abbastanza padrone di sé da fare la domanda. «Ha tradito lui, il suo Shalafi». Sbuffò per l’incredulità.
«Quello che faccio è un gioco pericoloso, Mezzelfo.» Adesso Dalamar lo guardò, i suoi occhi ardevano da dentro, come le braci di un fuoco. «Io sono una spia, mandata dal Conclave dei maghi a sorvegliare ogni mossa di Raistlin. Sì, puoi benissimo apparire stupito. Essi lo temono, tutti gli Ordini lo temono, i Bianchi, i Rossi, i Neri. Soprattutto i Neri, poiché sappiamo quale sarà il nostro destino se lui dovesse salire al potere.»
Mentre Tanis lo fissava, l’elfo scuro sollevò la mano e lentamente dischiuse il davanti della sua veste, denudandosi il petto. Cinque ferite purulente deturpavano la superficie liscia della pelle dell’elfo scuro. «Il segno della sua mano,» dichiarò Dalamar con voce priva d’espressione. «La ricompensa per il mio inganno.»
Tanis vide chiaramente, nella sua mente, Raistlin appoggiare le sue sottili dita dorate sul petto del giovane elfo scuro, senza malizia, senza crudeltà, senza il minimo tocco di umanità, e potè vedere quelle dita che penetravano, bruciandole, le carni della sua vittima. Scuotendo la testa, sentendosi nauseato, Tanis tornò a sprofondare nella sua poltrona, con lo sguardo fisso sul pavimento.
«Ma loro non vollero ascoltarmi,» continuò Dalamar. «Si aggrappavano alle pagliuzze. Come Raistlin aveva previsto, la loro più grande speranza stava nella loro più grande paura. Decisero di mandare Dama Crysania indietro nel tempo, in apparenza per permettere che il Gran Sacerdote l’aiutasse. Questo è ciò che dissero a Caramon, poiché sapevano che altrimenti non ci sarebbe andato. Ma, in realtà, la mandarono indietro nel tempo perché morisse, o almeno sparisse com’era accaduto a tutti gli altri chierici prima del Cataclisma. E speravano che Caramon, una volta che fosse tornato indietro nel tempo e avesse appreso la verità sul suo gemello... che Raistlin, in realtà, era Fistandantilus... sarebbe stato spinto a uccidere suo fratello.»
«Caramon?» Tanis dette in un’amara risata, poi corrugò di nuovo la fronte incollerito. «Come hanno potuto fare una cosa del genere? Quell’uomo è malato! E l’unica cosa che adesso Caramon è in grado di ammazzare è una bottiglia di spirito dei nani! Raistlin lo ha già distrutto. Perché non hanno...»
Cogliendo l’occhiata irritata di Astinus, Tanis si calmò. La sua mente vacillò, in preda alla confusione. Niente di tutto questo aveva senso! Lanciò un’occhiata in direzione di Elistan. Il chierico doveva già conoscere la maggior parte di questa storia. Sul suo volto non c’era stata nessuna espressione di sbigottimento o di sorpresa, neppure quando aveva sentito che i maghi avevano mandato Crysania indietro nel tempo perché vi morisse. C’era soltanto un’espressione di profondo dolore.
Dalamar stava continuando. «Ma il kender, Tasslehoff Burrfoot, sconvolse l’incantesimo di Par-Salian e accidentalmente viaggiò indietro nel tempo insieme a Caramon. L’inserimento di un kender dentro il flusso del tempo rese possibile un’alterazione del tempo. Possiamo soltanto supporre ciò che è accaduto là, a Istar. Quello che sappiamo è che Crysania non morì. Caramon non uccise suo fratello. E Raistlin ebbe successo nell’ottenere le conoscenze di Fistandantilus. Portando Crysania e Caramon con sé, si spostò avanti nel tempo, in quell’unico periodo in cui avrebbe posseduto, con Crysania, l’unico vero chierico del paese. Viaggiò fino all’unico periodo della nostra storia in cui la Regina delle Tenebre sarebbe stata più vulnerabile e incapace di fermarlo.
«Come Fistandantilus aveva fatto prima di lui, Raistlin combatté la Guerra della Porta dei Nani, e in questo modo ebbe accesso al Portale che si trovava, allora, nella fortezza magica di Zhaman. Se la storia si fosse ripetuta, Raistlin sarebbe morto davanti a quel Portale, poiché era stato così che Fistandantilus aveva incontrato la sua condanna.»
«Contavamo su questo,» mormorò Elistan, tirando debolmente le coperte che lo coprivano.
«Par-Salian aveva detto che Raistlin non disponeva di nessun modo per cambiare la storia...»
«Quel disgraziato di un kender!» ringhiò Dalamar. «Par-Salian avrebbe dovuto saperlo, avrebbe dovuto rendersi conto che quella sciagurata creatura avrebbe fatto esattamente quello che fece, cogliendo al balzo l’occasione di una nuova avventura! Avrebbe dovuto accettare il nostro consiglio e strangolare quel piccolo bastardo...»
«Mi dica cos’è accaduto a Tasslehoff e a Caramon,» disse Tanis con freddezza. «Non m’importa cosa sia successo a Raistlin o, me ne scuso con te, Elistan, a Dama Crysania. Lei è stata accecata dalla propria bontà. Mi dispiace per lei, ma si è rifiutata di aprire gli occhi e di vedere la verità.
M’importano i miei amici. Che ne è stato di loro?»
«Non lo sappiamo,» rispose Dalamar. Scrollò le spalle. «Ma se fossi in te, non mi aspetterei di rivederli in questa vita, Mezzelfo... Servirebbero assai poco allo Shalafi»
«Allora mi ha detto tutto quello che mi serve sentire,» replicò Tanis, alzandosi, con la voce tesa per il dolore e il furore. «Anche se dovesse essere l’ultima cosa che farò, scoverò Raistlin e...»
«Siediti, Mezzelfo,» gli ingiunse Dalamar. Non alzò la voce, ma c’era un pericoloso scintillio nei suoi occhi che indusse Tanis a portare la mano all’elsa della spada, ma questo gli ricordò che, dal momento che si trovava in visita nel Tempio di Paladine, non l’aveva con sé. Ancora più furibondo, non fidandosi delle proprie parole, Tanis rivolse un inchino a Elistan, poi ad Astinus, e accennò a dirigersi verso la porta.
«Ti importerà conoscere cosa è stato di Raistlin, Tanis Mezzelfo,» lo intercettò la voce insinuante di Dalamar, «perché riguarda te... Riguarda noi tutti. Dico il vero, Reverendo Figlio?»
«È così, Tanis,» confermò Elistan. «Comprendo i tuoi sentimenti, ma devi metterli da parte.»
Astinus non disse niente, il raschiare della sua penna era l’unica indicazione che lo storico si trovava ancora nella stanza. Allora Tanis strinse il pugno e, lanciando un’imprecazione bestiale che indusse perfino Astinus a sollevare lo sguardo, il mezzelfo si rivolse a Dalamar: «Molto bene, allora. Cosa potrebbe mai fare Raistlin per ferire e danneggiare e distruggere ancora di più coloro che gli stanno intorno?»
«Ho detto, all’inizio, che i nostri peggiori timori si sono concretizzati,» rispose Dalamar, i suoi occhi obliqui da elfo si fissarono su quelli assai meno obliqui del mezzelfo.
«Sì,» sbottò Tanis, in preda all’impazienza, rimanendo in piedi.
Dalamar fece una pausa drammatica. Astinus sollevò lo sguardo e si accigliò, con un’espressione vagamente infastidita.
«Raistlin è entrato nell’Abisso. Lui e Dama Crysania sfideranno la Regina delle Tenebre.»
Tanis fissò Dalamar, incredulo. Poi esplose in una risata. «Be’,» disse infine, scrollando le spalle, «pare che io non debba preoccuparmi poi tanto. Il mago ha firmato la propria condanna.»
Ma la risata di Tanis subito si spense. Dalamar lo fissò con espressione cinica, fredda e divertita, come se si fosse aspettato quell’assurda risposta da un mezzo umano. Astinus sbuffò e continuò a scrivere. Le fragili spalle di Elistan si accasciarono. Chiuse gli occhi e si abbandonò contro i cuscini.
Tanis li fissò tutti. «Ma non potete considerarla una minaccia seria!» esclamò. «Per gli dei, mi sono trovato davanti alla Regina delle Tenebre! Ho sentito la sua potenza e la sua maestà, e questo quand’era soltanto parzialmente su questo piano di esistenza.» Il mezzelfo ebbe un brivido involontario. «Non so immaginare cosa voglia dire incontrarla sul suo... sul suo...»
«Non sei il solo, Tanis,» disse Elistan con voce stanca. «Anch’io ho conversato con la Regina delle Tenebre.» Aprì gli occhi, esibendo un pallido sorriso. «Ti sorprende? Ho affrontato anch’io le mie prove e le mie tentazioni, come hanno fatto tutti gli uomini.»
«Soltanto una volta lei è venuta a me.» Dalamar si sbiancò in volto, e c’era paura nei suoi occhi. Si leccò le labbra. «Ed è stato per portarmi queste notizie.»
Astinus non disse niente. Ma aveva cessato di scrivere. La roccia stessa sarebbe stata più espressiva del volto dello storico.
Tanis scosse la testa per la meraviglia. «Hai incontrato la Regina, Elistan? Ammetti la sua potenza?
Eppure continui a pensare che uno stregone fragile e malato e una invecchiata fanciulla chierico possano in qualche modo farle del male?»
Gli occhi di Elistan lampeggiarono, le sue labbra si strinsero, e Tanis seppe di essersi spinto troppo oltre. Arrossendo, si grattò la barba e fece per scusarsi, poi, cocciutamente, chiuse la bocca. «Non ha senso,» borbottò, tornando indietro e buttandosi sulla poltrona.
«Insomma, in nome dell’Abisso, come possiamo fermarlo?» Rendendosi conto di ciò che aveva detto, il suo rossore divenne ancora più intenso. «Mi spiace,» bofonchiò. «Non intendevo farne una battuta. Sembra che tutto quello che dico venga fuori sbagliato. Ma, maledizione, non capisco!
Dovremmo fermare Raistlin, oppure incitarlo a continuare?»
«Non puoi fermarlo,» interloquì Dalamar, freddamente, quando Elistan parve sul punto di replicare.
«Questo possiamo farlo soltanto noi maghi. A questo fine stiamo portando avanti i nostri piani già da parecchie settimane, sin da quando abbiamo saputo di questa minaccia. Vedi, Mezzelfo, ciò che hai detto è, in parte, giusto. Raistlin sa, tutti noi sappiamo, di non poter sconfiggere la Regina delle Tenebre sul suo stesso piano di esistenza. Perciò il piano consiste nell’attirarla fuori, facendola uscire dal Portale ed entrare in questo mondo...»
Tanis ebbe l’impressione di essere stato colpito da un violento pugno allo stomaco. Per un istante non riuscì neppure a respirare.
«È pura follia,» riuscì finalmente a rantolare, avvolgendo strettamente le mani intorno ai braccioli della poltrona. Le nocche gli divennero bianche per lo sforzo. «A Neraka siamo riusciti a sconfiggerla a stento! E lui vuole riportarla nel mondo?»
«A meno che non si riesca a fermarlo,» continuò Dalamar, «il che è mio dovere, come ho detto.»
«Allora, cos’è che dovremmo fare?» volle sapere Tanis, sporgendosi in avanti. «Perché siamo stati fatti venire qui? Dobbiamo starcene seduti a guardare intorno? Io...»
«Sii paziente, Tanis,» lo interruppe Elistan. «Sei nervoso e spaventato. Condividiamo tutti questi sentimenti.»
Con l’eccezione di quello storico dal cuore di granito che siede laggiù, pensò Tanis con amarezza...
«Ma non c’è nulla da guadagnare con i gesti affrettati o le parole inconsulte.» Elistan guardò in direzione dell’elfo scuro e la sua voce divenne più morbida. «Credo che non abbiamo ancora sentito il peggio, non è vero, Dalamar?»
«Sì, Reverendo Figlio,» annuì Dalamar, e Tanis fu sorpreso nel vedere una traccia d’emozione guizzare negli occhi obliqui dell’elfo. «Ho ricevuto notizia che il Signore dei Draghi, Kitiara...» l’elfo per un istante parve soffocare, si schiarì la gola e continuò parlando con maggior fermezza:
«Kitiara ha in progetto un attacco su grande scala contro Palanthas.»
Tanis tornò a sprofondare nella sua poltrona. Il suo primo pensiero fu di amaro e cinico divertimento: te l’avevo detto, Lord Amothus. Te l’avevo detto, Porthios. Ve l’avevo detto, l’avevo detto a voi tutti che avete voluto tornarvene nei vostri piccoli nidi, belli e caldi, fingendo che la guerra non ci fosse mai stata. Il suo secondo pensiero fu più assennato. I ricordi gli tornarono alla memoria: la città di Tharsis in fiamme, gli eserciti dei draghi che occupavano Solace, i dolori, le sofferenze... la morte. Elistan stava dicendo qualcosa, ma Tanis non poteva sentire. Si abbandonò sullo schienale, chiudendo gli occhi, cercando di pensare. Ricordava che Dalamar aveva parlato di Kitiara, ma cosa mai aveva detto? Si muoveva ai margini della sua coscienza. Aveva pensato a Kit. Non gli aveva prestato attenzione. Le parole erano vaghe...
«Aspetta!» Tanis si rizzò a sedere, all’improvviso se n’era ricordato. «Hai detto che Kitiara era inferocita con Raistlin. Hai detto che lei aveva paura quanto noi che la Regina rientrasse nel mondo.
È per questo che ordinò a Lord Soth di uccidere Crysania. Se è vero, perché mai intende attaccare Palanthas? Non ha senso! Ogni giorno che passa le sue forze, a Sanction, aumentano. I draghi del male si sono riuniti laggiù, e abbiamo ricevuto rapporti secondo i quali i draconici che erano stati dispersi dopo la guerra si sono anch’essi riuniti sotto il suo comando. Ma Sanction si trova a una grande distanza da Palanthas. Nel mezzo si trovano le terre dei Cavalieri di Solamnia. I draghi buoni si desteranno e combatteranno, se i draghi cattivi solcheranno di nuovo i cieli. Perché? Perché dovrebbe rischiare tutto quello che ha guadagnato? E per che cosa...»
«Credo che tu conosca la Signora Kitiara, Mezzelfo!» lo interruppe Dalamar.
Tanis soffocò e borbottò qualcosa. «Scusa?»
«Sì, maledizione, la conosco!» esclamò Tanis con rabbia, colse l’occhiata che Elistan gli aveva scoccato, e riaffondò nella poltrona sentendosi bruciare la pelle.
«Hai ragione,» disse Dalamar con voce melliflua e un luccichio divertito nei suoi chiari occhi di elfo. «Quando Kitiara seppe per la prima volta dei piani di Raistlin, ebbe paura. Non per lui, naturalmente, ma per timore che facesse ricadere su di lei la collera della Regina delle Tenebre.
Ma,» Dalamar scrollò le spalle, «fu allora che Kitiara si convinse che Raistlin dovesse perdere.
Adesso, invece, pare che stia pensando che Raistlin abbia una possibilità di vittoria. E Kit cercherà sempre di trovarsi dalla parte del vincitore. Progetta di conquistare Palanthas per essere pronta ad accogliere lo stregone quando attraverserà il Portale. Kit offrirà a suo fratello la potenza dei suoi eserciti. Se lui sarà abbastanza forte, e a quell’epoca dovrebbe esserlo, potrà facilmente convertire quelle creature malefiche inducendole ad abbandonare la loro fedeltà alla Regina delle Tenebre e a servire la sua causa.»
«Kit?». Ora toccò a Tanis mostrarsi divertito. Dalamar ebbe un leggero sorriso sprezzante.
«Oh, sì, Mezzelfo. Conosco Kitiara in ogni particolare tanto quanto te.»
Ma il tono sarcastico nella voce dell’elfo scuro si fece esitante, trasformandosi inconsciamente in un tono di amarezza. Le sue mani sottili si strinsero. Tanis annuì, comprendendo all’improvviso, e provando, stranamente, una certa simpatia per il giovane elfo.
«Così ha tradito anche te,» mormorò Tanis quasi fra sé. «Ti aveva promesso il suo sostegno, dicendoti che sarebbe stata là, accanto a te. Che quando Raistlin fosse tornato avrebbe combattuto al tuo fianco...»
Dalamar si alzò in piedi, le sue vesti nere frusciarono intorno a lui. «Non mi sono mai fidato di lei,» dichiarò, gelido, ma girò loro la schiena e si mise a fissare intensamente le fiamme, tenendo la faccia voltata dall’altra parte. «Sapevo di quali tradimenti era capace. Non è stata una sorpresa.»
Ma Tanis vide sbiancarsi la mano che stringeva la mensola del caminetto.
«Chi te l’ha detto?» chiese Astinus, all’improvviso. Tanis sussultò. Si era quasi dimenticato della presenza dello storico. «Certamente non la Regina delle Tenebre. A lei non importerebbe nulla di questo.»
«No, no.» Dalamar parve confuso per un attimo. Era ovvio che i suoi pensieri erano stati lontani da lì. Sospirando, levò ancora una volta lo sguardo su di loro. «Me l’ha detto Lord Soth, il Cavaliere della Morte.»
«Lord Soth?» Tanis sentì che stava perdendo la presa sulla realtà.
Freneticamente, il suo cervello cercò un appiglio. Maghi che spiavano altri maghi. Chierici della luce che facevano fronte comune con gli stregoni delle tenebre. La tenebra che si fidava della luce, rivoltandosi contro la tenebra. La luce che diventava tenebra...
«Soth ha promesso fedeltà a Kitiara!» disse Tanis, confuso. «Perché mai dovrebbe tradirla?»
Voltando le spalle al fuoco, Dalamar guardò Tanis negli occhi. Per un intero battito di cuore si stabilì un legame fra i due, un legame forgiato dalla mutua comprensione, da una mutua infelicità, da un mutuo tormento, da una mutua passione. E, tutt’a un tratto, Tanis comprese, e la sua anima si accartocciò su se stessa per l’orrore.
«La vuole morta,» rispose Dalamar.
Capitolo quarto.
Il giovanetto camminava lungo le strade di Solace.
Non era un ragazzino attraente, e lo sapeva, così come sapeva tante cose di sé che spesso ai bambini non veniva dato sapere. Ma, d’altronde, trascorreva moltissimo tempo con se stesso, proprio perché non era attraente e perché sapeva troppo.
Ma oggi non camminava da solo. Suo fratello gemello, Caramon, era con lui. Raistlin si accigliò, stropicciando i piedi in mezzo alla polvere della strada che attraversava il villaggio, osservando come si levasse in nuvole intorno a lui. Poteva anche non essere solo, ma in un certo qual senso era più solo con Caramon che senza di lui. Tutti salutavano a gran voce il suo gemello simpatico e aitante. A lui, invece, nessuno diceva una sola parola. Tutti gridavano perché Caramon si unisse ai loro giochi. Nessuno invitava Raistlin. Le ragazze guardavano Caramon con la coda dell’occhio in quella maniera speciale che hanno le ragazze. Ma quelle stesse ragazze neppure notavano la presenza di Raistlin.
«Ehi, Caramon, vuoi giocare a Re del Castello?» urlò una voce.
«Tu vuoi, Raist?» chiese Caramon, mentre il suo volto s’illuminava per il desiderio. Giovane e atletico com’era, a Caramon piaceva quel gioco rude e faticoso. Ma Raistlin sapeva che, se lui avesse accettato di giocare, si sarebbe ben presto sentito debole e stordito. Sapeva anche che gli altri ragazzi avrebbero litigato per decidere quale squadra, renitente, avrebbe dovuto accoglierlo.
«No. Tu, però, fai pure.»
Caramon fece il muso lungo. Poi, scrollando le spalle, disse: «Oh, non importa, Raist. Preferisco rimanere con te.»
Raistlin sentì che la gola gli si stringeva, insieme allo stomaco. «No, Caramon,» ripetè con voce sommessa, «va tutto bene. Vai pure a giocare.»
«Non hai l’aria di sentirti bene, Raist,» disse Caramon. «Non è un gran gioco, davvero. Su, mostrami quel nuovo trucco di magia che hai imparato, quello con le monetine...»
«Non trattarmi così!» si sentì urlare Raistlin. «Io non ho bisogno di te! Non ti voglio intorno, Vai pure... vai a giocare con quegli sciocchi! Tutti insieme, siete un branco di sciocchi! Non ho bisogno di nessuno di voi!»
Il volto di Caramon si sgretolò. Raistlin ebbe la sensazione di avere appena preso a calci un cane.
Ma questa sensazione servì soltanto a farlo arrabbiare ancora di più. Si allontanò.
«Sicuro, Raist, se è questo che vuoi,» borbottò Caramon. Lanciando un’occhiata dietro le proprie spalle, Raistlin vide il suo gemello che rincorreva gli altri. Con un sospiro, cercando d’ignorare le grida e le risate, Raistlin si sedette in un punto ombreggiato e, tirato fuori uno dei libri d’incantesimi dal suo zaino, cominciò a studiarlo. Ben presto, il fascino della magia lo attirò lontano dalla polvere e dalle risate e dagli occhi feriti del suo gemello. Questo lo condusse in una terra incantata dove era lui a comandare agli elementi, lui a controllare la realtà...
Il libro degli incantesimi gli ruzzolò dalle mani, cadendo nella polvere ai suoi piedi. Raistlin sollevò lo sguardo, sorpreso. Due ragazzi si ergevano sopra di lui. Uno dei due stringeva in mano un bastone. Diede col bastone un colpo al libro, poi, sollevandolo, urtò Raistlin con forza nel petto.
Siete insetti, disse Raistlin in silenzio ai ragazzi. Insetti. Non significate niente, per me. Meno che niente. Ignorando il dolore nel petto, ignorando quegli insetti davanti a lui, Raistlin allungò la mano per raccogliere il suo libro. Il ragazzo gli montò sulle dita.
Spaventato, ma adesso più rabbioso che impaurito, Raistlin si alzò in piedi. Le sue mani erano la sua vita. Con esse manipolava i fragili componenti degli incantesimi, con esse tracciava i delicati simboli arcani della sua Arte nell’aria.
«Lasciatemi in pace,» disse freddamente, e tale fu il modo in cui parlò, e l’espressione dei suoi occhi, che per un istante i due ragazzi furono colti alla sprovvista. Ma adesso si era raccolta una piccola folla. Gli altri ragazzi avevano lasciato il loro gioco ed erano venuti a divertirsi.
Consapevole che altri li stavano guardando, il ragazzo con il bastone si rifiutò di permettere che quel topo di biblioteca frignone, lagnoso, tutto pelle e ossa, avesse la meglio su di lui.
«Cos’hai intenzione di fare?» lo sbeffeggiò il ragazzo. «Vuoi trasformarmi in rana?»
Vi furono risate. Le parole di un incantesimo presero forma nella mente di Raistlin. Era un incantesimo che non avrebbe dovuto ancora imparare, un incantesimo offensivo, un incantesimo che faceva male, un incantesimo da usare quando il pericolo era davvero una minaccia. Il suo Maestro si sarebbe inferocito. Le labbra sottili di Raistlin s’incurvarono in un sorriso. Alla vista di quel sorriso e dell’espressione dei suoi occhi, uno dei ragazzi arretrò.
«Andiamo via,» mormorò, rivolto al compagno.
Ma l’altro ragazzo non cedette. Raistlin poteva vedere, dietro di lui, il suo gemello immobile in mezzo alla folla, un’espressione incollerita sul volto.
Raistlin cominciò a pronunciare le parole...
... e poi s’immobilizzò. No! C’era qualcosa di sbagliato! Se n’era dimenticato! La sua magia non avrebbe funzionato! Non qui! Le parole gli vennero fuori come un borbottio incomprensibile, non avevano alcun senso. Non successe niente! I ragazzi scoppiarono a ridere. Il ragazzo che stringeva il bastone lo sollevò e colpì Raistlin allo stomaco, facendolo cadere al suolo e mozzandogli il fiato.
Raistlin era carponi, boccheggiante. Qualcuno gli sferrò un calcio. Sentì il bastone colpirlo alla schiena. Qualcun altro lo prese a calci. Adesso rotolò sul terreno, soffocando in mezzo alla polvere, cercando disperatamente di coprirsi la testa con le braccia sottili. Fu investito da una gragnuola di colpi e di calci.
«Caramon!» gridò. «Caramon, aiutami!»
Ma in risposta gli giunse una voce severa e profonda: «Non hai bisogno di me... non ricordi?»
Un sasso lo colpì alla testa facendogli un male terribile. E seppe, malgrado non potesse vedere, che era stato Caramon a scagliarlo. Stava perdendo conoscenza. Delle mani lo stavano trascinando lungo la strada polverosa, lo stavano trascinando verso un pozzo tenebroso e d’un gelo abissale.
L’avrebbero buttato là dentro e lui sarebbe caduto interminabilmente, in mezzo all’oscurità e al freddo, e non si sarebbe mai, mai abbattuto sul fondo, poiché non c’era nessun fondo...
Crysania si guardò intorno. Dov’era? Dov’era Raistlin? Si era trovato con lei soltanto pochi istanti prima, appoggiandosi, in tutta la sua debolezza, al suo braccio. E poi d’un tratto era svanito e lei si era trovata sola a camminare in uno strano villaggio.
Ma era poi davvero strano? Le pareva di ricordare di essere già stata là, o per lo meno in un posto come quello. Era circondata da alti vallenwood. Le case erano costruite sopra gli alberi. C’era perfino una locanda su un albero: vide un’insegna. Solace.
Com’era strano... si meravigliò, guardandosi intorno. Era Solace, senza dubbio. Era stata lì di recente insieme a Tanis Mezzelfo, a cercare Caramon. Ma questa Solace era diversa. Ogni cosa pareva tinta di rosso e soltanto lievemente distorta. Avrebbe voluto continuare a sfregarsi gli occhi, fino a schiarirseli.
«Raistlin!» chiamò.
Non vi fu risposta. La gente che le passava accanto si comportava come se non la sentisse e non la vedesse. «Raistlin!» gridò, mentre sentiva il panico impadronirsi di lei. Cosa mai gli era successo?
Dov’era andato? La Regina delle Tenebre aveva...
Udì un tumulto, bambini che gridavano, che schiamazzavano al di sopra di un urlo sottile, acuto, un’implorazione di aiuto.
Voltandosi, Crysania vide una folla di bambini raccolti intorno a una forma rannicchiata al suolo.
Vide pugni che colpivano e calci che venivano sferrati, vide un bastone che veniva alzato e poi calato con forza. Ancora una volta quell’urlo acuto. Crysania lanciò un’occhiata alla gente raccolta intorno a lei, ma parevano tutti inconsapevoli del fatto che stava accadendo qualcosa d’insolito.
Raccogliendo con la mano le sue bianche vesti, Crysania corse verso i bambini. Vide, quando fu più vicina, che la figura al centro del cerchio era quella di un bambino! Un ragazzino! Colta da un improvviso senso di orrore, si rese conto che lo stavano uccidendo! Raggiunta la folla, afferrò uno dei bambini per strapparlo via. Al tocco della sua mano, il bambino si voltò di scatto per affrontarla.
Crysania si ritrasse atterrita.
Il volto del bambino era bianco, cadaverico, simile a un teschio. La pelle era stirata sopra le sue ossa, le sue labbra erano tinte di viola. La fissò e sfoderò i denti, e i denti erano neri e marci. Il bambino le sferrò un colpo con la mano. Le unghie lunghe le lacerarono la pelle facendole provare una sensazione pungente e paralizzante che la percorse tutta. Gemendo, lasciò la presa, e il bambino, con un sogghigno di perverso piacere sul volto, tornò a voltarsi per tormentare il ragazzo accasciato al suolo.
Fissando i segni sanguinanti sul suo braccio, stordita e indebolita dal dolore, Crysania sentì urlare di nuovo il ragazzo.
«Paladine, aiutami,» implorò. «Dammi forza.»
Afferrò risolutamente uno dei bambini-demoni e lo scagliò di lato, poi ne afferrò un altro. Riuscì infine a raggiungere il ragazzo disteso al suolo e, facendo da scudo col proprio corpo all’altro, sanguinante e privo di sensi, cercò disperatamente per tutto il tempo di respingere i bambini.
Più e più volte sentì quelle unghie lunghe e aguzze lacerarle la pelle, mentre il veleno scorreva attraverso il suo corpo. Ma ben presto si avvide che anche i bambini, non appena la toccavano, si ritraevano in preda al dolore. Alla fine, con un’espressione imbronciata sui loro volti da incubo, si allontanarono, lasciandola sola, sanguinante e nauseata, con la loro vittima.
Girò con delicatezza il corpo tormentato del ragazzo. Gli lisciò all’indietro i capelli castani e lo guardò in viso. Le sue mani cominciarono a tremare. Non era possibile sbagliarsi sulla gracile struttura di quel viso, sulle ossa sottili e fragili, il mento sporgente.
«Raistlin!» bisbigliò Crysania, stringendo nella sua la piccola mano.
Il ragazzo aprì gli occhi...
L’ uomo, vestito di nero, si rizzò a sedere.
Crysania lo fissò, mentre lui si guardava intorno con espressione truce.
«Cosa sta succedendo?» domandò Crysania, rabbrividendo, mentre sentiva gli effetti del veleno che si propagavano attraverso il suo corpo.
Raistlin annuì fra sé. «È così che lei mi tormenta,» disse con voce sommessa. «È così che combatte contro di me, colpendomi là dove sa che sono più debole.» Quegli occhi dorati a forma di clessidra si volsero verso Crysania, le sue labbra sottili sorrisero. «Hai combattuto per me, l’hai sconfitta.»
L’attirò vicino a sé, avvolgendola nelle proprie vesti nere. «Ecco, riposati un po’. Il dolore passerà, e poi proseguiremo il nostro viaggio.»
Ancora tremante, Crysania posò la testa sul petto dell’arcimago, sentendo il suo respiro affannoso che gli raschiava nei polmoni, inspirando quella dolce, tenue fragranza di petali di rosa e di morte...
Capitolo quinto.
«E così, ecco cosa rimane delle parole e delle promesse coraggiose,» disse Kitiara a bassa voce.
«Ti aspettavi davvero che succedesse altrimenti?» chiese Lord Soth. Le parole, accompagnate da una scrollata dell’armatura antica, risuonarono noncuranti, quasi retoriche. Ma c’era in esse un’acredine che indusse Kitiara a lanciare un’occhiata penetrante al Cavaliere della Morte.
Vedendo che lui la fissava con i suoi occhi arancione nei quali ardeva una strana intensità, Kitiara arrossì. La constatazione che lei aveva rivelato più emozioni di quanto avesse voluto la fece incollerire, e il suo rossore divenne più intenso. Voltò di scatto le spalle a Lord Soth.
Attraversando la stanza, che era ammobiliata con una strana mescolanza di armi, armature, lenzuola profumate di seta, e spessi tappeti di pelliccia, Kitiara si strinse al petto le pieghe della sua sottile camicia da notte con una mano tremante. Era un gesto che serviva assai poco in termini di modestia, e Kitiara lo sapeva, nello stesso momento in cui si chiedeva perché mai l’avesse fatto. Certamente non si era mai preoccupata della modestia prima di allora, specialmente con intorno una creatura che era stata ridotta a un mucchietto di cenere trecento anni prima. Ma d’un tratto si era sentita a disagio sotto lo sguardo di quegli occhi fiammeggianti, che la fissavano da un volto inesistente. Si sentiva nuda ed esposta.
«No, naturalmente no,» rispose Kitiara con freddezza.
«Dopotutto è un elfo scuro,» proseguì Lord Soth con lo stesso tono di voce uniforme e quasi annoiato. «E non fa segreto del fatto che teme tuo fratello più della morte stessa. Quindi, c’è forse da stupirsi che adesso abbia scelto di lottare a fianco di Raistlin piuttosto che a fianco di un branco di vecchi stregoni rincitrulliti che se la fanno dentro gli stivali?»
«Ma avrebbe avuto la possibilità di guadagnare tanto!» ragionò Kitiara, facendo del suo meglio per parlare con lo stesso tono di voce di Lord Soth. Rabbrividendo, raccolse una vestaglia di pelliccia che giaceva ai piedi del suo letto e se la buttò intorno alle spalle. «Gli avevano promesso- la guida delle Vesti Nere. Dopo di che, era certo di prendere il posto di Par-Salian come Capo del Conclave, indiscusso Maestro della magia su Krynn.»
E tu avresti conosciuto altre ricompense, Elfo Scuro, aggiunse Kitiara in silenzio, versandosi un bicchiere di vino rosso. Una volta che quel folle di mio fratello fosse stato sconfitto, nessuno sarebbe stato in grado di fermarti. E i nostri piani? Tu avresti regnato con lo scettro, io con la spada.
Avremmo potuto mettere in ginocchio i cavalieri! Avremmo cacciato gli elfi dalle loro terre natie, la tua terra natia! Tu saresti tornato da trionfatore, mio caro, ed io sarei stata al tuo fianco!
Il bicchiere di vino le scivolò dalla mano. Cercò di riafferrarlo... Ma la sua stretta fu troppo affrettata, la sua morsa troppo forte. Il fragile bicchiere le si infranse tra le mani, tagliandole la pelle. Il sangue si mischiò al vino che sgocciolò sul tappeto.
Le cicatrici riportate in molte battaglie solcavano il corpo di Kitiara, come le mani dei suoi amanti.
Aveva sopportato le sue ferite senza battere ciglio, la maggior parte senza neanche un sussurro. Ma adesso i suoi occhi si riempirono di lacrime. Il dolore le pareva insopportabile.
Accanto a lei c’era un catino. Kitiara affondò la mano nell’acqua fredda, mordendosi il labbro per impedirsi di urlare. L’acqua divenne subito rossa.
«Fa’ venire uno dei chierici!» ringhiò, rivolta a Lord Soth, il quale era rimasto immobile, fissandola con occhi guizzanti. Il Cavaliere della Morte andò alla porta e chiamò un servitore che subito si allontanò. Imprecando fra i denti, sbattendo le palpebre per ricacciare le lacrime, Kitiara afferrò un asciugamano e se lo avvolse intorno alla mano. Quando finalmente il chierico arrivò inciampando per la fretta nelle lunghe vesti nere, l’asciugamano era completamente inzuppato di sangue, e il volto di Kitiara era cinereo sotto la pelle abbronzata.
Il medaglione del Drago a Cinque Teste sfiorò la mano di Kit quando il chierico si chinò sopra di essa, mormorando una preghiera alla Regina delle Tenebre. Ben presto la pelle ferita tornò a chiudersi, il sangue cessò di sgocciolare.
«I tagli non erano profondi. Non dovrebbe esserci nessun danno permanente,» dichiarò il chierico, sforzandosi di rassicurarla.
«Una buona cosa per te!» ribatté Kitiara, seccamente, sempre lottando contro quell’irragionevole debolezza che l’aveva aggredita. «È la mano con cui reggo la spada!»
«Brandirai la lama con la tua abituale facilità e destrezza, posso assicurarlo a Vossignoria,» rispose il chierico. «Ci sarà...»
«No! Esci!»
«Mia signora,» fece il chierico, inchinandosi. «Signor Cavaliere...» e lasciò la stanza.
Restìa a incontrare gli occhi fiammeggianti di Lord Soth, Kitiara evitò di tenere la testa rivolta verso il Cavaliere della Morte, seguendo con lo sguardo le vesti svolazzanti del chierico che stavano scomparendo oltre il vano della porta, la fronte corrugata.
«Che sciocchi! Detesto averli intorno. Comunque, suppongo che tornino utili di tanto in tanto!»
Nonostante si fosse perfettamente rimarginata, la mano le faceva ancora male. È tutto nella mia mente, si disse amaramente. «Ora... che cosa ti proponi di fare a proposito... a proposito dell’elfo scuro?» Prima che Lord Soth potesse risponderle, Kitiara era in piedi e si mise a chiamare a gran voce il servo.
«Pulisci questo pasticcio. E portami un altro bicchiere!». Colpì in viso l’uomo tremante. «Uno dei calici d’oro, stavolta. Sai che detesto questi oggetti fragili fatti dagli elfi! Falli sparire dalla mia vista! Buttali via!»
«Buttarli via?» Il servo azzardò una protesta. «Ma sono preziosi, signora. Arrivano dalla Torre della Grande Stregoneria di Palanthas, dono di...»
«Ho detto di sbarazzartene!». Afferrandoli, Kitiara fracassò i calici l’uno dopo l’altro contro la parete della sua stanza. Il servo si fece piccolo, piccolo, chinandosi per evitare i calici di vetro che gli passavano sibilando sopra la testa, andando a frantumarsi contro la pietra. Quando l’ultimo dei calici ebbe lasciato le sue dita, Kitiara si sedette su una poltrona in un angolo tenendo lo sguardo fisso davanti a sé, senza più muoversi né parlare. Il servo si affrettò a spazzare via i vetri rotti dal pavimento, vuotò l’acqua insanguinata nel bacile per l’acqua sporca, e se ne andò. Quando fece ritorno, Kitiara non si era ancora mossa. E neppure Lord Soth. Il Cavaliere della Morte era rimasto immobile al centro della stanza, con gli occhi che luccicavano nella penombra notturna che si andava addensando nella stanza.
«Devo accendere le candele, signora?» chiese il servo con voce sommessa, posando una bottiglia di vino e un calice d’oro.
«Esci!» gli intimò Kitiara attraverso le labbra irrigidite.
Il servo s’inchinò e se ne andò, chiudendosi la porta alle spalle.
Avanzando con passi silenziosi, il Cavaliere della Morte attraversò la stanza. Si fermò accanto a Kitiara, ancora immobile e in apparenza incapace di vedere, le appoggiò una mano sulla spalla.
Kitiara sussultò al tocco di quelle dita invisibili, il loro gelo le penetrò fino al cuore. Ma non si ritrasse.
«Bene,» disse di nuovo, contemplando la stanza, la cui unica fonte di luce era adesso costituita dagli occhi fiammeggianti del Cavaliere della Morte. «Ti ho fatto una domanda. Cosa dobbiamo fare per impedire a Dalamar e a mio fratello di fare questa pazzia? Cosa dobbiamo fare prima che la Regina delle Tenebre ci distrugga tutti?»
«Devi attaccare Palanthas,» disse Lord Soth.
«Credo che sia realizzabile,» mormorò Kitiara, soprappensiero, battendosi l’elsa della spada contro la coscia.
«Davvero ingegnoso, mia signora,» dichiarò il comandante delle sue forze. L’ammirazione espressa dalla sua voce era genuina.
Il comandante, un umano di quasi quarant’anni, si era aperto la strada attraverso i vari gradi artigliando, graffiando e assassinando, fino ad arrivare alla sua attuale posizione, Generale degli Eserciti dei Draghi. Curvo e sgraziato, sfigurato da una cicatrice che gli correva come una sferzata da un lato all’altro del volto, il comandante non aveva mai assaporato i favori goduti nel passato da tanti altri capitani di Kitiara. Ma non era senza speranza. Lanciando un’occhiata in direzione di Kitiara, vide la sua faccia, insolitamente fredda e severa durante quegli ultimi giorni, illuminarsi di piacere a quelle parole di lode. Si degnò perfino di sorridergli, quel sorriso furfantesco che sapeva usare così bene. Il cuore del comandante batté più rapido.
«È bello vedere che non hai perso il tuo tocco,» commentò Lord Soth. La sua voce cavernosa echeggiò nella stanza delle mappe.
Il comandante rabbrividì. Ormai avrebbe dovuto essersi abituato al Cavaliere della Morte. Lo sapeva la Regina Scura, se non aveva combattuto abbastanza battaglie con lui e le sue truppe di guerrieri scheletrici. Ma un gelo di tomba circondava il cavaliere, così come il suo mantello nero avvolgeva la sua armatura carbonizzata e chiazzata di sangue.
Come fa a sopportarlo? si chiese il comandante. Dicono che infesti perfino la sua camera da letto!
Questo pensiero fece tornare rapidamente alla normalità il battito del cuore del comandante. Forse, dopotutto, le schiave non erano poi così male. Per lo meno, quando si era soli con loro al buio, si era soli con loro al buio!
«Naturalmente, non ho perso il mio tocco!» replicò Kitiara, con tanta ferocia rabbiosa che il comandante si guardò intorno inquieto, affrettandosi a inventare una scusa per andarsene.
Fortunatamente, con l’intera città di Sanction che si stava preparando alla guerra, non era difficile trovare delle scuse.
«Se non ha più bisogno di me, mia signora,» disse il comandante inchinandosi, «devo controllare i lavori in armeria. C’è molto da fare, e il tempo scarseggia.»
«Sì, vai pure,» borbottò Kitiara con fare assente, gli occhi sulla gigantesca mappa intarsiata nelle piastrelle del pavimento sotto i suoi piedi. Voltandosi, il comandante fece per andarsene, Io spadone sferragliò contro la sua armatura. Alla porta, tuttavia, la voce della sua signora lo fermò.
«Comandante!»
Si voltò. «Mia signora?»
Kitiara fece per dire qualcosa, si fermò, si morse il labbro, poi riprese: «Mi... mi stavo chiedendo se non ti spiacerebbe cenare con me stasera.» Scrollò le spalle. «Ma è tardi per chiederlo. Suppongo che tu abbia già fatto altri piani.»
Il comandante esitò, confuso. Il palmo delle sue mani cominciò a sudare. «A dire il vero, mia signora, ho un precedente impegno, ma potrei facilmente cambiarlo...»
«No,» disse Kitiara, con un’espressione di sollievo sul volto. «No, non sarà necessario. Qualche altra sera. Puoi andare.»
Il comandante, ancora perplesso, si girò lentamente e ancora una volta fece per lasciare la stanza.
Mentre lo faceva, intravide gli ardenti occhi arancione del Cavaliere della Morte che lo trapassavano da parte a parte con il loro sguardo.
Adesso doveva trovarsi davvero un impegno per la cena, pensò, mentre si affrettava lungo il corridoio. Era abbastanza facile. Avrebbe mandato a chiamare una delle giovani schiave per la notte, la sua favorita...
«Dovresti rilassarti, concederti una serata di piacere,» stava intanto dicendo Lord Soth, mentre i passi del comandante svanivano in fondo al corridoio, lì nel quartier generale di Kitiara.
«C’è molto da fare, e poco tempo per farlo,» rispose Kitiara, fingendo di essere completamente assorta nello studio della mappa sotto i suoi piedi. Era ancora immobile sopra il punto contrassegnato «Sanction», lo sguardo fisso sul lontano angolo di nordovest della stanza, là dove era indicata Palanthas annidata nella fenditura tra le montagne che la proteggevano.
Seguendo il suo sguardo, Lord Soth percorse lentamente la distanza, fermandosi sull’unico passo che attraversava quelle montagne impervie, un punto contrassegnato «Torre del Sommo Chierico».
«I Cavalieri cercheranno di fermarti su questo punto, naturalmente,» disse Lord Soth. «Là dove ti hanno fermato durante l’ultima guerra.»
Kitiara sogghignò, e scosse la testa facendo ricadere intorno a sé i capelli riccioluti, e andò verso Lord Soth. Il suo agile passo era di nuovo spavaldo. «Sarà proprio un bello spettacolo. Tutti quei graziosi cavalieri disposti in fila.» D’un tratto, sentendosi meglio di quanto non si sentisse più da mesi, Kitiara scoppiò a ridere. «T’immagini l’espressione delle loro facce quando vedranno quello che abbiamo in serbo per loro? Varrà quasi quanto aver intrapreso l’intera campagna.»
Calpestò la Torre del Sommo Chierico, sbriciolandola sotto il proprio tacco, poi fece qualche rapido passo, fermandosi accanto a Palanthas.
«Finalmente,» mormorò, «la bella, incantevole signora sentirà la spada della guerra aprirle la pelle morbida e matura...». Sorridendo, tornò a voltarsi verso Lord Soth. «Malgrado tutto, credo proprio di volere il comandante a cena con me, stasera. Fallo chiamare.» Lord Soth eseguì un inchino, mostrando il suo tacito consenso. I suoi occhi arancione fiammeggiarono divertiti. «Abbiamo molte questioni militari da discutere.» Kitiara scoppiò in un’altra risata, mentre cominciava a sfibbiarsi le cinghie dell’armatura. «Questi miei fianchi indifesi, brecce nelle mura, stoccata, e penetrazione...»
«Adesso calmati, Tanis,» disse Lord Gunthar, benevolmente. «Sei sovreccitato.»
Tanis Mezzelfo borbottò qualcosa.
«Cos’hai detto?» Gunthar si voltò, stringendo nella mano un boccale della sua birra migliore (spillata da un barile nell’angolo buio accanto alla scala delle cantine.) Porse la birra a Tanis.
«Ho detto che hai maledettamente ragione a dire che sono sovreccitato!» sbottò il Mezzelfo, il che non era affatto ciò che aveva detto prima, ma certamente era più appropriato, quando si parlava con il capo dei Cavalieri di Solamnia, paragonato a ciò che aveva veramente detto.
Lord Gunthar uth Wistan si accarezzò i lunghi baffi, da secoli simbolo dei Cavalieri e che adesso erano ritornati assai di moda, dissimulando il suo sorriso. Ovviamente, aveva sentito benissimo quello che Tanis aveva detto all’inizio. Gunthar scosse la testa. Perché mai quella faccenda non era stata subito comunicata ai militari? Adesso, oltre a doversi preparare per quell’insignificante riaccendersi di forze nemiche indubbiamente frustrate, doveva trattare con gli apprendisti stregoni dalle Vesti Nere, i chierici dalle Vesti Bianche, eroi nervosi, e perfino un bibliotecario! Gunthar sospirò e si tiro i baffi con aria cupa. Adesso, gli mancava soltanto un kender, e poi...
«Tanis, amico mio, siediti. Riscaldati al fuoco. Hai fatto un lungo viaggio, e fa freddo per essere primavera avanzata. I marinai parlano di venti dominanti o di qualche altra sciocchezza del genere.
Il tuo viaggio è stato buono, spero. Non mi spiace dirti che preferisco i grifoni ai draghi...»
«Lord Gunthar,» esclamò Tanis con voce tesa, rimanendo in piedi, «non ho volato fino a Sancrist per discutere di venti dominanti e neppure dei meriti dei grifoni rispetto a quelli dei draghi! Siamo in pericolo! E non soltanto Palanthas, ma il mondo intero! Se Raistlin dovesse avere successo...»
Tanis strinse il pugno. Le parole gli vennero meno.
Dopo aver riempito il proprio boccale dalla caraffa che Wills, il suo vecchio servitore, aveva portato su dalla cantina, Gunthar si avvicinò, fermandosi accanto al mezzelfo. Appoggiando la mano sulla spalla di Tanis, fece girare l’uomo verso di sé.
«Sturm Brightblade parlava molto bene di te, Tanis. Tu e Laurana eravate gli amici più vicini che avesse.»
A queste parole, Tanis chinò la testa. Perfino adesso, più di due anni dopo la morte di Sturm, non poteva pensare alla scomparsa del suo amico senza provare dolore.
«Ti avrei grandemente stimato sulla base di quella sola raccomandazione, poiché amavo e rispettavo Sturm come uno dei miei figli,» continuò Lord Gunthar con foga. «Ma ho imparato ad ammirarti e ad apprezzarti io stesso, Tanis. Il tuo coraggio in battaglia è indiscusso, il tuo onore e la tua nobiltà degni di un Cavaliere.» Tanis scosse la testa irritato a tutti quei discorsi di onore e nobiltà, ma Gunthar non se ne accorse. «Gli onori che ti sono stati accordati alla fine della guerra li hai più che meritati. Il tuo operare, da quando la guerra è finita, è stato eccellente. Tu e Laurana avete unito nazioni che erano rimaste separate per secoli. Porthios ha firmato il trattato e, una volta che i nani di Thorbardin avranno scelto un nuovo re, firmeranno anche loro.»
«Grazie, Lord Gunthar,» disse Tanis, reggendo in mano il suo boccale di birra ancora intatto e fissando il fuoco. «Grazie per le tue lodi. Vorrei sentire di essermele guadagnate. Adesso, se vuoi dirmi dove conduce questa pista mielata...»
«Vedo che sei molto più umano di quanto tu sia elfo,» dichiarò Lord Gunthar, con un lieve sorriso.
«Molto bene, Tanis: salterò le amenità elfiche e andrò dritto al punto. Credo che le tue passate esperienze ti abbiano reso nervoso... tu ed Elistan, tutti e due. Siamo onesti, amico mio. Tu non sei un guerriero: non sei mai stato addestrato come tale. Sei inciampato per caso in questa guerra.
Adesso vieni con me. Voglio farti vedere qualcosa. Vieni, vieni...»
Tanis appoggiò il boccale ancora pieno sulla mensola del caminetto e si lasciò condurre dalla forte mano di Gunthar. Attraversarono la stanza, che era piena dei mobili solidi, semplici, ma confortevoli preferiti dai Cavalieri. Quella era la stanza da guerra di Gunthar: alle pareti erano montati scudi e spade, insieme agli stendardi dei tre Ordini dei Cavalieri: la Rosa, la Spada, e la Corona. Trofei di battaglie combattute nel corso degli anni luccicavano nelle bacheche dove venivano accuratamente conservati. Al posto d’onore, coprendo l’intera lunghezza della parete, c’era una dragonlance, la prima che Theros Ironfeld aveva forgiato. Intorno a essa erano disposte parecchie spade dei goblin, una lama dai denti di sega, d’un draconico, dall’aspetto malevolo, una gigantesca spada a doppia lama di un orco, e la spada spezzata che era appartenuta allo sventurato cavaliere Derek Crownguard.
Era uno spiegamento di grande effetto, che testimoniava una vita onorata al servizio dei Cavalieri.
Però Gunthar passò oltre senza neanche un’occhiata, diretto a un lato della stanza dov’era un grande tavolo. Delle mappe arrotolate erano infilate in bell’ordine in tanti piccoli scomparti sotto il tavolo e ogni scomparto era diligentemente etichettato. Dopo averli scrutati per qualche istante, Gunthar protese una mano verso il basso, tirò fuori una mappa e la distese sulla superficie del tavolo. Fece segno a Tanis di avvicinarsi. Il mezzelfo si accostò, grattandosi la barba e sforzandosi di apparire interessato.
Gunthar si sfregò le mani soddisfatto. Adesso si trovava nel suo elemento. «È una questione di logistica, Tanis. Pura e semplice. Guarda, qui ci sono gli eserciti della Signora dei Draghi, imbottigliati a Sanction. Ora, ammetto che la Signora dei Draghi è forte: Kitiara dispone di un grande numero di draconici, goblin, e umani, i quali non vedono l’ora che la guerra ricominci. E devo anche ammettere che le nostre spie hanno riferito di un aumento di attività a Sanction. La Signora dei Draghi sta combinando qualcosa. Ma attaccare Palanthas! Nel nome dell’Abisso, Tanis, guarda quanto territorio dovrebbe coprire! E la maggior parte di esso è controllato dai Cavalieri! E anche se avesse le forze sufficienti per superarlo, guarda quanto dovrebbero estendersi le linee per i suoi rifornimenti! Ci vorrebbe il suo intero esercito soltanto per proteggere quelle linee. Potremmo interromperle facilmente in qualsiasi punto.»
Gunthar si tirò di nuovo i baffi. «Tanis, se c’era un Signore in quell’esercito che ho imparato a rispettare, quello era Kitiara. E spietata e ambiziosa, ma è anche intelligente, e certamente non è portata a correre rischi inutili. Ha aspettato due anni, per ricostruire i suoi eserciti, fortificandosi in un luogo dove sa che non osiamo attaccarla. Ha guadagnato troppo, per buttarlo via con un piano avventato come questo.»
«Supponi che non sia questo il suo piano,» borbottò Tanis.
«Quali altri piani potrebbe mai avere, Kitiara?» chiese Gunthar, paziente.
«Non lo so,» sbottò Tanis. «Tu hai detto che la rispetti... ma la rispetti abbastanza? La temi abbastanza? Io la conosco, e ho la netta sensazione che abbia in mente qualcosa...». La sua voce si spense, e puntò gli occhi sulla mappa, inarcando le sopracciglia.
Lord Gunthar rimase in silenzio. Aveva sentito delle strane voci su Tanis Mezzelfo e questa Kitiara.
Non aveva voluto crederci, naturalmente, ma sentiva che sarebbe stato meglio non continuare ulteriormente questo discorso su quanto fosse profonda la conoscenza che il mezzelfo aveva di quella donna.
«Tu non ci credi, vero?» gli chiese Tanis all’improvviso. «Neanche un po’.»
Movendosi a disagio, Gunthar si lisciò i lunghi baffi grigi e, chinandosi sopra il tavolo, cominciò ad arrotolare la mappa usando estrema cautela. «Tanis, figlio mio, tu sai quanto ti rispetti...»
«Ne abbiamo già parlato.»
Gunthar ignorò l’interruzione. «E sai anche che non c’è nessuno al mondo per cui non abbia una reverenza più profonda di quanta ne ho per Elistan. Ma, poi, voi due mi venite a riferire una storia che vi è stata raccontata da una delle Vesti Nere, e un elfo scuro per giunta, una storia su questo stregone Raistlin, il quale entra nell’Abisso e sfida la Regina delle Tenebre! Be’, mi spiace, Tanis.
Non sono più un giovanotto, questo è certo. Ho visto molte cose strane nella mia vita. Ma questa mi sembra una di quelle storie che si raccontano ai bambini la sera per farli addormentare!»
«Così dicevano dei draghi,» mormorò Tanis. Il suo volto s’ imporporò sotto la barba. Si raddrizzò e per un momento rimase a testa china poi, grattandosi la barba, fissò intensamente Gunthar. «Mio signore, ho visto crescere Raistlin. Ho viaggiato con lui, ho combattuto sia con lui sia contro di lui.
So di che cosa è capace quell’uomo!». Tanis afferrò il braccio di Gunthar. «Se non vuoi accettare il mio consiglio, allora accetta quello di Elistan! Abbiamo bisogno di te, Lord Gunthar! Abbiamo bisogno di te, abbiamo bisogno dei Cavalieri. Devi rinforzare la Torre del Sommo Chierico.
Abbiamo poco tempo. Dalamar ci dice che il tempo non ha nessun significato sui piani dell’esistenza della Regina delle Tenebre. Là, Raistlin potrebbe combattere contro di lei per mesi, perfino per anni, ma a noi sembrerebbero soltanto giorni. Dalamar crede che il ritorno del suo Maestro sia imminente. Io gli credo, come pure Elistan. E perché mai gli crediamo, Lord Gunthar?
Perché Dalamar ha paura. E spaventato, e anche noi lo siamo.
«Le tue spie ti hanno detto che c’è un’insolita attività a Sanction. Certamente questa è una prova più che sufficiente! Credimi, Lord Gunthar: Kitiara aiuterà suo fratello. Sa che lui la insedierà come sovrana del mondo, se dovesse aver successo. E lei ama a sufficienza il gioco da rischiare tutto per una simile possibilità! Per favore, Lord Gunthar, se non vuoi ascoltarmi, per lo meno vieni a Palanthas! Parla con Elistan!»
Lord Gunthar studiò il mezzelfo davanti a lui con attenzione. Il capo dei Cavalieri era arrivato a occupare quella posizione perché era, fondamentalmente, un uomo giusto e onesto. Era anche un acuto giudice del carattere di una persona. Aveva ammirato e apprezzato il mezzelfo sin da quando l’aveva incontrato dopo la fine della guerra. Ma non era mai riuscito ad avvicinarsi a lui. Tanis aveva un’aria riservata, poco espansiva, che permetteva a pochi di attraversare la barriera da lui eretta.
Adesso, guardandolo, Gunthar si sentì più vicino a lui di quanto si fosse mai sentito prima. Vedeva saggezza in quegli occhi lievemente obliqui, una saggezza che non era stata conquistata facilmente, una saggezza che veniva dal dolore e dalla sofferenza interiori. Vide paura, la paura di qualcuno il cui coraggio è talmente parte integrante del suo essere, da renderlo pronto ad ammettere di avere paura. Vide in lui un capo di uomini. Non soltanto un uomo che agita una spada e guida una carica in battaglia, ma un vero capo, che comanda in silenzio, tirando fuori il meglio dalla gente, aiutandola a compiere cose che essa stessa non avrebbe mai creduto possibili.
E, finalmente, Gunthar comprese qualcosa che non era mai stato capace di penetrare: la saggezza in quegli occhi obliqui gli fece capire perché
Sturm Brightblade, la cui linea del sangue risaliva immacolata per molte generazioni, aveva scelto di seguire quel bastardo di mezzelfo il quale, se le voci erano vere, era il frutto d’uno stupro brutale.
Ora seppe perché Laurana, una principessa elfa, e una delle più forti e più belle donne che avesse mai conosciuto, aveva rischiato tutto, perfino la sua vita, per amore di quell’uomo.
«Molto bene, Tanis.» Il volto severo di Lord Gunthar si rilassò, i toni freddi e cortesi della sua voce si fecero più caldi. «Tornerò a Palanthas insieme a te. Mobiliterò i Cavalieri e predisporremo le nostre difese alla Torre del Sommo Chierico. Come ti ho già detto, le nostre spie mi hanno informato che a Sanction c’è un’insolita attività. Non farà male ai Cavalieri uscir fuori. È passato molto tempo dall’ultima volta che abbiamo fatto un’esercitazione sul campo.»
Presa la decisione, Lord Gunthar procedette subito ad accendere la casa di febbrile attività, chiamando a gran voce Wills, il suo servitore, urlando che gli portassero l’armatura, che affilassero la sua spada, che sellassero il suo grifone. Ben presto i servitori svolazzavano qua e là, la signora sua moglie entrò, mostrandosi rassegnata, e insistette perché Gunthar mettesse nello zaino il suo mantello pesante imbottito di pelliccia, anche se era ormai imminente la festa dell’Alba di Primavera.
Dimenticato da tutti in quella confusione, Tanis tornò accanto al caminetto, raccolse il suo boccale di birra, e si sedette per goderselo. Ma, malgrado tutto, non lo gustò. Fissando le fiamme, vide ancora una volta un sorriso accattivante e furfantesco, dei capelli riccioluti...
Capitolo sesto.
Crysania non aveva nessuna idea di quanto tempo fosse passato da quando Raistlin la faceva viaggiare in quella terra dell’Abisso distorta e tinta di rosso. Il tempo cessava di avere un qualsivoglia significato o rilevanza. Talvolta pareva che si trovassero lì soltanto da pochi istanti, talvolta aveva l’impressione di aver percorso quel terreno estraneo e mutevole per molti, faticosi anni. Aveva guarito se stessa dal veleno, ma si sentiva debole, svuotata. I graffi sulla sua pelle non volevano rimarginarsi. Ogni giorno li fasciava con bende fresche. Alla sera, erano nuovamente inzuppate di sangue.
Aveva fame, ma non era una fame che richiedesse cibo per sostentare la vita, quanto la bramosia famelica di assaporare delle fragole, oppure un boccone di pane appena cotto, oppure una fogliolina di menta. Non sentiva neppure la sete, eppure sognava l’acqua che scorreva limpida e il vino gorgogliante e l’aroma piccante del tè speziato. In quella terra, tutta l’acqua era color rosso-bruno e odorava di sangue.
Eppure, non facevano nessun progresso. Per lo meno così diceva Raistlin, il quale pareva diventare sempre più forte a mano a mano che Crysania diventava più debole. Non erano poche le volte che Raistlin aiutava lei a camminare, adesso. Era lui che la sollecitava a proseguire senza sosta, attraverso una città dopo l’altra, sempre più vicini, così diceva lui, a Godshome. I villaggi di quella terra di sotto che parevano l’uno lo specchio dell’altro si fondevano insieme nella mente di Crysania:
Que-Shu, Xak Tsaroth. Attraversarono il Nuovo Mare dell’Abisso, un viaggio orrendo. Guardando dentro l’acqua, Crysania vide i volti pieni di orrore di tutti i morti nel Cataclisma che la fissavano.
Approdarono in un luogo che secondo Raistlin era Sanction. Qui Crysania si sentì debole al massimo, poiché Raistlin le disse che quello era il centro dell’adorazione dei seguaci della Regina delle Tenebre. I suoi templi erano costruiti molto al di sotto delle montagne conosciute come i Signori del Destino. Raistlin disse che qui, durante la Guerra, erano stati celebrati i riti del male che avevano trasformato i cuccioli non usciti dal guscio dei draghi buoni in draconici... nei fetidi e deformi draconici.
Per un lungo periodo non successe loro nient’altro, o forse si trattò soltanto di un attimo. Nessuno guardava Raistlin con le sue vesti nere più di una volta, e nessuno guardò Crysania, del tutto.
Avrebbe potuto benissimo essere invisibile. Passarono facilmente attraverso Sanction. Raistlin cresceva in forza e in fiducia. Disse a Crysania che adesso erano vicini. Godshome era situata in qualche punto a nord dei monti Khalkist.
Come Raistlin riuscisse a stabilire una qualunque direzione in quella terra arcana e spaventevole, andava al di là delle capacità di comprensione di Crysania. Lì non c’era niente a guidarli, né il sole, né le lune, né le stelle. Non era mai veramente notte né mai veramente giorno, c’era soltanto un desolante colore rossastro intermedio. Crysania stava pensando a questo, trascinandosi a fatica accanto a Raistlin, senza guardare dove stavano andando, dal momento che, comunque, tutto pareva uguale, quando, all’improvviso, l’arcimago si fermò. Percependo l’accelerarsi del suo respiro e il suo irrigidirsi, Crysania sollevò lo sguardo allarmata.
Un uomo di mezza età, dalle vesti bianche d’insegnante, stava venendo verso di loro lungo la strada...
«Ripetete le parole dopo di me, ricordando di dar loro la giusta inflessione.» Lentamente ripetè le parole. Lentamente, anche la classe le ripetè. Tutti, meno uno.
«Raistlin!»
La classe si azzittì.
«Maestro?». Raistlin non si preoccupò di nascondere una nota beffarda nella voce, quando pronunciò la parola.
«Non ti ho visto muovere le labbra.»
«Forse perché non si sono mosse, Maestro,» rispose Raistlin. Se qualcun altro nella classe di giovani usufruitori di magia avesse fatto una simile osservazione, gli allievi si sarebbero messi a ridacchiare. Ma essi sapevano che Raistlin provava per loro l’identico disprezzo che provava il Maestro, e così si limitarono a fissarlo furiosi, agitandosi a disagio ; loro sedie.
«Conosci l’incantesimo, non è vero, apprendista?» Certo che lo conosco,» rispose Raistlin, in tono secco. «Lo conoscevo quando avevo sei anni, Lei, quando l’ha appreso? Stanotte?» Il Maestro lo fissò furente, rosso in faccia per la collera. «Questa volta sei andato troppo in là, apprendista! Mi hai insultato una volta di troppo!» La classe, all’occhiata di Raistlin, si dileguò in un attimo. Rimase solo il Maestro e, mentre Raistlin guardava, le vesti bianche del suo vecchio insegnante diventarono nere! La sua stupida faccia obesa si contorse diventando malevola e astuta. Un ciondolo di ematite comparve, appesa al suo collo. . «Fistandantilus!» rantolò Raistlin.
«C’incontriamo di nuovo, apprendista. Ma adesso, dov’è la tua magia?». Lo stregone scoppiò a ridere. Sollevò una mano rattrappita ed accennò ad afferrare il ciondolo di ematite. Raistlin si sentì afferrare dal panico. Sì, dov’era la sua magia? Era scomparsa. Le mani gli tremarono. Le parole degli incantesimi gli turbinarono nella mente, per scivolargli via prima che riuscisse ad afferrarle.
Una palla di fuoco comparve tra le mani di Fistandantilus. Raistlin soffocò per la paura.
Il Bastone! pensò all’improvviso. Il Bastone di Magius. Certamente la magia del Bastone non poteva venire influenzata! Sollevando il Bastone e tenendolo davanti a sé, lo invocò per farsi proteggere. Ma il Bastone cominciò a contorcersi e a divincolarsi tra le sue mani. «No!» gridò Raistlin, per il terrore e la rabbia. «Obbedisci al mio ordine! Obbedisci!» Il Bastone gli si attorcigliò intorno al braccio, e non era più un bastone, ma un enorme serpente. Zanne luccicanti affondarono nelle sue carni. Urlando, Raistlin cadde in ginocchio, cercando disperatamente di liberarsi dal morso velenoso del Bastone. Ma, combattendo contro un nemico, si era dimenticato dell’altro. Udì delle parole che venivano salmodiate, avvolgendolo come l’intreccio d’una ragnatela, e sollevò lo sguardo intimorito. Fistandantilus era scomparso, ma al suo posto c’era un elfo scuro. L’elfo scuro contro il quale lui aveva combattuto nella battaglia finale della Prova. E poi l’elfo scuro si trasformò in Dalamar che gli scagliava addosso una palla di fuoco, e poi la palla di fuoco si trasformò in una spada con cui un nano privo di barba gli trafiggeva le carni. Le fiamme esplosero tutt’intorno a lui, l’acciaio gli penetrò dentro il corpo, le zanne gli affondarono dentro la pelle. Stava sprofondando... sprofondando nel buio, quando venne all’improvviso inondato da una luce bianca, avvolto da vesti bianche e tenuto stretto a un seno morbido e caldo...
E sorrise, poiché sapeva, dai sussulti del corpo che lo proteggeva e dalle sommesse grida di angoscia, che le armi stavano colpendo lei, e non lui.
Capitolo settimo.
«Lord Gunthar!» esclamò Amothus, Signore di Palanthas, alzandosi in piedi. «Un piacere inaspettato. E anche tu, Tanis Mezzelfo. Suppongo che siate qui entrambi per progettare la celebrazione della Fine dell’Anno. Sono così contento! Potremo, in tal modo, cominciare in anticipo quest’anno. Io, vale a dire il comitato e io, riteniamo...»
«Sciocchezze,» lo interruppe Lord Gunthar con voce squillante, aggirandosi nella sala per le udienze di Amothus e giudicandola con occhio critico, già calcolando, nella sua mente, quello che ci sarebbe voluto per fortificarla, se fosse risultato necessario. «Siamo qui per discutere la difesa della città.»
Lord Amothus guardò il cavaliere, che stava scrutando fuori dalle finestre e borbottava tra sé, sbattendo le palpebre. A un certo punto, Lord Gunthar si voltò e sbottò: «Troppo vetro!». Una dichiarazione che aumentò la confusione di Amothus a un punto tale che riuscì soltanto a balbettare qualche parola di scusa per poi fermarsi, impotente, al centro della sala.
«Ci stanno attaccando?» si azzardò a chiedere, esitante, dopo qualche altro istante di esplorazione da parte di Gunthar.
Lord Gunthar scoccò a Tanis un’occhiata tagliente. Con un sospiro, Tanis ricordò cortesemente a Lord Amothus l’ammonimento dell’elfo scuro, Dalamar... la probabilità che la Signora dei Draghi, Kitiara, progettasse di entrare a Palanthas per aiutare suo fratello Raistlin, Maestro della Torre della Grande Stregoneria, nella sua lotta contro la Regina delle Tenebre.
«Oh, sì!». Il volto di Lord Amothus si schiarì. Agitò una mano delicata, in un gesto deprecatorio, come per cacciare via dei moscerini. «Ma non credo che tu ti debba preoccupare per Palanthas, Lord Gunthar. La Torre del Sommo Chierico...»
«... è presidiata. Raddoppierò le forze che la difendono. È là che verrà sferrato l’attacco principale, naturalmente, non c’è nessun altro modo per accedere a Palanthas salvo per mare, dal nord, e noi dominiamo i mari. Sì, arriverà per via di terra. Però, Amothus, se le cose dovessero andare storte, voglio che Palanthas sia pronta a difendersi. Adesso...»
Essendo balzato in sella al cavallo dell’azione, per così dire, Gunthar si lanciò alla carica.
Scavalcando ogni rimostranza borbottata da Lord Amothus, che forse avrebbe dovuto discuterne con i suoi generali, Gunthar proseguì al galoppo e ben presto lasciò Amothus a soffocare nella polvere, tra la ridistribuzione delle truppe, la requisizione dei rifornimenti, dei depositi segreti di armi, e mille altre cose del genere. Amothus era disorientato. Si sedette, assunse un’espressione di cortese interesse, e subito cominciò a pensare a qualcos’altro. Comunque, erano tutte sciocchezze.
Palanthas non era mai stata toccata da una sola battaglia. Per prima cosa, gli eserciti avrebbero dovuto superare la Torre del Sommo Chierico, e nessuno, neppure i più grandi eserciti dei draghi dell’ultima guerra, c’era riuscito.
Tanis, osservando tutto questo, e sapendo benissimo quello che Amothus stava pensando, dette in un cupo sorriso fra sé e sé, e stava giusto cominciando a pensare a come anche lui avrebbe potuto sfuggire a quell’attacco travolgente quando si udì un sommesso bussare alle grandi porte adorne di sculture. Con l’espressione di qualcuno che sente le trombe della legione inviata in suo soccorso, Amothus balzò in piedi, ma prima che potesse dire una sola parola, le porte si spalancarono ed entrò un anziano servitore.
Charles era stato al servizio della Real Casa di Palanthas per più di mezzo secolo. Non potevano far niente senza di lui, e lui lo sapeva. Sapeva tutto, dall’esatto numero delle bottiglie di vino in cantina a quali elfi dovevano sedersi accanto a quali altri durante la cena, a quando la biancheria era stata arieggiata l’ultima volta. Anche se era sempre dignitoso e rispettoso, c’era un’espressione sulla sua faccia la quale implicava che, quando lui fosse morto, si aspettava che la Real Casa crollasse addosso al suo padrone.
«Mi spiace disturbarla, mio signore...» cominciò Charles.
«Ma niente affatto!» gridò Lord Amothus, irradiando piacere. «Niente affatto. Prego...»
«... ma c’è un messaggio urgente per Tanis Mezzelfo,» terminò Charles, imperturbabile, con soltanto un lieve accenno di rimprovero nei confronti del suo padrone, per averlo interrotto.
«Oh!» Lord Amothus mostrò un’espressione vacua ed estremamente delusa. «Tanis Mezzelfo?»
«Sì, mio signore,» confermò Charles.
«Non per me?» azzardò come ultima risorsa Amothus, vedendo scomparire al di là dell’orizzonte la legione che avrebbe dovuto accorrere a soccorrerlo.
«No, mio signore.»
Amothus sospirò. «Molto bene. Grazie, Charles. Tanis, suppongo che farai meglio a...»
Ma Tanis aveva già attraversato mezza stanza.
«Cos’è? Non da Laurana...»
«Da questa parte, per favore, mio signore,» disse Charles, guidando Tanis fuori dalla porta. Ad un’occhiata di Charles, il mezzelfo si ricordò giusto in tempo di voltarsi e inchinarsi a Lord Amothus e a Gunthar. Il cavaliere sorrise e agitò la mano. Lord Amothus non riuscì ad astenersi dal lanciare a Tanis un’occhiata invidiosa, per ripiombare poi nell’ascolto di una lista di attrezzature indispensabili per l’olio bollente.
Charles, lentamente e con cura, chiuse la porta dietro di sé.
«Cosa c’è?» chiese Tanis, seguendo il servitore lungo il corridoio. «Il messaggero ha detto nient’altro?»
«Sì, mio signore.» Il volto di Charles si ammorbidì in un’espressione di gentile dolore. «Non dovevo rivelarlo, a meno che non fosse assolutamente necessario per liberarti dai tuoi impegni. Il Reverendo Figlio, Elistan, sta morendo. Non ci si aspetta che sopravviva alla notte.»
I preti del Tempio erano tranquilli e sereni alla morente luce del giorno. Il sole stava tramontando, non in un fiammeggiante splendore, ma avvolto in una morbida luminosità perlacea, riempiendo il cielo con un arcobaleno di colori delicati, quasi un’immensa conchiglia capovolta. Tanis, aspettandosi di trovare una folla di gente lì intorno, in attesa di notizie, con chierici vestiti di bianco che correvano avanti e indietro in preda alla confusione, rimase sorpreso nel constatare che tutto era calmo e ordinato. C’era gente che si riposava sul prato, come al solito, chierici vestiti di bianco passeggiavano accanto alle aiuole fiorite, parlando insieme a bassa voce, oppure, se erano soli, parevano immersi in silenziosa meditazione.
Forse il messaggero si sbagliava, o era stato male informato, pensò Tanis. Ma poi, mentre si affrettava ad attraversare quella distesa di vellutata erba verde, passò accanto a una giovane donna chierico che sollevò lo sguardo su di lui, e vide che i suoi occhi erano rossi e gonfi di pianto. Ma nondimeno gli sorrise, asciugando le tracce del suo dolore, mentre proseguiva per la sua strada.
E poi, Tanis ricordò che né Lord Amothus, sovrano di Palanthas, né Lord Gunthar, capo dei Cavalieri, erano stati informati. Il mezzelfo sorrise tristemente, all’improvviso capiva. Elistan moriva com’era vissuto, in tranquilla dignità.
Un giovane accolito incontrò Tanis alla porta del Tempio.
«Entra e sii il benvenuto, Tanis Mezzelfo,» gli disse l’uomo con voce sommessa. «Sei atteso. Vieni da questa parte.»
Le ombre fredde avvilupparono Tanis. All’interno del Tempio i segni del dolore erano evidenti. Un arpista suonava una dolce musica, i chierici si stringevano gli uni agli altri, cercando di consolarsi a vicenda nell’ora della prova. Anche gli occhi di Tanis si riempirono di lacrime.
«Ti siamo grati di essere tornato in tempo,» continuò l’accolito, scortando Tanis ancora più addentro nei recessi di quel Tempio tranquillo. «Temevamo che tu non potessi. Abbiamo dato la notizia dove abbiamo potuto, ma soltanto a coloro sui quali sapevamo di poter contare perché tenessero segreto il nostro grande dolore. È desiderio di Elistan che gli sia concesso di morire nella quiete e nella pace.»
Il mezzelfo annuì brusco, lieto che la sua barba nascondesse le lacrime. Non che ne avesse vergogna. Gli elfi venerano la vita al di sopra di qualunque altra cosa, considerandola il più sacro dei doni degli dei. Gli elfi non nascondono i propri sentimenti come invece fanno gli umani. Ma Tanis temeva che la vista del suo dolore potesse sconvolgere Elistan. Questi sapeva che la consapevolezza della sua morte imminente avrebbe causato un amarissimo dolore a coloro che rimanevano... e sarebbe stato l’unico rincrescimento di quel brav’uomo.
Tanis e la sua guida attraversarono una camera interna in cui si trovavano Garad e altri Reverendi Figli e Figlie, a testa china, rivolgendosi l’un l’altro parole di conforto. Al di là di essi una porta era chiusa. Lo sguardo di tutti era attirato da quella porta, e Tanis non ebbe alcun dubbio su chi si trovasse oltre a essa.
Sollevando lo sguardo nell’udire Tanis che entrava, lo stesso Garad attraversò la stanza per venire ad accogliere il mezzelfo.
«Siamo così contenti che tu sia potuto venire,» lo salutò con cordialità il vecchio elfo. Tanis riconobbe che era di Silvanesti, e doveva essere stato uno dei primi elfi convertiti alla religione che avevano, molto tempo addietro, dimenticato. «Temevamo che non potessi tornare in tempo.»
«Dev’essere stato improvviso,» mormorò Tanis, a disagio nella consapevolezza che la sua spada, che si era dimenticato di togliersi, sferragliava, risuonando aspra e forte in quell’ambiente tranquillo, immerso nel dolore. Vi batté sopra la mano.
«Sì, si è aggravato la notte dopo la tua partenza.» Garad sospirò. «Non so cosa sia stato detto in quella stanza, ma lo sconvolgimento è stato grande. Ha sofferto dolori terribili. Niente di ciò che potevamo fare è stato in grado di aiutarlo. Alla fine, Dalamar, l’apprendista dello Stregone,» Garad non potè fare a meno di corrugare la fronte, «è venuto al Tempio. Ha portato con sé una pozione che, così ha detto, avrebbe alleviato il dolore. Non riesco a immaginare come possa aver saputo ciò che stava accadendo. Strane cose accadono laggiù.» Guardò fuori dalla finestra là dove si ergeva la Torre, un’ombra scura che sfidava la luce sfavillante del sole, negandola.
«L’hai lasciato entrare?» gli chiese Tanis, sorpreso.
«Avrei rifiutato,» disse Garad, cupo, «ma Elistan aveva dato ordine che gli fosse consentito l’accesso. E devo ammettere che la sua pozione ha avuto effetto. Il dolore ha lasciato il nostro Maestro, e gli sarà concesso il diritto di morire in pace.»
«E Dalamar?»
«È dentro. Non si è più mosso né ha parlato da quando è entrato, ma è rimasto seduto, silenzioso, in un angolo. Eppure la sua presenza sembra confortare Elistan, e così gli permettiamo di rimanere.»
Vorrei proprio vedere cosa accadrebbe se tentaste di farlo andar via, pensò Tanis dentro di sé, ma non disse nulla. La porta si aprì. I presenti sollevarono lo sguardo intimoriti, ma era soltanto l’adepto che aveva bussato sommessamente e ora stava conferendo con qualcuno sull’altro lato. Si voltò e fece un gesto a Tanis.
Il mezzelfo entrò nella piccola stanza, ammobiliata con semplicità, così come fecero i chierici con le vesti fruscianti e le pantofole imbottite. Ma la sua spada sferragliò, i suoi stivali sbatacchiarono, e le fibbie della sua armatura di cuoio tintinnarono. Tutto ciò risuonò alle sue orecchie come un esercito di nani. Col volto che gli bruciava, cercò di rimediare al disturbo camminando in punta di piedi. Elistan, girando con fatica la testa sul cuscino, guardò in direzione del mezzelfo, e cominciò a ridere.
«Qualcuno potrebbe pensare che sei venuto qui per derubarmi, amico mio,» osservò Elistan, mentre sollevava una mano scarna e la porgeva a Tanis.
Il mezzelfo cercò di sorridere. Sentì la porta che si chiudeva sommessamente dietro di lui e divenne consapevole di una figura che oscurava un angolo della stanza. Ma ignorò tutto questo.
Inginocchiandosi accanto all’uomo che aveva aiutato a salvare dalle miniere di Pax Tharkas, l’uomo la cui influenza gentile aveva giocato un ruolo così importante nella sua vita e in quella di Laurana, Tanis gli prese la mano e la tenne saldamente.
«Vorrei poter essere in grado di combattere per te contro questo nemico, Elistan,» disse Tanis, fissando la bianca mano rattrappita stretta nella sua, forte e abbronzata.
«Non un nemico, Tanis, non un nemico. Un vecchio amico viene a prendermi.» Elistan ritrasse la mano con delicatezza da quella di Tanis, poi la batté sul braccio del mezzelfo. «No, non capisci. Ma un giorno capirai, te lo prometto. E adesso, non ti ho fatto venire qui per opprimerti con gli addii.
Ho un incarico da darti, amico mio.» Fece un cenno con la mano. Il giovane accolito venne avanti, portando una scatola di legno, e la mise nelle mani di Elistan. Poi si ritirò, fermandosi in silenzio accanto alla porta.
La figura scura nell’angolo non si mosse.
Elistan sollevò il coperchio della scatola ne tolse un frammento di pergamena ripiegato. Presa la mano dì Tanis, mise la pergamena sul palmo, poi chiuse sopra di essa le dita del mezzelfo.
«Dallo a Crysania,» disse con voce sommessa. «Se sopravviverà, sarà lei il prossimo capo della chiesa.» Vedendo l’espressione di dubbio e di disapprovazione sul volto di Tanis, Elistan sorrise.
«Amico mio, hai camminato nel vuoto, nessuno lo sa meglio di me. Ti abbiamo quasi perso, Tanis.
Ma hai sopportato la notte e affrontato la luce del giorno, rafforzato dalla consapevolezza di aver vinto. È questo che spero per Crysania. Lei è forte nella sua fede ma, come tu stesso hai notato, le manca il calore, la compassione, l’umanità. Ha dovuto constatare con i propri occhi ciò che la lezione della caduta del Gran Sacerdote ci ha insegnato. Doveva venire ferita, Tanis, e ferita profondamente, prima di essere in grado di reagire con compassione davanti alle ferite degli altri.
Soprattutto, Tanis, doveva amare.»
Elistan chiuse gli occhi, il volto tirato per la sofferenza, pieno di dolore. «Amico mio, se avessi potuto, avrei fatto una scelta diversa per lei. Ho visto la strada che stava percorrendo. Ma chi può mettere in discussione la via indicata dagli dei? Certamente non io. Anche se,» aprì gli occhi e sollevò lo sguardo su Tanis, e il mezzelfo vide in essi un luccichio di rabbia, «potrei mettermi a discutere un po’ con loro.»
Tanis sentì alle sue spalle il passo felpato dell’assistente. Elistan annuì. «Sì, lo so. Temono che i visitatori mi stanchino. Ed è vero, ma ben presto avrò modo di riposarmi.» Il chierico chiuse gli occhi, sorridendo. «Sì, mi riposerò. Il mio vecchio amico sta per arrivare, per incamminarsi con me, guidando i miei deboli passi.»
Tanis si alzò in piedi e lanciò un’occhiata interrogativa all’adepto, il quale scosse la testa.
«Non sappiamo di chi stia parlando,» mormorò il giovane chierico. «Ha parlato quasi soltanto del suo vecchio amico. Avevamo pensato che, forse, potevi essere tu...»
Ma la voce di Elistan si levò, chiara, dal suo letto. «Addio, Tanis Mezzelfo. Porta il mio amore a Laurana, Garad e gli altri,» indicò con un cenno del capo la porta, «conoscono i miei desideri in questa faccenda della successione. Sanno che l’ho affidata a te. Faranno tutto ciò che potranno per aiutarti. Addio, Tanis. Possa accompagnarti la benedizione di Paladine.»
Tanis non riuscì a dire nulla. Chinandosi, premette la mano del chierico, annuì, lottò per parlare, e alla fine vi rinunciò. Si girò di scatto, passò davanti alla figura scura e silenziosa nell’angolo e lasciò la stanza, lo sguardo accecato dalle lacrime.
Garad lo accompagnò fino all’ingresso del Tempio. «So di che cosa ti ha incaricato Elistan,» disse il chierico. «E, credimi, spero con tutto il mio cuore che i suoi desideri si avverino. Dama Crysania è, a quanto capisco, impegnata in una specie di pellegrinaggio che potrebbe dimostrarsi molto pericoloso...»
«Sì,» fu tutto ciò che Tanis si fidò di rispondere.
Garad sospirò. «Possa Paladine essere con lei. Noi preghiamo per lei. È una donna forte. La chiesa ha bisogno d’una tale giovinezza e d’una tale forza, se vuole crescere. Se hai bisogno di qualche aiuto, Tanis, ti prego, sappi che puoi contare su di noi.» Il mezzelfo riuscì soltanto a borbottare una risposta. Dopo aver fatto un inchino, Garad si affrettò a tornare indietro per essere al fianco del suo Maestro morente. Tanis si soffermò un attimo accanto alla porta, nello sforzo di recuperare il controllo di sé, prima di uscire fuori. Mentre se ne stava là, ripensando alle parole di Elistan, divenne conscio d’una discussione in corso accanto alla porta del Tempio.
«Mi spiace, signore, ma non posso permetterle di entrare,» stava dicendo con fermezza un giovane accolito.
«Ma ti sto dicendo che sono qui per far visita a Elistan,» replicò una voce querula e bisbetica.
Tanis chiuse gli occhi, appoggiandosi alla parete. Conosceva quella voce. I ricordi lo investirono con un’intensità talmente dolorosa che, per qualche istante, non riuscì né a muoversi né a parlare.
«Forse, se lei mi dicesse il suo nome,» disse l’accolito, pazientemente, «potrei chiedergli...»
«Sono... Il mio nome è...» la voce esitò, alquanto perplessa, poi borbottò: «Ieri lo sapevo...»
Tanis udì il rumore d’un bastone di legno picchiato con viva irritazione sui gradini del Tempio. La voce si levò stridula: «Sono una persona molto importante, giovanotto. E non sono abituato a venire trattato con una simile impertinenza. Adesso togliti di torno prima di costringermi a far qualcosa che mi spiacerà. Voglio dire, che spiacerà a te.»
«Mi spiace terribilmente, signore,» ripetè l’accolito, era ovvio che la sua pazienza si stava assottigliando, «ma senza un nome non posso permettere...»
Si udì il rumore d’una breve zuffa, poi silenzio. Poi Tanis udì un suono davvero sinistro: quello di pagine che venivano sfogliate. Sorridendo in mezzo alle proprie lacrime, il mezzelfo raggiunse la porta. Guardò fuori e vide un vecchio stregone in piedi sugli scalini del Tempio. Abbigliato con vesti color topo, lo sformato cappello da stregone che pareva pronto a cadergli dalla testa alla minima occasione, l’antico stregone era uno spettacolo assolutamente disdicevole. Aveva appoggiato il bastone di legno che aveva con sé contro il muro del Tempio e adesso, ignorando l’accolito imporporato per l’indignazione, stava scorrendo le pagine del suo libro d’incantesimi, borbottando «Palla di fuoco... Palla di fuoco. Com’è che funziona quel dannato incantesimo?...»
Gentilmente, Tanis appoggiò la mano sulla spalla dell’adepto. «È davvero una persona importante,» gli disse il mezzelfo con voce sommessa. «Puoi lasciarlo entrare. Me ne assumo in pieno la responsabilità.»
«Sul serio?» l’accolito pareva dubbioso.
Al suono della voce di Tanis, lo stregone sollevò la testa e si guardò intorno. «Eh? Una persona importante? Dov’è?». Vedendo Tanis, sussultò. «Oh, là! Come sta, signore?». Fece per tendere la mano, s’impigliò nelle vesti e lasciò cadere il libro degli incantesimi ai propri piedi. Chinandosi per raccoglierlo, fece cadere il bastone, facendolo ruzzolare giù per i gradini, sbatacchiando. Nella confusione il cappello gli cadde dalla testa. Ci vollero Tanis e l’accolito insieme per rimettere in piedi il vecchio.
«Accipicchia, il mio piede! Accidenti a lui! Ho perso l’equilibrio. Stupido bastone! Dov’è il mio cappello?»
Alla fine, comunque, si ritrovò più o meno intatto. Ricacciando il libro degli incantesimi in una borsa, si piantò saldamente in testa il cappello. (Dopo aver tentato, sulle prime, di fare queste cose in ordine inverso). Sfortunatamente il cappello gli scivolò subito giù, coprendogli gli occhi.
«Accecato dagli dei!» dichiarò in tono reverenziale il vecchio stregone, annaspando intorno con le mani.
A questo inconveniente fu ben presto posto rimedio. Il giovane accolito, lanciando un’occhiata ancora più dubbiosa a Tanis, sospinse con delicatezza il cappello verso la nuca coperta dai bianchi capelli. Fissando incollerito e irritato l’accolito, il vecchio stregone si rivolse a Tanis. «Una persona importante? Sì, tu lo sei... credo. Ci siamo già incontrati prima d’oggi?»
«Invero, sì,» rispose Tanis. «Ma sei tu la persona importante alla quale mi riferivo, Fizban.»
«Davvero?» Per un attimo il vecchio stregone parve sbalordito. Poi, sbuffando, fissò di nuovo il giovane chierico con espressione incollerita. «Be’, certo. Te l’avevo detto! Fatti da parte, fatti da parte,» ordinò in tono irritato all’adepto.
Mentre varcava la porta del Tempio, il vecchio si voltò per guardare Tanis da sotto la falda del suo tartassato cappello. Fermandosi un attimo, appoggiò la mano sul braccio del mezzelfo.
L’espressione stordita lasciò la faccia del vecchio stregone. Fissò intensamente Tanis.
«Non ti sei mai trovato ad affrontare un’ora più cupa, mezzelfo,» disse il vecchio stregone con voce grave. «C’è speranza, ma l’amore deve trionfare.»
Detto questo, si allontanò trotterellando e, quasi subito, finì dentro uno sgabuzzino. Due chierici vennero prontamente in suo soccorso, e lo scortarono lungo il corridoio.
«Ma chi è?» domandò a Tanis il giovane accolito, seguendo con sguardo perplesso il vecchio stregone.
«È un amico di Elistan,» mormorò Tanis. «Sì, un vecchissimo amico.»
Mentre lasciava il Tempio, Tanis fece in tempo a udire una voce che esclamava: «Il mio cappello!».
Capitolo ottavo.
«Crysania...»
Non vi fu nessuna risposta, solo un gemito sommesso.
«Sst, va tutto bene. Sei rimasta ferita, ma il nemico se n’è andato. Bevi questo, allevierà il dolore.»
Prese alcune erbe da una borsa, Raistlin le mescolò in un boccale d’acqua fumante e, sollevando Crysania dal letto di foglie intrise di sangue sul quale giaceva, le avvicinò il boccale alle labbra.
Mentre beveva, il volto di Crysania si distese, e i suoi occhi si aprirono.
«Sì,» mormorò infine la donna, appoggiandosi a lui. «Va molto meglio.»
«Adesso,» proseguì Raistlin con voce carezzevole, «devi pregare Paladine perché ti guarisca, Reverenda Figlia. Dobbiamo proseguire.»
«Non... non so, Raistlin. Sono così debole e Paladine sembra così lontano!»
«Pregare Paladine?» risuonò all’improvviso una voce severa. «Veste Nera blasfema, taci!»
Inarcando infastidito le sopracciglia, Raistlin sollevò lo sguardo. E sgranò gli occhi. «Sturm!» boccheggiò.
Ma il giovane cavaliere non lo sentì. Stava fissando Crysania, sgomento: le ferite sul suo corpo che si stavano chiudendo, anche se non si rimarginavano del tutto. «Streghe!» gridò il cavaliere, sfoderando la spada. «Streghe!»
«Streghe!» Crysania sollevò la testa. «No, Signor Cavaliere. Non siamo streghe. Io sono un chierico... un chierico di Paladine! Guarda il medaglione che porto!»
«Tu menti!» replicò Sturm con ferocia. «Non ci sono chierici! Sono scomparsi nel Cataclisma. E, se anche ce ne fossero, cosa faresti mai, tu, in compagnia di questa tenebrosa creatura del male?»
«Sturm! Sono io, Raistlin!». L’arcimago si alzò in piedi. «Guardami, non mi riconosci?»
Il giovane cavaliere rivolse la propria spada contro il mago, appoggiando la punta contro la gola di Raistlin. «Non so con quale stregoneria tu abbia evocato il mio nome, Veste Nera, ma, pronuncialo ancora una volta e andrà male per te. A Solace le streghe si uccidono all’istante.»
«Poiché sei un cavaliere santo e virtuoso, legato a un voto di cavalleria e obbedienza, invoco da te giustizia,» disse Crysania, alzandosi lentamente in piedi con l’aiuto di Raistlin.
Il volto severo del giovane si spianò. Fece un inchino e rinfoderò la spada, ma non senza aver lanciato a Raistlin un’occhiata in tralice. «Tu dici il vero, signora. Sono legato da questi voti e ti accorderò giustizia.»
Proprio mentre stava parlando, il letto di foglie divenne un pavimento di legno; gli alberi, panche; il cielo sovrastante, un soffitto; la strada, una corsia fra le panche. Raistlin, momentaneamente stordito da quell’improvviso cambiamento, vide che si trovavano in una Sala del Giudizio. Con il braccio ancora intorno alla vita di Crysania, l’aiutò a a sedersi a un piccolo tavolo che si trovava al centro della stanza. Davanti a loro si ergeva un podio. Lanciando un’occhiata alle proprie spalle, Raistlin vide che la Sala era gremita di gente, tutti che guardavano con interesse e piacere.
Li fissò. Lui conosceva quella gente! C’era Otik, il proprietario della Locanda dell’Ultima Casa intento a mangiare un piatto di patate speziate. C’era Tika, con i riccioli rossi che sobbalzavano intorno alla sua testa mentre indicava Crysania dicendo qualcosa e ridendo. E Kitiara! Appoggiata oziosamente allo stipite della porta, circondata da giovani ammiratori, con la mano sull’elsa della spada, guardò in direzione di Raistlin e gli strizzò l’occhio.
Raistlin si guardò intorno, febbricitante. Suo padre, un povero intagliatore di legno, sedeva in un angolo, le spalle curve, con quell’eterna espressione di perpetua ansia e preoccupazione. Laurana sedeva in disparte, la sua fresca bellezza elfica risplendeva come una vivida stella in una notte buia.
Accanto a lui, Crysania gridò. «Elistan!». Si alzò in piedi e tese la mano, ma il chierico si limitò a fissarla con uno sguardo triste e severo, e scosse la testa.
«Levatevi in piedi e rendete gli onori!» risuonò una voce.
Con un diffuso trepestio e uno strisciare di panche, tutti i presenti nella Sala del Giudizio si alzarono in piedi. Un rispettoso silenzio scese sulla folla quando il giudice entrò. Avvolto nelle vesti grigie di Gilean, il Dio della Neutralità, il giudice prese il suo posto dietro il podio e si girò verso gli accusati.
«Tanis!» gridò Raistlin, facendo un passo avanti.
Ma il mezzelfo barbuto si limitò a corrugare la fronte per quel comportamento sconveniente, mentre un vecchio nano brontolone, un balivo, si avvicinò con passo pesante e urtò Raistlin al fianco con il manico della sua ascia da battaglia. «Siediti, strega, e non dir nulla, a meno che non ti sia stata rivolta la parola.»
«Flint!» Raistlin afferrò il nano per il braccio. «Non mi riconosci?»
«E non toccare il balivo!» ruggì Flint incollerito, scostando il braccio con uno scatto. «Umpf,» brontolò mentre tornava indietro per riprendere il proprio posto accanto al giudice. «Nessun rispetto per la mia età e la mia carica. Pensi forse che io sia un sacco di farina che può essere maneggiato da tutti...»
«Basta così, Flint,» disse Tanis fissando severamente Raistlin e Crysania. «Ora, chi presenta le accuse contro questi due?»
Raistlin cominciò ad alzarsi per rispondere, ma venne interrotto.
«Io! Qui, Tanis... uh, Vostro Onore! Io, sono qui! Aspetta. Pare... pare che mi sia incastrato...»
Le risate riempirono la Sala del Giudizio, la folla si voltò e fissò il kender, stracarico di libri, che lottava per varcare la soglia. Sogghignando, Kitiara lo afferrò per il ciuffo e lo fece passare, con uno strattone, al di qua della porta, scaraventandolo sul pavimento senza tante cerimonie. I libri finirono sparpagliati dappertutto, e la folla scoppiò in un’altra risata fragorosa. Per nulla turbato, il kender si tirò su, si spolverò e, inciampando sui libri, riuscì finalmente ad arrivare in prima fila.
«Sono Tasslehoff Burrfoot,» dichiarò il kender, porgendo la piccola mano a Raistlin per farsela stringere. L’arcimago fissò Tas sbalordito e non si mosse. Con una scrollata di spalle Tas guardò la propria mano, sospirò e poi, voltatosi, fissò il giudice. «Ciao, mi chiamo Tasslehoff Burrfoot...»
«Siediti!» ruggì il nano. «Non si stringe la mano al giudice, pomolo di porta che non sei altro!».
«Be’,» replicò Tas, indignato, «credo che se lo volessi potrei. Dopotutto sto soltanto cercando di comportarmi con un po’ di cortesia, una parola che voi nani non conoscete per niente. Io...»
«Siediti e chiudi il becco!» urlò il nano, picchiando l’estremità del manico dell’ascia sul pavimento.
Col ciuffo dei capelli che gli rimbalzava sulla spalla, il kender si girò per andarsi a sedere accanto a Raistlin. Ma prima di sedersi si rivolse al pubblico e mimò così bene l’espressione arcigna del nano che la folla urlò di gioia, facendo infuriare il nano più che mai. Ma questa volta il giudice intervenne.
«Silenzio!» gridò Tanis con voce severa. E la folla si azzittì.
Tas si lasciò infine cadere sulla panca accanto a Raistlin. Sentendosi sfiorare da un leggero tocco, il mago abbassò lo sguardo inferocito sul kender e tese la mano.
«Restituiscimela!» gli intimò.
«Restituire cosa? Oh, questa? È tua? Devi averla lasciata cadere,» disse Tas con aria innocente, porgendo una delle borse di Raistlin che conteneva ingredienti per gli incantesimi. «L’ho trovata sul pavimento...»
Strappandola al kender, Raistlin tornò ad agganciarla alla corda che portava intorno alla vita.
«Avresti potuto almeno dire grazie,» osservò Tas con un sussurro stridulo, poi si calmò quando colse l’occhiata severa del giudice.
«Quali sono le accuse contro questi due?» chiese Tanis.
Sturm Brightblade venne avanti. Vi furono qua e là degli applausi. A quanto pareva il giovane cavaliere, con i suoi alti concetti di onore e il suo volto malinconico, godeva di molte simpatie.
«Ho trovato questi due nella desolazione, Vostro Onore. E l’uomo dalle Vesti Nere ha pronunciato il nome di Paladine,» un borbottio rabbioso si levò dalla folla, «e, proprio mentre guardavo, ha preparato un immondo intruglio e l’ha dato da bere alla donna. Lei era gravemente ferita, quando li ho visti la prima volta. Il sangue copriva le sue vesti, e il suo volto era bruciato e coperto di cicatrici, come se fosse stata in mezzo alle fiamme. Ma quando ha bevuto l’intruglio di quello stregone, subito è guarita!»
«No!» gridò Crysania, alzandosi in piedi e barcollando. «È sbagliato. I a pozione che Raistlin mi ha dato è servita soltanto ad alleviare il dolori, Sono state le mie preghiere a guarirmi! Sono un chierico di Paladine...»
«Voglia perdonarci, Vostro Onore,» urlò il kender, balzando in piedi, «la mia cliente non intendeva dire che è un chierico di Paladine. Stava irritando una pantomima, ecco quello che voleva dire. Sì, ecco.» Tas ridacchiò. «Voleva soltanto divertirsi un po’ per alleggerire il viaggio. È un gioco che fanno in continuazione. Ah, ahh.» Rivolgendosi a Crysania, il kender corrugò la fronte e le disse, con un sussurro che fu udibile a tutti, nella stanza: «Cosa stai facendo? Come posso toglierti dai guai, se te ne vai in giro a dire verità del genere? Semplicemente, non sono disposto a tollerare una cosa simile!»
«Silenzio!» ruggì il nano.
Il kender si girò di scatto. «E comincio anche a stufarmi un po’ di te, Flint!» urlò. «Piantala di picchiare quell’ascia sul pavimento, altrimenti te l’annoderò al collo.»
La sala esplose in una risata generale. Perfino il giudice sogghignò.
Crysania ricadde al fianco di Raistlin, il volto mortalmente pallido. «Cos’è questa presa in giro?» mormorò intimorita.
«Non lo so, ma vi metterò fine.» Raistlin si alzò in piedi.
«Fate tutti silenzio.» La sua voce flautata, poco più di un sussurro, fece calare un improvviso silenzio nella sala. «Questa signora è un sacro chierico di Paladine! Io sono uno stregone dalle Vesti Nere, abilitato alle arti della magia...»
«Oh, fai qualcosa di magico!» gridò il kender, balzando di nuovo in piedi. «Spediscimi dentro uno stagno delle anatre...»
«Siediti!» urlò il nano.
«Sì, facci vedere un po’ di magia, stregone,» gridò Tanis, in mezzo all’ilarità dei presenti in sala.
Tutti si azzittirono, e poi la folla cominciò a borbottare. «Sì, stregone, facci vedere un po’ di magia.
Fai qualche magia, stregone!». La voce di Kitiara risuonò sopra quella di tutti gli altri, forte e possente. «Esegui qualche magia, relitto fragile e malato che non sei altro, se ci riesci!»
La lingua di Raistlin rimase appiccicata al palato. Crysania lo stava fissando. C’erano speranza e terrore nel suo sguardo. Le sue mani tremarono. Raistlin prese il Bastone di Magius che era appoggiato al suo fianco, ma ricordando ciò che gli aveva fatto non osò servirsene.
Levandosi in piedi in tutta la sua altezza, lanciò un’occhiata sprezzante alla gente intorno a lui. «Ah, non ho bisogno di dimostrare me stesso a gente come voi...»
«Credo che sarebbe davvero una buona idea,» borbottò Tas, tirando Raistlin per la veste.
«Vedete!» urlò Sturm. «La strega non può farlo! Esigo il giudizio!»
«Giudizio! Giudizio!» intonò la folla. «Bruciate le streghe! Bruciate i loro corpi! Salvate le loro anime!»
«Bene, stregone?» chiese Tanis, severamente. «Puoi dimostrare che sei quello che sostieni di essere?»
Le parole degli incantesimi gli sfuggivano. Le mani di Crysania lo strinsero. Il rumore lo assordava.
Non riusciva a pensare! Avrebbe voluto esser solo, lontano da quelle bocche che ridevano e da quegli occhi imploranti e pieni di terrore. «Io...» esitò, e chinò la testa.
«Bruciateli!»
Mani brutali afferrarono Raistlin. La Sala scomparve davanti ai suoi occhi. Lottò, ma fu inutile.
L’uomo che lo stringeva era grosso e forte, con un volto che un tempo avrebbe potuto essere gioviale ma adesso era serio e assorto.
«Caramon! Fratello!» gridò Raistlin, contorcendosi nella stretta dell’omone, per guardare in faccia il suo gemello.
Ma Caramon lo ignorò. Serrando Raistlin con mano ferma, l’omone trascinò il fragile mago su per una collina. Raistlin si guardò intorno. Davanti a lui, in cima alla collina, vide due alti pali di legno che erano stati conficcati nel terreno. Intorno alla base di ogni palo, gli abitanti della città: i suoi amici, i suoi vicini. Tutti stavano ammucchiando gioiosamente bracciate di legna secca.
«Dov’è Crysania?» chiese a suo fratello, sperando che fosse fuggita, e adesso potesse tornare ad aiutarlo. Poi Raistlin intravide delle vesti bianche. Elistan la stava legando a uno dei pali. Crysania lottava cercando di sfuggire alla sua stretta, ma era indebolita a causa delle sue sofferenze. Alla fine si arrese. Piangendo per la paura e la disperazione, si accasciò contro il palo mentre le mani le venivano legate ad esso, e anche i piedi, con robusti nodi.
Mentre piangeva, i capelli scuri le ricaddero sulla pelle liscia delle spalle nude. Le sue ferite si erano riaperte, il sangue le macchiò di rosso le vesti. A Raistlin parve di sentirle invocare il nome di Paladine, ma se anche l’aveva fatto, le parole si persero nell’ululato della folla. La sua fede si stava indebolendo proprio come si era indebolita lei stessa.
Tanis venne avanti stringendo in pugno una torcia fiammeggiante. Si girò per fissare Raistlin.
«Sii testimone del suo destino e vedi il tuo, strega!» gridò il mezzelfo.
«No!» Raistlin lottò, ma Caramon lo tenne stretto.
Tanis si chinò e conficcò la torcia fiammeggiante in mezzo alla legna secca intrisa d’olio. Le fiamme avvamparono. Il fuoco si propagò rapidamente, avvolgendo ben presto le bianche vesti di Crysania. Raistlin sentì il suo grido angosciato sopra il ruggito della fiamma. Crysania riuscì a sollevare la testa nel tentativo di rivolgere un ultimo sguardo a Raistlin. Vedendo il dolore e il terrore negli occhi di lei, vedendo anche, allo stesso tempo, l’amore per lui, il cuore di Raistlin arse di un fuoco più incandescente di quello che qualsiasi altro uomo poteva creare.
«Vogliono magia! Darò loro magia!» e, prima ancora di pensare, spinse via lo sbalordito Caramon e, liberandosi, sollevò le braccia al cielo.
E in quel momento le parole della magia entrarono nella sua anima, per non lasciarla mai più.
I lampi scaturirono dalle punte delle sue dita, colpendo le nubi nel cielo tinto di rosso. Le nubi risposero con altri lampi, che saettarono giù, colpendo il terreno davanti ai piedi del mago.
Furente, Raistlin si girò verso la folla, ma la gente era svanita, scomparsa, come se non fosse mai esistita.
«Ah, mia Regina!» la risata gorgogliò dalle sue labbra. La gioia gli guizzò attraverso l’anima mentre l’estasi della sua magia gli ardeva nel sangue. E, alla fine, comprese. Percepì la sua grande follia e vide la sua grande speranza.
Era stato ingannato... da se stesso! Tas gli aveva offerto l’indizio a Zhaman, ma lui non si era preoccupato di rifletterci. Ho pensato a qualcosa nella mia mente, aveva detto il kender, ed era là!
Quando volevo andare da qualche parte, non dovevo fare altro che pensarci, e veniva da me, o ci andavo io, non ne sono sicuro. Era tutte le città nelle quali ero stato, eppure nessuna di esse. Così gli aveva detto il kender.
Raistlin si rese conto di avere supposto che l’Abisso fosse un riflesso del mondo... E così, ho viaggiato attraverso di esso. Ma non lo è. Non è altro che il riflesso della mia mente! Non ho fatto altro che viaggiare attraverso la mia stessa mente!
La Regina è a Godshome perché è là che percepisco la sua presenza. E Godshome può essere lontanissima oppure vicina a seconda di quello che sceglierò io! La mia magia non ha funzionato perché ne ho dubitato, non perché lei abbia impedito che funzionasse. C’è mancato poco che sconfiggessi me stesso! Ah, ma adesso lo so, mia Regina! Adesso lo so... e adesso posso trionfare!
Poiché Godshome è soltanto a un passo di distanza e ci vuole soltanto un altro passo per arrivare al Portale...
«Raistlin!»
La voce era bassa, angosciata, stanca, spenta. Raistlin girò la testa. La folla era scomparsa perché non era mai esistita. Era stata una sua creazione. Il villaggio, il paese, il continente, tutto ciò che aveva immaginato era scomparso. Si trovava su un niente piatto e ondulato. Era impossibile distinguere fra il cielo e la terra. Entrambi avevano la stessa arcana, ardente colorazione rosa. La tenue linea dell’orizzonte era come un taglio d’un coltello attraverso il tutto.
Ma un oggetto non era scomparso: il palo di legno. Circondato da legna carbonizzata, si ergeva stagliandosi contro il cielo rosato, sporgendo dal nulla sottostante. Un tempo, quella figura poteva aver indossato vesti bianche, ma adesso erano annerite dal fuoco. La puzza della carne bruciata era intensa.
Raistlin si fece più vicino. Inginocchiandosi sulle ceneri ancora calde, guardò la figura.
«Crysania,» mormorò.
«Raistlin?». Il suo volto era orribilmente bruciato, gli occhi ciechi fissavano il vuoto intorno a lei; tese una mano che era poco più di un artiglio annerito. «Raistlin?» gemette, in preda all’agonia.
La mano di Raistlin si chiuse sulla sua. «Non riesco a vedere,» si lamentò Crysania. «E tutto buio!
Sei tu?»
«Sì,» disse lui.
«Raistlin, ho fallito...»
«No, Crysania, non è vero,» disse lui con voce calma e gelida. «Io sono illeso. Adesso la mia magia è forte, più forte di quanto lo sia mai stata prima, in tutti i tempi in cui sono vissuto. Adesso andrò avanti e sconfiggerò la Regina delle Tenebre.»
Le labbra screpolate e coperte di vesciche si dischiusero in un sorriso. La mano racchiusa in quella di Raistlin si strinse debolmente. «Allora le mie preghiere sono state esaudite.» Soffocò, uno spasimo di dolore contorse il suo corpo. Quando riuscì a respirare di nuovo, bisbigliò qualcosa.
Raistlin si chinò su di lei per udire meglio. «Sto morendo, Raistlin. Sono indebolita al di là di ogni sopportazione. Presto Paladine mi prenderà con sé. Rimani con me, Raistlin. Rimani con me mentre muoio...»
Raistlin abbassò lo sguardo sui resti della sventurata donna davanti a lui. Mentre le reggeva la mano, ebbe all’improvviso una visione di lei, come l’aveva vista nella foresta vicino a Caergoth l’unica volta che era stato vicino a perdere il controllo e a farla sua: la pelle bianca, i serici capelli, gli occhi luccicanti. Ricordò l’amore in quegli occhi, ricordò di averla tenuta stretta fra le sue braccia, ricordò di aver baciato la sua pelle liscia...
Raistlin bruciò ad uno ad uno quei ricordi che si trovavano nella sua mente, incendiandoli con la sua magia, osservandoli mentre si trasformavano in cenere per essere poi soffiati via in forma di fumo.
Allungando l’altra mano, si liberò dalla sua stretta insistente.
«Raistlin!» gridò lei, stringendo l’aria vuota intorno a sé con la mano mutilata, in preda al terrore.
«Hai assolto il mio scopo, Reverenda Figlia,» disse Raistlin, la sua voce liscia e fredda come la lama d’argento del pugnale che portava alla cintura. «Il tempo stringe. Già adesso si stanno avvicinando al Portale di Palanthas quelli che cercheranno di fermarmi. Devo sfidare la Regina, combattere la mia ultima battaglia con i suoi famigli. Poi, una volta che avrò vinto, dovrò tornare al Portale e varcarlo prima che qualcuno abbia la possibilità di fermarmi.»
«Raistlin, non lasciarmi! Per favore, non lasciarmi sola nel buio!»
Appoggiandosi al Bastone di Magius, che adesso irradiava una intensa luminosità, Raistlin si alzò in piedi. «Addio, Reverenda Figlia,» disse con voce sommessa e sibilante. «Non ho più bisogno di te.»
Crysania sentì il fruscio delle sue vesti nere mentre si allontanava. Sentì i leggeri, sordi tonfi del Bastone di Magius. In mezzo all’odore acre e soffocante del fumo, colse un tenuissimo profumo di petali di rosa...
E poi, vi fu soltanto il silenzio. Crysania seppe che Raistlin se n’era andato.
Lei adesso era sola, la vita le si spegneva a poco a poco nelle vene, man mano che le illusioni si spegnevano lentamente nella sua mente.
«La prossima volta che vedrai, Crysania, sarà quando verrai accecata dalla tenebra... la tenebra interminabile.»
Così aveva parlato Larallon, il chierico elfo, alla caduta di Istar. Crysania avrebbe gridato, ma il fuoco aveva bruciato via le lacrime e la loro fonte.
«Adesso vedo,» lei bisbigliò nella tenebra. «Vedo con tanta chiarezza! Mi sono autoingannata! Non sono mai stata nulla per lui, nulla, se non una pedina da muovere sulla scacchiera del suo grande gioco, a seconda di come lui sceglieva di fare. E proprio mentre lui mi usava, io usavo lui!»
Gemette. «L’ho usato per promuovere il mio orgoglio, la mia ambizione! La mia oscurità non è servita ad altro che a rendere ancora più profonda la sua! E perduto, ed io l’ho condotto alla sua caduta. Poiché, se dovesse sconfiggere la Regina delle Tenebre, sarà soltanto per prendere il suo posto!»
Fissando sopra di sé il cielo che non poteva vedere, Crysania urlò la sua angoscia. «Io ho fatto questo, Paladine! Ho causato questo male a me stessa, al mondo! Ma, oh, mio dio, quale male ancora più grande ho causato a lui!»
Giacendo là, nell’eterna oscurità, Crysania pianse nel cuore le lacrime che i suoi occhi non potevano piangere. «Ti amo, Raistlin,» mormorò. «Non sono mai riuscita a dirtelo, non ho mai potuto ammetterlo a me stessa.» Buttò indietro la testa, afferrata da un dolore che la bruciava più profondamente delle fiamme. «Cosa avrebbe potuto cambiare se l’avessi fatto?»
Il dolore si attenuò. Ebbe la sensazione di scivolare via, di perdere il controllo della propria consapevolezza.
«Bene,» pensò, stancamente, «sto morendo. Allora lascia che la morte venga in fretta e ponga fine al mio amaro tormento.»
Esalò un sospiro. «Paladine, perdonami,» mormorò.
Un altro respiro. «Raistlin...»
Un altro respiro, ancora più debole, «... perdonami...»
Il canto di Crysania
Capitolo nono.
L’acqua dalla polvere e la polvere che sorge dall’acqua, continenti che si formano, astratti come il colore e la luce all’occhio che svanisce, al tocco della figlia di Paladine che sa con un tocco che la veste è bianca, da quell’acqua un paese sorge, impossibile quando per la prima volta viene immaginato in preghiera, e il sole e i mari e le stelle invisibili come in un codice d’aria.
La polvere dall’acqua, e l’acqua che sorge dalla polvere, e la veste che contiene tutti i colori assunti nel bianco, nella memoria, nei paesi assunti nella fiducia di un ritorno del colore e della luce, fuori da quella polvere sorge una fontana di lacrime per nutrire il lavoro delle nostre mani nell’avvicinarsi perenne di brama e di anni, nelle terre dovute e immanenti.
Tanis si trovava fuori dal Tempio, e pensava alle parole del vecchio stregone. Poi sbuffò. L’amore deve trionfare!
Asciugandosi le lacrime, Tanis scosse la testa con amarezza. Questa volta la magia di Fizban non avrebbe funzionato. L’amore non recitava neppure una piccola parte in quel gioco. Già molto tempo addietro, Raistlin aveva usato e distorto l’amore del suo gemello per i propri scopi, riducendo alla fine Caramon a una massa di lardo fradicia di spirito dei nani. Il marmo aveva più capacità di amare di quante ne avesse la fanciulla di marmo, Crysania. E in quanto a Kitiara... Aveva mai amato?
Tanis inarcò le sopracciglia. Non aveva avuto intenzione di pensare a lei, non un’altra volta. Ma il tentativo di ricacciare i ricordi di lei nel ripostiglio tenebroso della sua anima servì soltanto a dare l’impressione che la luce risplendesse su di essi ancora più intensa. Si sorprese a ritornare con la memoria all’epoca in cui si erano incontrati per la prima volta nella desolazione vicino a Solace.
Nello scoprire una giovane donna che lottava per la propria vita contro dei goblin, Tanis si era precipitato in suo soccorso per ritrovarsi poi con la stessa donna che gli si rivoltava contro, accusandolo di averle guastato il divertimento!
Tanis era rimasto affascinato. Fino a quel momento aveva dedicato il suo unico interesse amoroso alla delicata fanciulla elfa, Laurana. Ma quello era stato un idillio infantile. Lui e Laurana erano cresciuti insieme. Il padre di lei aveva accolto il mezzelfo bastardo per spirito di carità quando sua madre era morta di parto. In effetti, era stato in parte a causa dell’infatuazione fanciullesca di Laurana per Tanis (un amore che suo padre non avrebbe mai approvato) che il mezzelfo aveva lasciato la sua patria elfica viaggiando per il mondo insieme al vecchio Flint, il fabbro dei nani.
Certamente Tanis non aveva mai incontrato una donna come Kitiara: ardita, coraggiosa, adorabile, sensuale. Sin dal loro primo incontro non aveva affatto tenuto segreto il fatto che trovava attraente il mezzelfo. Una giocosa battaglia fra loro era terminata in una notte di passione fra le coperte di pelliccia di Kitiara. Dopo, i due erano stati spesso insieme, viaggiando per proprio conto o in compagnia dei loro amici, Sturm Brightblade, e i fratellastri di Kitiara, Caramon, e il suo fratello gemello, Raistlin.
Sentendosi sospirare, Tanis scosse la testa con rabbia. No! Riafferrò i pensieri e li scagliò nella tenebra, sbarrando la porta. Kitiara non l’aveva mai amato. Si era divertita con lui, nient’altro. Lui l’aveva intrattenuta. Quando le si era presentata la possibilità di ottenere ciò che veramente voleva, il potere, lo aveva lasciato senza pensarci due volte. Ma proprio mentre girava la chiave della serratura della sua anima, Tanis sentì, ancora una volta, la voce di Kitiara. Aveva udito le parole che lei aveva detto la notte della caduta della Regina delle Tenebre, la notte in cui Kitiara aveva aiutato lui e Laurana a fuggire.
«Addio, Mezzelfo. Ricordati, faccio questo per amor tuo!»
Una figura scura, simile all’incarnazione della propria ombra, comparve accanto a Tanis. Il mezzelfo trasalì, colto dall’improvvisa, irragionevole paura di aver forse evocato un’immagine dal proprio subconscio. Ma la figura pronunciò una parola di saluto, e Tanis si rese conto che era in carne e ossa. Emise un sospiro di sollievo, poi sperò che l’altro non notasse quant’erano stati astratti i suoi pensieri. Schiarendosi burberamente la gola, il mezzelfo lanciò un’occhiata al mago dalle Vesti Nere.
«Elistan è...»
«Morto?» disse Dalamar, freddamente. «No, non ancora. Ma ho sentito l’avvicinarsi di qualcuno la cui presenza avrei trovato molto spiacevole, e così, vedendo che i miei servigi non erano più necessari, me ne sono andato.»
Fermandosi sul prato, Tanis si voltò verso l’elfo scuro. Dalamar non si era calato il cappuccio sulla testa, e i suoi lineamenti erano chiaramente visibili alla pacifica luce del sole. «Perché l’hai fatto?» volle sapere Tanis.
Anche l’elfo scuro smise di camminare e fissò Tanis con un lieve sorriso.
«Fatto cosa?»
«Sei venuto qui da Elistan, ad alleviare il suo dolore.» Tanis agitò una mano. «Da quello che avevo visto la volta scorsa, mettere piede su questo terreno ti fa soffrire i tormenti dei dannati.» Il suo volto s’incupì. «Non posso credere che un allievo di Raistlin possa preoccuparsi tanto per qualcuno!»
«No,» rispose Dalamar con voce calma, «personalmente all’allievo di Raistlin non importa un dannato pezzo di ferro arrugginito di quello che può succedere al chierico. Ma l’allievo di Raistlin è una persona d’onore. Gli è stato insegnato a pagare i suoi debiti, gli è stato insegnato a non dovere niente a nessuno. Questo concorda con quanto sai del mio Shalafi!»
«Sì,» ammise Tanis con rincrescimento, «ma...»
«Stavo ripagando un debito, null’altro,» disse Dalamar. Mentre riprendeva a camminare attraverso il prato, Tanis colse un’espressione di sofferenza sul suo volto. Era ovvio che l’elfo scuro voleva lasciare quel luogo quanto prima possibile. Tanis aveva qualche difficoltà a tenere il passo con lui.
«Vedi,» continuò Dalamar, «Elistan è venuto una volta nella Torre della Grande Stregoneria per aiutare il mio Shalafi.»
«Raistlin?» si fermò di nuovo, stupito. Ma Dalamar non si fermò, e Tanis fu costretto a corrergli dietro.
«Sì,» stava dicendo l’elfo scuro, come se gl’importasse poco che Tanis lo sentisse oppure no,
«nessuno lo sa, neppure Raistlin. Una volta, all’incirca un anno fa, lo Shalafi si ammalò in forma gravissima. Io ero solo, spaventato. Non so niente delle malattie. Disperato, mandai a chiamare Elistan. Lui venne.»
«Gua... guarì Raistlin?» chiese Tanis, con sgomento.
«No.» Dalamar scosse la testa, i lunghi capelli neri gli ricaddero sulle spalle. «La malattia di Raistlin è al di là delle arti guaritrici, un sacrificio fatto per la sua magia. Ma Elistan riuscì ad alleviare le sofferenze dello Shalafi e a permettergli di riposare. E così, non ho fatto altro che ripagare il mio debito.»
«Ti... ti importa di Raistlin fino a questo punto?» domandò Tanis con esitazione.
«Cosa sono questi discorsi, Mezzelfo?» sbottò Dalamar, impaziente. Erano vicini ai confini del prato. Le ombre della sera si stendevano su di esso come dita tranquillizzanti che si stessero delicatamente allungando per chiudere gli occhi dei più stanchi. «Come Raistlin, m’importa una cosa soltanto, e questa è l’arte e il potere che offre. Per questo ho rinunciato al mio popolo, alla mia patria, al mio retaggio. Per questo sono entrato nelle tenebre. Raistlin è lo Shalafi, il mio insegnante, il mio Maestro. È abile nell’Arte, uno dei più abili che siano mai vissuti. Quando mi sono offerto volontario al Conclave per spiarlo, sapevo benissimo che avrei potuto sacrificare la mia vita. Ma quant’era piccolo il prezzo da pagare, per la possibilità di studiare con qualcuno così dotato! Come potevo permettermi di perderlo? Perfino adesso, quando penso a ciò che gli vedo fare, quando penso alle conoscenze da lui acquisite che andranno perse con la sua morte, quasi...»
«Quasi cosa?» chiese Tanis, bruscamente, d’un tratto spaventato. «Quasi gli permetteresti di fargli varcare il Portale? Potrai davvero fermarlo quando tornerà, Dalamar? Lo fermerai?»
Avevano raggiunto l’estremità dei terreni del Tempio. Una vellutata oscurità ricopriva la terra. La notte era calda e colma degli odori della nuova vita. Qua e là fra i pioppi tremoli un uccello cinguettava sonnacchioso. In città le candele accese erano esposte alle finestre per guidare le persone amate fino a casa. Solinari occhieggiava all’orizzonte, come se gli dei avessero acceso la loro candela per illuminare la notte. Lo sguardo di Tanis venne attirato verso l’unico tratto di gelida oscurità nella sera calda e profumata. La Torre della Grande Stregoneria si levava scura e minacciosa. Nessuna candela tremolava alle sue finestre. Tanis si chiese, per un breve momento, chi o cosa fosse in attesa all’interno di quella tenebra per dare il benvenuto al giovane apprendista al suo ritorno a casa.
«Lascia che ti parli dei Portali, Mezzelfo,» replicò Dalamar. «Te ne parlerò come me ne ha parlato il mio Shalafi.» Il suo sguardo seguì quello di Tanis fino alla stanza più alta della Torre. Quando parlò, la sua voce era sommessa. «In quel laboratorio c’è un albero in cui si apre una porta. Una porta senza serratura. Cinque teste metalliche di drago la circondano. Guardando dentro di essa non vedrai nulla, soltanto un vuoto. Le teste di drago sono gelide e immobili. Quello è il Portale. Ne esiste un altro oltre a questo, si trova nella Torre della Grande Stregoneria di Wayreth. L’unico altro esistente, per quanto ne sappiamo, si trovava a Istar e venne distrutto durante il Cataclisma. Quello di Palanthas venne originariamente trasferito nella magica fortezza di Zhaman per proteggerlo, quando la plebaglia del Gran Sacerdote cercò di occupare la Torre che si trovava là. Si spostò di nuovo quando Fistandantilus distrusse Zhaman, tornando a Palanthas. Creati molto tempo fa, da maghi che desideravano comunicare più rapidamente fra loro, i Portali li condussero troppo in là, li condussero su altri piani.»
«L’Abisso,» mormorò Tanis.
«Sì. Troppo tardi i maghi si resero conto di quale pericolosa porta avessero congegnato, poiché, se qualcuno di questo piano fosse entrato nell’Abisso e fosse tornato attraverso un Portale, la Regina avrebbe avuto quell’accesso al mondo che da tanto tempo cercava. Così, con l’aiuto dei santi chierici di Paladine, si assicurarono, così credettero, che nessuno potesse mai usare i Portali. Soltanto qualcuno capace del male più profondo immaginabile, che avesse impegnato la propria stessa anima nella tenebra, poteva sperare di guadagnare il sapere necessario per aprire quella porta spaventosa.
E soltanto qualcuno ammantato di bontà e purezza, con la più assoluta fiducia nell’unica persona sulla faccia di questo mondo che non poteva meritare quella fiducia, poteva tenere aperta la porta.»
«Raistlin e Crysania.»
Dalamar sorrise cinicamente. «Nella loro infinita saggezza, quei vecchi maghi e quei chierici rinsecchiti non avevano in alcun modo previsto che l’amore potesse rovesciare il loro grande disegno. Perciò, vedi Mezzelfo, quando Raistlin tenterà di riattraversare il Portale uscendo dall’Abisso, dovrò fermarlo, poiché la Regina sarà subito alle sue spalle.»
Nessuna di queste spiegazioni servì ad attenuare i dubbi di Tanis. Certamente l’elfo scuro pareva consapevole del grande pericolo. Certamente appariva calmo e fiducioso... «Ma tu riuscirai a fermarlo?» insistè Tanis andando con lo sguardo, senza alcuna intenzione di farlo, a quei cinque fori aperti dal fuoco nella pelle liscia di Dalamar.
Notando l’espressione di Tanis, la mano di Dalamar andò istintivamente al proprio petto. I suoi occhi s’incupirono, diventando ossessionati. «Conosco i miei limiti, Mezzelfo,» dichiarò con voce sommessa. Poi sorrise e scrollò le spalle. «Sarò onesto con te. Se il mio Shalafi fosse nel pieno possesso dei suoi poteri quando cercherà di attraversare il Portale, allora, no, non sarei in grado di fermarlo. Nessuno potrebbe farlo. Ma Raistlin non sarà nel pieno dei suoi poteri. Ne avrà già consumato gran parte per distruggere i famigli della Regina, costringendola ad affrontarlo da sola.
Sarà debole e ferito. È la sua unica speranza, se vuole riuscire ad attirare la Regina delle Tenebre qui fuori, sul suo piano. Qui potrà recuperare le forze. Qui sarà lei la più debole dei due. E così, sì, poiché sarà ferito, potrò fermarlo. E, sì, lo fermerò!»
Notando che Tanis pareva ancora dubbioso, il sorriso di Dalamar si torse. «Vedi, Mezzelfo,» gli disse in tono gelido, «Mi è stato offerto abbastanza da far sì che valga la pena di farlo.» Con queste parole, fece un inchino e, mormorando un incantesimo, scomparve.
Ma, mentre se ne andava, Tanis udì la sommessa voce elfica di Dalamar parlare nella notte. «Hai guardato il sole per l’ultima volta, Mezzelfo. Raistlin e la Regina delle Tenebre si sono incontrati.
Adesso Takhisis sta chiamando a raccolta i suoi famigli. La battaglia comincia. Domani non ci sarà l’alba.».
Capitolo decimo.
«E così, Raistlin, ci incontriamo di nuovo.»
«Mia Regina...»
«Ti inchini davanti a me, stregone?»
«Questa è l’ultima volta che ti rendo omaggio.»
«Ed io m’inchino davanti a te, Raistlin.»
«Mi fai un grande onore, Maestà.»
«Al contrario, ho osservato il tuo gioco con il più vivo interesse. Per ognuna delle mie mosse hai sempre avuto una contromossa.? Più di una volta hai rischiato tutto quello che avevi per vincere una singola mano. Ti sei dimostrato un abile giocatore, e il tuo gioco mi ha divertito molto. Ma adesso è arrivato alla fine, mio degno avversario. Ti rimane un solo pezzo sulla scacchiera: te stesso. Contro di te è schierata tutta la potenza delle mie tenebrose legioni. Ma poiché mi sono divertita con te, Raistlin, ti concederò un unico favore.
Ritorna dal tuo chierico. Essa giace morente, sola, in un tale tormento della mente e del corpo quali io soltanto posso infliggere. Torna da lei, inginocchiati accanto a lei, prendila fra le braccia e stringila a te. Il mantello della morte cadrà su tutti e due. Vi coprirà delicatamente, e tu scivolerai nell’oscurità e troverai l’eterno riposo.»
«Takhisis, Grande Regina, ti ringrazio davvero per questa graziosa offerta. Ma io faccio questo gioco, come tu lo chiami, per vincere. E lo giocherò fino in fondo.»
«E sarà un amaro finale... per te! Ti ho dato la possibilità che ti sei meritato per la tua abilità e il tuo ardimento. La respingeresti?»
«Sua Maestà è troppo graziosa. Non sono degno di una simile attenzione...»
«E adesso ti prendi gioco di me! Sorridi pure del tuo sorriso contorto fino a quando potrai, mago, poiché quando scivolerai, quando cadrai, quando farai quell’unico piccolo errore, metterò le mani su di te. Le mie unghie affonderanno nelle tue carni e mi implorerai di darti la morte. Ma non verrà...
Qui i giorni sono lunghi eoni Raistlin Majere, e ogni giorno verrò a trovarti nella tua prigione: la prigione della tua mente. E poiché mi hai divertito, verrai torturato nella mente e nel corpo. Alla fine di ogni giorno morirai per il dolore. All’inizio di ogni notte ti riporterò in vita. Non potrai dormire, ma giacerai sveglio in tremante aspettativa del giorno che verrà. Al mattino, il mio volto sarà la prima cosa che vedrai.
Cosa? Stai impallidendo, mago. Il tuo fragile corpo trema, le tue mani sono scosse da un tremito. I tuoi occhi si spalancano per la paura. Prostrati davanti a me! Implora il mio perdono!...»
«Mia Regina...»
«Cosa? Non sei ancora in ginocchio?»
«Mia Regina... tocca a te muovere.»
Capitolo undicesimo.
«Maledetto questo cielo coperto! Se dev’esserci un temporale, vorrei che si decidesse e la facesse finita una volta per tutte,» borbottò Lord Gunthar.
I venti dominanti, pensò Tanis con una punta di sarcasmo, ma tenne quei pensieri per sé. E tenne per sé anche le parole di Dalamar, sapendo che Lord Gunthar non vi avrebbe mai creduto. Il mezzelfo era nervoso e sulle spine. Trovava difficile esser paziente con quel cavaliere dall’apparenza compiaciuta. In parte, ciò era dovuto a quel cielo dallo strano aspetto. Quel mattino, come Dalamar aveva predetto, non c’era stata nessuna alba. Invece, nubi azzurre e porpora sfumate di verde, dentro le quali guizzavano arcani lampi multicolori, erano apparse ribollenti e schiumanti sopra di loro. Non c’era vento. Non pioveva. Il giorno diventava sempre più caldo e opprimente.
Facendo i loro turni di guardia sui bastioni della Torre del Sommo Chierico, i cavalieri nelle loro pesanti armature di piastre e cotta di maglia si asciugavano il sudore dalla fronte e borbottavano di tempeste di primavera.
Soltanto due ore prima Tanis si era trovato a Palanthas, ad agitarsi e a rigirarsi fra le lenzuola di seta del letto nella stanza degli ospiti di Lord Amothus, continuando a rimuginare le ermetiche parole finali di Dalamar. Il mezzelfo era rimasto sveglio per la maggior parte della notte ripensando a esse, e pensando anche a Elistan.
Verso mezzanotte, al palazzo era giunta notizia che il chierico di Paladine era passato da questo mondo a un altro e più luminoso regno di esistenza. Era morto in pace, con la testa fra le braccia del vecchio e stordito stregone, così gentile, che era misteriosamente comparso e altrettanto misteriosamente se n’era andato. Preoccupato per gli ammonimenti di Dalamar, piangendo Elistan, e pensando di aver visto morire troppa gente, Tanis era appena piombato in un sonno esausto quand’era arrivato un messaggero per lui.
Il messaggio era stato breve e assai chiaro:
Tua presenza richiesta immediatamente Torre del Sommo Chierico.
Spruzzandosi acqua fredda sul viso, respingendo i tentativi di uno dei servi di Lord Amothus di aiutarlo ad affibbiarsi intorno al corpo la sua armatura di cuoio, Tanis completò la propria vestizione e uscì incespicando dal Palazzo, rifiutando cortesemente la prima colazione che Charles gli offriva. Fuori, lo aspettava un giovane drago bronzeo, il quale si presentò con il nome di Fireflash, mentre il suo nome segreto di drago era Khirsah.
«Conosco due tuoi amici, Tanis Mezzelfo,» disse il giovane drago mentre le sue forti ali li trasportavano senza sforzo apparente sopra le mura della città addormentata. «Ho avuto l’onore di combattere nella battaglia delle Montagne Vingaard, trasportando il nano Flint Fireforge, e il kender Tasslehoff Burrfoot, nella mischia.»
«Flint è morto,» lo informò Tanis con voce grave, sfregandosi gli occhi. Ne aveva visti morire troppi.
«Così ho sentito,» rispose il giovane drago, rispettosamente. «Mi è assai spiaciuto sentire la notizia.
Comunque, ha condotto una vita ricca e piena. Per qualcuno come lui la morte giunge come l’onore supremo.»
Ma sicuro, pensò tra sé Tanis, più che mai stanco. E Tasslehoff? Quel kender felice, benevolo, di buon cuore, il quale non chiedeva altro alla vita se non un po’ di avventura e una borsa piena di meraviglie? Se era vero, se Raistlin l’aveva ucciso, come Dalamar aveva accennato, quale onore poteva mai esserci nella sua morte? E Caramon, il povero, ubriaco Caramon, la morte per mano del suo gemello era giunta come un onore finale, o invece non era stata l’ultima pugnalata d’un coltello a mettere fine alla sua infelicità?
Con queste riflessioni, Tanis si era addormentato sulla schiena del drago, svegliandosi soltanto quando Khirsah atterrò nei cortile della Torre del Sommo Chierico. Mentre si guardava intorno con espressione cupa, Tanis sentì il suo stato d’animo incupirsi ancora di più. Aveva cavalcato con la morte soltanto per arrivare con la morte, perché proprio qui era sepolto Sturm: sì, un altro orrore finale.
Così, Tanis era tutt’altro che di buon umore, quando venne condotto nelle stanze di Lord Gunthar, che si trovavano in alto, in una delle guglie dal profilo slanciato della Torre del Sommo Chierico. Da qui si godeva un’ eccellente vista del cielo e della terra. Guardando fuori della finestra, osservando le nuvole con una crescente sensazione di sinistra premonizione, Tanis divenne consapevole soltanto gradualmente che Lord Gunthar era entrato e gli stava parlando.
«Scusami, Lord,» gli disse voltandosi.
«Tè speziato?» gli chiese Lord Gunthar, sollevando un boccale fumante della bevanda dal gusto amarognolo.
«Sì, grazie.» Tanis l’accettò e l’inghiotti con rapide sorsate, accogliendo con piacere il calore che si diffuse nel suo corpo, ignorando il fatto che gli aveva scottato la lingua.
Lord Gunthar si avvicinò a Tanis e a sua volta fissò il preludio della tempesta, fuori della finestra, sorseggiando il suo tè con una calma che fece venire voglia al mezzelfo di strappargli via, di colpo, i baffi.
Perché mai mi hai mandato a chiamare? s’infuriò dentro di sé Tanis. Ma sapeva che il cavaliere per nulla al mondo avrebbe desistito dal completare il rituale di cortesia antico di secoli, prima di arrivare al punto.
«Hai sentito di Elistan?» gli chiese Tanis, alla fine.
Lord Gunthar annuì. «Sì, la notizia ci è giunta questa mattina. I cavalieri terranno una cerimonia in suo onore qui nella Torre... se ci sarà concesso.»
Tanis quasi soffocò con il suo tè, e si affrettò a finire la tazza. Una cosa soltanto avrebbe potuto impedire ai cavalieri di tenere una cerimonia in onore di un chierico del loro dio, Paladine: la guerra. «Concesso? Allora, hai avuto informazioni? Sono giunte altre notizie da Sanction? Cosa stanno facendo le spie...»
«Le nostre spie sono state assassinate,» annunciò Lord Gunthar, con calma.
Tanis voltò le spalle alla finestra. «Ma come? Cosa...»
«I loro corpi mutilati sono stati portati nella fortezza di Solanthas da draghi neri e sono stati fatti cadere nel cortile ieri sera. Sono arrivati mentre stava infuriando una strana tempesta, una copertura perfetta per i draghi neri, e...» a questo punto Lord Gunthar rimase silenzioso, guardando fuori dalla finestra e corrugando la fronte.
«Draghi e... cosa?» volle sapere Tanis. Una possibilità cominciava a prendere forma nella sua mente. Il tè bollente gli bagnò la mano tremante, e il mezzelfo si affrettò a posare la tazza sul davanzale della finestra.
Gunthar si tirò i baffi, le rughe nella sua fronte si approfondirono.
«Strani rapporti sono arrivati fino a noi, prima da Solanthas e poi da Vingaard.»
«Quali rapporti? Hanno forse visto qualcosa? E che cosa?
«Non hanno visto niente. Si tratta di quello che hanno sentito. Strani suoni provenienti dalle nubi, o forse perfino da sopra le nubi.»
La mente di Tanis andò alla descrizione che Riverwind gli aveva fatto dell’assedio di Kalaman.
«Draghi?»
Gunthar scosse la testa. «Voci, risate, porte che si aprivano e sbattevano, rimbombi, scricchiolii...»
«Lo sapevo!». La mano stretta a pugno di Tanis colpì il davanzale della finestra. «Sapevo che Kitiara aveva un piano! Certo! Dev’essere questo!» Con espressione cupa fissò le nubi ribollenti.
«Una cittadella volante!»
Accanto a lui Lord Gunthar sospirò pesantemente. «Te l’ho detto che rispettavo questa Signora dei Draghi, Tanis. A quanto pare non l’ho rispettata abbastanza. Con un solo colpo ha risolto i problemi delle truppe e della logistica. Non ha bisogno di linee di rifornimento: porta con sé i propri rifornimenti. La Torre del Sommo Chierico è stata concepita per la difesa contro gli attacchi da terra. Non ho nessuna idea per quanto tempo possiamo resistere contro una cittadella volante. A
Kalaman i draconici balzavano dalla cittadella, fluttuando giù sulle loro ali, portando la morte per le strade. Usufruitori di magia dalle Vesti Nere scagliavano giù palle di fuoco... E con lei, naturalmente, ci sono i draghi malvagi. «Non che abbia qualche dubbio sul fatto che i cavalieri possano difendere la fortezza contro la cittadella, naturalmente,» continuò Gunthar, con durezza.
«Ma sarà una battaglia assai più aspra di quanto avessi previsto a tutta prima. Ho modificato la nostra strategia. Kalaman è sopravvissuta all’attacco di una cittadella aspettando fino a quando la maggior parte delle sue truppe non furono sganciate, poi i draghi buoni, trasportando i soldati sui loro dorsi, s’innalzarono in volo e ne presero il controllo. Ovviamente, lasceremo qui nella fortezza la maggior parte dei draghi, per combattere i draconici che si sganceranno su di noi. Ho circa un centinaio di draghi bronzei pronti a innalzarsi in volo e a dare inizio all’attacco al cuore stesso della cittadella volante.»
La cosa era sensata, dovette ammettere Tanis a se stesso. Riverwind gli aveva raccontato quella parte della battaglia di Kalaman. Ma Tanis sapeva anche che Kalaman non era stata capace, poi, di tenere la cittadella avversaria. Si erano limitati a respingerla. Le truppe di Kitiara, rinunciando alla battaglia per Kalaman, erano state in grado di ristrutturare facilmente la loro cittadella e di riportarla in volo fino a Sanction, dove Kit, a quanto pareva, ne aveva fatto di nuovo buon uso.
Tanis stava per far notare questo a Lord Gunthar, quando venne interrotto.
«Ci aspettiamo che la cittadella ci attacchi da un momento all’altro,» dichiarò Lord Gunthar, guardando con calma fuori della finestra. «In effetti...»
Tanis strinse il braccio di Gunthar. «Là!» e puntò il dito.
Lord Gunthar annuì. Voltandosi verso un attendente accanto alla porta, ordinò: «Suona l’allarme!»
Le trombe squillarono, i tamburi rullarono. I cavalieri presero posto sui bastioni della Torre del Sommo Chierico con ordinata efficienza. «Siamo rimasti vigili per la maggior parte della notte,» aggiunse Gunthar inutilmente.
I cavalieri erano tanto disciplinati che nessuno parlò o gridò quando la fortezza volante scese dalla copertura delle nubi tempestose, comparendo alla vista. I capitani fecero il loro giro impartendo con calma gli ordini. Le trombe strepitarono la loro sfida. Di tanto in tanto Tanis udiva il tintinnio di un’armatura quando, qua e là, un cavaliere si agitava nervoso al suo posto di battaglia. E poi, in alto, udì un battito di ali di drago, quando parecchi stormi di draghi bronzei, guidati da Khirsah, s’involarono dalla Torre.
«Ti sono riconoscente per avermi convinto a fortificare la Torre del Sommo Chierico, Tanis,» disse Lord Gunthar, sempre parlando con studiata calma. «Vista la situazione ho potuto fare appello soltanto a quei cavalieri che sono riuscito a radunare con pochissimo preavviso. Comunque, qui ce ne sono più di duemila. Siamo bene approvvigionati. Sì,» ripetè, «possiamo difendere la Torre, perfino contro una cittadella, non ho dubbi in proposito. Kitiara non può avere più di mille soldati, lassù...». Tanis provò il vivo, amaro desiderio che Lord Gunthar la smettesse di dar enfasi alla cosa.
Cominciava ad avere l’impressione che il capo dei cavalieri cercasse soprattutto di convincere se stesso. Fissando la cittadella mentre si avvicinava sempre più, una voce interiore gli stava gridando, martellando, che qualcosa non quadrava...
Eppure non poteva muoversi. Non poteva pensare. Adesso la cittadella volante era chiaramente visibile, essendo scesa completamente al di sotto delle nubi. La fortezza attirava tutta la sua attenzione. Tanis ricordò la prima volta che l’aveva vista a Kalaman, ricordava lo sbigottimento che aveva provato a una simile vista, allo stesso tempo carica di orrore e di sgomento. E, come la volta precedente, riusciva soltanto a rimanere immobile a fissarla.
Lavorando nelle viscere dei templi tenebrosi della città di Sanction, sotto la supervisione di Lord Ariakas, il comandante degli eserciti dei draghi il cui genio malefico aveva quasi condotto alla vittoria la Regina delle Tenebre, usufruitori di magia dalle Vesti Nere e chierici scuri erano riusciti a strappare magicamente un castello dalle proprie fondamenta e a farlo volare nel cielo. La cittadella volante aveva attaccato parecchie città, nel corso della guerra, l’ultima delle quali era stata Kalaman, proprio durante gli ultimi giorni di combattimenti. Era quasi riuscita a sconfiggere la città, anche se questa, cinta dal mare, si era ben fortificata e si era aspettata l’assalto.
Fluttuando sulle nuvole della magia tenebrosa, illuminata dai lampi delle saette multicolori, la cittadella si avvicinava sempre di più. Tanis poteva scorgere le luci alle finestre delle sue tre torri, poteva udire i suoni che, anche se tutt’altro che insoliti a terra, apparivano sinistri e terrificanti quando si udivano provenire dal cielo: voci che impartivano ordini, armi che cozzavano. Riusciva a udire ancora, almeno così gli pareva, il salmodiare degli usufruitori di magia dalle Vesti Nere che si preparavano a lanciare i loro possenti incantesimi. Poteva vedere i draghi del male che volavano intorno alla città, descrivendo pigri cerchi. Quando la cittadella volante fu ancora più vicina, un cortile si sbriciolò su un lato della fortezza, le sue mura infrante giacquero in rovina là dov’erano state trascinate a forza fuori dalle loro fondamenta.
Tanis contemplava l’intera scena affascinato e impotente, e quella voce interiore continuava ancora a parlargli. Duemila cavalieri! Radunati all’ultimo momento e così mal preparati! Soltanto qualche stormo di draghi. Certo, la Torre del Sommo Chierico avrebbe anche potuto resistere, ma il costo sarebbe stato altissimo. Comunque, sarebbe bastato che resistessero soltanto qualche giorno. A quel punto, Raistlin sarebbe stato sconfitto. Kitiara non avrebbe più avuto nessun bisogno di attaccare Palanthas. Intanto, altri cavalieri avrebbero raggiunto la Torre del Sommo Chierico, insieme ad altri draghi buoni. Forse sarebbero riusciti a sconfiggerla qui, definitivamente, una volta per tutte.
Kitiara aveva infranto la tregua incerta che era in atto fra i Signori dei Draghi e il libero popolo di Ansalon. Kitiara aveva lasciato il rifugio di Sanction, era uscita allo scoperto. Questa era la sua occasione. Potevano sconfiggerla, forse catturarla. Tanis sentì una stretta dolorosa alla gola. Kitiara avrebbe mai consentito a farsi prendere viva? No, naturalmente no. La sua mano si chiuse sopra l’elsa della spada. Si era trovato là, quando i cavalieri avevano tentato d’impadronirsi della cittadella. Forse lui sarebbe riuscito a persuaderla ad arrendersi. Poteva fare in modo che venisse trattata con giustizia, come un nemico onorevole...
Riusciva a vederla con tanta chiarezza nella sua mente! In piedi, con aria di sfida, circondata dai suoi nemici, pronta a vendere cara la propria vita. E poi avrebbe guardato da quella parte e l’avrebbe visto. Forse quegli occhi duri, scuri e luccicanti, si sarebbero addolciti, forse avrebbe lasciato cadere la spada e avrebbe teso le braccia...
Cosa stava mai pensando! Tanis scosse la testa. Stava sognando a occhi aperti come un giovane colpito dalle lune. Comunque, avrebbe fatto in modo di trovarsi con i cavalieri...
Tanis sentì un tumulto dai bastioni sottostanti e si affrettò a guardar fuori, anche se non ne aveva bisogno. Sapeva quello che stava accadendo: la fobia dei draghi. Più distruttiva delle frecce, la paura generata dai draghi malvagi, le cui ali nere e azzurre adesso erano visibili sullo sfondo delle nuvole, aveva colpito i cavalieri in attesa sui bastioni. I cavalieri più anziani, i veterani della Guerra delle Lance, rimanevano saldi ai loro posti, stringendo le proprie armi con espressione cupa, lottando contro il terrore che riempiva i loro cuori. Ma i cavalieri più giovani, che per la prima volta affrontavano in battaglia i draghi, si erano sbiancati in volto, ritraendosi negli angoli, qualcuno piangeva, svergognando se stesso, oppure voltava le spalle allo spaventevole spettacolo che lo sovrastava.
Vedendo alcuni di quei giovani cavalieri in preda alla paura sui bastioni sotto di lui, Tanis digrignò i denti. Anche lui si sentì travolgere da quella nauseante paura, lo stomaco gli si contorse e la bile gli salì alla bocca. Lanciò un’occhiata in direzione di Lord Gunthar, e vide che l’espressione del cavaliere si stava indurendo, e seppe che anche lui stava provando la stessa cosa.
Sollevando lo sguardo, Tanis potè vedere i draghi bronzei che servivano i Cavalieri di Solamnia volare in formazione, in attesa, sopra la Torre. Non avrebbero attaccato fino a quando non fossero stati attaccati, tali erano i termini della tregua che esisteva fra i draghi buoni e quelli malvagi sin dalla fine della guerra. Ma Tanis vide Khirsah, il capo, lanciare indietro la testa con orgoglio, con i suoi artigli taglienti che risplendevano al bagliore dei lampi. Quanto meno, nella mente del drago non c’era nessun dubbio che la battaglia sarebbe scoppiata tra poco.
Ma quella voce interiore continuava a tormentare Tanis. Tutto troppo semplice, troppo facile.
Kitiara doveva aver in mente qualcosa...
La cittadella si avvicinava sempre di più. Pareva la dimora di qualche immonda colonia d’insetti, rifletté Tanis, sempre più cupo. I draconici letteralmente la rivestivano! Aggrappati ad ogni minimo pollice di superficie, le loro ali tozze completamente estese, erano appollaiati sui bastioni e penzolavano dalle guglie. I loro sogghignanti musi da rettili erano visibili alle finestre e sbirciavano fuori dai vani delle porte. Era tale il silenzio carico di sgomento che regnava nella Torre del Sommo Chierico (salvo l’occasionale piagnucolare di qualche cavaliere sopraffatto dalla paura) che era possibile udire il fruscio delle ali delle creature che scendevano dalla cittadella sovrastante e, sopra di esso un vago risuonare di canti, il mescolarsi delle voci degli stregoni e dei chierici, il cui malefico potere faceva librare nell’aria quell’immane congegno.
Si avvicinava sempre più, la tensione dei cavalieri crebbe a livelli insopportabili. Si udirono ordini sommessi, le spade scivolarono fuori dai foderi, le lance vennero puntate, gli arcieri incoccarono le loro frecce, i secchi d’acqua vennero riempiti, pronti a spegnere gli incendi, le compagnie si raccolsero nel cortile per affrontare tutti i draconici che fossero balzati giù dal cielo.
Lassù in alto, Khirsah allineò i suoi draghi in formazione di battaglia, suddividendoli in gruppi di due o tre, che si librarono e poi sostarono immobili, pronti a piombare sul nemico come folgori di bronzo.
«La mia presenza è richiesta là sotto,» disse Lord Gunthar.
Raccolse il proprio elmo e se l’infilò in testa, uscendo a grandi passi dal suo quartiere generale per prendere posto alla torre di osservazione, accompagnato dai suoi ufficiali e dai suoi aiutanti.
Ma Tanis non se ne andò, non rispose neppure al tardivo invito di Lord Gunthar di unirsi a loro. La voce dentro di lui si stava facendo sempre più forte e insistente. Chiuse gli occhi e voltò le spalle alla finestra. Bloccando la debilitante fobia dei draghi, escludendo la vista di quella cupa, mortifera fortezza, lottò per concentrarsi sulla voce dentro di lui.
E, finalmente, l’udì.
«In nome degli dei, no!» bisbigliò. «Quanto siamo stati stupidi, ciechi! Abbiamo fatto in pieno il suo gioco!»
D’un tratto, il piano di Kitiara gli apparve chiaro, quasi come se lei si fosse trovata lì, al suo fianco, a spiegarglielo nei particolari. Con il petto stretto nella morsa della paura, Tanis balzò verso la finestra. Batté il pugno sul davanzale di pietra scolpita, tagliandosi le dita. Spinse il boccale di birra, facendolo cadere per terra, dove s’infranse. Ma non si avvide né del sangue che gli scorreva dalla mano ferita, né del liquido rovesciato.
Sollevando gli occhi su quel cielo arcano e oscurato dalle nubi, seguì con lo sguardo la cittadella che si avvicinava sempre di più, sempre di più...
Adesso a portata dell’arco lungo.
Adesso a portata di lancia.
Sollevando lo sguardo, quasi accecato dai lampi, Tanis potè vedere fin nei particolari le armature dei draconici, potè vedere i volti sogghignanti dei mercenari umani che combattevano in quei ranghi, potè vedere le scaglie brillanti dei draghi che volavano sopra di lui.
E poi la cittadella passò oltre.
Non una sola freccia era volata, non un solo incantesimo era stato lanciato. Khirsah e i draghi bronzei giravano in cerchio a disagio, fissando con furore i loro cugini malvagi, costretti però dal loro giuramento a non attaccare coloro che non li avessero attaccati per primi. I cavalieri erano sui bastioni, aguzzando gli occhi sulla gigantesca, spaventevole fortezza che volava sopra di loro sfiorando la guglia più alta della Torre del Sommo Chierico mentre passava, facendo cadere alcune pietre che si schiantarono nel cortile sottostante.
Imprecando fra i denti, Tanis corse alla porta, andando a sbattere contro Lord Gunthar, il quale stava entrando con un’espressione perplessa sul volto.
«Non riesco a capire,» stava dicendo Lord Gunthar ai suoi aiutanti. «Perché non ci ha attaccato?
Cosa sta facendo?»
«Sta per attaccare direttamente la città, amico!» Tanis afferrò Lord Gunthar per le braccia, giungendo a scuoterlo tutto. «È quello che Dalamar ha sempre detto: il piano di Kitiara è quello di attaccare Palanthas! Non ha nessuna intenzione di perdere tempo con noi, e adesso non deve più farlo! Sta passando sopra la Torre del Sommo Chierico.»
Gli occhi di Gunthar, appena visibili dietro le fessure del suo elmo, si strinsero. «È una follia,» disse con freddezza, tirandosi i baffi. Alla fine, vivamente irritato, si strappò via l’elmo dalla testa. «Ma, in nome degli dei, Mezzelfo, che razza di strategia militare è mai questa? In questo modo, lascia scoperte le retroguardie del suo esercito! Anche se dovesse conquistare Palanthas, non ha abbastanza forze per mantenerne il controllo. Si troverà intrappolata fra le mura della città e noi.
No! Dovrà finirci qui, e poi attaccare la città! Altrimenti, la stermineremmo facilmente. Non c’è via di fuga per lei!»
Lord Gunthar si rivolse ai suoi aiutanti. «Forse questa è una finta, per coglierci di sorpresa. Faremo meglio a prepararci a un attacco della cittadella dalla direzione opposta...»
«Ascoltami!» s’infuriò Tanis. «Questa non è affatto una finta. Kitiara andrà a Palanthas! E quando tu e i tuoi cavalieri arriverete alla città, suo fratello Raistlin sarà tornato attraverso il Portale! E lei lo aspetterà, con la città ormai sotto il suo controllo!»
«Sciocchezze!» esclamò Lord Gunthar, corrugando la fronte. «Kitiara non può conquistare Palanthas così in fretta. I draghi buoni sono pronti a levarsi per combattere, maledizione. Tanis, anche se i palanthani non sono dei grandi soldati, possono tenerla a bada, non fosse altro per il loro numero!» Sbuffò. «I cavalieri possono mettersi in marcia immediatamente. Saremo laggiù tra quattro giorni.»
«Ma ti stai dimenticando di una cosa,» esclamò fremente Tanis, facendosi strada a furia di spinte, con fermezza ma sempre con cortesia, in mezzo ai cavalieri. Girando sui tacchi, gridò: «Ci siamo tutti dimenticati di una cosa, l’elemento che pareggia le forze in campo: Lord Soth!».
Capitolo dodicesimo.
Sospinto dalle potenti zampe posteriori, Khirsah balzò verso il cielo levandosi sopra le mura della Torre del Sommo Chierico con elegante disinvoltura. Il battito delle robuste ali fece ben presto superare al drago, insieme al suo cavaliere, la cittadella che procedeva lenta. Eppure, osservò Tanis, cupo, la fortezza si muove con sufficiente rapidità per arrivare a Palanthas entro l’alba dell’indomani.
«Non troppo vicino,» lo ammonì Tanis.
Un drago nero li sorvolò, descrivendo sopra di loro delle ampie, pigre spirali per tenerli d’occhio.
Altri draghi neri si libravano in distanza e, adesso che si trovava alla stessa altezza della cittadella, Tanis poteva vedere anche i draghi azzurri che volavano intorno alle torrette grigie del castello fluttuante nell’aria.
Tanis ebbe modo di riconoscere in un drago azzurro particolarmente grande la cavalcatura personale di Kitiara, Skie.
Dov’è Kit? si chiese Tanis, cercando senza successo di aguzzare lo sguardo dentro le finestre, affollate di draconici vaganti, che se lo stavano indicando l’un l’altro beffardamente. Provò l’improvvisa paura che lei potesse riconoscerlo, se stava guardando, e si calò sulla testa il cappuccio del mantello. Poi, con un mesto sorriso, si grattò la barba. A quella distanza Kit non avrebbe visto altro che un cavaliere solitario sul dorso di un drago, probabilmente un messaggero dei cavalieri.
Poteva immaginarsi vividamente ciò che stava accadendo all’interno della cittadella.
«Possiamo spazzarlo via dal cielo, Signora Kitiara,» certo stava proponendo uno dei suoi comandanti.
Tanis sentì quasi echeggiargli nelle orecchie la risata che ricordava tanto bene. «No, lascia pure che porti la notizia a Palanthas, che dica loro quello che devono aspettarsi. Diamo loro il tempo di sudare freddo.»
Il tempo di sudare freddo. Tanis si asciugò il viso. Anche in quell’aria gelida sopra le montagne, la camicia sotto la sua tunica di cuoio e l’armatura era bagnata e appiccicosa. Tremava per il freddo e si strinse ancora più addosso il mantello. I muscoli gli facevano male; era abituato a viaggiare in carrozza, non sui draghi, e ripensò per un attimo, con intenso desiderio, alla sua calda carrozza. Poi rise sarcasticamente di sé. Scuotendo la testa per schiarirsela (perché mai l’aver perso una notte di sonno doveva fargli un simile effetto?) costrinse la propria mente a scordarsi di quel disagio e ad affrontare l’impossibile problema che gli si parava davanti.
Khirsah stava facendo del suo meglio per ignorare il drago nero che continuava a librarsi accanto a loro. Il drago bronzeo aumentò la propria velocità, e, alla fine, il drago nero, che era stato inviato soltanto per tenerli d’occhio, tornò indietro. La cittadella ben presto rimase lontana alle loro spalle, continuando a volare senza sforzo alcuno sopra i picchi della catena montuosa che avrebbe bloccato un esercito.
Tanis cercò di elaborare dei piani, ma tutto quello che gli venne in mente comportava qualcos’altro di più importante che andava fatto prima, fino a quando non si sentì come uno di quei topolini ammaestrati in fiera che continuavano a correre dentro una piccola ruota come se avessero una fretta infernale, senza arrivare mai da nessuna parte. Per lo meno Lord Gunthar aveva tiranneggiato e tormentato i generali di Lord Amothus (a Palanthas si trattava soltanto d’un titolo onorario, concesso per eccezionali servigi resi alla comunità; nessun generale attualmente in servizio era mai stato in battaglia) inducendoli a mobilitare la milizia locale. Sfortunatamente la mobilitazione era stata considerata soltanto una scusa per fare un po’ di vacanza.
Gunthar e i suoi cavalieri erano rimasti là a ridere e a darsi di gomito nel vedere quei soldati che, impacciati e incespicanti, facevano le esercitazioni. Dopo, Lord Amothus aveva tenuto un discorso di due ore, e la milizia, orgogliosa dei propri eroismi, si era ubriacata fino a stordirsi del tutto, e tutti si erano divertiti un mondo.
Ricreando nella sua mente i grassocci padroni delle taverne, i mercanti sudati, i sarti azzimati e i fabbri dalle mani grosse come prosciutti che inciampavano sulle loro armi e gli uni sugli altri, eseguendo ordini che non erano mai stati dati, e omettendo quelli che avrebbero dovuto eseguire, Tanis fu sul punto di mettersi a piangere per la frustrazione. Sono costoro, pensò, angosciato, che domani affronteranno un cavaliere della morte e i suoi scheletrici seguaci alle porte di Palanthas.
«Dov’è Lord Amothus?» volle sapere Tanis, spingendo la gigantesca porta del palazzo reale ancora prima che venisse aperta, facendo quasi ruzzolare a terra lo stupefatto valletto.
«Sta dor... dormendo,» cominciò a farfugliare il valletto. «Siamo soltanto a metà mattinata...»
«Fallo alzare. Chi comanda i Cavalieri?»
Il valletto, strabuzzando gli occhi, farfugliò qualcosa d’incomprensibile.
«Dannazione!» ringhiò Tanis. «Chi è il cavaliere di rango più alto, testa di legno!»
«Sarebbe sir Markham, sir, Cavaliere della Rosa,» disse Charles con la sua voce calma e dignitosa, emergendo da una delle anticamere. «Devo mandare a...»
«Sì!» urlò Tanis. Poi, vedendo che tutti nel grande atrio del palazzo lo fissavano come si guarda un pazzo, e ricordando che il panico non avrebbe certo contribuito a migliorare la situazione, il mezzelfo si mise la mano sugli occhi, tirò un profondo respiro per calmarsi, e si costrinse a parlare razionalmente.
«Sì,» ripetè con voce tranquilla, «manda a chiamare sir Markham, e anche il mago, Dalamar.»
Quest’ultima richiesta parve confondere perfino Charles. La valutò per un momento, poi, con un’espressione di sofferenza sul volto, si azzardò a protestare: «Mi spiace enormemente, mio signore, ma non ho alcun mezzo per inviare un messaggio alla... alla Torre della Grande Stregoneria. Nessun essere vivente può mettere piede in quel bosco maledetto, nel folto di quegli alberi... neppure un kender!»
«Maledizione!» s’infuriò Tanis. «Io devo parlargli!» Un’idea gli balenò nella mente. «Certamente avrete dei goblin fra i vostri prigionieri, non è così? Uno della loro razza può passare attraverso il Bosco. Vai a prendere una di quelle creature, promettigli la libertà, il denaro, la metà del regno, lo stesso Lord Amothus, qualsiasi cosa! Basta che entri in quel dannato Bosco...»
«Non sarà necessario, Mezzelfo,» si fece udire una voce vellutata. Una figura abbigliata di nero si materializzò nel corridoio del palazzo, cogliendo Tanis di sorpresa, traumatizzando i valletti, e inducendo perfino Charles a inarcare le sopracciglia.
«Tu sei potente, » commentò Tanis avvicinandosi all’elfo scuro usufruitore di magia. Charles stava impartendo ordini a vari servitori, mandandone uno a svegliare Lord Amothus e un altro a convocare sir Markham, dovunque si trovasse. «Ho bisogno di parlarti in privato. Vieni con me.»
Dalamar seguì Tanis, con un freddo sorriso. «Vorrei poter accettare il complimento, Mezzelfo, ma è stato solo osservando che ho intuito il tuo arrivo, non già grazie a qualche magica lettura del pensiero. Dalla finestra del laboratorio ho visto il drago bronzeo toccare terra nel cortile del palazzo. Ti ho visto smontare dal drago ed entrare nel palazzo. Ho bisogno di parlare con te almeno quanto tu ne hai di parlare con me. Perciò, eccomi qui.»
Tanis chiuse la porta. «Presto, prima che arrivino gli altri. Sai cosa si sta dirigendo verso Palanthas?»
«L’ho saputo la scorsa notte. Ti ho mandato ad avvertire, ma tu eri già partito.» Il sorriso di Dalamar si mutò in una smorfia. «Le ali delle mie spie sono veloci.»
«Sempre che usino le ali,» borbottò Tanis. Si grattò la barba con un sospiro, poi sollevò la testa e fissò intensamente Dalamar. L’elfo scuro se ne stava lì immobile, le mani congiunte nelle vesti nere, calmo e chiuso in sé. Il giovane elfo aveva, fuor di dubbio, l’aspetto di qualcuno su cui si poteva fare affidamento in una situazione difficile, grazie al suo sangue freddo. Sfortunatamente, rimaneva il dubbio per chi avrebbe agito.
Tanis si sfregò la fronte. Com’era sconcertante quella situazione! Ai vecchi tempi tutto era stato assai più facile, quando il bene e il male erano chiaramente definiti e tutti sapevano per chi stavano combattendo. Adesso, lui era alleato con il male per combattere il male. Com’era possibile? Il male che si rivoltava contro se stesso, così Elistan aveva letto sui Dischi di Mishakal. Scuotendo rabbiosamente la testa, Tanis si rese conto che stava sprecando tempo. Doveva fidarsi di quel Dalamar. Quanto meno, doveva fidarsi della sua ambizione.
«C’è qualche maniera per fermare Lord Soth?»
Dalamar annuì lentamente. «Tu pensi in fretta, Mezzelfo. Così, sei convinto anche tu che il cavaliere della morte attaccherà Palanthas?»
«Ma è ovvio, no?» esclamò Tanis, veemente. «Dev’essere questo il piano di Kitiara. È questo che pareggia le probabilità.»
L’elfo scuro scrollò le spalle. «Per rispondere alla tua domanda, no, non c’è niente che si possa fare.
Non adesso, in ogni caso.»
«E tu? Potresti fermarlo?»
«Non oso lasciare il mio posto accanto al Portale. Adesso sono venuto perché so che Raistlin è ancora lontano da esso. Ma a ogni nostro respiro, Raistlin si trova più vicino. Questa sarà la mia ultima possibilità di lasciare la Torre. È per questo che sono venuto a parlare con te, per avvertirti.
C’è poco tempo.»
«Sta vincendo!» Tanis fissò Dalamar incredulo.
«L’hai sempre sottovalutato,» replicò Dalamar con un sogghigno. «Te l’ho detto, adesso è forte, potente, il più grande stregone che sia mai vissuto. Certo che sta vincendo! Ma a quale costo... un altissimo costo.»
Tanis corrugò la fronte. Non gli piaceva la nota d’orgoglio che sentiva nella voce di Dalamar quando parlava di Raistlin. Certo non dava l’impressione di essere un apprendista pronto a uccidere il suo Shalafi se se ne fosse presentata la necessità.
«Ma per tornare a Lord Soth,» riprese Dalamar con freddezza, leggendo più pensieri sul volto di Tanis di quanti il mezzelfo avrebbe voluto rivelare, «quando per la prima volta mi sono reso conto che avrebbe indubbiamente utilizzato questa occasione per vendicarsi di una città e di un popolo che ha odiato a lungo (se si presta fede alle leggende sulla sua caduta) ho preso contatto con la Torre della Grande Stregoneria nella Foresta di Wayreth...»
«Certo,» bofonchiò Tanis, sollevato. «Par-Salian! Il Conclave. Loro potrebbero...»
«Non c’è stata nessuna risposta al mio messaggio,» proseguì Dalamar, ignorando l’interruzione.
«Laggiù sta accadendo qualcosa di strano. Non so cosa. Il mio messaggero ha trovato la strada sbarrata, e per uno della sua... diciamo... natura leggera ed eterea, non è facile.»
«Ma... »
«Oh,» Dalamar scrollò le spalle ammantate di nero, «continuerò a tentare. Ma non possiamo contare su di loro, e sono loro gli unici usufruitori di magia abbastanza potenti da fermare un cavaliere della morte.»
«I chierici di Paladine...»
«Sono troppo nuovi in questa loro fede. Si dice che ai tempi di Huma i chierici davvero potenti fossero in grado d’invocare l’aiuto di Paladine e di usare certe parole sacre contro i cavalieri della morte. Ma, se un tempo era così, oggi non c’è più nessuno su Krynn con quel potere.»
Tanis rifletté per qualche istante.
«La destinazione di Kit sarà la Torre della Grande Stregoneria, per incontrare ed aiutare suo fratello, giusto?»
«E per cercare di fermarmi,» aggiunse Dalamar con voce tesa, impallidendo.
«Può Kitiara attraversare il Bosco di Shoikan?»
Dalamar scrollò un’altra volta le spalle, ma Tanis notò che, d’un tratto, la sua freddezza si era fatta tesa e forzata. «Il Bosco di Shoikan è sotto il mio controllo. Terrà fuori tutte le creature, vive e morte.» Dalamar sorrise di nuovo, ma questa volta senza alcuna allegria. «A proposito, il tuo goblin non sarebbe sopravvissuto più di cinque secondi. Tuttavia, Kitiara possiede un amuleto, che Raistlin le ha dato. Se è ancora in suo possesso e ha il coraggio di usarlo, e se Lord Soth si trova con lei, potrebbe farcela. Però, una volta dentro, dovrà affrontare i guardiani della Torre, che non sono meno formidabili di quelli del Bosco. Comunque, questa è una cosa di cui devo preoccuparmi io, non tu...»
«Troppe sono le cose di cui ti devi preoccupare!» esplose Tanis. «Dai anche a me un amuleto!
Fammi entrare nella Torre! Io posso affrontarla...»
«Oh, sì,» replicò Dalamar, divertito, «so quanto bene ti sei arrangiato in passato. Ascolta, Mezzelfo: ne avrai già fin sopra i capelli soltanto per tentare di mantenere il controllo della città. Inoltre, hai dimenticato una cosa: il vero scopo di Lord Soth in questa faccenda. Lui vuole Kitiara morta. La vuole per sé. Questo me l’ha detto lui stesso. Se riuscirà a ottenere la sua morte e a vendicarsi di Palanthas, avrà raggiunto il suo obbiettivo. A Lord Soth, di Raistlin non importa proprio un bel niente.»
Sentendosi d’un tratto gelare fin nell’anima, Tanis fu incapace di rispondere. Si era davvero dimenticato dello scopo di Lord Soth. Il mezzelfo rabbrividì. Kitiara si era resa responsabile di molte cose malvagie. Sturm era morto sulla punta della sua lancia, innumerevoli persone avevano perduto la vita per ordine suo, innumerevoli altre avevano sofferto e soffrivano ancora. Ma si meritava questo? Un’ interminabile esistenza di gelidi e oscuri tormenti, legata per sempre in un qualche tipo di empio matrimonio con quella creatura dell’Abisso?
Una cortina di tenebra oscurò la vista di Tanis. Debole, stordito, si vide barcollare sull’orlo spalancato di un baratro e si sentì cadere...
Provò la vaga sensazione di venire avvolto in un tessuto morbido e nero, sentì delle mani robuste che lo sorreggevano, lo guidavano...
Poi, più niente.
L’orlo freddo e liscio d’un bicchiere toccò le labbra di Tanis, il brandy gli punse la lingua e gli scaldò la gola. Intontito, sollevò lo sguardo e vide Charles accanto a lui.
«Hai cavalcato lontano senza cibo o bevande, così mi ha detto l’elfo scuro.» Dietro a Charles pareva fluttuare il volto pallido e ansioso di Lord Amothus. Avvolto in una veste da camera bianca, Amothus assomigliava moltissimo a uno spettro sconvolto.
«Sì,» riuscì a biascicare Tanis, spingendo via il bicchiere e cercando di alzarsi. Però, sentendo che la stanza ondeggiava sotto i suoi piedi, decise che era meglio rimanere seduto. «Hai ragione, sarà meglio che mangi qualcosa.» Si guardò intorno, cercando l’elfo scuro. «Dov’è Dalamar?»
Il volto di Charles si fece severo. «E chi lo sa, mio signore? È tornato di corsa alla sua dimora di tenebra, suppongo. Ha dichiarato che con te aveva finito. Col tuo permesso, mio signore, ora dirò al cuoco di prepararti la colazione.» Con un inchino, Charles si ritirò, facendosi prima da parte per permettere al giovane sir Markham di entrare.
«Hai fatto colazione, sir Markham?» chiese Lord Amothus, con voce esitante, per nulla certo di ciò che stava accadendo e decisamente innervosito dal fatto che un elfo scuro usufruitore di magia si sentisse libero di apparire e scomparire in casa sua. «No? Allora faremo proprio un bel terzetto.
Come preferisci le tue uova?»
«Forse non dovremmo star qui a parlare di uova in questo momento, mio signore,» disse sir Markham, lanciando un’occhiata a Tanis, con un fuggevole sorriso. Le sopracciglia del mezzelfo si erano intrecciate in maniera allarmante e il suo aspetto scarmigliato ed esausto indicava che aveva qualche spaventevole notizia da dare. Lord Amothus sospirò e Tanis vide che il signore della città aveva semplicemente cercato di rimandare l’inevitabile.
«Sono tornato questa mattina dalla Torre del Sommo Chierico...» cominciò Tanis.
«Ah,» fece sir Markham, e prese posto, quasi distrattamente, su una sedia, versandosi un bicchiere di brandy. «Ho ricevuto un messaggio da Lord Gunthar in cui mi diceva che si aspettava d’impegnare il nemico questa mattina. Come sta andando la battaglia?». Sir Markham era un giovane ricco e nobile, aitante, generoso, spensierato, e di buon carattere. Si era distinto nella Guerra delle Lance, combattendo agli ordini di Laurana, ed era stato fatto Cavaliere della Rosa. Ma Tanis ricordò ciò che Laurana gli aveva detto: che l’ardimento del giovane era noncurante, labile, e del tutto inaffidabile. («Ho sempre avuto la sensazione,» aveva detto Laurana, soprappensiero, «che combattesse in battaglia semplicemente perché non c’era in quel momento niente di più interessante da fare.»)
Ricordando il giudizio di Laurana sul giovane cavaliere, e sentendo il suo tono di voce allegro e distaccato, Tanis corrugò la fronte.
«Non c’è stata nessuna battaglia,» dichiarò Tanis all’improvviso. Un’espressione quasi comica di speranza e di sollievo spuntò sul volto di Lord Amothus. A quella vista, Tanis fu sul punto di scoppiare a ridere ma, temendo che fosse una risata isterica, riuscì a controllarsi. Lanciò un’occhiata a sir Markham, il quale aveva sollevato un sopracciglio.
«Nessuna battaglia? Allora il nemico non è arrivato...»
«Oh, certo che è arrivato,» lo interruppe Tanis, amaro. «È arrivato e se n’è andato, passandoci sopra.» Fece un gesto nell’aria. «Uùsh!»
«Uùsh?» Lord Amothus impallidì. «Non capisco.»
«Una cittadella volante!»
«In nome dell’Abisso!» Sir Markham sibilò basso. «Una cittadella volante.» Divenne pensieroso, lisciandosi con fare assente gli eleganti indumenti da cavallerizzo. «Non hanno attaccato la Torre del Sommo Chierico. Volano sopra le montagne. Questo allora significa...»
«Hanno l’intenzione di scagliarsi direttamente addosso a Palanthas con tutti i mezzi di cui dispongono,» terminò Tanis.
«Ma... non capisco!». Lord Amothus pareva disorientato. «I cavalieri non li hanno fermati?»
«Sarebbe stato impossibile, mio signore,» replicò sir Markham con una negligente scrollata di spalle. «C’è soltanto un modo per attaccare una cittadella volante, che offra qualche possibilità di riuscita... Stormi di draghi.»
«E, stando ai termini del trattato di resa, i draghi buoni non attaccheranno, a meno che non vengano attaccati per primi. Alla Torre del Sommo Chierico avevamo soltanto uno stormo di draghi bronzei.
Per fermare la cittadella sarebbe necessario un numero assai maggiore di draghi, anche d’argento e d’oro,» spiegò Tanis con voce stanca.
Abbandonandosi contro lo schienale, sir Markham rifletté: «Ci sono alcuni draghi d’argento qui vicino, i quali, naturalmente, si leveranno in volo non appena i draghi cattivi saranno stati avvistati.
Ma non sono molti. Forse potremmo mandarne a chiamare altri...»
«Non è la cittadella il nostro pericolo più grave,» esclamò Tanis. Chiuse gli occhi, per impedire che la stanza gli girasse intorno. Cosa mai gli stava succedendo? Stava diventando vecchio, suppose.
Troppo vecchio per questo.
«Non lo è?». Lord Amothus parve sul punto di crollare sotto quell’ulteriore colpo ma, da quell’uomo nobile che era, stava facendo del suo meglio per recuperare la sua compostezza infranta.
«Certamente Lord Soth viaggia insieme alla Signora dei Draghi, Kitiara.»
«Un cavaliere della morte!» mormorò sir Markham, con un lieve sorriso. Lord Amothus impallidì in maniera così visibile che Charles, di ritorno con le pietanze, le mise giù subito e si affrettò al fianco del suo padrone.
«Grazie, Charles,» disse Amothus, con voce rigida e innaturale. «Un po’ di brandy, forse.»
«Molto brandy sarebbe più adeguato al momento,» dichiarò sir Markham con allegria, vuotando il proprio bicchiere. «Tanto vale che ci ubriachiamo. Non serve a molto restare sobri. Non contro un cavaliere della morte e le sue legioni...». La voce del giovane cavaliere si smorzò.
«Adesso voi gentiluomini dovreste mangiare,» s’intromise Charles con fermezza, dopo aver messo più comodo il proprio padrone. Un sorso di liquore fece ricomparire un po’ di colorito sulla faccia di Amothus. L’odore del cibo indusse Tanis a rendersi conto di aver fame, e così non protestò quando Charles, dandosi da fare li intorno con misurata efficienza, portò un tavolo e servì il pasto.
«Co... cosa significa tutto questo?» balbettò Amothus, dispiegando automaticamente sulle ginocchia il tovagliolo. «Ho... ho sentito parlare altre volte di questo cavaliere della morte. Il mio bis-bis-bis-bisnonno è stato uno di quei nobili che ha assistito al processo a Soth, qui a Palanthas. E questo Soth è colui che ha rapito Laurana, non è vero, Tanis?»
Il volto del mezzelfo si oscurò. Non rispose.
Amothus sollevò le mani, implorante. «Ma cosa può fare contro una città?»
Ancora una volta, nessuna risposta. Tuttavia, non ce n’era bisogno. Lord Amothus fissò il volto incupito ed esausto del mezzelfo, poi quello del giovane cavaliere, sul quale si era disegnato un sorriso amaro, mentre praticava tanti piccoli fori, col suo pugnale, nella tovaglia di merletto. Il Lord aveva avuto la sua risposta.
Alzandosi in piedi, senza aver toccato cibo, col tovagliolo che gli scivolava dalle ginocchia sul pavimento senza che se ne accorgesse, Lord Amothus attraversò la stanza sontuosamente arredata per fermarsi davanti a un’altra finestra adorna d’un ampio vetro lavorato a mano in un complicato disegno. Un largo pannello ovale al centro incorniciava un panorama della bella città di Palanthas.
Il cielo sopra di essa era scuro e colmo di quelle strane nubi ribollenti. Ma la tempesta, lassù in alto, pareva soltanto esaltare ancora di più la bellezza e l’apparente serenità della città sottostante.
Lord Amothus rimase là immobile, con la mano appoggiata sulla tenda di raso, guardando fuori, verso la città. Era giorno di mercato. La gente passava davanti al palazzo diretta alla piazza del mercato, scambiandosi domande su quel cielo minaccioso, portando le loro ceste, rimproverando i bambini un po’ troppo discoli.
«So cosa stai pensando, Tanis,» disse alla fine Lord Amothus con voce rauca e rotta. «Stai pensando a Tharsis e a Solace, a Silvanesti, a Kalaman. Stai pensando ai tuoi amici che sono morti nella Torre del Sommo Chierico. Stai pensando a tutti quelli che sono morti e hanno sofferto durante l’ultima guerra, mentre noi a Palanthas rimanevamo indenni, illesi.»
Tanis continuò a non rispondere. Mangiò in silenzio.
«E tu, sir Markham...» sospirò Amothus. «L’altro giorno ti ho sentito ridere insieme ai tuoi cavalieri. Ho sentito i vostri commenti sulla gente di Palanthas che avrebbe portato i propri borsellini in battaglia, progettando di sconfiggere il nemico lanciandogli monetine addosso ed urlando: “Andate via, andate via!”.»
«Contro Lord Soth andrebbero bene tanto quanto le spade!» Con una scrollata di spalle e una breve risata sardonica, sir Markham porse a Charles il suo bicchiere perché tornasse a riempirglielo di brandy.
Lord Amothus appoggiò la testa contro il vetro della finestra. «Non avremmo mai pensato che la guerra potesse arrivare fino a noi! Durante tutte le epoche, Palanthas è rimasta una città di pace, una città di bellezza e di luce. Gli dei ci hanno risparmiato, perfino durante il Cataclisma. E adesso... adesso che c’è la pace nel mondo, ci capita questo!». Si girò, il suo pallido volto era teso e colmo d’angoscia. «Perché? Non capisco!»
Tanis spinse da parte il suo piatto. Appoggiandosi contro lo schienale, si stiracchiò, nel tentativo di alleviare i crampi dei suoi muscoli. Sto diventando vecchio, pensò... vecchio e rammollito. Non posso fare a meno di dormire alla notte. Se salto un pasto mi sento debole. Sento la nostalgia dei vecchi tempi. Sento la mancanza degli amici da tempo scomparsi. E sono arcistufo di veder morire la gente in qualche guerra stupida e insensata! Tirando un sospiro, si sfregò gli occhi annebbiati e poi, appoggiando i gomiti sul tavolo, si prese la testa fra le mani.
«Tu parli di pace. Quale pace?» chiese. «Ci siamo comportati come bambini in una casa dove padre e madre hanno litigato in continuazione per giorni e giorni e adesso, finalmente, sono tranquilli e si comportano in maniera civile. Sorridiamo molto e cerchiamo di essere allegri e mangiamo tutta la nostra verdura e giriamo in punta di piedi, timorosi di far rumore. Perché sappiamo che, se lo faremo, il litigio ricomincerà. E noi la chiamiamo pace!» Tanis rise amaramente. «Di’ una sola parola sbagliata, mio signore, e Porthios ti scatenerà addosso gli elfi. Accarezzati la barba in maniera sbagliata, e i nani sbarreranno ancora una volta la porta che conduce alla montagna.»
Lanciando un’occhiata a Lord Amothus, Tanis vide il signore di Palanthas chinare la testa, lo vide sfregarsi gli occhi con la mano delicata, le sue spalle si afflosciarono visibilmente. La rabbia di Tanis in parte svanì. Comunque, con chi mai era arrabbiato? Il fato? Gli dei?
Si alzò in piedi, sentendo gravare su di sé tutta la sua stanchezza, e si avvicinò alla finestra, spaziando con lo sguardo verso quella città pacifica, bella e condannata.
«Non ho la risposta, mio signore,» disse infine con calma. «Se io l’avessi, farei erigere un Tempio alla mia persona, e mi farei seguire da tutta una sfilza di chierici, suppongo. Tutto quello che so, è che non possiamo arrenderci. Dobbiamo continuare, e tentare.»
«Un altro brandy, Charles,» disse sir Markham, e tese un’altra volta la mano che reggeva il bicchiere. «Un brindisi, signori.» E alzò il bicchiere che Charles gli aveva riempito. «Tentiamo... fa rima con moriamo.».
Capitolo tredicesimo.
Si udì un sommesso bussare alla porta. Assorto nel suo lavoro, Tanis sussultò. «Sì, cosa c’è?» chiese.
La porta si aprì. «Sono Charles, signore. Mi ha chiesto di chiamarla durante il cambio della guardia.»
Tanis voltò la testa e lanciò un’occhiata fuori dalla finestra. L’aveva lasciata aperta perché passasse un po’ d’aria. Ma la notte primaverile era calda e afosa e non c’era il più piccolo alito di vento. Il cielo era scuro, salvo per le occasionali fiammate di quei lampi arcani tinti di rosa che guizzavano da una nube all’altra. Adesso che la sua attenzione era stata attirata dal cielo, potè udire i rintocchi che indicavano Vegliafonda, poteva udire le voci delle guardie appena montate in servizio, poteva udire il passo misurato di coloro che se ne andavano a riposare.
Il loro riposo sarebbe stato breve.
«Grazie, Charles,» disse Tanis. «Vorresti entrare un momento?»
«Certamente, mio signore.»
Il servitore entrò, chiudendo delicatamente la porta alle sue spalle. Tanis fissò per qualche altro istante il foglio che aveva sulla scrivania. Poi, stringendo risolutamente le labbra, vi aggiunse altre due righe nella sua chiara scrittura elfica. Vi spruzzò sopra un po’ di talco per farlo asciugare, e cominciò a rileggere attentamente la lettera. Ma i suoi occhi si annebbiarono e la calligrafia si offuscò alla sua vista. Alla fine si arrese, e firmò con il proprio nome, arrotolò la pergamena, e rimase seduto, immobile, stringendola in mano.
«Signore,» intervenne Charles, «si sente bene?»
«Charles...» cominciò Tanis, girando un anello d’acciaio e d’oro che portava al dito. La sua voce si spense.
«Mio signore?» lo sollecitò Charles.
«Questa è una lettera per mia moglie, Charles,» proseguì Tanis a bassa voce, senza alzare lo sguardo sul servitore. «Si trova a Silvanesti. Questa lettera deve partire stanotte, prima...»
«Capisco benissimo, signore,» annuì Charles, facendosi avanti e prendendo la lettera.
Tanis arrossì, provando un senso di colpa. «So che ci sono documenti assai più importanti di questo che devono esser fatti uscire dalla città, dispacci di cavalieri e altre cose del genere, ma...»
«Ho proprio il messaggero che ci vuole, mio signore. È un elfo, proprio di Silvanesti. È leale e, ad essere onesti, signore, sarà più che contento di lasciare la città per un incarico onorevole.»
«Grazie, Charles.» Tanis si passò una mano tra i capelli. «Se dovesse accadere qualcosa, vorrei che lei sapesse...»
«Certamente, mio signore. E perfettamente comprensibile. Non ci pensi più. Però, forse, il suo sigillo?»
«Oh, sì, certo.» Tanis si sfilò l’anello e lo premette sulla cera calda che Charles stava facendo cadere sulla pergamena, imprimendovi sopra l’immagine della foglia d’un pioppo tremolo.
«Mio signore, è arrivato Lord Gunthar. In questo momento è a colloquio con sir Markham.»
«Lord Gunthar!». L’espressione di Tanis s’illuminò. «Eccellente. Sono...»
«Hanno chiesto di poterla incontrare, se la cosa l’aggrada, mio signore,» disse Charles imperturbabile.
«Oh, mi aggrada, eccome,» dichiarò Tanis, alzandosi in piedi. «Suppongo non ci sia stato alcun segno della città...»
«Non ancora, mio signore. Troverà i Lord nel salotto d’estate della prima colazione... adesso, ufficialmente, la stanza della guerra.»
«Grazie, Charles,» disse Tanis, stupito di essere finalmente riuscito a completare una frase.
«Null’altro, mio signore?»
«No, grazie, conosco il...»
«Molto bene, mio signore.» Inchinandosi, con la lettera in mano, Charles tenne aperta la porta per Tanis, poi la chiuse alle proprie spalle. Dopo aver aspettato un momento per vedere se Tanis poteva esprimere qualche desiderio dell’ultimo istante, s’inchinò di nuovo e se ne andò.
Con la mente ancora alla sua lettera, Tanis rimase solo, grato per la quiete ombreggiata del corridoio fiocamente illuminato. Poi, esalando un tremulo sospiro, si allontanò con fermezza, alla ricerca del salotto per la colazione mattutina, adesso divenuto sala della guerra.
Tanis aveva appoggiato la mano sulla maniglia della porta e stava giusto per entrare nella stanza quando con la coda dell’occhio intravide un movimento. Girò la testa, e vide una figura di tenebra materializzarsi dall’aria.
«Dalamar?» esclamò Tanis, stupefatto, lasciando la porta non ancora aperta della sala della guerra e incamminandosi lungo il corridoio in direzione dell’elfo scuro. «Pensavo...»
«Tanis, sei colui che cercavo.»
«Hai notizie?»
«Nessuna che ti possa far piacere sentire,» rispose Dalamar, scrollando le spalle. «Non posso restare a lungo, il nostro destino vacilla sulla lama di un coltello. Ma ti ho portato questo.» Affondò la mano in una borsa di velluto nero appesa al fianco, tirò fuori un braccialetto d’argento e lo porse a Tanis.
Tanis prese in mano il braccialetto e lo esaminò con curiosità. Era largo all’incirca cinque pollici, ed era fatto d’argento massiccio. Tanis giudicò dalla sua larghezza e dal suo peso che fosse stato realizzato per il polso di un uomo. Leggermente imbrunito, vi erano incastonate delle pietre nere, la cui liscia superficie luccicava al tremulo bagliore delle torce, lì nel corridoio. E proveniva dalla Torre della Grande Stregoneria.
Tanis lo tenne in mano con cautela. «È...» esitò, per nulla sicuro di volerlo sapere.
«Magico? Sì,» rispose Dalamar.
«E di Raistlin?». Tanis si “accigliò.
«No.» Dalamar sorrise sardonico. «Lo Shalafi non ha bisogno di difese magiche come questa. Fa parte della collezione di oggetti simili a questo che si trova nella Torre. Questo è molto antico, senza alcun dubbio risale all’epoca di Huma.»
«A cosa serve?» Tanis continuò a studiare il braccialetto con aria dubbiosa, sempre corrugando la fronte.
«Rende resistente alla magia colui che lo porta.»
Tanis sollevò la testa. «La magia di Lord Soth?»
«Qualsiasi magia. Ma, sì, protegge colui che lo porta dal potere della parola del cavaliere della morte: “uccidi”, “stordisci”, “acceca”. Impedirà che colui che lo porta provi gli effetti della paura generata dal cavaliere della morte. E lo difenderà sia dai suoi incantesimi del fuoco sia da quelli del ghiaccio.»
Tanis gratificò Dalamar d’uno sguardo intenso. «Questo è davvero un dono prezioso. Ci offre una possibilità.»
«Colui che lo porterà potrà ringraziarmi quando, e se, tornerà vivo!» Dalamar intrecciò le mani all’interno delle maniche. «Anche senza la sua magia, Lord Soth è un avversario formidabile, per non parlare di quelli che lo seguono e gli hanno promesso fedeltà con un giuramento che neppure la morte potrebbe annullare. Sì, Mezzelfo, ringraziami al tuo ritorno.»
«Io!» esclamò Tanis, stupito. «Ma... sono due anni che non impugno una spada!». Puntò gli occhi su Dalamar, all’improvviso era divenuto sospettoso. «Perché io?»
Il sorriso di Dalamar si allargò. I suoi occhi obliqui luccicarono divertiti. «Dallo a uno dei cavalieri, Mezzelfo. Lascia che uno di loro lo tenga. Capirai. Ricordati, è giunto da un luogo di tenebra. Sa riconoscere uno dei suoi.»
«Aspetta!». Vedendo che l’elfo scuro si preparava ad andarsene, Tanis afferrò il braccio nero di Dalamar. «Soltanto un momento, ancora. Hai detto che c’erano notizie...»
«Non riguardano te.»
«Dimmele.»
Dalamar tacque per qualche istante, le sue sopracciglia si congiunsero per l’irritazione causata da quel ritardo. Tanis sentì il braccio del giovane elfo farsi teso. È spaventato... Tanis se ne rese conto all’improvviso. Ma proprio mentre quel pensiero gli attraversava la mente, vide Dalamar recuperare il controllo di se stesso. I suoi lineamenti decisi divennero calmi, privi di qualsiasi espressione.
«Il chierico, Dama Crysania, è stata mortalmente ferita. Però è riuscita a proteggere Raistlin. Lui è illeso, ed è andato a trovare la Regina. Così mi dice Sua Maestà Tenebrosa.»
Tanis sentì stringerglisi la gola. «E Crysania?» domandò con asprezza. «Lui l’ha lasciata morire?»
«Naturalmente.» Dalamar si mostrò un po’ sorpreso a quest’ultima domanda. «Lei non poteva più essergli di alcuna utilità.»
Abbassando lo sguardo sul braccialetto che teneva in mano, Tanis arse dal desiderio di scagliarlo contro i denti luccicanti dell’elfo scuro. Ma ricordò in tempo che, lui, non poteva permettersi il lusso della collera. Quale situazione folle e contorta! Incongruamente, si ricordò di Elistan che andava alla Torre per portare conforto all’arcimago...
Girando sui tacchi, Tanis si allontanò a grandi passi rabbiosi. Ma strinse con forza il braccialetto che aveva in mano.
«La magia viene attivata quando te lo infili...» la voce sommessa di Dalamar galleggiò attraverso l’alone di furore di Tanis. Avrebbe potuto giurare che l’elfo scuro stava ridendo.
«Cosa succede, Tanis?» chiese Lord Gunthar, quando il mezzelfo fece il suo ingresso nella sala della guerra. «Mio caro amico, sei pallido come la morte...»
«Niente. Ho... ho appena ascoltato delle notizie inquietanti. Sarò a posto fra pochi istanti.» Tanis tirò un profondo respiro, poi lanciò un’occhiata ai cavalieri. «Neppure voi avete un gran bell’aspetto.»
«Un altro brindisi?» intervenne sir Markham, alzando il suo bicchiere di brandy.
Lord Gunthar gli scoccò una severa occhiata di disapprovazione, che il giovane cavaliere ignorò mentre, come se niente fosse, mandava giù il brandy in un sol sorso.
«La cittadella è stata avvistata. Ha superato le montagne. Sarà qui all’alba.»
Tanis annuì. «Press’a poco quello che avevo calcolato.» Si grattò la barba, poi si sfregò gli occhi per la stanchezza. Lanciò un’occhiata alla bottiglia di brandy, ma scosse la testa. No, probabilmente sarebbe servito soltanto a farlo piombare subito nel sonno.
«Che hai lì?» gli chiese Lord Gunthar, allungando la mano per prendere il braccialetto. «Una specie di portafortuna elfico?»
«Non lo toccherei...» cominciò a dire Tanis.
«Dannazione!» Lord Gunthar cacciò un rantolo, allontanando di scatto la mano. Il braccialetto cadde sul pavimento, finendo sul lussuoso tappeto intessuto a mano. Il cavaliere si strinse la mano, in preda al dolore.
Tanis si chinò e raccolse il braccialetto. Gunthar lo fissò con occhi increduli. Sir Markham stava cercando di soffocare le risate.
«Me l’ha portato il mago, Dalamar. Viene dalla Torre della Grande Stregoneria,» spiegò Tanis, ignorando il cipiglio di Lord Gunthar. «Proteggerà colui che lo porta dagli effetti della magia: l’unica cosa che darà a qualcuno la possibilità di avvicinarsi a Lord Soth.»
«Qualcuno!» ripetè Gunthar. Si fissò la mano. Le dita, nei punti in cui avevano toccato il braccialetto, erano bruciate. «Non soltanto questo, ma sono stato attraversato da una scossa che mi ha quasi fermato il cuore! In nome dell’Abisso, chi mai può portare una cosa del genere?»
«Io posso farlo,» replicò Tanis. E giunto da un luogo di tenebra, sa riconoscere uno dei suoi. «Ha qualcosa a che fare con voi cavalieri e i vostri sacri voti a Paladine,» borbottò poi, sentendosi arrossire.
«Seppelliscilo!» ringhiò Lord Gunthar. «Non ci servono gli aiuti che possono darci quelli delle Vesti Nere!»
«A me pare che sia imperativo, per noi, usare tutti gli aiuti che possiamo ottenere, mio signore!» esclamò Tanis, fremente. «Vorrei anche ricordarti che, per quanto possa sembrare strano, siamo tutti sulla stessa sponda! E adesso, sir Markham, cos’hai da dirmi circa i piani per difendere la città?»
Tanis finse di non notare l’occhiataccia di Lord Gunthar, e infilò il braccialetto in una borsa. Quindi, si voltò verso sir Markham il quale, per quanto sorpreso da quell’improvviso appello, si affrettò a venire in aiuto del mezzelfo con il suo rapporto.
I Cavalieri di Solamnia si erano messi in marcia, uscendo dalla Torre del Sommo Chierico. Ci sarebbero voluti, come minimo, dei giorni, prima che potessero raggiungere Palanthas. Aveva inviato dei messaggeri per avvertire i draghi buoni, ma pareva assai improbabile che anche loro fossero in grado di raggiungere in tempo Palanthas.
La città stessa era in allarme. Con un discorso breve e sobrio, Lord Amothus aveva detto ai cittadini ciò che li aspettava. Non c’era stato nessun panico, cosa che Gunthar aveva trovato difficile credere.
Oh, qualche riccone aveva cercato di corrompere i capitani delle navi perché li portassero lontani da lì, ma i capitani, come un sol uomo, si erano rifiutati di salpare sotto la minaccia di quelle sinistre nubi tempestose. Le porte della Vecchia Città erano state aperte. Coloro che volevano fuggire dalla città per trovare rifugio nelle terre incolte avevano naturalmente ricevuto il permesso di farlo. Ma non erano molti quelli che avevano accettato di correre questo rischio. A Palanthas, quantomeno, le mura della città e i cavalieri offrivano una certa protezione.
Personalmente, Tanis pensava che se i cittadini avessero saputo quali oirori si sarebbero trovati ad affrontare, avrebbero corso volentieri il rischio. Comunque, le donne avevano messo da parte i loro ricchi indumenti, cominciando a riempire d’acqua ogni contenitore disponibile, per esser pronte a combattere gli incendi. Quelli che vivevano nella Città Nuova, non protetta dalle mura, vennero evacuati e trasferiti dentro la Vecchia Città, le cui mura venivano fortificate nel miglior modo possibile, nel poco tempo che rimaneva. I bambini vennero messi a letto nelle cantine e nei rifugi antitemporale. I mercanti aprirono i negozi dispensando le scorte necessarie. Gli armaioli distribuirono armi e le forge continuarono ad avvampare per tutta la notte, riparando freneticamente spade, scudi e armature.
Spaziando con lo sguardo sopra la città, Tanis vide luci accese nella maggior parte di Palanthas, la gente si stava preparando per un mattino al quale, l’esperienza glielo diceva, non avrebbe mai potuto essere preparata.
Con un sospiro, ripensando alla sua lettera a Laurana, Tanis prese la sua amara decisione. Ma sapeva che ciò avrebbe comportato una discussione. Doveva preparare il terreno. Voltandosi di scatto, interruppe Markham. «Quale pensi sarà il loro piano di attacco?» chiese a Lord Gunthar.
«Penso sia piuttosto semplice.» Gunthar si tirò i baffi. «Faranno quello che hanno fatto a Kalaman.
Porteranno la cittadella il più vicino possibile. A Kalaman non sono arrivati molto vicini. I draghi li hanno tenuti indietro. Ma,» scrollò le spalle, «noi non disponiamo, qui, di un numero di draghi comparabile al loro. Una volta che la cittadella avrà superato le mura, i draconici si lasceranno cadere giù e cercheranno di conquistare la città dall’interno. I draghi malvagi attaccheranno...»
«E Lord Soth c’invaderà dalle porte,» terminò per lui Tanis.
«Per lo meno i cavalieri dovrebbero arrivare in tempo per impedirgli di depredare i nostri corpi,» disse sir Markham, svuotando di nuovo il suo bicchiere.
«E Kitiara,» rifletté Tanis, «cercherà di raggiungere la Torre della Grande Stregoneria. Dalamar dice che nessun essere vivente può attraversare il Bosco di Shoikan, ma ha anche detto che Kit è in possesso di un talismano donatole da Raistlin. Potrebbe aspettare Soth, prima di andare, calcolando che anche lui potrebbe aiutarla.»
«Sempre che la Torre sia il suo obbiettivo,» replicò Lord Gunthar, dando enfasi al sempre. Era ovvio che non era ancora del tutto disposto a credere alla storia su Raistlin. «Secondo me userà la battaglia come copertura per sorvolare con il suo drago le mura e atterrare quanto più possibile vicino alla Torre. Forse potremmo appostare dei cavalieri intorno al Bosco per cercare di fermarla...»
«Non riuscirebbero mai ad avvicinarsi abbastanza,» lo interruppe sir Markham, aggiungendo un tardivo «mio signore... Il Bosco esercita un effetto scoraggiante su chiunque si avvicini a qualche miglio da esso.»
«Inoltre, avremo bisogno dei cavalieri per affrontare le legioni di Soth,» disse Tanis. Emise un profondo sospiro: «Ho un piano, se mi è permesso proporlo...»
«Ma certamente, Mezzelfo.»
«Tu credi che la cittadella attaccherà dall’alto e che Lord Soth penetrerà dalle porte principali, creando una diversione che darà a Kit la possibilità di raggiungere la Torre. Giusto?»
Gunthar annuì.
«Allora, metti in sella ai draghi di bronzo quanti più cavalieri possibile. Lasciami Fireflash. Dal momento che il braccialetto mi offre la miglior difesa contro Lord Soth, mi occuperò io di lui. Il resto dei cavalieri potrà concentrarsi sui suoi seguaci. Comunque, ho un conto personale da saldare con Lord Soth,» aggiunse Tanis, vedendo che Gunthar già scuoteva la testa.
«Assolutamente no. Te la sei cavata molto bene durante l’ultima guerra, ma non sei mai stato addestrato! Affrontare in volo un Cavaliere di Solamnia...»
«Perfino un Cavaliere di Solamnia morto!» intervenne sir Markham, con una risatina ebbra.
I baffi di Lord Gunthar fremettero per la collera, ma si trattenne, e continuò con voce gelida: «... un cavaliere addestrato, come lo è Soth, non ti darebbe nessuna via di scampo... braccialetto o non braccialetto.»
«Però, mio signore, senza il braccialetto l’addestramento nell’uso della spada conta assai poco,» gli fece notare sir Markham, concedendosi un altro brandy. «Un tizio che ti può puntare addosso un dito e dire “muori” dispone di un chiaro vantaggio.»
«Per favore, signore,» intervenne Tanis, «ammetto che il mio addestramento formale è assai limitato, ma gli anni che ho trascorso con una spada al fianco sono più numerosi dei tuoi... quasi del doppio. Il mio sangue elfico...»
«All’Abisso il tuo sangue elfico!» borbottò Gunthar, fissando inferocito sir Markham, il quale ignorò risolutamente il suo superiore, tornando a sollevare la bottiglia del brandy.
«Mio signore, se sarò costretto farò valere il mio rango,» dichiarò Tanis con calma.
Lord Gunthar s’imporporò. «Maledizione, quello è solo un titolo onorario...»
Tanis sorrise. «Il Codice non fa nessuna distinzione del genere. Onorario o no, sono un Cavaliere della Rosa, e la mia età, ben oltre i cento, mio signore, mi dà tutta l’anzianità necessaria.»
Sir Markham stava ridendo apertamente. «Oh, per l’amor del cielo, Gunthar, dagli il permesso di morire. Non fa poi tanta differenza, per l’Abisso!»
«È completamente ubriaco,» borbottò Lord Gunthar, lanciando un’occhiata rovente a sir Markham.
«E giovane,» replicò Tanis, a mo’ di giustificazione. «Allora, mio signore?»
Gli occhi di Lord Gunthar lampeggiarono per la collera. Mentre fissava inferocito il mezzelfo, delle parole di tagliente rimprovero gli affiorarono alle labbra. Ma non vennero pronunciate. Lord Gunthar sapeva fin troppo bene che chiunque affrontasse Lord Soth rischiava praticamente la morte certa, braccialetto magico o non braccialetto magico. A tutta prima aveva supposto che Tanis fosse troppo ingenuo per rendersene conto. Ma, fissando il mezzelfo negli occhi scuri avvolti nelle ombre, constatò ancora una volta di averlo giudicato male.
Inghiottendo le parole con un burbero colpo di tosse, Lord Gunthar indicò con un gesto sir Markham. «Vedi un po’ tu se riesci a farlo rinsavire, Mezzelfo. Poi, immagino che farai meglio a prendere posizione. Dirò ai cavalieri di aspettare.»
«Grazie, mio signore,» mormorò Tanis.
«E gli dei siano con te,» aggiunse Gunthar con voce bassa e soffocata. Afferrò una mano di Tanis, diede un’energica stretta, poi si girò e uscì a grandi passi dalla stanza.
Tanis lanciò un’occhiata a sir Markham, il quale stava fissando assorto la bottiglia del brandy vuota, con un sorriso sarcastico. Non è così ubriaco quanto vuol far credere, decise Tanis. O come desidererebbe essere.
Voltando le spalle al giovane cavaliere, il mezzelfo si avvicinò alla finestra. Guardando fuori, aspettò l’alba.
Laurana.
Quando ci siamo accomiatati, una settimana fa, certamente non pensavamo che questo commiato potesse prolungarsi tanto nel tempo. Siamo rimasti separati per la maggior parte della nostra vita.
Ma, devo ammetterlo, non rimpiango la nostra attuale separazione. Mi conforta sapere che sei al sicuro, anche se temo che, qualora Raistlin riuscisse nei suoi disegni, non rimarrà un solo rifugio sicuro in tutto Krynn.
Devo essere onesto, mia carissima. Non ho nessuna speranza che qualcuno di noi riesca a sopravvivere. Guardo in faccia, senza nessuna paura, la consapevolezza che probabilmente morirò, credo di poterlo onestamente dire. Ma non posso guardarla in faccia senza una collera amara.
Durante l’ultima guerra potevo permettermi di essere coraggioso. Non possedevo nulla, perciò non avevo nulla da perdere. Ma non ho mai voluto vivere come vivo adesso. Sono come un taccagno che si pasce della gioia e della felicità che ha trovato, e odia l’idea di doverle cedere. Penso ai nostri piani, ai bambini che speravamo di avere. Penso a te, mia amata, e al dolore che la mia morte provocherà in te, e non riesco quasi più a distinguere questa pagina a causa delle lacrime che sto versando per il dolore e il furore.
Posso soltanto chiederti che questa consolazione sia tua come è mia, questo commiato sarà l’ultimo per noi. Il mondo non potrà più separarci. Ti aspetterò, Laurana, in quel regno dove il tempo medesimo muore.
E una sera, in quel regno di eterna primavera, di eterno crepuscolo, guarderò infondo al sentiero e ti vedrò venire verso di me. Riesco già ora a vederti con tanta chiarezza, amore mio. Gli ultimi raggi del sole al tramonto che risplendono sui tuoi capelli dorati, i tuoi occhi sfolgoranti per l’amore che riempie il mio cuore.
Tu verrai da me.
Ti stringerò fra le braccia.
Chiuderemo gli occhi e cominceremo a sognare il nostro sogno eterno.
Libro terzo.
Il ritorno.
La sentinella alla porta oziava in mezzo alle ombre buie del corpo di guardia della Vecchia Città.
Fuori, poteva udire le voci delle altre sentinelle, tese e scosse per l’eccitazione e la paura, che cercavano di farsi coraggio. Dovevano essere in venti, là fuori, pensò la vecchia guardia con amarezza. Il turno di notte era stato raddoppiato, quelli fuori servizio avevano deciso di rimanere, piuttosto che tornarsene a casa. Sopra di lui, sulle mura, poteva udire il passo lento e costante dei Cavalieri di Solamnia. E da un’altezza ancora maggiore gli giungeva di tanto in tanto lo scricchiolio e lo sbattere delle ali dei draghi o, talvolta, le loro voci. Parlavano gli uni con gli altri nella lingua segreta dei draghi. Quelli erano i draghi di bronzo che Lord Gunthar aveva fatto giungere dalla Torre del Sommo Chierico, i quali sorvegliavano il cielo allo stesso modo in cui gli umani sorvegliavano il terreno.
Tutt’intorno a sé, poteva udire i suoni... i suoni dell’imminente fine.
Quel pensiero aleggiava nella mente del custode della porta, anche se non con quelle esatte parole, naturalmente: né «imminente», né «fine» facevano parte del suo vocabolario. Ma, ugualmente, la consapevolezza era presente in lui. La sentinella alla porta era un vecchio mercenario e aveva vissuto molte di quelle notti. Un tempo era stato giovane come quelli che adesso si trovavano là fuori, intenti a vantarsi delle grandi gesta che avrebbero compiuto il mattino seguente. La sua prima battaglia: lui aveva avuto tanta paura che ancora oggi non riusciva a ricordare nulla.
Ma, dopo, c’erano state moltissime altre battaglie. Ci si abituava alla paura. Diventava parte di noi, proprio come la spada. Il pensiero di quella imminente battaglia non era diverso. Sarebbe giunto al mattino e, se fosse stato fortunato, alla notte.
Un improvviso sferragliare di picche, un vociare e una confusione generale sbalzò la vecchia guardia fuori dalle sue riflessioni filosofiche. Brontolando, ma provando ugualmente una punta dell’antica eccitazione, sporse la testa fuori dal corpo di guardia.
«Ho sentito qualcosa!» ansimò una giovane guardia, correndo verso di lui, quasi col fiato mozzo.
«Là... là fuori! Pareva un tintinnare di armature, un’intera schiera!»
Le altre guardie stavano scrutando l’oscurità. Perfino i Cavalieri di Solamnia avevano smesso di camminare su e giù e stavano guardando lungo l’ampia strada maestra che dalla Città Nuova conduceva a quella Vecchia passando per la porta. Altre torce erano state rapidamente aggiunte a quelle che già ardevano sulle mura. Proiettavano un brillante cerchio di luce sul terreno sottostante.
Ma la luce finiva a circa una ventina di passi di distanza, facendo apparire l’oscurità che stava al di là ancora più oscura. Adesso la vecchia guardia poteva udire i suoni, ma non si fece prendere dal panico. Era abbastanza vecchio d’esperienza da sapere che l’oscurità e la paura potevano far apparire un singolo uomo come un reggimento.
Uscendo con passo pesante dal corpo di guardia, agitò le mani, aggiungendo con un ringhio:
«Tornate ai vostri posti!»
Le guardie più giovani, borbottando, tornarono alle loro posizioni, ma tennero pronte le armi. La vecchia guardia, con la mano sull’elsa della spada, rimase cocciutamente nel mezzo della strada, aspettando.
Ma non comparve un’intera divisione di draconici, bensì un uomo... soltanto un uomo (anche se abbastanza grosso da valere per due) e quello che sembrava un kender.
I due si arrestarono, ammiccando vistosamente al bagliore delle torce. La vecchia guardia li soppesò. L’omone non portava nessun mantello, e la guardia potè vedere che la luce si rifletteva su un’armatura che un tempo magari avrebbe anche potuto rifulgere, ma che adesso era incrostata di fango grigio e perfino annerita in alcuni punti, come se fosse stata esposta al fuoco. Il kender era coperto dello stesso tipo di fango, anche se, a quanto pareva, aveva fatto un certo sforzo per spazzolarlo via dai suoi sgargianti gambali azzurri. L’omone zoppicava, e sia lui sia il kender mostravano tutti i segni di essere stati di recente in battaglia.
Strano, pensò la guardia al cancello. Ancora non c’è stato nessun combattimento, almeno che io sappia.
«Gente fredda, tutti e due,» borbottò la vecchia guardia, notando come la mano dell’omone poggiasse tranquilla sull’elsa della spada mentre lui si guardava intorno facendo il punto della situazione. A sua volta il kender si guardava intorno con la solita curiosità dei kender. La sentinella alla porta fu un po’ sorpresa nel vedere che il kender stringeva fra le braccia un grosso libro rilegato in cuoio.
«Dichiarate le ragioni della vostra presenza,» intimò la guardia, venendo avanti e fermandosi davanti ai due.
«Sono Tasslehoff Burrfoot,» dichiarò il kender, riuscendo, dopo una breve lotta con il libro, a liberare una piccola mano. La porse alla guardia. «E questo è il mio amico, Caramon. Venivamo da Sol...»
«Le nostre ragioni dipendono da dove ci troviamo,» disse l’uomo chiamato Caramon con voce amichevole ma con un’espressione seria sul volto che fece esitare la sentinella.
«Volete dire che non sapete dove vi trovate?» chiese la guardia, insospettita.
«Non siamo di questa parte del paese,» rispose l’omone con freddezza. «Abbiamo perso la nostra mappa. È naturale che, vedendo le luci della città, siamo venuti da questa parte.»
Sì, e io sono Lord Amothus, pensò la guardia. «Qui vi trovate a Palanthas.»
L’omone guardò dietro di sé, poi tornò a fissare la guardia, che a stento gli arrivava alle spalle.
«Così, quella dietro di noi dev’essere la Città Nuova. E dov’è mai la gente? Abbiamo percorso la città in lungo e in largo. Non c’è anima viva.»
«Siamo in allarme.» La guardia fece un cenno con la testa. «Tutti sono stati condotti all’interno delle mura. Credo sia tutto quello che vi serve sapere, per il momento. Adesso, qual è il vostro lavoro, qui? E come mai non sapete quello che sta succedendo? Credo che a quest’ora lo sappia mezzo paese.»
L’omone si passò una mano sulla mandibola incolta con un mesto sorriso. «Un’intera bottiglia di spirito dei nani finisce per offuscare tutto. Non è vero, capitano?»
«E vero,» grugnì la guardia. Ed era anche vero che lo sguardo di quell’individuo era limpido, tagliente e deciso. Fissando quegli occhi, la guardia scosse la testa. Li aveva visti altre volte, gli occhi di un uomo che sta per incontrare la morte e che si è messo in pace sia con gli dei sia con se stesso.
«Vuoi farci entrare?» chiese l’omone. «A giudicare da come stanno le cose, un altro paio di guerrieri potrebbe farvi comodo.»
«Potrebbe farci comodo un uomo delle tue dimensioni,» replicò la guardia. Abbassò lo sguardo sul kender corrugando la fronte. «Ma, in quanto a lui, credo che faremo meglio a lasciarlo qua fuori come esca per le zanzare.»
«Sono un guerriero anch’io!» protestò il kender, indignato. «Diamine, una volta ho salvato la vita a Caramon!». Il suo volto s’illuminò. «Vuoi che te lo racconti? È una storia bellissima. Eravamo in una fortezza magica. Raistlin mi ci aveva portato dopo aver ucciso un mio ami... Ma questo non importa. Comunque, c’erano questi nani scuri che stavano attaccando Caramon, e lui è scivolato, e...»
«Aprite la porta!» gridò la vecchia guardia.
«Su, vieni, Tas,» lo sollecitò l’omone.
«Ma stavo arrivando alla parte migliore!»
«Oh, a proposito,» l’omone si voltò, dopo aver tappato con consumata abilità la bocca del kender,
«mi sapresti dire la data?»
«Terzogiorno, quintomese, 356,» recitò la guardia. «Oh,» aggiunse, «forse sarà meglio che un chierico dia un’occhiata alla tua gamba.»
«Chierici,» mormorò l’omone tra sé. «È vero, me n’ero dimenticato. Adesso ci sono i chierici.
Grazie,» gridò, mentre insieme al kender valicava la porta. La guardia sentì nuovamente pigolare la voce del kender, quando questi riuscì a liberarsi dalla mano dell’omone:
«Pfiu! Dovresti proprio darti una lavata, Caramon. Oh, bah! Accidenti, mi hai riempito la bocca di fango. Adesso, dov’ero rimasto? Oh, sì, avresti proprio dovuto lasciarmi finire! Ero appena arrivato al punto in cui scivolavi sul sangue, e...»
Scrollando la testa, la guardia seguì perplessa i due con lo sguardo. «Che storia,» borbottò, mentre la grande porta tornava lentamente a chiudersi, «e scommetto che neppure un kender potrebbe inventarne una migliore.»
Capitolo primo.
Cosa dice, Caramon?» Tas era in punta di piedi, nel tentativo di sbirciare da sopra il braccio dell’omone.
«Silenzio!» bisbigliò Caramon, irritato. «Sto leggendo.» Scosse il braccio. «E lasciami andare.»
L’omone si era messo a sfogliare rapidamente le Cronache che aveva preso ad Astinus. Ma aveva smesso di girare le pagine e adesso ne stava studiando una con molta attenzione.
Tas, con un sospiro (dopotutto, quel libro l’aveva trasportato lui) si abbandonò contro la parete e si guardò intorno. Si trovavano sotto uno dei bracieri accesi che i palanthani utilizzavano per illuminare le strade durante la notte. Il kender calcolò che doveva essere quasi l’alba. Le nubi della tempesta impedivano il libero passaggio ai raggi del sole, ma la città stava assumendo una squallida colorazione grigiastra. Una nebbia gelida saliva a riccioli dalla baia, vorticando lungo le strade.
Anche se la maggior parte delle finestre era illuminata, c’era poca gente nelle strade. Alla cittadinanza era stato detto di rimanere in casa, a meno che non fossero membri della milizia. Ma Tas poteva distinguere i volti delle donne premuti contro i vetri, che guardavano, in attesa. Di tanto in tanto qualche uomo passava accanto a loro, di corsa, stringendo un’arma in mano, diretto alla porta principale della città. E, a un certo punto, si aprì una porta che dava accesso a un’abitazione proprio di fronte al punto in cui si trovava Tas. Ne uscì un uomo con in pugno una spada arrugginita. Lo seguì una donna piangente. Chinandosi, l’uomo la baciò con tenerezza, poi baciò il bimbetto che la donna stringeva tra le braccia. Infine, voltandosi di scatto, s’incamminò con passo rapido lungo la strada.
Quando passò davanti a loro, Tas vide che il suo volto era rigato di lacrime.
«Oh, no!» borbottò Caramon.
«Cosa? Cosa?» gridò Tas balzando in piedi e cercando di guardare la pagina che Caramon stava leggendo.
«Ascolta: “Il mattino del giornoterzo, la cittadella volante comparve nel cielo sopra Palanthas, accompagnata da stormi di draghi neri e azzurri. E con la comparsa della cittadella nel cielo, vi fu davanti alle porte della Vecchia Città un’apparizione, alla cui vista più d’un veterano di molte campagne si sbiancò per la paura e volse altrove lo sguardo.
«Poiché era comparso, come se fosse stato creato dalla stessa tenebra della notte, Lord Soth, Cavaliere della Rosa Nera, in sella a un incubo con occhi e zoccoli di fuoco. Cavalcò verso la più vicina porta della città senza che nessuno osasse opporsi, e le guardie fuggirono davanti a lui in preda al terrore.
«E lì si fermò.
«‘Signore di Palanthas,’ gridò il Cavaliere della Morte con una voce cavernosa che proveniva dai regni dell’oltretomba, ‘consegna la tua città alla Signora Kitiara. Consegnale le chiavi della Torre della Grande Stregoneria, nominala sovrana di Palanthas, e lei vi permetterà di continuare a vivere in pace. Alla vostra città verrà risparmiata la distruzione.’
«Lord Amothus prese il suo posto sulle mura, fissando il Cavaliere della Morte sotto di lui. Molti di quelli intorno a Lord Amothus non potevano guardare, tanto li aveva scossi la paura. Ma il Lord, malgrado fosse anche lui pallido come la morte, si erse in tutta la sua statura, restituendo coraggio con le sue parole a coloro che l’avevano smarrito:
«Porta questo messaggio alla tua Signora dei Draghi. Palanthas è vissuta nella pace e nella bellezza per molti secoli. Ma non siamo disposti a comperare la pace, né la bellezza, al prezzo della nostra libertà.
«‘Allora compratele al prezzo della vostra vita!’ urlò Lord Soth. Apparentemente dal nulla, si materializzarono le sue legioni: tredici guerrieri scheletrici, che cavalcavano destrieri con occhi e zoccoli di fuoco, si disposero alle sue spalle. E, dietro di loro, in piedi su carri fatti di ossa umane e trainati da wyvern, comparvero le banshee, gli spiriti delle donne elfe costrette dagli dei a servire Lord Soth. Stringevano in pugno spade di ghiaccio. Soltanto udire le loro urla lamentose significava la morte.
«Alzando una mano, resa visibile soltanto dal guanto di cotta d’acciaio che portava, Lord Soth indicò la porta della città che era chiusa e sbarrava loro la strada. Pronunciò una parola magica, e a questa parola un gelo orrendo investì tutti coloro che guardavano, agghiacciando più l’anima che il sangue. Il ferro della porta cominciò a sbiancarsi di brina, poi si tramutò in ghiaccio, poi, a un’altra parola di Lord Soth, la porta, ormai tutta di ghiaccio, s’infranse.
«Lord Soth abbassò la mano e si lanciò attraverso la porta infranta, seguito dalle sue legioni.
«Sull’altro lato della porta, in sella al drago di bronzo Fireflash (il suo nome draghesco era Khirsah), c’era ad aspettarlo Tanis Mezzelfo, eroe delle Dragonlance. Nel medesimo istante in cui vide il suo avversario, il Cavaliere della Morte tentò di trucidarlo urlando la parola magica: ‘Muori!’ Tanis Mezzelfo, essendo protetto dal braccialetto d’argento, il quale offriva una resistenza magica, non fu toccato dall’incantesimo. Ma il braccialetto che gli aveva salvato la vita in quel primo attacco, ora non poteva più aiutarlo...»
«Non poteva più aiutarlo!» urlò Tas, interrompendo la lettura di Caramon. «Cosa significa?»
«Zitto!» sibilò Caramon, e proseguì: «... più aiutarlo. Il drago di bronzo che Tanis cavalcava, non disponendo di protezione magica, morì nell’istante in cui Lord Soth impartiva l’ordine, costringendo Tanis Mezzelfo a fronteggiare a piedi il Cavaliere della Morte. Lord Soth scese di sella per affrontare il suo avversario, secondo le Leggi del Combattimento stabilite dai Cavalieri di Solamnia, leggi che erano ancora vincolanti per il Cavaliere della Morte, anche se lui, da molto tempo, era al di là della loro giurisdizione. Tanis Mezzelfo combatté con coraggio, ma Lord Soth gli era nettamente superiore. Cadde, mortalmente ferito, con la spada del Cavaliere della Morte conficcata nel petto...»
«No!» rantolò Tas. «No! Non possiamo permettere che Tanis muoia!» Sollevò una mano e tirò Caramon per il braccio. «Andiamo! Siamo ancora in tempo per trovarlo e avvertirlo...»
«Non posso, Tas,» disse Caramon con calma. «Devo raggiungere la Torre. Sento che la presenza di Raistlin si avvicina sempre più. Non ho tempo, Tas.»
«Non puoi parlare sul serio! Non possiamo lasciar morire Tanis!» bisbigliò Tas, fissando Caramon con gli occhi spalancati.
«No, Tas, non possiamo,» replicò Caramon, guardando il kender con espressione grave. «Lo salverai tu.»
Questo pensiero mozzò letteralmente il fiato a Tasslehoff. Quando finalmente ritrovò la voce, fu più uno squittio che altro. «Io? Ma, Caramon, io non sono un guerriero! Oh, so di aver detto alla guardia che io...»
«Tasslehoff Burrfoot,» ribadì Caramon, in tono severo, «suppongo sia possibile che gli dei abbiano organizzato tutta questa faccenda soltanto per il tuo divertimento privato. È possibile, ma ne dubito fortemente. Noi facciamo parte di questo mondo, e dobbiamo assumerci delle responsabilità.
Adesso lo capisco. Sì, lo capisco con molta chiarezza.» Sospirò, e per qualche istante il suo volto fu talmente solenne e triste che Tas si sentì afferrare da un nodo alla gola che quasi lo soffocò.
«So bene che faccio parte del mondo, Caramon,» replicò con aria infelice, «e sarei lieto di prendermi tutta la responsabilità che ritengo di poter affrontare. Ma il fatto è che io sono una parte così corta del mondo, se capisci quello che voglio dire. E Lord Soth è una parte così alta e brutta.
E...»
Una tromba squillò, poi un’altra. Sia Tas sia Caramon si azzittirono, ascoltando, fino a quando lo strepito non si fu spento. «Ci siamo, vero?» chiese Tas con voce sommessa. «Sì,» fu la risposta di Caramon. «Farai meglio ad affrettarti.» Chiuse il libro e lo ripose con delicatezza dentro un vecchio zaino che Tas era riuscito a «procurarsi» mentre si trovavano nella Città Nuova deserta. Il kender era riuscito a procurarsi anche alcune borse nuove, oltre ad altri interessanti oggetti, e probabilmente era meglio che Caramon, questo, non lo sapesse. Poi, allungando la mano, l’omone l’appoggiò sulla testa di Tas, lisciandogli quel ridicolo ciuffo. «Grazie, Tas. Grazie.»
«Ma Caramon!» Tas lo fissò, sentendosi tutt’a un tratto molto solo e confuso. «Do... dove andrai?»
Caramon levò lo sguardo al cielo, là dove si profilava la Torre della Grande Stregoneria, uno squarcio nero in mezzo alle nubi tempestose. Le luci ardevano alle finestre più alte della Torre, dove si trovavano il laboratorio e il Portale.
Tas seguì il suo sguardo fino alla Torre. Vide le nubi che si addensavano minacciose intorno a essa, i lampi arcani che guizzavano avvolgendola, quasi trastullandosi con essa. Ricordò quell’unica volta che aveva visto da vicino il Bosco di Shoikan...
«Oh, Caramon! » gridò, afferrando la mano dell’omone. «Caramon, non... aspetta...»
«Addio, Tas,» disse Caramon, staccando da sé con fermezza il kender che gli si era aggrappato addosso. «Devo farlo. Sai cosa accadrà se non lo farò. E anche tu sai quello che devi fare. Adesso affrettati. A quest’ora è probabile che la cittadella sia già sopra la porta.»
«Ma, Caramon...» gemette Tas.
«Tas, devi farlo!» urlò Caramon, la sua voce rabbiosa echeggiò lungo la strada vuota. «Hai intenzione di lasciar morire Tanis senza aiutarlo?»
Tas si ritrasse. Mai prima di allora aveva visto Caramon infuriato, per lo meno non con lui. E durante tutte le avventure che avevano vissuto insieme, Caramon non gli aveva urlato neppure una volta. «No, Caramon,» replicò, mite. «Soltanto che non... non sono sicuro di cosa devo fare...»
«Ti verrà in mente qualcosa,» borbottò Caramon, corrugando la fronte. «Ti succede sempre.»
Voltandosi, si allontanò, lasciando Tas a guardarlo, sconsolato.
«A... addio, Caramon,» gridò il kender, dietro la figura che se ne andava. «Non... non ti deluderò.»
L’omone si voltò. Quando parlò, la sua voce suonò strana a Tas, come se stesse soffocando a causa di qualcosa. «So che non lo farai, Tas, qualunque cosa accadrà.» Con un ultimo cenno della mano, riprese ad allontanarsi lungo la strada.
Tas vide in distanza le ombre scure del Bosco di Shoikan, le ombre che la luce del giorno non avrebbe mai illuminato, le ombre tra le quali si annidavano i guardiani della Torre.
Tas rimase là per un momento, seguendo con lo sguardo Caramon fino a quando non lo perse di vista nel buio. A dir la verità, aveva continuato a sperare che Caramon avrebbe cambiato idea all’improvviso... che si sarebbe voltato, gridandogli: «Aspetta, Tas! Vengo con te a salvare Tanis!»
Ma Caramon non lo fece.
«Ragione per cui, dovrò arrangiarmi da solo,» concluse Tas con un sospiro. «E mi ha urlato!».
Tirando un po’ su col naso, si girò e s’incamminò con passo affaticato nella direzione opposta, verso la porta. Sentiva di avere il cuore là sotto, nelle scarpe infangate, e questo gliele faceva sentire ancora più pesanti. Non aveva assolutamente nessuna idea di come avrebbe fatto a salvare Tanis da un Cavaliere della Morte, e più ci pensava, più gli sembrava insolito che Caramon gli avesse affidato quella responsabilità.
«Comunque, ho salvato la vita a Caramon,» borbottò Tas. «Forse ha finito per rendersi conto che...»
D’un tratto si fermò e rimase immobile come una statua nel mezzo della strada.
«Caramon si è sbarazzato di me!» gridò. «Tasslehoff Burrfoot, hai davvero il cervello d’un pomolo di maniglia, come Flint ti ha detto tante volte. Si è sbarazzato di me! È andato là a morire!
Mandarmi a salvare Tanis è stata soltanto una scusa!» Sconvolto e infelice, Tas scrutò la strada nei due sensi. «E adesso, cosa faccio?» borbottò.
Fece un passo nella direzione in cui era scomparso Caramon. Poi sentì di nuovo squillare una tromba, questa volta con una nota acuta e allarmata e, al di sopra dello squillo, gli parve di udire una voce che gridava ordini... la voce di Tanis.
«Ma se vado con Caramon, Tanis morrà!». Tas si fermò. Quasi voltandosi, fece un passo verso Tanis. Poi si fermò di nuovo, arrotolandosi il ciuffo intorno a un dito, un autentico cavatappi d’indecisione. Il kender non aveva mai sperimentato una simile frustrazione in tutta la sua vita.
«Tutti e due hanno bisogno di me!» gemette in preda all’angoscia. «Come posso scegliere?»
Poi... «Lo so!» la fronte gli si spianò. «Ecco!»
Con un profondo sospiro di sollievo, Tas si girò di scatto, e continuò in direzione della porta, questa volta mettendosi a correre.
«Salverò Tanis,» ansimò, infilando un vicolo come scorciatoia, «e poi tornerò indietro e salverò Caramon. Tanis potrebbe perfino essermi di aiuto.»
Correndo lungo il vicolo, facendo fuggire i gatti, terrorizzati, in tutte le direzioni, Tas corrugò, irritato, la fronte. «Mi chiedo quanti sono in totale gli eroi che ho dovuto salvare,» disse fra sé, arricciando il naso. «A esser franchi, cominciano un po’ tutti a stufarmi.»
La cittadella volante comparve nel cielo sopra Palanthas proprio nell’istante in cui le trombe suonavano il cambio della guardia. Le guglie e i bastioni sgretolati, le torreggianti mura di pietra, le finestre illuminate alle quali si accalcavano i draconici, tutto era chiaramente visibile mentre la cittadella fluttuava verso il basso, ondeggiando nell’aria, le fondamenta appoggiate sulla ribollente nube magica.
Le mura della Città Vecchia erano affollate di uomini, cittadini, cavalieri, mercenari. Nessuno diceva una parola. Tutti stringevano le loro armi con lo sguardo fisso sopra le loro teste, in cupo silenzio.
Ma, malgrado tutto, una parola venne pronunciata alla vista della cittadella... o parecchie, a dire il vero.
«Oh...» fu lo sbalordito sussurro di Tas, le mani chiuse in una stretta convulsa, pieno di meraviglia davanti a quello spettacolo. «Non è fantastico? Mi ero dimenticato di quanto fossero magnifiche le cittadelle
volanti! Darei qualunque cosa, sì, qualunque cosa, per viaggiarci sopra.» Poi, con un nuovo sospiro, si riscosse. «Non adesso, Burrfoot,» si disse con severità, imitando la voce di Flint. «Hai del lavoro da fare. Adesso.» Si guardò intorno, «Là c’è la porta. Là c’è la cittadella. Ed ecco che arriva Lord Amothus... Cielo, ha un aspetto terribile! Ho visto dei morti con un aspetto molto migliore del suo. Ma dove... Ah!»
Una cupa processione marciava lungo la strada in direzione di Tas, un gruppo di Cavalieri di Solamnia, che veniva avanti a piedi, conducendo i cavalli. Non c’era allegria, non parlavano. Il volto di ognuno di loro era solenne e teso, ognuno di loro sapeva che, con ogni probabilità, stava andando incontro alla morte. Erano guidati da un uomo la cui faccia barbuta faceva un violento contrasto con i volti baffuti ma per il resto ben rasati dei cavalieri che gli stavano intorno. E malgrado indossasse l’armatura di un Cavaliere della Rosa, non la portava con la disinvoltura degli altri cavalieri.
«Tanis ha sempre odiato la cotta di maglia,» si disse Tas, gli occhi puntati sull’amico che si avvicinava. «Ed eccolo qui, che indossa l’armatura di un Cavaliere di Solamnia. Chissà cosa avrebbe detto Sturm! Vorrei tanto che Sturm fosse qui adesso!». Il labbro inferiore di Tas cominciò a tremare. Una lacrima gli scivolò lungo la guancia prima che potesse fermarla. «Vorrei che chiunque abbia coraggio e intelligenza bastanti si trovasse qui adesso!»
Quando i cavalieri si avvicinarono alla porta, Tanis si arrestò e si voltò verso di loro, impartendo ordini a bassa voce. Dall’alto giunse un aspro scricchiolio di ali di drago. Sollevando lo sguardo, Tasslehoff vide Khirsah che stava girando in cerchio, guidando una formazione di altri draghi di bronzo. E c’era la cittadella, lì nel cielo, che si stava avvicinando sempre più alle mura, continuando a perdere quota.
«Sturm non c’è. Caramon non c’è. Non c’è nessuno, Burrfoot,» borbottò Tas, asciugandosi con un gesto risoluto gli occhi. «Ancora una volta sei solo... Adesso, che cosa farò?»
Pensieri folli si agitarono nella mente del kender: davvero ogni tipo di pazzia, dal trattenere Tanis puntandogli addosso la spada («Parlo sul serio, Tanis. Tieni le mani alzate!») al colpirlo in testa con un frammento aguzzo di roccia («Uh, senti, Tanis, ti spiacerebbe toglierti l’elmo per un momento?»). Ma Tas era talmente disperato da prendere in considerazione addirittura la possibilità di dirgli la verità («Vedi, Tanis, siamo tornati indietro nel tempo, poi siamo andati avanti, e Caramon ha preso questo libro ad Astinus proprio mentre il mondo stava per finire e, prima dell’ultimo capitolo, il libro racconta come sei morto, e...»). D’un tratto Tas vide Tanis sollevare il braccio destro. Vi fu un bagliore d’argento...
«Ecco,» esclamò Tas, tirando un profondo sospiro di sollievo. «Ecco quello che farò, proprio quello che so fare meglio...»
«Qualunque cosa accada, lasciate che mi occupi io di Lord Soth,» esclamò Tanis, fissando cupo i cavalieri schierati intorno a lui. «Voglio che mi giuriate questo sul Codice e la Misura.»
«Tanis, mio signore...» cominciò a dire sir Markham.
«No, non ho intenzione di discutere, Cavaliere. Non avreste la benché minima possibilità contro di lui senza una protezione magica. Ognuno di voi, invece, sarà necessario per combattere contro le sue legioni. Ora, o lo giurate, oppure vi ordinerò di lasciare il campo. Giurate!»
Da oltre la porta chiusa, una voce possente e cavernosa echeggiò, invitando Palanthas ad arrendersi. I cavalieri si guardarono l’un l’altro, sentendo brividi di paura percorrere i loro corpi nell’udire quel suono inumano. Vi fu un attimo di silenzio, interrotto soltanto dal cigolio delle ali dei draghi, mentre le grandi creature bronzee, azzurre, argentee e nere giravano in cerchio, squadrandosi funeste, in attesa dell’ordine di combattere. Il drago di Tanis, Khirsah, si librava nell’aria nei pressi del suo cavaliere, pronto a scendere al primo cenno.
E poi udirono la voce di Lord Amothus, fragile e tesa, ma risoluta, che rispondeva al Cavaliere della Morte. «Porta questo messaggio alla tua Signora dei Draghi. Palanthas è vissuta in pace e bellezza per molti secoli. Ma non siamo disposti a comperarle, né la pace né la bellezza, al prezzo della nostra libertà.»
«Lo giuro,» disse sir Markham con voce sommessa, «sul Codice e la Misura.»
«Lo giuro,» giunse la risposta degli altri cavalieri dopo di lui.
«Grazie,» replicò Tanis, fissando ognuno dei giovani davanti a sé, pensando che la maggior parte non sarebbe rimasta in vita ancora per molto... Pensando che lui stesso... Scosse rabbiosamente la testa. «Fireflash...» Le parole che avrebbero fatto scendere il drago erano già sulle sue labbra, quando Tanis udì esplodere un tumulto in fondo alla fila dei cavalieri.
«Ahi! Togli quella zampa dal mio piede, zoticone!»
Un cavallo nitrì. Tanis udì imprecare uno dei cavalieri, poi una voce acuta che rispondeva con tono innocente: «Be’, non è colpa mia! È stato il tuo cavallo a calpestarmi! Flint aveva ragione quando parlava di questi stupidi animali...»
Gli altri cavalli, fiutando la battaglia e già influenzati dalla tensione dei loro cavalieri, drizzarono le orecchie e sbuffarono innervositi. Uno di loro uscì dalla fila quasi a passo di danza. Il suo cavaliere tirò le briglie.
«Tenete sotto controllo quei cavalli!» gridò Tanis con voce tesa. «Cosa sta succedendo...»
«Fatemi passare! Fuori dai piedi. Cosa? È tuo questo pugnale? Devi averlo lasciato cadere...»
Al di là della porta, Tanis udì la voce del Cavaliere della Morte.
«Pagherete per questo con la vostra vita!»
E dalla fila davanti a lui si levò un’altra voce.
«Tanis, sono io, Tasslehoff!»
Il mezzelfo si sentì sprofondare il cuore. In quel momento non avrebbe saputo dire quale delle due voci l’avesse raggelato di più.
Ma non pareva che ci fosse tempo per pensare o stupirsi. Guardando dietro di sé, Tanis vide la porta diventare ghiaccio, la vide frantumarsi...
«Tanis!» qualcosa l’aveva afferrato per il braccio. «Oh, Tanis!» Tas si aggrappò a lui. «Tanis, devi venire subito a salvare Caramon! Sta per entrare nel Bosco di Shoikan!»
Caramon? Caramon è morto, fu il primo pensiero di Tanis. Ma d’altro canto anche Tas è morto.
Cosa sta succedendo? Sto forse impazzendo per la paura?
Qualcuno gridò. Guardandosi intorno stordito, Tanis vide i volti dei cavalieri farsi d’un pallore mortale sotto i loro elmi, e seppe che Lord Soth e le sue legioni stavano varcando la porta.
«Salta su!» gridò freneticamente, cercando di liberarsi del kender, il quale si teneva tenacemente aggrappato a lui. «Tas! Questo non è il momento... Vattene da qui, dannazione!»
«Caramon morirà,» gemette Tas. «Devi salvarlo, Tanis!»
«Caramon... è... già... morto!» ringhiò Tanis.
Khirsah atterrò accanto a lui, lanciando un alto grido di battaglia. Sia i buoni sia i cattivi, tutti gli altri draghi gli fecero eco gridando per la collera, volando gli uni addosso agli altri, facendo balenare gli artigli. In meno di un istante esplose la pugna, l’aria fu piena dei lampi e dell’odore dell’acido. In alto, nella cittadella volante, suonarono i corni. I draconici esplosero in urla di gioia e cominciarono a lasciarsi cadere sulla città, allargando le ali coriacee per frenare la caduta.
Lord Soth, in sella al suo drago, si stava avvicinando sempre più. Il gelo della morte s’irradiava dal suo corpo scarnificato.
Ma, per quanto ci provasse, Tanis non riuscì a scuotersi di dosso Tas.
Alla fine, imprecando fra i denti, il mezzelfo riuscì ad afferrare il kender che si dimenava disperatamente. Agguantandolo sotto la cintura, talmente arrabbiato da sentirsi letteralmente soffocare per la collera, Tanis scaraventò il kender nell’angolo di un vicolo lì vicino.
«E resta lì!» gl’intimo con un ruggito.
«Tanis!» lo implorò Tas, «non puoi andare là fuori! Morirai, lo so!»
Lanciando a Tas un’ultima occhiata furente, Tanis girò sui tacchi e si mise a correre. «Fireflash!» urlò. Il drago scese in picchiata verso di lui, atterrando in una strada lì accanto.
«Tanis!» gridò Tas con voce acuta. «Non puoi combattere Lord Soth senza il braccialetto!»
Capitolo secondo
Il braccialetto! Tanis abbassò lo sguardo sul proprio polso. Il braccialetto non c’era più! Girandosi di scatto, si lanciò verso il kender. Ma era troppo tardi. Tasslehoff sfrecciava lungo la strada, correndo come se la sua vita dipendesse da questo. (Il che, dopo aver lanciato un’occhiata alla faccia infuriata di Tanis, sembrò a Tas la pura verità.)
«Tanis!» gridò sir Markham. Lord Soth era in sella al suo incubo, incorniciato dai resti frantumati della porta della città di Palanthas. Il suo sguardo fiammeggiante incontrò quello di Tanis e non lo lasciò. Perfino da quella distanza, Tanis sentì la sua anima accartocciarsi per la paura che sempre avvolge i morti che camminano.
Cosa avrebbe potuto fare, adesso? Non aveva il braccialetto, e senza di esso non avrebbe avuto nessuna possibilità. Proprio nessuna! Grazie agli dei, pensò Tanis in quella frazione di secondo... grazie agli dei che non sono un cavaliere, vincolato a morire con onore.
«Correte!» ordinò, attraverso labbra così irrigidite da riuscire a parlare a malapena. «Fuggite!
Contro costui non c’è niente che possiate fare! Ricordate il vostro giuramento! Ritiratevi! Sacrificate la vostra vita a combattere i vivi...»
Proprio mentre pronunciava queste parole, un draconico atterrò davanti a lui, l’orrendo volto da rettile era contorto dalla bramosia di sangue.
Ricordandosi appena in tempo di non trafiggere quella creatura, il cui corpo osceno sarebbe fulmineamente diventato di pietra, imprigionando la spada del suo uccisore, Tanis lo colpì al viso con l’elsa della sua arma, gli sferrò un calcio nello stomaco, e poi superò il corpo con un salto mentre questo rotolava al suolo.
Alle sue spalle udì i cavalli nitrire per il terrore, e uno scalpitare di zoccoli. Sperò che i cavalieri stessero obbedendo al suo ultimo ordine, ma non poteva perdere neppure un istante a guardare.
C’era ancora una possibilità, se fosse riuscito ad agguantare Tas e a riprendersi il braccialetto magico...
«Il kender!» urlò rivolto al drago e indicando la piccola figura dal piede veloce che stava scomparendo in fondo alla strada.
Khirsah capì e decollò all’istante. Le punte delle sue ali sfiorarono gli edifici quando scese in picchiata lungo l’ampia strada, lanciato all’inseguimento, facendo cadere al suolo pietre e mattoni.
Tanis correva dietro al drago. Non si guardò intorno. Non ne aveva bisogno. Poteva sentire dalle urla d’agonia quello che stava accadendo.
Quella mattina la morte cavalcò le strade di Palanthas. Capeggiata da Lord Soth, quell’armata spettrale varcò le porte come un vento gelido, facendo appassire ogni cosa che incontrava lungo il suo percorso.
Quando Tanis raggiunse il drago, Khirsah stringeva Tas fra i denti. Tenendo Tas a testa in giù per il fondo delle brache azzurre, il drago lo stava scuotendo come il più efficiente dei guardiani di una prigione. Le borse di recente acquisite da Tas si aprirono facendo cadere sulla strada una piccola grandinata di anelli, cucchiai, un portatovaglioli, e mezza forma di formaggio.
Ma niente braccialetto d’argento.
«Dov’è, Tas?» domandò Tanis, fremendo di rabbia, desideroso di scrollare lui stesso il kender.
«N-n-non lo tr-tr-troverai mai-mai-mai,» replicò il kender, con i denti che gli ballavano in bocca.
«Mettilo giù,» ordinò Tanis al drago. «Fireflash, fai buona guardia.»
La cittadella volante si era fermata all’altezza delle mura della città, i suoi usufruitori di magia e i chierici scuri stavano combattendo i draghi d’argento e di bronzo che li attaccavano. Era difficile distinguere qualcosa in mezzo ai lampi accecanti e alla foschia causata dal fumo che si stava diffondendo dovunque, ma Tanis fu certo di aver intravisto un drago azzurro che lasciava la cittadella. Kitiara, pensò, ma non aveva tempo di pensare a lei.
Khirsah lasciò cadere Tas, quasi a capofitto, e allargando le ali si voltò verso il lato meridionale della città, dove il nemico si stava radunando e dove i difensori della città lo stavano coraggiosamente respingendo.
Tanis si avvicinò a scrutare il piccolo colpevole, il quale a sua volta lo fissò con aria di sfida, mentre si rialzava.
«Tasslehoff,» disse Tanis con la voce che gli tremava per la rabbia repressa, «questa volta sei andato troppo oltre. Questo tuo scherzo potrebbe costare la vita a centinaia d’innocenti.
Restituiscimi il braccialetto, Tas, e sappi questo: da adesso in avanti la nostra amicizia è finita!»
Aspettandosi qualche scusa balzana o qualche piagnucolio di pentimento, il mezzelfo non era preparato a vedere Tas che lo fissava pallido in volto, le labbra tremanti e un’aria di tranquilla dignità.
«È molto difficile da spiegare, Tanis, e davvero non ne ho il tempo. Ma se tu avessi combattuto contro Lord Soth, non ci sarebbe stata nessuna differenza.» Contemplò il mezzelfo con grande serietà. «Devi credermi, Tanis: ti sto dicendo la verità. Non avrebbe avuto nessuna importanza.
Tutta quella gente che sta per morire, sarebbe morta lo stesso, e saresti morto anche tu e, cosa ancora peggiore, l’intero mondo sarebbe morto... ma tu non sei morto, così, forse, il mondo non morrà. E adesso,» concluse Tas con fermezza, raccogliendo da terra le borse e risistemandole sulla sua persona, «dobbiamo andare a salvare Caramon.»
Tanis fissò Tas poi, stancamente, si portò le mani alla testa, strappandosi l’elmo d’acciaio arroventato. Non aveva la più pallida idea di ciò che stava accadendo. «D’accordo, Tas,» disse, esausto. «Dimmi allora di Caramon. È vivo? Dove si trova?»
Il volto di Tas si contorse per la preoccupazione. «È proprio questo, Tanis. Potrebbe non essere vivo. Per lo meno, non ancora per molto. Sta cercando di entrare nel Bosco di Shoikan!»
«Il Bosco di Shoikan?» Tanis parve vivamente allarmato. «È impossibile!»
«Lo so!» Tas si tirò innervosito il ciuffo. «Ma sta cercando di arrivare alla Torre della Grande Stregoneria per fermare Raistlin...»
«Capisco,» borbottò Tanis. Scaraventò l’elmo sul selciato. «O, per lo meno, comincio. Da che parte?»
Il volto di Tas s’illuminò. «Allora, vieni? Mi credi? Oh, Tanis, sono così contento! Non hai idea di quale importante responsabilità sia badare a Caramon. Da questa parte!» gridò, indicandogli la strada con slancio.
«C’è nient’altro che posso fare per te, Mezzelfo?» chiese Khirsah, allargando le ali e volgendo avidamente lo sguardo alla battaglia che veniva combattuta lassù, sopra le loro teste. «No, a meno che tu possa entrare nel Bosco.» Khirsah scosse la testa. «Mi spiace, Mezzelfo. Neppure i draghi possono entrare in quel bosco maledetto. Ti auguro buona fortuna, ma non aspettarti di trovare vivo il tuo amico.»
Sbattendo le ali, il drago balzò in aria e si levò in volo verso il combattimento. Scuotendo gravemente la testa, Tanis s’incamminò lungo la Strada con passo rapido; Tasslehoff si mise a correre per stargli dietro.
«Forse Caramon non è neppure riuscito ad arrivare così lontano,» disse Tas, speranzoso. «Io non ci sono riuscito, l’ultima volta che Flint ed io siamo venuti. Ed i kender non hanno paura di niente!»
«Hai detto che sta cercando di fermare Raistlin?»
Tas annuì.
«Allora, arriverà fin là,» predisse Tanis, con voce cupa.
C’era voluto ogni più piccolo frammento di forza e di coraggio da parte di Caramon anche soltanto per avvicinarsi al Bosco di Shoikan. Così, riuscì ad avvicinarsi a esso più di quanto qualsiasi altro essere umano aveva mai fatto senza avere su di sé alcun talismano che permettesse di accedervi senza pericolo. Adesso si trovava davanti a quegli alberi scuri e silenziosi, tremando e sudando e cercando d’indursi a fare un altro passo.
«La morte mi attende là dentro,» mormorò fra sé, leccandosi le labbra secche. «Ma che differenza può mai fare? Ho affrontato la morte cento e più volte!». Stringendo ancor più nella mano l’elsa della spada, spinse una volta ancora avanti il piede.
«No, non morirò!» gridò alla foresta. «Non posso morire. Troppo dipende da me. E non saranno... non saranno degli alberi a fermarmi!»
Spinse avanti anche l’altro piede.
«Ho camminato in luoghi più bui di questo,» continuò a parlare in tono di sfida. «Ho percorso la Foresta di Wayreth. Ho attraversato Krynn quando stava morendo. Ho visto la fine del mondo. No,» aggiunse con fermezza, «questa foresta non contiene nessun terrore che io non possa superare.»
Detto questo, Caramon si fece avanti ed entrò nel Bosco di Shoikan.
Si trovò subito immerso in una tenebra perenne. Per lui fu come trovarsi di nuovo nella Torre, quando l’incantesimo di Crysania lo aveva accecato. Soltanto, che questa volta era solo. Il panico lo ghermì. C’era vita all’interno di quella oscurità! Una vita empia, orribile, che non era affatto una vita ma una morte vivente... I muscoli di Caramon s’infiacchirono. Cadde carponi, singhiozzando e tremando per il terrore.
«Sei nostro!» bisbigliarono le voci sommesse e sibilanti. «Il tuo sangue, il tuo calore, la tua vita! Sono nostri! Nostri! Avvicinati ancora di più. Portaci il tuo dolce sangue, le tue calde carni. Abbiamo freddo, freddo, al di là di ogni sopportazione. Avvicinati, avvicinati di più.»
Caramon fu sopraffatto dall’orrore. Doveva soltanto voltarsi e correre, e sarebbe riuscito a sfuggire alla... «No, no,» alitò in quell’oscurità soffocante e sibilante, «devo fermare Raistlin! Devo... andare... avanti.»
Per la prima volta nella sua vita, Caramon scrutò nelle profondità del proprio essere e trovò la stessa indomabile volontà che aveva condotto il suo gemello a vincere la fragilità e il dolore e perfino la stessa morte pur di raggiungere il suo scopo. Digrignando i denti, incapace di reggersi in piedi eppure deciso ad andare avanti, Caramon strisciò sulle mani e sulle ginocchia sul terreno.
Fu uno sforzo coraggioso, ma non arrivò lontano. Scrutando la tenebra, guardò paralizzato e affascinato le mani scarnificate che spuntavano dal suolo. Dita gelide e lisce come il marmo si chiusero sulle sue mani e cominciarono a trascinarlo giù. Disperato, cercò di liberarsi, ma altre mani cercarono di afferrarlo, lacerandogli le carni con le unghie. Si sentì risucchiare verso il basso. Le voci sibilanti gli sussurravano alle orecchie, labbra ossute gli premevano contro le carni. Il gelo gli raggelò il cuore. «Ho fallito...»
«Caramon,» gli giunse una voce preoccupata.
«Caramon?» E poi: «Tanis sta arrivando!»
«Grazie agli dei!»
Caramon aprì gli occhi. Sollevò lo sguardo e vide il volto barbuto del mezzelfo, che lo stava fissando con un’espressione di sollievo frammisto a perplessità, stupore e perfino ammirazione.
«Tanis!» rizzandosi a sedere ancora intorpidito dall’orrore, Tanis strinse l’amico tra le braccia robuste, serrandolo al proprio corpo, singhiozzando per il sollievo.
«Amico mio!» esclamò Tanis, e non riuscì ad aggiungere altro, soffocato dalle sue stesse lacrime.
«Stai bene, Caramon?» chiese Tas, rimanendogli vicino.
L’omone emise un lungo sospiro. «Sì,» rispose, prendendosi la testa fra le mani tremanti. «Credo di sì.»
«È la cosa più coraggiosa che abbia mai visto fare a un uomo,» dichiarò Tanis in tono solenne, risollevandosi per appoggiarsi sui calcagni e fissando Caramon. «La più coraggiosa... e la più stupida.»
Caramon arrossì. «Già,» borbottò a bassa voce. «Be’... tu mi conosci.» «Un tempo sì,» replicò Tanis, grattandosi la barba. Il suo sguardo contemplò lo splendido fisico dell’omone, la sua pelle di bronzo, la sua espressione risoluta e tranquilla. «Dannazione, Caramon! Un mese fa sei venuto, completamente ubriaco, ai miei piedi! Il tuo coraggio era praticamente a terra! E adesso...»
«Sono passati anni, Tanis,» l’interruppe Caramon, risollevandosi lentamente in piedi con l’aiuto di Tas. «È tutto quello che posso dirti. Ma, cos’è successo? Come ho fatto a uscire da quel terribile luogo?» lanciò Un’occhiata alle proprie spalle, vide in lontananza le ombre degli alberi, » in fondo alla strada, e non potè fare a meno di rabbrividire.
«Ti ho trovato,» disse Tanis, alzandosi a sua volta in piedi. «Loro, quelle creature, ti stavano trascinando sotto terra. Laggiù avresti trovato un luogo assai inquieto per riposare, amico mio.»
«Come hai fatto a entrare?»
«Questo,» spiegò Tanis, sorridendo e tenendo alto il braccialetto d’argento.
«Ti ha fatto entrare? Allora, forse...»
«No, Caramon,» disse Tanis, tornando a infilare il braccialetto dentro la cintura, con una lunga occhiata obliqua a Tas, il quale ostentava un’aria estremamente innocente. «La sua magia a stento era in grado di farmi superare i bordi di quel bosco maledetto. Sentivo il suo potere diminuire sempre più...»
L’espressione speranzosa di Caramon si spense. «Ho tentato anche con il nostro congegno magico,» disse guardando Tas. «Ma non funziona neanche quello. Non mi aspettavo che lo facesse.
Non ci ha permesso neppure di attraversare la Foresta di Wayreth. Ma dovevo tentare. Non... non sono neppure riuscito a fare in modo che si trasformasse! Mi si è quasi rotto tra le mani, perciò ho lasciato stare.» Rimase silenzioso per qualche istante, poi, con la voce che gli tremava per la disperazione, disse frenetico: «Tanis, devo raggiungere la Torre!» Le sue mani si strinsero a pugno.
«Non posso spiegartelo, ma ho visto il futuro, Tanis! Devo varcare il portale e fermare Raistlin.
Sono il solo che possa farlo!»
Disorientato, Tanis appoggiò una mano sulla spalla dell’omone per calmarlo. «Così mi ha detto Tas, più o meno. Ma, Caramon, là c’è Dalamar... e... in nome degli dei, come potresti mai riuscire a varcare il Portale?»
«Tanis,» disse Caramon guardando il suo amico con un’espressione così seria e ferma che il mezzelfo sbatté le palpebre per lo stupore, «tu non puoi capire, e non c’è tempo per spiegartelo. Ma devi credermi. Devo entrare in quella Torre!»
«Hai ragione,» annuì Tanis, dopo aver fissato Caramon con perplesso stupore, «non capisco. Ma ti aiuterò, se potrò, sempre che sia possibile.»
Caramon sospirò di nuovo, abbassò la testa e infossò le spalle. «Grazie, amico mio,» disse in tutta semplicità. «Ero talmente solo durante tutta questa vicenda. Se non fosse stato per Tas...»
Guardò in direzione del kender, ma Tas non lo stava ascoltando. Il suo sguardo era fisso, con rapita attenzione, sulla cittadella volante, ancora sospesa sopra le mura della città. La battaglia infuriava nell’aria intorno a essa, fra i draghi, e sul terreno sottostante, come si poteva intuire dalle dense colonne di fumo che si levavano dal lato sud della città, dall’echeggiare delle grida e delle urla, dal cozzare delle armi e dallo scalpitio degli zoccoli dei cavalli.
«Scommetto che una sola persona basterebbe a pilotare quella cittadella fino alla Torre,» disse Tas, continuando a fissarla con interesse. «Uuush! Dritti sopra il Bosco. Dopotutto, la sua magia è malvagia come quella del Bosco, ed è piuttosto grande, la cittadella voglio dire, non il Bosco.
Probabilmente ci vorrebbe un sacco di magia per poterla fermare, e...»
«Tas!»
Il kender si voltò e si trovò davanti a Caramon e a Tanis, entrambi intenti a fissarlo.
«Cosa?» gridò allarmato. «Non sono stato io! Non è colpa mia...» «Se soltanto potessimo salire lassù!» Tanis fissò la cittadella. «Il congegno magico!» gridò Caramon, in preda all’eccitazione, tirandolo fuori dalla tasca interna della camicia che indossava sotto la giubba. «Questo ci porterà lassù!»
«Ci porterà dove?». D’un tratto Tasslehoff si rese conto che stava succedendo qualcosa. «Ci porterà dove...» seguì lo sguardo di Tanis. «Là? Là?». Gli occhi del kender scintillarono luminosi come stelle. «Davvero? Davvero? Dentro la cittadella volante? È meraviglioso! Sono pronto. Andiamo!»
Il suo sguardo andò al congegno magico che Caramon stringeva in mano. «Ma quello funziona soltanto per due persone, Caramon. Come farà Tanis a salire lassù?»
Caramon si schiarì la gola, a disagio, e il kender cominciò a capire.
«Oh, no!» gemette Tas. «No!»
«Mi spiace, Tas,» disse Caramon, trasformando con le mani che gli tremavano il ciondolo piccolo e anonimo nello scettro brillante e ingioiellato, «ma dovremo combattere duramente per riuscire a entrare là dentro...»
«Mi devi portare, Caramon!» gridò Tas. «L’idea era mia! Io posso combattere!». Frugandosi nella cintura, sfoderò il suo pugnaletto. «Ti ho salvato la vita! Ho salvato la vita a Tanis!»
Intuendo dall’espressione sul volto di Caramon che l’amico si sarebbe ostinato sulla sua decisione, Tas si rivolse a Tanis e gli buttò le braccia attorno al corpo, implorandolo. «Portatemi con voi!
Forse il congegno funzionerà per tre persone. O, meglio, due persone e un kender. Sono basso, potrebbe non accorgersi di me... Per favore!»
«No, Tas,» replicò Tanis con fermezza. Staccandosi il kender di dosso, , si avvicinò a Caramon.
Alzando un dito ammonitore, lo mise in guardia, con un’espressione che Tas conosceva benissimo.
«E stavolta parlo sul serio!»
Tas rimase là con un’espressione talmente sconsolata che il cuore di Caramon si riempì di tristi presagi. «Tas,» intervenne con voce sommessa, inginocchiandosi accanto al kender angosciato, «hai visto cosa accadrà se falliremo! Bisogna che Tanis sia con me, mi servono la sua forza, la sua spada... Capisci, vero?»
Tas cercò di sorridere, ma il labbro inferiore gli tremò. «Sì, Caramon, capisco. Mi spiace.»
«E, dopotutto, è stata una tua idea,» aggiunse Caramon in tono solenne, rialzandosi in piedi.
Mentre questo pensiero parve confortare il kender, non contribuì più di tanto a dar fiducia al mezzelfo. «Per qualche motivo,» borbottò Tanis, «questo mi preoccupa.» Lo stesso valse per l’espressione sul volto del kender. «Tas,» Tanis assunse la sua aria più severa, mentre Caramon si spostava fermandosi ancora una volta accanto a lui, «promettimi che troverai qualche posto sicuro e ci rimarrai, e che ti terrai lontano dai guai! Dunque, lo prometti?»
Il volto di Tas era la fedele immagine del tumulto interiore: il kender si morse le labbra, le sue sopracciglia s’intrecciarono, si torse il ciuffo fino in cima alla testa. Poi, d’un tratto, i suoi occhi si allargarono. Sorrise, e finalmente lasciò liberi i capelli che gli si sciolsero lungo la schiena. «Ma certo che lo prometto, Tanis,» dichiarò con un’espressione talmente innocente e sincera che il mezzelfo non potè fare a meno di cacciare un gemito.
Ma adesso non c’era niente che potesse fare. Caramon stava già recitando la magica cantilena, manipolando il congegno. L’ultima immagine che Tanis vide, prima di sparire nelle nebbie turbinanti della magia, fu quella di Tasslehoff ritto su un piede solo, che si sfregava il polpaccio d’una gamba con l’altra, mentre li salutava agitando una mano con un sorriso allegro.
Capitolo terzo.
«Fireflash!» esclamò Tasslehoff, non appena Tanis e Caramon furono scomparsi alla sua vista.
Il kender si voltò e corse fino in fondo alla strada, verso il lato meridionale della città dove i combattimenti erano più violenti. «Poiché,» ragionò fra sé, «è probabile che i draghi stiano conducendo laggiù la loro battaglia.»
Fu allora che Tas si rese conto della sfortunata falla nel suo piano. «Maledizione!» borbottò, fermandosi e sollevando lo sguardo al cielo che brulicava letteralmente di draghi che ringhiavano, artigliavano e si alitavano addosso l’un l’altro rabbiosamente il fiato micidiale. «Adesso, come riuscirò a trovarlo in mezzo a tutta quella confusione?»
Tirando un profondo sospiro esasperato, il kender si sentì subito soffocare e tossì. Si guardò intorno ed ebbe modo di notare che l’aria stava diventando estremamente fumosa e che il cielo, in precedenza grigio a causa dello spuntare dell’alba oltre le nubi tempestose, adesso si stava illuminando d’un bagliore fiammeggiante.
Palanthas era in fiamme.
«Non è proprio il posto sicuro in cui fermarsi,» borbottò Tas. «E Tanis mi ha detto di trovarmi un posto sicuro. Ma il posto più sicuro che conosco è con lui e con Caramon, e loro si trovano lassù in quella cittadella, proprio adesso, e probabilmente si staranno cacciando in guai senza fine, e io sono incastrato qui, in una città che viene data alle fiamme e saccheggiata.» Il kender pensò intensamente. «Ecco!» esclamò all’improvviso. «Rivolgerò una preghiera a Fizban! Ha funzionato un paio di volte, be’... credo che abbia funzionato. E in ogni caso, non può far male.»
Vedendo una pattuglia di draconici che stava arrivando lungo la strada e non volendo nessuna interruzione, Tas s’infilò in un vicolo dove si rannicchiò dietro un cumulo di rifiuti, sollevando lo sguardo al cielo. «Fizban,» recitò in tono solenne, «è questo il momento! Se non usciamo da questa situazione, tanto vale che buttiamo l’argento nel pozzo e andiamo ad abitare con le galline, come diceva mia madre, e anche se non sono molto sicuro di cosa volesse dire, certo ha un suono sinistro.
Devo trovarmi con Tanis e Caramon. Tu sai che non possono cavarsela senza di me. E per raggiungerli mi serve un drago. Ora, questo non è molto. Avrei potuto chiedere molto di più, per esempio che mi facessi saltare l’intermediario mandandomi a sfrecciare fin lassù... Ma non l’ho fatto. Soltanto un drago. Nient’altro.»
Tas aspettò.
Non accadde nulla.
Esalando un sospiro esasperato, Tas fissò il cielo severamente, aspettando ancora un po’.
Ancora niente.
Tas tirò un altro sospiro. «D’accordo, lo ammetto. Darò il contenuto di una borsa, forse perfino di due, per avere la possibilità di volare nella cittadella. Ecco, è la verità. Il resto della verità, comunque. E ti ho sempre ritrovato il cappello...»
Ma, malgrado il suo gesto magnanimo, non comparve nessun drago.
Alla fine Tas si arrese. Rendendosi conto che la pattuglia draconica era ormai passata, si rialzò da dietro il cumulo di spazzatura e ripercorse il vicolo, uscendo nuovamente in strada.
«Bene,» borbottò, «suppongo che tu abbia da fare, Fizban, e...»
In quell’istante il terreno si sollevò sotto i piedi di Tas, l’aria si riempì di rocce infrante, di mattoni e di macerie, un fragore simile a quello del tuono assordò il kender, e poi... silenzio.
Tirandosi su, spazzolandosi via la polvere dai gambali, Tas sbirciò in mezzo al fumo e alle macerie, cercando di vedere cosa fosse successo. Per un attimo pensò che forse un altro edificio gli fosse stato fatto cadere addosso, come a Tharsis. Ma poi vide che non era quello il caso.
Un drago di bronzo giaceva supino in mezzo alla strada. Era coperto di sangue, le sue ali, allargate sopra l’isolato, avevano schiacciato parecchi edifici, la coda giaceva di traverso su parecchi altri.
Aveva gli occhi chiusi e c’erano segni di bruciature lungo i suoi fianchi, e pareva non respirasse più.
«Ora...questo,» dichiarò Tas vivamente irritato fissando il drago, «non era quello che avevo in mente!»
In quel momento, però, il drago si mosse. Una palpebra sbatté e si aprì, e l’occhio parve guardare il kender come se, nello stordimento, lo riconoscesse.
«Fireflash!» ansimò Tas, correndo su per una delle gigantesche zampe, a guardare il drago nell’occhio. «Ti stavo cercando. Sei... sei ferito gravemente?»
Il giovane drago parve sul punto di rispondere quando un’ombra scura li coprì entrambi. Gli occhi di Khirsah si spalancarono di colpo, mentre dava in un ringhio sommesso e cercava, pure indebolito, di sollevare la testa, ma lo sforzo parve al di là delle sue possibilità. Sollevando lo sguardo, Tas vide un grosso drago nero che scendeva in picchiata verso di loro, in apparenza deciso a finire la sua vittima.
«Oh, no, non lo farai!» borbottò Tas. «Questo è il mio drago! Me l’ha mandato Fizban. Ora... come si fa a combattere un drago?»
Le storie di Huma balenarono nella mente del kender, ma non gli furono di molto aiuto, dal momento che non aveva una dragonlance, e neppure una spada. Sfoderò il suo pugnaletto e lo fissò speranzoso, poi scosse la testa e se lo ricacciò nella cintura. Insomma, avrebbe dovuto fare quanto meglio poteva.
«Fireflash,» istruì il drago mentre saliva rumorosamente sullo stomaco ampio e scaglioso della creatura, «tu rimani steso qui e zitto, va bene? Sì, so tutto di come vorresti morire onorevolmente in combattimento, lottando contro il tuo nemico. Avevo un amico che era un Cavaliere di Solamnia.
Ma in questo momento non possiamo permetterci di comportarci in modo onorevole. Ho altri due amici che adesso sono ancora vivi ma forse non lo saranno più se non potrò andare ad aiutarli.
Inoltre, ti ho già salvato la vita una volta, stamattina, anche se al momento la cosa non è molto evidente, e tu mi devi questo.»
Tas non fu certo che Khirsah avesse capito, obbedendo ai suoi ordini, o invece avesse, semplicemente, perso conoscenza. Comunque, non ebbe il tempo di preoccuparsene. In piedi sopra il petto del drago affondò la mano nelle profondità di una delle sue borse per vedere cos’aveva che potesse essergli di aiuto, e saltò fuori il braccialetto d’argento di Tanis.
«Non penseresti mai che Tanis possa essere così incauto con questo,» borbottò fra sé Tas, infilandoselo al braccio. «Deve averlo fatto cadere mentre si occupava di Caramon. È una fortuna che io l’abbia raccolto. Adesso...» sollevando il braccio, indicò il drago nero che si librava sopra le loro teste, con le fauci spalancate, pronto a vomitare addosso alla sua vittima il suo acido micidiale.
«Fermo là!» urlò il kender. «Il corpo di questo drago è mio! L’ho trovato io... Be’, lui ha trovato me, così per dire. Mi ha quasi schiacciato contro il suolo. Perciò, squagliatela e non rovinarlo con quel tuo indecente fiatone!»
Il drago nero si arrestò, perplesso, e abbassò lo sguardo. Aveva, abbastanza spesso, ceduto prede ai draconici e ai goblin, ma mai, a quanto riusciva a ricordare, gli era capitato di cederla a un kender.
Anche se lei (era un drago femmina) era stata ferita in battaglia e si sentiva stordita per il sangue che aveva perso e aveva ricevuto una botta al naso, qualcosa le diceva che la faccenda era sbagliata.
Non riusciva a ricordare di aver mai incontrato un kender malvagio. Però doveva ammettere che poteva sempre esserci una prima volta. Questo indossava un braccialetto d’indubbia magia nera, tanto che sentiva fin troppo chiaramente con quanta efficacia bloccava i suoi incantesimi.
«Sai cosa posso ottenere a Sanction, oggi, per dei denti di drago?» urlò il kender. «Per non parlare degli artigli. Conosco uno stregone pronto a pagare trenta pezzi d’acciaio per un solo artiglio!»
Il drago nero corrugò la fronte. Quella conversazione era stupida. Sentiva il corpo pieno di dolori, e la rabbia crescerle dentro. Decise, molto semplicemente, di distruggere quel kender irritante insieme al suo nemico, aprì la bocca... e in quell’istante fu colpita all’improvviso alle spalle da un drago bronzeo. Stridendo per il furore, il drago nero scordò la propria preda mentre lottava per la vita, artigliando freneticamente l’aria per guadagnare spazio, col bronzeo implacabile al suo inseguimento.
Cacciando un fragoroso sospiro di sollievo, Tas si sedette sullo stomaco di Khirsah.
«Questa volta ho proprio pensato che fosse la nostra fine,» borbottò il kender, sfilandosi il braccialetto e tornando a ficcarlo dentro la borsa. Sentì il drago agitarsi sotto di lui, esalando un lungo respiro. Tas si lasciò scivolare lungo il fianco scaglioso del drago e toccò il suolo.
«Fireflash? Sei... sei ferito molto gravemente?». Comunque, come si faceva a guarire un drago?
«Potrei... potrei andare a cercare un chierico, anche se immagino che in questo momento siano tutti molto occupati, con la battaglia che sta infuriando e tutto il resto...»
«No, kender,» disse Khirsah con la sua voce profonda, «questo non sarà necessario.» Il drago aprì gli occhi e scosse la grande testa, sporgendo il lungo collo per guardarsi intorno. «Mi hai salvato la vita,» disse fissando il kender un po’ confuso.
«Due volte,» gli fece notare Tas con allegria. «Prima, c’è stata questa mattina con Lord Soth. Il mio amico Caramon, tu non lo conosci, ha quel libro che racconta quello che succederà nel futuro, o meglio, quello che non succederà nel futuro, adesso che lo stiamo cambiando.
Comunque, tu e Tanis avreste combattuto contro Lord Soth e sareste periti tutti e due, soltanto che io ho rubato il braccialetto e così tutto questo non è successo... che siete morti, voglio dire.»
«Invero.» Rotolandosi sul fianco, Khirsah distese una gigantesca ala coriacea sollevandola in alto nell’aria piena di fumo, e l’esaminò da vicino, Era tagliata e sanguinante, ma non era stata strappata.
Il drago procedette a esaminare l’altra ala in ugual maniera, mentre Tas lo guardava incantato.
«Credo che mi piacerebbe essere un drago,» disse il kender con un sospiro.
«Naturalmente....» Khirsah contorse con lenti movimenti il suo corpo di bronzo per girarsi ed ergersi sui suoi piedi artigliati, estraendo per prima cosa la sua lunga coda dalle macerie di un edificio che aveva schiacciato. «Noi siamo i prescelti dagli dei. Il nostro arco di vita è così lungo che per noi la vita degli elfi è breve come quella d’una candela accesa, mentre la vita degli umani e di voi kender è soltanto una stella cadente. Il nostro , alito è mortale, la nostra magia così potente che soltanto i più grandi stregoni possono superarci.»
«Lo so,» disse Tasslehoff, cercando di nascondere la propria impazienza. «Adesso sei sicuro che tutto funziona?»
Anche Khirsah nascose un sorriso. «Sì, Tasslehoff Burrfoot,» replicò con voce grave, flettendo le ali. «Ogni cosa, uhm... funziona, come dici tu.» Scosse la testa. «Mi sento un po’ intontito, è tutto. E così, dal momento che mi hai salvato la vita, io...»
«Due volte.»
«Due volte,» si corresse il drago, «sono tenuto a renderti un servigio. Cosa desideri da me?»
«Portami sulla cittadella volante!» esclamò Tas, accingendosi a salire in groppa al drago. Si sentì sollevare in aria per il colletto della camicia agganciato a uno degli enormi artigli di Khirsah. «Oh, grazie per il passaggio. Anche se avrei potuto fare da solo...»
Ma non venne deposto sul dorso del drago. Piuttosto, si trovò a fronteggiare Khirsah faccia a faccia.
«Questo sarebbe estremamente pericoloso, se non fatale per te, kender,» disse Khirsah con severità.
«Non posso permetterlo. Lascia che ti porti dai Cavalieri di Solamnia, che si trovano nella Torre del Sommo Chierico...»
«Sono stato nella Torre del Sommo Chierico!» gemette Tas. «Devo arrivare alla cittadella volante.
Capisci, uh... devi capire. Tanis Mezzelfo! Lo conosci? Si trova lassù proprio adesso e, uh... Mi ha lasciato qui perché mi procurassi alcune, uhm, importanti informazioni per lui e,» Tas terminò precipitosamente, «le ho avute e adesso devo portargliele.»
«Dai a me le informazioni,» disse Khirsah. «Gliele trasmetterò io.»
«N... non, no, non... non funzionerebbe affatto,» balbettò Tas, pensando freneticamente. «Sono, uh, sono in lingua kender! E non possono venire tradotte in... uh... in comune. Tu non parli il kender, non è vero, uh, Fireflash?»
«Ma certamente,» stava per dire il drago. Ma, guardando negli occhi speranzosi di Tasslehoff, Khirsah sbuffò. «Certo che no!» esclamò sdegnato. Lentamente e con cautela depositò il kender sul proprio dorso, fra le ali. «Ti porterò da Tanis Mezzelfo, se è questo che desideri. Non c’è nessuna sella, poiché non combattiamo con i cavalieri in groppa, perciò tienti stretto forte.»
«Sì, Fireflash,» urlò Tas gioioso, sistemandosi le borse intorno al corpo e afferrandosi al collo del drago bronzeo con entrambe le piccole mani. Gli venne all’improvviso un pensiero. «Senti, Fireflash,» gridò, «tu non farai niente di avventuroso là in alto, vero, come rigirarti sul dorso o tuffarti a picco verso terra? Poiché, anche se sono sicuramente divertenti, queste faccende potrebbero essere piuttosto scomode per me, che non ho nessuna cintura di sicurezza o qualcosa del...»
«No,» rispose Khirsah sorridendo. «Ti porterò lassù quanto più rapidamente possibile, così da poter tornare subito alla battaglia.»
«Pronto quando lo sarai anche tu!» urlò Tas, spronando i fianchi di Khirsah con i calcagni mentre il drago di bronzo balzava in aria. Approfittando delle correnti favorevoli, si levò in alto nel cielo e si librò sopra la città di Palanthas.
Non fu una cavalcata piacevole. Guardando giù, Tas trattenne il fiato. Quasi tutta la Città Nuova era in fiamme. Dal momento che era stata evacuata, i draconici vi scorrazzavano senza che nessuno li ostacolasse, incendiando e saccheggiando sistematicamente al loro passaggio. I draghi buoni erano riusciti a impedire che i draghi neri e azzurri distruggessero completamente la Città Vecchia, così come avevano distrutto Tharsis, e i difensori della città stavano resistendo da soli all’assalto dei draconici. Ma l’assalto di Lord Soth era costato caro. Tas poteva vedere, dal suo punto di osservazione, i corpi dei cavalieri e dei loro cavalli sparpagliati per le strade come soldatini di latta frantumati da un bambino vendicativo. E, mentre osservava, potè vedere Lord Soth Che continuava a cavalcare senza che nessuno lo ostacolasse, con i suoi guerrieri che massacravano ogni creatura vivente si parasse loro davanti, con il gemito spaventoso delle banshee che si levava al di sopra delle grida dei morenti.
Tas deglutì dolorosamente. «Oh, cielo,» bisbigliò, «supponi che questo sia colpa mia! Dopotutto, non posso saperlo. Caramon non è mai arrivato a leggere quello che il libro diceva dopo! Io ho soltanto supposto che... no,» rispose Tas con fermezza a se stesso, «se non avessi salvato Tanis, allora Caramon sarebbe morto nel bosco. Ho fatto quello che dovevo fare, e dal momento che c’è un tale pasticcio, non ci penserò mai più.» Per distogliere la mente dai suoi problemi e dalle cose orribili che vedeva accadere sul terreno sottostante, Tas si guardò intorno, sbirciando attraverso il fumo, per vedere quello che stava succedendo nel cielo. Intravide un movimento alle sue spalle, e un grande drago azzurro si levò ,; in volo dalle strade vicine al Bosco di Shoikan. «Il drago di Kitiara!» mormorò il kender, riconoscendo lo splendido e micidiale Skie. Ma il “ drago non aveva nessun cavaliere. Kitiara non era visibile da nessuna parte.
«Fireflash!» gridò Tas per avvertirlo, torcendosi su se stesso per osservare il drago azzurro, che li aveva visti e stava cambiando direzione, sfrecciando verso di loro.
«Sono conscio della sua presenza,» dichiarò Khirsah, gelido, lanciando un’occhiata in direzione di Skie. «Non preoccuparti, siamo vicini alla nostra destinazione. Ti depositerò, kender, poi tornerò indietro ad affrontare il mio nemico.»
Voltandosi, Tas vide che erano davvero molto vicini alla cittadella volante. Tutti i pensieri di Kitiara e del drago azzurro sparirono dalla sua testa. Da vicino, la cittadella era ancor più meravigliosa di quanto lo era vista da sotto. Poteva osservare con grande chiarezza i giganteschi massi di roccia sospesi sotto di essa, quelle che un tempo erano state le fondamenta rocciose sulle quali era stata costruita.
Nubi magiche ribollivano intorno a essa, facendola galleggiare nell’aria, i lampi sfrigolavano e crepitavano in mezzo alle torri. Studiando la cittadella stessa, Tas vide enormi crepe serpeggiare lungo i lati della fortezza di pietra: i danni strutturali erano le conseguenze della tremenda forza necessaria a strappare l’edificio dalle ossa della terra. La luce risplendeva alle finestre delle tre alte torri della cittadella e dalla saracinesca aperta sul davanti, ma Tas non riuscì a vedere nessun segno esterno di vita. Comunque, non aveva alcun dubbio che avrebbe trovato ogni genere di vita all’interno!
«Dove vorresti andare?» chiese Khirsah, con una nota d’impazienza nella voce.
«Qualsiasi parte andrà bene, grazie,» rispose Tas con cortesia, comprendendo che il drago era ansioso di tornare a combattere.
«Non credo che l’ingresso principale sia consigliabile,» osservò il drago, compiendo una deviazione improvvisa. Con una stretta virata girò in cerchio intorno alla cittadella. «Ti porterò sul retro.»
Tas avrebbe detto di nuovo «grazie», ma il suo stomaco, per qualche inspiegabile motivo, aveva fatto un improvviso tuffo verso il suolo mentre il cuore gli era balzato in gola quando il movimento circolare del drago li aveva fatti girare entrambi nell’aria. Poi Khirsah si mise in orizzontale e, picchiando verso il basso, effettuò un atterraggio morbidissimo in un cortile deserto. Impegnato per il momento a placare le proprie budella, Tas riuscì a malapena a scivolare giù dal dorso del drago e a saltare in mezzo alle ombre, senza preoccuparsi delle frivolezze.
Ma, una volta sul terreno solido (be’, una specie di terreno solido), il kender si sentì immensamente più simile a se stesso.
«Arrivederci, Fireflash!» gridò, agitando la piccola mano. «Grazie, e buona fortuna!»
Ma se il bronzeo lo sentì, non rispose. Khirsah stava prendendo rapidamente quota, guadagnando spazio aereo. Skie lo inseguiva sfrecciando, con gli occhi rossi che ardevano d’odio. Con una scrollata di spalle e un breve sospiro, Tas li lasciò alla loro personale battaglia, si voltò e si mise a studiare i dintorni.
Era in piedi sul retro della fortezza su un mezzo cortile: a quanto pareva, l’altra metà era stata lasciata indietro quando la cittadella era stata trascinata fuori dal terreno. Notando che, in effetti, si trovava disagevolmente vicino all’orlo del lastricato nel punto in cui era stato spezzato, Tas si affrettò a raggiungere il muro della fortezza stessa. Si muoveva in silenzio, tenendosi fra le ombre, con quei movimenti furtivi naturali, innati nei kender.
Arrestandosi un attimo, si guardò intorno. C’era una porta sul retro che conduceva nel cortile, ma era una gigantesca porta di legno rinforzata con fasce di ferro. E, pur avendo una serratura estremamente interessante, che le sue dita ardevano dal desiderio di saggiare, il kender immaginò, con un sospiro, che con ogni probabilità doveva avere sull’altro lato “una guardia dall’aspetto ugualmente interessante. Avrebbe fatto molto meglio a entrare strisciando attraverso una finestra e, guarda caso, c’era una finestra illuminata proprio sopra di lui. Molto sopra di lui.
«Dannazione,» mormorò Tas. La finestra si trovava ad almeno sei piedi dal suolo. Guardandosi intorno, Tas trovò un masso di roccia infranta e, dopo molte spinte, riuscì a manovrarlo così da spostarlo fin sotto la finestra. Si arrampicò su di esso e sbirciò con cautela all’interno. Due draconici giacevano pietrificati sul pavimento, l’uno sopra l’altro, con le teste fracassate. Un altro draconico giaceva morto accanto a loro, con la testa completamente troncata dal corpo. A parte quei tre corpi, non c’era nessun altro nella stanza. Tenendosi in punta di piedi, Tas sporse dentro la testa, ascoltando. Non troppo lontano potè udire un cozzare di metallo, ed echeggiare aspre grida e urla, e anche un tremendo ruggito.
«Caramon!» disse Tas. Strisciando attraverso la finestra, balzò giù sul pavimento, compiaciuto nel notare che, per ora, la cittadella era rimasta perfettamente immobile e non pareva esser diretta da nessuna parte. Ascoltò di nuovo, e potè sentire quel familiare ruggito farsi più forte, frammisto alle imprecazioni di Tanis. «Come sono carini,» disse Tas annuendo soddisfatto, mentre attraversava strisciando la stanza. «Mi stanno aspettando.»
Emergendo in un corridoio dalle scabre pareti di pietra, Tas si fermò un attimo per orientarsi. I rumori della battaglia echeggiavano sopra di lui. Sbirciando in fondo al corridoio illuminato dal bagliore delle torce, Tas vide una scala e andò in quella direzione. Come precauzione, sfoderò il suo pugnaletto, ma non incontrò nessuno. Il corridoio era vuoto, e così lo erano le scale strette e ripide.
«Umpf,» borbottò Tas, «adesso è di certo un posto assai più sicuro della città. Devo ricordarmi di dirlo a Tanis. E, parlando di Tanis, dove saranno mai lui e Caramon, e come faccio ad arrivarci?»
Dopo esser salito quasi in verticale per una decina di minuti, Tas si fermò, fissando l’oscurità penetrata dalla luce delle torce. Si rese conto che stava salendo una scala strettissima schiacciata fra il muro interno e quello esterno di una delle torri della cittadella. Poteva ancora udire l’infuriare della battaglia, adesso pareva che Tanis e Caramon si trovassero proprio sull’altro lato del muro rispetto al punto in cui si trovava lui, ma non riusciva a vedere nessun modo per poter arrivare fino a loro. Frustrato e con le gambe affaticate, smise di salire.
O me ne torno giù, oppure tento un’altra via, ragionò, oppure posso proseguire per questa strada.
Andare verso il basso, anche se più comodo per i piedi, potrebbe rivelarsi più affollato. E dev’esserci una porta lassù, da qualche parte, altrimenti perché mai mettere qui una scala?
Questo ragionamento gli piacque, per cui Tas decise di continuare a salire, anche se questo adesso significava che i rumori della battaglia parevano provenire da sotto di lui invece che da sopra. D’un tratto, proprio mentre cominciava a pensare che un nano ubriaco con un contorto senso dell’umorismo doveva aver costruito quella stupida scala, arrivò in cima e trovò la porta.
«Ah, una serratura!» esclamò sfregandosi le mani. Da lungo tempo non aveva più avuto la possibilità di scassinarne una, e temeva che avrebbe finito per arrugginirsi. Esaminando la serratura con occhio esperto, appoggiò con cautela la mano sulla maniglia della porta. Con suo vivo disappunto, questa si aprì senza difficoltà.
«Oh, be’» commentò con un sospiro, «in ogni caso non ho con me i miei arnesi da scasso.»
Spingendo con prudenza la porta, diede una sbirciatina dall’altra parte. Davanti a lui c’era soltanto una ringhiera di legno. Tas aprì ancora di più la porta, la varcò e si trovò su uno stretto terrazzino che correva tutt’intorno all’interno della torre.
Il frastuono del combattimento era molto più intenso, ed echeggiava con forza sulla pietra. Tas attraversò di corsa il pavimento di legno del terrazzino e si sporse oltre l’orlo della ringhiera, per cercare l’origine dei colpi sferrati contro il legno, del clangore delle spade, delle urla e dei tonfi.
«Ciao Tanis, ciao Caramon!» gridò eccitato. «Ehi, avete già capito come si fa a far volare questo affare?».
Capitolo quarto.
Intrappolati su un terrazzino parecchie rampe più sotto rispetto a quello dal quale Tas si sporgeva, Tanis e Caramon stavano lottando per la vita. Quello che aveva tutte le apparenze di un piccolo esercito di draconici e di goblin si accalcava sulle scale sotto di loro.
I due guerrieri si erano barricati dietro una gigantesca panca di legno che avevano trascinato di traverso alla cima della scala. Dietro di loro c’era una porta, e a Tas venne da pensare che avessero risalito le scale in direzione appunto di quella porta nel tentativo di fuggire, ma erano stati fermati prima di poterla varcare.
Caramon, le braccia coperte di sangue verde fino ai gomiti, stava fracassando teste con un pezzo di legno che aveva strappato via dal terrazzino, un’arma assai più efficace di una spada quando si combattevano quelle creature i cui corpi si trasformavano in pietra. La spada di Tanis era intaccata, l’aveva usata come un bastone, e il suo corpo sanguinava da parecchi tagli attraverso la cotta di maglia che sulle braccia era rotta in molti punti, e sul suo pettorale spiccava una grossa ammaccatura. Da quanto Tas riuscì a capire dopo una prima febbrile occhiata, pareva ci fosse una situazione di stallo. I draconici non riuscivano ad avvicinarsi abbastanza alla panca per trascinarla via oppure scalarla. Ma, nel momento in cui Caramon e Tanis avessero lasciato la loro posizione, subito sarebbe stata rovesciata.
«Tanis! Caramon!» urlò Tanis. «Quassù!»
Entrambi si guardarono intorno con stupore, nell’udire la voce del kender. Poi Caramon, afferrando Tanis, puntò un dito «Tasslehoff!» gridò Caramon, la sua voce tonante rimbombò nella cavità della Torre. «Tas! Questa porta dietro di noi! È chiusa a chiave. Non possiamo uscire!»
«Arrivo subito!» gridò Tas tutto eccitato, arrampicandosi sulla ringhiera e preparandosi a saltare in mezzo alla mischia.
«No!» urlò Tanis. «Aprila dall’altro lato! L’altro lato!» glielo indicò freneticamente.
«Oh,» disse Tas deluso. «Sicuro, nessun problema.» Ridiscese la scala e stava per raggiungere la porta quando vide che i draconici sulla scala sottostante a Caramon e a Tanis avevano all’improvviso cessato di combattere. A quanto pareva, qualcos’altro aveva attirato la loro attenzione. Un ordine venne impartito con voce aspra, e i draconici cominciarono a spingersi a vicenda per porsi di lato. Avevano sfoderato i denti in espressioni ghignanti. Tanis e Caramon, sorpresi da quell’inatteso placarsi della battaglia, arrischiarono una cauta occhiata oltre la sommità della panca, mentre Tas guardava giù dalla ringhiera del terrazzino.
Un draconico dalle Vesti Nere, decorate da rune arcane, stava salendo le scale. Stringeva un bastone nella mano artigliata, un bastone intagliato a somiglianza di un serpente pronto a colpire.
Un usufruitore di magia Bozak! Tas sentì il cuore piombargli giù nella bocca dello stomaco quasi con altrettanta violenza di quando il drago aveva virato. I soldati draconici stavano rinfoderando le spade, era ovvio che ritenevano che la battaglia fosse alla fine. Il loro stregone avrebbe risolto la faccenda in modo semplice e rapido.
Tas vide che Tanis portava la mano alla cintura... per tornar fuori vuota. Il volto di Tanis si sbiancò sotto la barba. La sua mano balzò a un altro punto della cintura. Non c’era niente. Freneticamente il mezzelfo guardò intorno a sé sul pavimento.
«Sai,» disse Tas fra sé e sé, «scommetto che quel braccialetto adesso gli farebbe comodo, con le sue difese magiche. Forse è proprio quello che sta cercando. Credo che non si sia reso conto di averlo perduto.» Affondò la mano in una delle sue borse e tirò fuori il braccialetto d’argento.
«E qui, Tanis! Non preoccuparti! L’avevi lasciato cadere, ma io l’ho trovato!» gridò, agitandolo in aria.
Il mezzelfo sollevò lo sguardo, corrugando la fronte. Le sue sopracciglia si aggrovigliarono in maniera così allarmante che Tas gli buttò subito il braccialetto. Dopo aver aspettato un attimo per vedere se Tanis l’avrebbe ringraziato (non lo fece), il kender sospirò.
«Sarò là in un minuto!» urlò ancora. Si voltò e infilò a precipizio la porta, scendendo di corsa le scale.
«Certamente non si è mostrato molto grato,» sbuffò Tas sfrecciando giù per i gradini. «Neanche un po’ come il vecchio Tanis amante dell’allegria. Non credo che fare l’eroe sia il modo migliore di andar d’accordo con lui.»
Dietro di sé, ovattata dallo spessore del muro, poteva udire l’aspra cantilena, punteggiata da parecchie esplosioni. Le voci dei draconici si levarono in grida di rabbia e di delusione.
«Quel braccialetto li terrà lontani per un po’,» borbottò Tas, «ma non per molto. Adesso, come faccio ad arrivare sull’altro lato della torre per raggiungerli? Temo che non ci sia altro da fare se non tornare al pianterreno.»
Correndo giù per le scale, raggiunse di nuovo il livello del suolo, sfrecciò davanti alla stanza da dove era entrato nella cittadella, e proseguì fino a quando non arrivò a un corridoio che formava un angolo retto con quello in cui si trovava. Sperò che conducesse sull’altro lato della torre dove Tanis e Caramon erano intrappolati.
Si udì il fragore di un’altra esplosione e, questa volta, l’intera torre tremò. Tas andò ancora più veloce. Il kender girò bruscamente un angolo a destra.
Bum! Andò a sbattere contro qualcosa di tozzo e scuro che ruzzolò a terra con un «wuf!»
L’urto mandò a terra anche Tas, il quale giacque immobile provando la netta impressione, dall’odore, di essere stato colpito da un grumo di spazzatura in putrefazione. Un po’ scosso, riuscì ugualmente a rialzarsi in piedi, barcollando e stringendo il suo pugnaletto, si tenne pronto a difendersi dalla creatura tozza e scura che si era anch’essa rialzata.
Portandosi una mano alla fronte, la creatura disse: «Ooh,» in tono dolente. Poi, guardandosi intorno stordita, vide Tas immobile lì davanti, con un’espressione truce e decisa. La luce delle torce traeva riflessi dalla piccola lama della sua arma. L’«ooh» divenne un «AAAAAHHH.» Con un gemito, la creatura puzzolente perse all’improvviso i sensi.
«Un nanerottolo dei fossi!» esclamò Tas, arricciando il naso disgustato. Rinfoderò il piccolo pugnale e fece per andarsene. Poi si fermò. «Però,» disse parlando fra sé, «potrebbe farmi comodo.»
Chinandosi, Tas afferrò il nano dei fossi per la manciata di stracci che lo copriva e gli diede un’energica scrollata. «Ehi, svegliati!»
Emettendo un sospiro tremante, il nano dei fossi aprì gli occhi. Vedendo un kender dall’aria severa curvo minaccioso sopra di lui, il nano dei fossi divenne bianco come la morte, si affrettò a chiudere di nuovo gli occhi e cercò di fingere di essere ancora privo di sensi.
Tas scosse un’altra volta quel fagotto di stracci.
Il nano dei fossi aprì un occhio con un nuovo, tremulo sospiro, e vide che Tas era ancora lì. C’era soltanto una cosa da fare, simulare la morte. Questo lo si ottiene (fra i nani dei fossi) trattenendo il fiato e irrigidendosi di colpo.
«Su,» esclamò Tas irritato, continuando a scuotere il nano dei fossi, «ho bisogno del tuo aiuto.»
«Vai via,» disse il nano con un tono di voce profondo e sepolcrale. «Io morto.»
«Non sei ancora morto,» ribatté Tas, con la voce più spaventevole che riuscì a cacciare fuori, «ma lo sarai subito a meno che tu non mi aiuti!»
Sollevò il piccolo pugnale.
Il nano rantolò e si rizzò prontamente a sedere, sfregandosi la testa in preda alla confusione. Poi, sgranando gli occhi su Tas, buttò le braccia intorno al kender. «Tu, guaritore. Io tornato dai morti!
Tu grande e potente chierico!»
«No, non lo sono!» sbottò Tas, piuttosto sorpreso da quella reazione. «Adesso mollami. No, ti sei ingarbugliato nella mia borsa. Non in quel modo...»
Dopo parecchi tentativi, riuscì finalmente a togliersi di dosso il nano dei fossi. Tirò in piedi la creatura e la fissò con sguardo severo. «Sto cercando di raggiungere il lato opposto della torre. È questa la strada giusta?»
Il nano dei fossi scrutò il corridoio in ambedue i sensi con aria pensierosa, poi si girò verso Tas.
«Questa strada giusta,» disse alla fine, indicando la direzione verso la quale Tas stava già procedendo.
«Bene!» Tas si rimise in cammino.
«Quale torre?» borbottò il nano, grattandosi la testa.
Tas si fermò. Si voltò e fissò furioso il nano dei fossi, portando la mano al pugnale.
«Io andare con grande chierico,» si affrettò a proporre il nano. «Io guidare.»
«Potrebbe non essere una cattiva idea,» rifletté il kender. Afferrando la mano sudicia del nano, Tas lo trascinò via con sé. Ben presto trovarono un’altra scala che conduceva verso l’alto. Adesso i rumori della battaglia erano molto più intensi, un fatto che indusse il nano a spalancare gli occhi.
Cercò di liberare la mano che Tas gli stringeva. «Me morto una volta,» gridò il nano, tentando spasmodicamente di liberarsi. «Quando tu morto due volte, ti mettono in scatola e buttano in grande buco. Me non così.»
Malgrado questo promettesse d’essere un concetto interessante, Tas non aveva il tempo di esplorarlo. Continuando a stringere saldamente il nano, lo trascinò su per le scale. Il fracasso del combattimento sull’altro lato del muro si faceva più forte di momento in momento. Come sul lato opposto della torre, la scala terminava con una porta. Tas potè sentire dietro di essa tonfi, gemiti e le imprecazioni di Caramon. Tas provò la maniglia. La porta era chiusa a chiave anche su quel lato. Il kender sorrise, tornando a sfregarsi le mani.
«Certamente una porta ben costruita,» commentò, studiandola. Chinandosi, sbirciò attraverso il buco della serratura. «Sono qui!» gridò.
«Apri...» grida soffocate, «... la porta!» concluse il tonante muggito di Caramon.
«Sto facendo del mio meglio!» urlò Tas in risposta, un po’ irritato. «Non ho qui i miei arnesi, sai.
Be’, dovrò improvvisare. Tu... rimani qui!» Afferrò il nano, il quale stava giusto strisciando via furtivo in direzione della scala. Sfoderando il pugnaletto, Tas lo sollevò minaccioso. Il nano crollò a terra come un mucchio di cenci.
«Me restare!» uggiolò, rannicchiandosi terrorizzato sul pavimento.
Tornando a voltarsi verso la porta, Tas infilò la punta del coltello nella serratura e cominciò a girarla con cautela. Gli parve quasi di sentire la serratura che cedeva, quando qualcosa sbatté contro la porta. La lama schizzò fuori dalla serratura.
«Non mi state aiutando!» gridò attraverso la porta. Tirando un lungo, sofferente respiro, Tas tornò a infilare la lama nella serratura.
Il nano dei fossi strisciò più vicino, sollevando lo sguardo su Tas dal pavimento. «Sai proprio tanto tu. Me credere tu non chierico così grande.»
«Cosa vuoi dire?» borbottò Tas concentrandosi.
«Coltello non aprire porta,» disse il nano dei fossi con disprezzo. «Chiave aprire porta.»
«So che con la chiave puoi aprirla,» ribatté Tas, guardandosi intorno esasperato, «ma io non ce l’ho... Dammela!»
Arrabbiato, Tas agguantò la chiave che il nano stringeva in una mano. Infilò la chiave dentro il buco della serratura, sentì un clik! e spalancò la porta. Tanis vi ruzzolò attraverso, finendo praticamente sopra il kender. Caramon lo seguì con un salto. L’omone chiuse la porta sbattendola, spezzando la lama della spada di un draconico che stava giusto varcandola. Appoggiando la schiena contro la porta, Caramon abbassò lo sguardo su Tas, respirando affannosamente.
«Chiudila a chiave!» riuscì ad ansimare.
Tas si affrettò a girare di nuovo la chiave nella serratura. Al di là della porta chiusa risuonarono urla e tonfi e si udì un fracasso di legno che andava in schegge.
«Credo che terrà per un po’» disse Tanis dopo aver studiato la porta.
«Ma non a lungo,» replicò Caramon, cupo in volto. «Specialmente con quel mago Bozak là sotto.
Su, andiamo.»
«Dove?» volle sapere Tanis, asciugandosi il sudore dal viso. Sanguinava per un taglio alla mano e parecchi altri alle braccia, ma per il resto pareva illeso. Caramon era coperto di sangue, ma per la maggior parte era verde, così Tas suppose che si trattasse di sangue del nemico. «Non abbiamo ancora scoperto dove si trova il congegno che fa volare questo affare!»
«Scommetto che lui lo sa,» disse Tas indicando il nano. «È per questo che l’ho portato con me, » aggiunse il kender , piuttosto orgoglioso di sé.
Vi fu uno schianto tremendo. La porta tremò.
«Per lo meno, usciamo da qui,» borbottò Tanis. «Come ti chiami?» chiese al nano dei fossi mentre si affrettavano a ridiscendere le scale.
«Rounce,» disse il nano, fissando Tas con profondo sospetto.
«Molto bene, Rounce,» disse Tanis, soffermandosi su un pianerottolo in ombra per riprendere fiato.
«Mostraci la stanza dove si trova il congegno che fa volare questa cittadella.»
«La Sedia di Capitan Vento,» aggiunse Caramon, fissando con severità il nano. «È così che l’abbiamo sentita chiamare da uno dei goblin.»
«Quello segreto!» disse Rounce con solennità. «Me non dire! Me fatto promessa!»
Caramon ringhiò con tanta ferocia che Rounce divenne bianco sotto lo sporco del suo viso, e Tas, timoroso di vederlo svenire di nuovo, si affrettò a intromettersi. «Puah! Scommetto che non lo sa!» disse, strizzando l’occhio a Caramon.
«Me anche sapere sì!» dichiarò Rounce con alterigia. «Tu tentare trucco per farmi dire. Me non cadere con stupido trucco.»
Tas si accasciò contro la parete con un sospiro. Caramon ringhiò di nuovo, ma il nano, pur ritraendosi intimorito, continuò a guardarlo con intrepida aria di sfida. «Niente strapperà segreto a me!» dichiarò Rounce, incrociando le sudice braccia sul petto coperto di unto e schizzato di cibo.
In alto echeggiarono uno schianto e le voci di molti draconici.
«Uh, Rounce,» mormorò Tanis in tono confidenziale, accucciandosi daccanto al nano, «ma cos’è esattamente quello che non dovresti dire?».
Rounce assunse un’espressione astuta. «Me non dovrei dire che Sedia Capitan Vento in cima a torre di mezzo’. Ecco cosa me non dovrei dire!» guardò Tanis corrugando ferocemente la fronte e sollevò una piccola mano stretta a pugno. «E voi non potere farmi dire!» Raggiunsero il corridoio dove la Sedia di Capitan Vento non si trovava stando a Rounce che li aveva guidati per tutta la strada continuando a dire: «Questa non porta che conduce a scala che conduce a posto segreto.»
Entrarono con cautela, pensando che finora le cose erano andate un pochino troppo lisce. E avevano ragione. Giunti circa a metà corridoio, una porta si spalancò. Venti draconici seguiti dall’usufruitore di magia Bozak, si lanciarono al loro inseguimento.
«Mettetevi dietro di me!» esclamò Tanis, sfoderando la spada. «Ho ancora il braccialetto...».
Ricordando che Tas si trovava con loro, aggiunse: «Almeno credo,» e fissò furioso il proprio braccio. Il braccialetto era ancora là.
«Tanis,» disse Caramon sguainando la spada e ritraendosi lentamente mentre i draconici, in attesa delle istruzioni del Bozak, esitavano, «ci rimane poco tempo! Lo so! Lo sento! Devo arrivare alla Torre della Grande Stregoneria! Qualcuno deve salire là sopra e far volare questo affare!»
«Uno solo di noi non può tenerne a bada tanti!» replicò Tanis, «il che non lascia libero nessuno per manovrare la Sedia di Capitan...» le parole gli si spensero sulle labbra. Fissò Caramon. «Oh, non dirai sul serio...»
«Non abbiamo nessun’altra scelta,» ringhiò Caramon mentre la cantilena del mago s’innalzava di nuovo nell’aria. Si girò per dare un’occhiata a Tasslehoff.
«No,» cominciò a dire Tanis, «assolutamente no...» «Non c’è nessun’altra maniera!» insistette Caramon. Tanis sospirò, scuotendo la testa.
Il kender li fissò tutti e due, sbattendo le palpebre, confuso. Poi, d’un tratto, capì.
«Oh, Caramon...» bisbigliò stringendosi le mani, evitando a stento d’infilzarsele col pugnaletto.
«Oh, Tanis... meraviglioso! Farò in modo che tu sia orgoglioso di me! Ti condurrò fino alla Torre!
Non avrai da rammaricartene! Rounce, avrò bisogno del tuo aiuto.»
Afferrando il nano per il braccio, Tas si lanciò di corsa lungo il corridoio verso una scala a chiocciola che Rounce stava indicando, insistendo:
«Quella scala non porta a luogo segreto!»
Progettata da Lord Ariakas, ex capo delle forze della Regina delle Tenebre, durante la Guerra delle Dragonlance, la Sedia di Capitan Vento permetteva di manovrare una cittadella volante, ed era passata alla storia come una delle più brillanti creazioni della mente brillante, anche se tenebrosa e contorta, di Lord Ariakas, appunto.
La Sedia si trovava in una stanza costruita appositamente per essa, proprio in cima alla cittadella.
Arrampicandosi su per una stretta gradinata a spirale, Capitan Vento giungeva infine a una scaletta a pioli di ferro che conduceva a una botola. Aperta la botola, Capitan Vento entrava in una piccola stanza circolare priva di finestre. Al centro della stanzetta c’era una piattaforma sopraelevata. Due piedistalli, situati all’incirca a tre passi di distanza, si ergevano sulla piattaforma.
Alla vista di quei piedistalli Tas, tirandosi dietro Rounce, emise un profondo respiro. Fatti d’argento, alti all’incirca quattro piedi, quei piedistalli erano le cose più belle che avesse mai visto.
Disegni intricati e simboli magici erano incisi sulle loro superfici. Ogni più piccola linea era riempita d’oro che scintillava alla luce delle torce che sgorgava dalla scala sottostante. E, in cima a ogni piedistallo, era appoggiato un gigantesco globo, fatto d’un lucido cristallo nero.
«Tu non salire su piattaforma,» intimò Rounce con severità.
«Rounce,» disse Tas arrampicandosi sulla piattaforma, che si ergeva per tre piedi sul pavimento,
«sai come far funzionare questo affare?»
«No,» rispose Rounce, gelido, incrociando le braccia sul petto e fissando furioso Tas. «Me mai stato qui molto. Me mai fatto incarichi per gran capo stregone. Me mai messo dentro questa stanza e me mai detto di toccare qualunque cosa stregone volesse. Me mai guardato grande capo stregone volare molte volte.»
«Grande capo stregone?» fece Tas corrugando la fronte. Lanciò una rapida occhiata tutt’intorno, sbirciando fra le ombre della stanzetta. «Dov’è il grande capo stregone?»
«Lui non giù,» disse Rounce, cocciuto. «Lui non prepara a fare nemici a pezzettini.»
«Oh, quel grande capo stregone là,» annuì Tas con sollievo. Poi il kender fece una pausa. «Ma se lui non è qui, chi fa volare questo affare?»
Qualche attimo di silenzio teso, poi, «Adesso capisco,» disse Tas entrando nei cerchi neri incassati nel pavimento fra i due piedistalli. Parevano fatti dello stesso tipo di cristallo nero utilizzato per i globi di vetro. Si udì un’altra esplosione echeggiare nel corridoio sottostante e, ancora una volta, le urla dei draconici inferociti.
A quanto pareva il braccialetto di Tanis respingeva ancora la magia dello stregone.
«Adesso,» disse Rounce, «tu non guarda cerchio su soffitto.» Sollevando lo sguardo, Tas rimase a bocca aperta. Sopra di lui, un cerchio delle stesse dimensioni e diametro della piattaforma sulla quale si provava aveva cominciato ad ardere di un’arcana luce biancoazzurra.
«Va bene, Rounce,» disse Tas con voce resa acuta dall’eccitazione. «Adesso, cos’è che non dovrei fare?»
«Tu non metti mani su neri globi cristallo. Tu non dire a globi quale parte andare,» rispose Rounce tirando su col naso. «Puah, tu non capire mai magia grande come questa!»
«Tanis!» gridò Tas attraverso l’apertura nel pavimento, «in che direzione si trova la Torre della Grande Stregoneria?»
Per un attimo riuscì a sentire soltanto il cozzare delle spade e qualche urlo. Poi la voce di Tanis, dando gradualmente l’impressione di avvicinarsi sempre più, mentre lui e Caramon arretravano lungo il corridoio, giunse fino a lui. «A nordovest! Quasi dritto a nordovest!»
«Bene!». Piantando saldamente i piedi nelle nere depressioni di cristallo, Tas tirò un sospiro tremante, poi sollevò le mani per appoggiarle sui globi di cristallo.
«Dannazione!» gridò deluso sollevando lo sguardo. «Sono troppo corto!»
Abbassando lo sguardo su Rounce, gli fece un cenno. «Suppongo che le mie mani non debbano essere sui globi e i piedi nei cerchi neri allo stesso tempo?»
Il kender ebbe la sgradita sensazione di conoscere già la risposta a quella domanda, il che non faceva comunque nessuna differenza, poiché essa aveva fatto precipitare Rounce in un tale stato di confusione che il nano riusciva soltanto a fissare Tas a bocca spalancata.
Fissando il nano soltanto perché, in preda alla frustrazione, aveva comunque bisogno di fissare qualcosa, Tas decise che avrebbe tentato di saltare in alto per toccare i globi. Non gli fu affatto difficile raggiungerli, ma non appena i suoi piedi si staccarono dai cerchi di cristallo nero, la luce biancoazzurra tremolò e s’indebolì.
«E adesso che cosa faccio?» gemette. «Caramon o Tanis potrebbero arrivarci facilmente, ma sono là sotto, e a giudicare dal baccano non potranno salire quassù ancora per un po’. Cosa posso fare?
Rounce!» esclamò a un tratto. «Sali su!»
Gli occhi di Rounce si restrinsero, carichi di sospetto. «Me non permesso,» disse, cominciando ad arretrare dalla piattaforma.
«Aspetta, Rounce! Non andartene!» gridò Tas. «Ascolta, tu vieni ad aiutarmi! Faremo volare insieme questo coso!»
«Me!» rantolò Rounce. I suoi occhi si spalancarono diventando rotondi come due piattini da tè.
«Volare come gran capo stregone?»
«Sì, Rounce! Basterà che tu venga su e salga in piedi sulle mie spalle, e poi...»
Un’espressione di meraviglia comparve sul volto di Rounce. «Me,» sussurrò con un sospiro estasiato, «volare come gran capo stregone!»
«Sì, Rounce, sì,» disse Tas con impazienza. «Adesso... adesso spicciati prima che il grande capo stregone ci pigli.»
«Me far presto,» disse Rounce, strisciando sulla piattaforma e di qui sulle spalle di Tas. «Me far presto. Me sempre voluto volare...»
«Ecco, ti prendo per le caviglie. Adesso... ahi! Molla i miei capelli! Li stai strappando via! Non ho nessuna intenzione di lasciarti cadere. No, mettiti in piedi... In piedi, Rounce! Alzati in piedi lentamente. Tutto andrà bene. Visto, ti tengo per le caviglie. Non ti lascerò cadere. No, no! Devi restare in equi...»
Kender e nano ruzzolarono ammucchiati l’uno sull’altro.
«Tas!» arrivò la voce ammonitrice di Caramon dalle scale.
«Un momento! Ci sono quasi arrivato,» gridò Tas tirando in piedi Rounce e scuotendolo con forza.
«Adesso, in equilibrio, in equilibrio!»
«In equilibrio, in equilibrio,» borbottò Rounce, battendo rumorosamente i denti.
Tas prese nuovamente posto sui cerchi di cristallo nero e Rounce si arrampicò di nuovo sulle sue spalle. Questa volta il nano, dopo qualche attimo di tensione e di ondeggiamenti, riuscì a tenersi ritto. Tas tirò un sospiro di sollievo. Protendendo le mani sudice, Rounce, dopo qualche inizio sbagliato, le appoggiò con cautela sui globi di cristallo nero.
Immediatamente una cortina di luce scese dal cerchio che ardeva sul soffitto, formando una parete brillante intorno a Tas e al nano. Nel soffitto comparvero delle lune che rifulsero rosse e violette.
E, con un sussulto da paralizzare il cuore, la cittadella volante cominciò a muoversi.
In fondo alla scala, sotto la Sedia di Capitan Vento, il brusco scossone fece finire per terra i draconici e il loro usufruitore di magia. Tanis cadde all’indietro contro una parete e Caramon gli sbatté addosso.
Urlando e imprecando, lo stregone Bozak lottò per rialzarsi in piedi.
Calpestando i suoi stessi uomini, che erano sparsi per il corridoio, ignorando del tutto Tanis e Caramon, il draconico cominciò a correre verso la scala che conduceva, in alto, nella stanza di Capitan Vento. «Fermalo!» grugnì Caramon, spingendosi lontano dal muro mentre la cittadella s’inclinava su un lato come una nave in procinto di affondare. «Ci proverò,» disse Tanis in un soffio, ancora ansimante per la violenta botta. «Ma credo che questo braccialetto sia ormai quasi scarico.» ....
Si lanciò verso il Bozak, ma d’un tratto la cittadella s’inclinò nella direzione opposta. Tanis mancò il colpo e rotolò al suolo. Il Bozak, interamente concentrato nel suo tentativo di fermare i ladri che stavano rubando la sua cittadella, continuò ad avanzare incespicando verso le scale. Caramon sfoderò il pugnale e prese di mira la schiena del Bozak. Ma l’arma colpì un’invisibile barriera magica che si ergeva intorno alle vesti nere e cadde innocua sul pavimento.
Il Bozak aveva appena raggiunto l’estremità inferiore della scala a chiocciola che conduceva nella stanza di Capitan Vento, gli altri draconici si stavano finalmente rialzando, e Tanis stava per aggredire di nuovo il mago, quando la cittadella fece un improvviso balzo, raddrizzandosi. Il Bozak cadde all’indietro addosso a Tanis, i draconici volarono in tutte le direzioni e Caramon, riuscendo a malapena a tenersi in piedi, balzò a sua volta sullo stregone Bozak.
L’improvvisa rotazione della torre interruppe la concentrazione del mago, l’incantesimo protettivo del Bozak venne meno. I draconici lottarono disperatamente con le mani artigliate, ma Caramon, trascinando via la creatura da Tanis, conficcò la propria spada nel corpo dell’usufruitore di magia, proprio mentre lo stregone cominciava a salmodiare un altro canto. Il corpo del draconico si dissolse all’istante in un’orribile pozza gialla, sollevando nuvolaglie di fetido fumo velenoso che turbinarono per tutta la stanza.
«Scappa!» gridò Tanis, lanciandosi, incespicando, verso una finestra aperta, tossendo. Si sporse e inspirò una lunga boccata d’aria fresca, poi rimase lì, ansante.
«Tas!» gridò. «Stiamo andando dalla parte sbagliata! Ho detto nordovest!»
Udì la voce acuta del kender, «Pensa nordovest, Rounce! Nordovest!» «Come me pensare due direzioni stesso tempo?» volle sapere una voce sconosciuta. «Vuoi andare nord, o ovest? Decidi.»
«Nordovest!» gridò Tas. «È una sola direz... Oh, non importa. Ascolta, Rounce, tu pensi nord e io penserò ovest. Potrebbe funzionare.»
Caramon chiuse gli occhi e sospirò per la disperazione, accasciandosi contro un muro.
«Tanis,» disse, «forse farai meglio a...»
«Non c’è tempo,» rispose Tanis, cupo, con la spada in pugno. «Eccoli che arrivano!»
Ma i draconici, in preda alla confusione per la morte del loro capo, e del tutto incapaci di capire quello che stava succedendo alla loro cittadella, si stavano guardando l’un l’altro lanciando occhiate oblique ai loro nemici. In quell’istante, la cittadella cambiò nuovamente direzione, dirigendosi a nordovest e nello stesso tempo abbassandosi di una ventina di piedi.
Voltandosi, inciampando, spingendo e scivolando frenetici, i draconici corsero via lungo il corridoio, scomparendo attraverso il passaggio segreto dal quale erano usciti.
«Stiamo finalmente andando nella direzione giusta,» riferì Tanis, guardando fuori dalla finestra.
Caramon lo raggiunse e vide la Torre della Grande Stregoneria avvicinarsi sempre più.
«Bene! Vediamo quello che sta succedendo,» disse Caramon, cominciando a salire le scale.
«No, aspetta!» Tanis lo fermò. «A quanto pare Tas non può vedere. Dobbiamo guidarlo noi.
Inoltre, quei draconici potrebbero tornare da un momento all’altro.
«Credo che tu abbia ragione,» annuì Caramon, sbirciando dubbioso su per le scale.
«Dovremmo arrivare là fra pochi minuti,» disse Tanis appoggiandosi stancamente contro il davanzale della finestra. «Ma credo che ci sia abbastanza tempo perché tu mi racconti quello che sta succedendo.»
«È difficile da credersi,» commentò Tanis con voce sommessa, guardando di nuovo fuori della finestra, «perfino da parte di Raistlin.»
«Lo so,» replicò Caramon, la voce velata dal dolore. «Per molto tempo non ho voluto crederci. Ma quando l’ho visto in piedi davanti al Portale e quando gli ho sentito dire quello che avrebbe fatto a Crysania, ho saputo finalmente che il male aveva corroso la sua anima.»
«Hai ragione, devi fermarlo,» disse Tanis, tendendo il braccio per stringere la mano dell’omone nella sua. «Ma, Caramon, questo significa forse che devi inseguirlo fin dentro l’Abisso? Dalamar si trova nella Torre, in attesa davanti al Portale. Certamente voi due insieme riuscirete a impedire a Raistlin di riattraversarlo. Non c’è bisogno che tu stesso varchi il Portale...»
«No, Tanis,» disse Caramon scuotendo la testa. «Ricordati che Dalamar non è riuscito a fermare Raistlin la prima volta. Qualcosa accadrà all’elfo scuro, qualcosa che gl’impedirà di adempiere alla sua missione.» Affondando la mano nel suo zaino, Caramon tirò fuori le Cronache rilegate in cuoio.
«Forse riusciremo ad arrivare là in tempo per fermarlo,» suggerì Tanis. Parlare di un futuro che era già stato descritto gli faceva provare una strana sensazione.
Sfogliando il libro fino alla pagina che aveva segnato, Caramon la scorse in fretta, poi improvvisamente accelerò il respiro, seguito da un sibilo sommesso.
«Cosa c’è?» chiese Tanis, sporgendosi per vedere. Caramon si affrettò a chiudere il libro.
«Gli succede davvero qualcosa,» borbottò l’omone, evitando lo sguardo di Tanis. «Kitiara lo uccide.»
Capitolo quinto.
Dalamar sedeva, in solitudine, nella Torre della Grande Stregoneria. I guardiani della Torre, sia i vivi sia i morti, erano ai loro posti accanto all’ingresso, in attesa... sempre vigili.
Fuori dalla finestra della Torre, Dalamar poteva contemplare la città di Palanthas in fiamme. L’elfo scuro aveva osservato il progredire della battaglia dal suo osservatorio, là in cima alla Torre. Aveva visto Lord Soth varcare la porta, aveva visto i cavalieri disperdersi e cadere, aveva visto i draconici precipitarsi giù a ondate dalla cittadella volante. E durante tutto quel tempo, nel cielo i draghi avevano continuato a battagliare, e il loro sangue cadeva come pioggia sulle strade della città.
L’ultima cosa che vide, prima che le fitte volute di fumo che s’innalzavano oscurassero la sua visione, gli mostrò la cittadella volante che stava spostandosi nella sua direzione, muovendosi lentamente e in apparenza indecisa, dando perfino l’idea, a un certo punto, di aver cambiato idea e di dirigersi di nuovo verso le montagne. Dalamar, perplesso, osservò quella scena per parecchi minuti, chiedendosi cosa mai facesse presagire. Era così che Kitiara aveva progettato di entrare nella Torre?
L’elfo scuro provò un attimo di paura. La cittadella poteva volare sopra il Bosco di Shoikan? Si rese conto che, sì, era possibile! Strinse spasmodicamente le mani. Perché non aveva previsto quella possibilità? Continuò a guardar fuori dalla finestra, imprecando contro il fumo che gli ostruiva sempre più la vista. Mentre osservava, la cittadella cambiò un’altra volta direzione, avanzando nel cielo con movimenti barcollanti, come un ubriaco alla ricerca della sua abitazione.
Ancora una volta stava avanzando verso la Torre, ma a passo di lumaca. Cosa mai stava succedendo? L’operatore era rimasto ferito? Dalamar aguzzò gli occhi cercando di veder meglio. E poi il fumo nero s’infittì ancora di più davanti alle sue finestre, oscurando completamente l’immagine della cittadella. L’odore della canapa e della pece in fiamme era terribilmente acre. I depositi, pensò Dalamar. Mentre, lanciando un’imprecazione, era sul punto di voltare le spalle alla finestra, la sua attenzione fu attirata da una breve fiammata che proveniva da un edificio posto quasi direttamente nella direzione opposta: il Tempio di Paladine. Potè vedere, perfino attraverso il fumo, il bagliore farsi sempre più intenso, e potè immaginare nella sua mente i chierici vestiti di bianco, armati di bastoni e di mazze, che invocavano Paladine mentre trucidavano i loro nemici.
Dalamar esibì un truce sorriso, scuotendo la testa mentre attraversava rapidamente la stanza, passando davanti al grande tavolo di pietra con le sue bottiglie, i vasi e i becher. Aveva spinto da parte la maggior parte di questi contenitori, facendo spazio ai suoi libri d’incantesimi, ai rotoli di pergamena e ai congegni magici. Per la centesima volta lanciò ad essi un’occhiata, accertandosi che tutto fosse pronto, passando in fretta davanti agli scaffali pieni dei libri degli incantesimi di Fistandantilus rilegati in pelle azzurro-notte, e davanti agli scaffali pieni dei libri degli incantesimi di Raistlin rilegati in pelle nera. Quando raggiunse la porta del laboratorio, Dalamar l’aprì e pronunciò una parola rivolto all’oscurità più oltre.
All’istante, un paio d’occhi luccicarono davanti a lui, il corpo spettrale tremolò apparendo e scomparendo alla sua vista come se fosse agitato da un vento caldo.
«Voglio dei guardiani in cima alla Torre,» lo istruì Dalamar.
«Dove, apprendista?»
Dalamar rifletté. «La porta d’accesso che conduce giù dalla Camminata della Morte. Appostali là.»
Gli occhi fremettero, chiudendosi in un breve segno di assenso, poi scomparvero. Dalamar fece ritorno al suo laboratorio chiudendosi la porta alle spalle. Poi esitò e si fermò. Avrebbe potuto lanciare incantesimi contro la porta, incantesimi che avrebbero impedito a chiunque di entrare.
Quella era stata una pratica usuale di Raistlin quando lì nel laboratorio eseguiva qualche delicato esperimento magico nel corso del quale la più piccola interruzione poteva rivelarsi fatale. Un respiro tirato nell’istante sbagliato poteva significare lo scatenarsi di forze magiche che avrebbero distrutto la stessa Torre. Dalamar ristette, con le dita delicate appoggiate sulla porta, le parole sulle labbra.
Poi... no, pensò. Avrebbe potuto aver bisogno d’aiuto. I guardiani dovevano essere liberi di entrare nel caso in cui lui non fosse stato in grado di eliminare gli incantesimi. Riattraversando la stanza, si sedette nella comoda poltrona che era la sua preferita, la poltrona che aveva portato lì dai propri alloggi perché contribuisse ad alleviare la stanchezza della sua veglia.
Nel caso in cui io non sia in grado di rimuovere gli incantesimi. Sprofondando nei morbidi cuscini di velluto della poltrona, Dalamar pensò alla morte. Il suo sguardo andò al Portale. Aveva l’aspetto di sempre: le cinque teste di drago, ognuna di colore diverso, il muso rivolto verso l’interno, le cinque bocche aperte in cinque silenziose grida di omaggio alla Regina delle Tenebre. Pareva sempre uguale: le teste scure e immobili, il vuoto all’interno del Portale, quell’inesprimibile vacuità immutabile. Oppure no? Dalamar sbatté le palpebre. Forse era la sua immaginazione, ma gli era parso che gli occhi di ciascuna delle teste cominciassero lievemente a irradiare luce.
L’elfo scuro provò una stretta alla gola, i palmi delle sue mani cominciarono a sudare, per cui se le sfregò sulle vesti. La morte... il morire. Sarebbe arrivato a questo? Le sue dita accarezzarono le rune d’argento ricamate sul tessuto nero, rune che avrebbero bloccato o dissolto certi attacchi magici.
Fissò le proprie mani, la bella pietra verde d’un anello guaritore vi luccicava: un potente congegno magico. Ma il suo potere poteva venire usato una sola volta.
Dalamar si affrettò a ripassare nella propria mente la lezione di Raistlin per giudicare se una ferita era mortale e richiedeva una guarigione immediata, oppure se la potenza guaritrice del congegno poteva venire risparmiata.
Dalamar rabbrividì. Poteva sentire la voce dello Shalafi che discuteva freddamente dei differenti gradi del dolore. Poteva sentire quelle dita ardere di quello strano calore interiore, tracciando le diverse sezioni della sua anatomia, indicando le aree vitali. Di riflesso, Dalamar portò la mano al petto, dove i cinque fori che Raistlin aveva bruciato nella sua pelle sanguinavano e suppuravano eternamente. Nello stesso tempo gli occhi di Raistlin avevano bruciato dentro la sua mente: simili a specchi, dorati, piatti, micidiali.
Dalamar si ritrasse. Una potente magia mi circonda e mi protegge, si disse. Sono abile nell’Arte e, anche se non abile quanto lui, lo Shalafi varcherà il Portale ferito, debole, in punto di morte! Sarà facile distruggerlo!
Le mani di Dalamar si serrarono. Allora, perché mai sto letteralmente soffocando per la paura? si chiese.
Una campana d’argento echeggiò una volta sola. Sorpreso, Dalamar si alzò dalla poltrona, la paura generata dalle fantasticherie della sua mente Venne sostituita dalla paura di qualcosa di molto reale.
E con la paura di qualcosa di concreto, di tangibile, il corpo di Dalamar divenne teso, il sangue gli scorse gelido nelle vene, le ombre scure presenti nella sua mente scomparvero. Aveva ripreso il controllo di sé.
Quel rintocco della campana d’argento significava la presenza di un intruso. Qualcuno era riuscito ad attraversare il Bosco di Shoikan e si trovava all’ingresso della Torre. Normalmente, Dalamar avrebbe lasciato il laboratorio all’istante, con le parole di un incantesimo, per affrontare lui Stesso l’intruso. Ma non osava abbandonare il Portale. Voltandosi per dargli un’occhiata, l’elfo scuro annuì lentamente fra sé. No, non era stata la sua immaginazione, gli occhi delle teste di drago ardevano davvero. Gli parve perfino di vedere il vuoto al suo interno agitarsi e spostarsi, come se un’increspatura avesse percorso la sua superficie.
No, non osava andarsene. Doveva fidarsi dei guardiani. Incamminandosi verso la porta, piegò la testa, ascoltando. Ebbe impressione di udire dei deboli suoni provenire da sotto, un grido soffocato, un cozzare d’acciaio. Poi più nulla, soltanto silenzio. Attese, trattenendo il fiato, sentendo soltanto il battito del proprio cuore.
Nient’altro.
Dalamar sospirò. I guardiani dovevano essersi occupati della faccenda. Si allontanò dalla porta e attraversò il laboratorio per guardar fuori dalla finestra, ma non riuscì a vedere nulla. Il fumo era fitto come nebbia. Udì un lontano rombo di tuono, o forse si trattava di un’esplosione. Chi si era trovato là sotto? si scoprì a chiedersi. Qualche draconico, forse? Avido di altre uccisioni, di altro bottino. Uno di loro poteva essere riuscito a passare...
Non che avesse importanza, si disse con freddezza. Una volta che tutto fosse finito, sarebbe sceso laggiù per esaminare il cadavere...
«Dalamar!»
Dalamar sentì il cuore balzargli in gola, al suono di quella voce si sentì percorrere sia dalla paura sia dalla speranza.
«Cautela, cautela, amico mio,» bisbigliò fra sé. «Ha tradito suo fratello. Non fidarti di lei.»
Eppure scoprì che le mani gli tremavano mentre attraversava lentamente il laboratorio in direzione della porta.
«Dalamar!». Di nuovo la sua voce, tremante di dolore e di terrore. Si udì un tonfo contro la porta, il fruscio di un corpo che scivolava lungo di essa. «Dalamar,» lei chiamò di nuovo, con voce ancora più debole.
La mano di Dalamar era sulla maniglia. Alle sue spalle, gli occhi dei draghi ardevano rossi, bianchi, azzurri, verdi e neri.
«Dalamar,» mormorò ancora Kitiara con voce fioca. «Sono... sono venuta ad aiutarti.»
Dalamar aprì lentamente la porta del laboratorio. Kitiara giaceva sul pavimento ai suoi piedi. Alla vista di lei, Dalamar esalò un profondo sospiro. Se un tempo la donna aveva indossato un’armatura, adesso le era stata strappata dal corpo da mani inumane. Poteva vedere i segni delle loro unghie sulle sue carni. L’indumento nero e attillato che indossava sotto l’armatura era stato strappato e quasi ridotto a brandelli, esponendo la sua pelle abbronzata, il suo seno bianco. Il sangue colava da un’orrenda ferita alla gamba, i suoi gambali di cuoio erano a pezzi. Eppure, lei sollevò lo sguardo su di lui con occhi limpidi, occhi che non avevano paura. In mano stringeva il Gioiello della notte, il talismano che Raistlin le aveva dato per proteggerla mentre si trovava nel Bosco.
«Sono stata forte... appena appena,» bisbigliò Kitiara, dischiudendo le labbra in quel sorriso furfantesco che faceva bruciare il sangue a Dalamar. Sollevò le braccia. «Sono venuta da te.
Aiutami ad alzarmi.»
Dalamar si curvò, afferrò Kitiara e la sollevò in piedi. Lei gli si accasciò addosso. Dalamar potè sentire il tremito che squassava il suo corpo, e scosse la testa, sapendo che il veleno era all’opera nel suo sangue. Cingendola con un braccio, la trasportò quasi di peso dentro il laboratorio e chiuse la porta alle loro spalle.
Il peso di lei sul suo corpo aumentò. Kitiara roteò gli occhi all’indietro. «Oh, Dalamar,» mormorò, e lui vide che era sul punto di perdere i sensi. La cinse completamente fra le braccia. Kitiara appoggiò il capo contro il suo petto, esalando un grato sospiro di sollievo.
Dalamar poteva sentire la fragranza dei suoi capelli: quello strano odore, una mescolanza di profumo e di acciaio. Il corpo gli fremette tra le braccia. Dalamar la strinse ancora di più. Aprendo gli occhi, lei appuntò lo sguardo sul suo. «Mi sento meglio, adesso,» bisbigliò. Le sue mani scivolarono verso il basso...
Dalamar vide brillare troppo tardi quegli occhi castani. Troppo tardi vide contorcersi quel sorriso furfantesco. Troppo tardi sentì sussultare la mano di lei, e la rapida, dolorosa trafittura quando il suo pugnale gli penetrò nel corpo.
«Be’, ce l’abbiamo fatta,» urlò Caramon, guardando giù dal cortile della cittadella volante che si stava sgretolando, mentre si librava sopra le cime degli alberi scuri del Bosco di Shoikan.
«Sì, per lo meno fino a questo punto,» borbottò Tanis. Perfino da quella posizione vantaggiosa, così in alto sopra la foresta maledetta, poteva percepire le gelide ondate di odio e di bramosia di sangue che si levavano, cercando di ghermirli come se i guardiani potessero, perfino adesso, trascinarli sotto. Tremando, Tanis costrinse il proprio sguardo a volgersi là dove la cima della Torre della Grande Stregoneria si profilava più vicina.
«Se riusciremo ad avvicinarci abbastanza,» urlò rivolto a Caramon al di sopra del vento che gli fischiava nelle orecchie, «potremo lasciarci cadere su quella passerella che gira intorno alla cima.»
«La Passerella della Morte,» replicò Caramon con voce cupa. «Cosa?»
«La Passerella della Morte!» Caramon si avvicinò di più, facendo attenzione a dove metteva i piedi, mentre gli alberi scuri scorrevano sotto di loro come le onde di un oceano nero. «E là che si trovava il mago malvagio quando lanciò la maledizione sulla Torre. È da quel punto che è saltato giù.»
«Un posticino allegro e simpatico,» bofonchiò Tanis da sotto la barba, fissandolo tetro. Il fumo continuava a turbinare intorno a loro, nascondendo la vista degli alberi. Il mezzelfo cercò di non pensare a ciò che Stava succedendo nella città. Aveva già intravisto il Tempio di Paladine in fiamme.
«Tu sai, naturalmente,» urlò, afferrando Caramon per la spalla, mentre se ne stavano lì, protesi oltre l’orlo del cortile della cittadella, «che non è affatto improbabile che Tasslehoff vada a schiantarsi direttamente contro quell’affare.»
«Siamo arrivati fin qui,» mormorò Caramon. «Gli dei sono con noi.» Tanis sbatté le palpebre, chiedendosi se avesse sentito bene. «Questo non mi pare il vecchio Caramon tutta giovialità,» dichiarò, con un sogghigno.
«Quel Caramon è morto, Tanis,» replicò Caramon in tono deciso, con gli occhi sempre fissi sulla Torre che si stava avvicinando.
A quella vista, il sogghigno di Tanis si addolcì. «Mi spiace,» fu tutto quello che riuscì a pensare, appoggiando goffamente una mano sulla spalla di Caramon.
Caramon lo guardò con occhi limpidi e luminosi. «No, Tanis,» disse.
«Par-Salian mi ha detto, quando mi mandò indietro nel tempo, che stavo andando nel passato “per salvare un’anima”. Nient’altro. Nient’altro.» Ebbe un triste sorriso. «Pensavo che intendesse parlare dell’anima di Raistlin. Adesso capisco che non era così. Intendeva parlare della mia.» Il corpo dell’omone divenne teso. «Avanti,» esclamò in tono deciso, cambiando argomento all’improvviso,
«siamo abbastanza vicini per saltare giù.»
Un terrazzo che circondava la Torre era comparso sotto di loro, a stento visibile in mezzo ai vortici di fumo. Guardando giù, Tanis si sentì rattrappire lo stomaco. Malgrado sapesse che era impossibile, gli parve che la Torre stesse traballando là sotto, mentre lui era perfettamente immobile. Gli era parsa talmente enorme mentre si stavano avvicinando! Adesso sarebbe stato lo stesso se avesse avuto l’intenzione di saltare giù da un vallenwood per atterrare sul tetto del castello - giocattolo d’un bambino.
Per peggiorare ancora di più le cose, la cittadella continuava a volare avvicinandosi sempre più alla Torre. Tanis ebbe l’impressione che le punte rossosangue dei minareti neri che la sormontavano danzassero mentre la cittadella sobbalzava avanti e indietro, in alto e in basso.
«Salta!» gridò Caramon, lanciandosi nel vuoto.
Un turbine di fumo passò accanto a Tanis. La cittadella si stava ancora muovendo. D’un tratto una gigantesca colonna di roccia nera si profilò direttamente davanti a lui. O saltava, o sarebbe rimasto schiacciato. Freneticamente, Tanis saltò giù, e quasi nel medesimo istante udì sopra di sé un orrendo crepitio e un franare di sassi. Stava cadendo nel nulla, il fumo gli mulinava intorno... e poi ebbe una frazione di secondo per smorzare l’impatto della caduta quando le pietre della Passerella della Morte si materializzarono sotto i suoi piedi.
Atterrò con un tonfo stridente che scosse ogni singolo osso del suo corpo, lasciandolo stordito e senza fiato. Ebbe abbastanza buon senso da rotolarsi sullo stomaco, coprendosi la testa con le braccia, mentre una pioggia di rocce gli cadeva intorno.
Caramon era balzato subito in piedi, ruggendo, «A nord! A nord!»
A Tanis parve di udire, estremamente fioca, una voce stridula che urlava dalla cittadella sopra di lui: «Nord! Nord! Nord! Dobbiamo dirigere dritti a nord!»
Gli schianti e il franare cessarono. Sollevando con cautela la testa, Tanis vide, attraverso un’increspatura del fumo, la cittadella volante che si allontanava nella nuova direzione, ondeggiando leggermente, puntando dritta verso il palazzo di Lord Amothus.
«Tutto a posto?» Caramon aiutò Tanis a rialzarsi.
«Sì,» bofonchiò il mezzelfo con voce scossa. Si asciugò il sangue alla bocca. «Mi sono morso la lingua... Accidenti, se fa male!»
«L’unico modo per scendere è da questa parte,» disse Caramon, facendogli strada attorno alla Passerella della Morte. Giunsero ad un arco incavato nella pietra nera della Torre. C’era una piccola porta chiusa e sbarrata.
«Probabilmente ci saranno delle guardie,» fece notare Tanis a
Caramon il quale, arretrando, si preparava a scagliarsi con tutto il suo peso contro la porta.
«Già,» grugnì l’omone. Prese una breve rincorsa e si lanciò in avanti, Schiantandosi contro la porta.
Questa fremette e scricchiolò, il legno si scheggiò lungo le sbarre di ferro ma resse. Sfregandosi la spalla, Caramon arretrò. Squadrò la porta, concentrò su di essa tutte le sue forze, «si schiantò ancora una volta contro di essa. Questa volta la porta cedette con un boato, trascinando Caramon con sé.
Tanis si affrettò a seguirlo, sbirciando intorno a sé nell’oscurità piena di fumo. Trovò Caramon disteso sul pavimento, circondato da frammenti di legno. Il mezzelfo fece per porgere una mano all’amico, quando all’improvviso si fermò, lo sguardo come pietrificato.
«In nome dell’Abisso!» imprecò, col respiro che gli si era mozzato in gola.
Caramon si affrettò ad alzarsi in piedi. «Sì,» disse guardingo. «Non è la prima volta che li incontro.»
Due paia di occhi disincarnati, che ardevano di un’arcana, gelida luce bianca, fluttuavano davanti a loro.
«Non lasciare che ti tocchino,» lo ammonì Caramon a bassa voce. «Ti succhiano la vita dal corpo.»
Gli occhi si avvicinarono ancora di più.
Caramon si affrettò a portarsi davanti a Tanis, affrontando gli occhi. «Sono Caramon Majere, fratello di Fistandantilus,» disse con voce sommessa. «Mi conosci. Mi hai già visto, in un’epoca trascorsa da molto tempo.»
Gli occhi si arrestarono, Tanis sentiva in modo quasi palpabile il loro gelido esame. Lentamente sollevò il braccio. La fredda luce degli occhi del guardiano trasse foschi riflessi dal braccialetto d’argento.
«Sono amico del tuo padrone, Dalamar,» dichiarò cercando di mantenere ferma la voce. «Mi ha dato questo braccialetto,» Tanis sentì, d’un tratto, una fredda stretta al braccio. Rantolò in preda a un dolore che parve penetrargli direttamente fino al cuore. Barcollando, quasi cadde per terra, ma Caramon lo afferrò appena in tempo.
«Il braccialetto non c’è più,» disse Tanis a denti stretti.
«Dalamar!» urlò Caramon, la sua voce rimbombò assordante nella camera. «Dalamar! Sono
Caramon! Il fratello di Raistlin! Devo entrare nel Portale! Io posso fermarlo! Richiama i guardiani, Dalamar!»
«Forse è troppo tardi,» disse Tanis fissando quegli occhi pallidi, che lo fissavano a loro volta.
«Forse Kit è arrivata qui per prima. Forse lui è morto...»
«Allora lo siamo anche noi,» concluse Caramon con voce sommessa.
Capitolo sesto.
«Maledizione a te, Kitiara,» esclamò Dalamar con la voce soffocata per il dolore. Barcollando all’indietro, si premette la mano sul fianco e sentì il suo stesso sangue scorrergli caldo fra le dita.
Non c’era nessun sorriso di esultanza sul volto di Kitiara, piuttosto un’espressione di paura, poiché si avvide di aver mancato il colpo che avrebbe dovuto ucciderlo. Perché? si chiese in preda al furore. Aveva ucciso cento uomini in quel modo! Perché aveva sbagliato proprio adesso? Lasciò cadere il pugnale e sfoderò la spada, lanciandosi in avanti in un unico movimento.
La spada sibilò per la forza con cui era stato sferrato il colpo, ma colpì una parete solida, le scintille crepitarono quando il metallo entrò in contatto con lo schermo magico che Dalamar aveva creato intorno a sé, e una scossa paralizzante sfrigolò su per la lama, attraverso l’elsa e lungo il braccio della donna. La spada le cadde dalla mano ormai senza forza. Stringendosi il braccio, la stupefatta Kitiara cadde in ginocchio.
Dalamar ebbe il tempo di riprendersi dallo shock della ferita. Gli incantesimi difensivi che aveva lanciato erano stati un riflesso, il risultato di anni di addestramento. In effetti non aveva avuto neppure bisogno di pensarci. Ma adesso fissò cupo la donna sul pavimento davanti a sé, la quale stava cercando di afferrare la spada con la mano sinistra, mentre fletteva la destra cercando di recuperare la sensibilità.
La battaglia era appena cominciata.
Kitiara si rialzò contorcendosi come un gatto, con gli occhi che le ardevano per la rabbia e la bramosia quasi sessuale che la consumavano quando combatteva. Dalamar aveva già visto quell’espressione negli occhi di qualcun altro, in quelli di Raistlin quand’era smarrito nell’estasi della sua magia.
L’elfo scuro deglutì per liberarsi da una sensazione di soffocamento che avvertiva alla gola, e cercò di scacciare il dolore e la paura dalla propria mente, sforzandosi di concentrarsi soltanto sui suoi incantesimi.
«Non indurmi a ucciderti, Kitiara,» disse cercando di guadagnare tempo, sentendo che di momento in momento stava diventando più forte. Doveva conservare quella forza. Gli sarebbe servito ben poco fermare Kitiara e finire poi ucciso per mano del fratello.
Il suo primo pensiero fu quello di chiamare i guardiani. Ma lo respinse. Kitiara era già riuscita a superarli una volta, probabilmente usando il Gioiello della notte. Arretrando davanti alla Signora dei Draghi, Dalamar si avvicinò un poco per volta alla scrivania di pietra, dove si trovavano i suoi congegni magici. Con la coda dell’occhio intravide un luccichio d’oro, una bacchetta magica. Il suo sincronismo avrebbe dovuto essere perfetto. Avrebbe dovuto dissolvere lo schermo protettivo per usare la bacchetta magica contro Kit. E vide negli occhi di Kitiara che lei lo sapeva. Stava aspettando che lui lasciasse cadere lo schermo, il momento preciso...
«Sei stata ingannata, Kitiara,» disse Dalamar con voce sommessa, sperando di distrarla.
«Da te!» lei lo derise. Sollevando un candelabro dalle molte braccia, lo scagliò addosso a Dalamar.
Il candelabro rimbalzò contro lo schermo magico, cadendo ai piedi dell’elfo scuro. Una voluta di fumo si levò dal tappeto, ma il piccolo incendio si spense quasi all’istante, soffocato dalla cera fusa delle candele.
«Da Lord Soth,» spiegò Dalamar.
«Ah,» rise Kitiara, scagliando un becher di vetro contro lo schermo. Il becher s’infranse in mille frammenti luccicanti.
Seguì un altro candelabro. Kitiara aveva già combattuto altre volte contro gli usufruitori di magia.
Sapeva come sconfiggerli. Con i suoi proiettili non intendeva colpire, ma soltanto indebolire il mago, costringerlo a sprecare le sue forze per mantenere lo schermo, per fargli pensare due volte prima di abbassarlo.
«Perché mai pensi di aver trovato Palanthas fortificata?» disse ancora Dalamar, continuando ad arretrare, avvicinandosi sempre più al tavolo di pietra. «Te l’eri aspettato? Soth mi ha rivelato i suoi piani! Mi ha rivelato che avresti attaccato Palanthas per cercare di aiutare tuo fratello! Quando Raistlin varcherà il Portale attirando dietro di sé la Regina delle Tenebre, Kitiara sarà qui ad accoglierlo come una sorella amorevole!».
Kitiara ristette, la sua spada si abbassò di una frazione di pollice. «Te l’ha detto questo, Soth?»
«Sì,» disse Dalamar avvertendo con sollievo la sua esitazione e l’improvvisa confusione. Il dolore della ferita si era un po’ attenuato. Si azzardò a dare un’occhiata al profondo taglio. Le vesti vi si erano appiccicate sopra formando una rozza fasciatura. Lo sgocciolio del sangue era quasi cessato.
«Perché?» Kitiara sollevò le sopracciglia con espressione canzonatoria. «Perché mai Soth dovrebbe tradirmi, elfo scuro?»
«Perché vuole te, Kitiara,» rispose Dalamar con voce sommessa. «Ti vuole alla sola maniera con la quale può averti...»
Una gelida lama di terrore trafisse Kitiara fin nel profondo dell’anima. Ricordò la strana intonazione della voce cavernosa di Lord Soth. Ricordò che era stato lui a consigliarle di attaccare Palanthas. Traboccante di rabbia, Kitiara rabbrividì, scossa da tremiti convulsi. Vedendo i lunghi graffi che le deturpavano le braccia e le gambe, sentendo di nuovo i gelidi artigli di coloro che li avevano causati, si rese conto con amarezza che erano avvelenati.
Veleno. Lord Soth. Non riusciva a pensare. Sollevando lo sguardo, Stordita, vide Dalamar che sorrideva. Rabbiosa gli voltò le spalle per nascondere le proprie emozioni, per riprendere il controllo di sé.
Dalamar, tenendola d’occhio, si avvicinò ancora di più al tavolo di pietra, adocchiando la bacchetta che gli serviva. Kitiara si accasciò, piegando la testa. Stringeva debolmente la spada nella mano destra, bilanciando la lama con la sinistra, fingendo di essere gravemente ferita. Intanto sentiva le forze tornarle nel braccio intorpidito. Che Dalamar pensasse pure di aver vinto. Sarò pronta, quando mi attaccherà. Nell’istante in cui pronuncerà la prima parola magica lo taglierò in due! La sua mano si strinse sull’elsa della spada.
Ascoltò con attenzione, ma non sentì niente, soltanto il lieve fruscio delle vesti nere, il doloroso ansimare dell’elfo scuro. Era vero, si chiese, quello che Dalamar le aveva detto di Lord Soth? E se era vero, aveva importanza? Kitiara trovava l’idea piuttosto divertente. C’erano uomini che avevano fatto anche di più pur di averla. Ma lei era ancora libera. Si sarebbe occupata di Soth più tardi.
L’incuriosiva di più ciò che Dalamar aveva detto di Raistlin. Possibile che potesse vincere?
Avrebbe condotto la Regina delle Tenebre su questo piano? Questo pensiero sgomentava Kitiara... la sgomentava e la angosciava.
«Ti sono stata utile una volta, non è vero, Maestà Oscura?» bisbigliò. «Una volta, quand’eri soltanto una debole ombra su questo lato dello specchio. Ma quando sarai forte, che posto rimarrà per me su questo mondo? Nessuno! Perché tu mi odi e mi temi persino più di quanto io stessa ti odio e ti temo.
«In quanto a quel verme sbavante di mio fratello, ci sarà qualcuno ad aspettarlo: Dalamar! Tu, Dalamar, appartieni al tuo Shalafi anima e corpo! Tu hai intenzione di aiutarlo, non di ostacolarlo, quando varcherà il Portale! No, mio caro amante, non mi fido di te! Non oso fidarmi di te!»
Dalamar vide Kitiara rabbrividire, vide le ferite sul suo corpo diventare d’un azzurro purpureo. Si stava indebolendo, certo. L’aveva vista impallidire quando aveva nominato Soth, per un istante i suoi occhi si erano dilatati per la paura. Sicuramente doveva essersi resa conto di essere stata tradita. Adesso doveva aver sicuramente capito la sua grande follia. Non che avesse importanza, non adesso. Non si fidava di lei, non osava fidarsi di lei...
Dalamar sporse la mano dietro di sé con un movimento serpeggiante. Afferrò la bacchetta e la sollevò, pronunciando la parola magica che disperdeva lo schermo protettivo. In quell’istante Kitiara si girò di scatto. Stringendo la spada con entrambe le mani, calò un fendente con tutte le sue forze. Il colpo avrebbe spiccato di netto la testa di Dalamar dal collo, se lui non si fosse girato a metà per afferrare la bacchetta.
Così invece la lama lo colse dietro alla spalla destra, scendendo in profondità nelle sue carni, fracassandogli la scapola, quasi troncandogli il braccio.
Dalamar lasciò cadere la bacchetta con un urlo, ma non prima di avere scatenato il suo potere magico. Un lampo scoccò, biforcandosi, la sua raffica sfrigolante colpì Kitiara al petto, facendola volare all’indietro, sbattendola contro il pavimento.
Dalamar si accasciò sul tavolo, vacillando per il dolore. Il sangue gli zampillava ritmicamente dal braccio. Per un istante lo fissò istupidito, senza capire, poi le lezioni di anatomia di Raistlin gli ritornarono alla memoria. Quello che sgorgava era il sangue del suo cuore. Sarebbe morto entro pochi secondi. Aveva l’anello della guarigione alla mano destra, quella del braccio ferito.
Indebolito, allungò la mano, afferrò la pietra e pronunciò le semplici parole che attivavano la magia.
Poi perse conoscenza, e il suo corpo scivolò sul pavimento per giacere in una pozza del suo stesso sangue.
«Dalamar!» Una voce chiamò il suo nome. L’elfo scuro si mosse immerso nel torpore. Il dolore gli trafisse il corpo. Gemette e lottò, risprofondando nel buio. Ma la voce urlò di nuovo. I ricordi gli tornarono, e con i ricordi la paura. La paura gli fece riprendere conoscenza. Cercò di rizzarsi a sedere, ma il dolore lo trafisse, quasi facendolo svenire di nuovo. Poteva sentire le estremità fratturate delle ossa che scricchiolavano, sfregandosi le une contro le altre. Il braccio destro e la mano gli pendevano sul fianco inerti e senza vita. L’anello aveva arrestato il fiotto di sangue.
Sarebbe vissuto, ma l’avrebbe fatto soltanto per morire per mano del suo Shalafi «Dalamar!» gridò di nuovo la voce. «Sono Caramon!» Dalamar trasse un lungo sospiro di sollievo. Sollevò la testa, un movimento che richiedeva uno sforzo supremo, e guardò il Portale. Gli occhi dei draghi stavano diventando ancora più luminosi, il bagliore pareva estendersi perfino lungo il collo. Adesso il vuoto si stava decisamente agitando. Potè sentire un vento caldo sulla guancia, o forse era la febbre che ardeva dentro di lui. Udì un fruscio in un angolo in ombra sul lato opposto della stanza, e fu afferrato da un’altra paura. No! Era impossibile che lei potesse essere ancora viva! Serrando i denti per vincere il dolore, Dalamar girò la testa. Potè vedere il suo corpo rivestito dai brandelli d’armatura che rifletteva il bagliore degli occhi dei draghi. Giacque immobile, fermo in mezzo alle Ombre. Poteva sentire il puzzo della carne bruciata. Ma quel rumore...
Dalamar chiuse gli occhi, affaticato. L’oscurità vorticava nella sua testa, minacciando di trascinarlo giù. Non poteva ancora riposare! Combattendo contro il dolore si costrinse a riprendere conoscenza, chiedendosi come mai Caramon non arrivasse. Sentì che lo chiamava di nuovo. Cosa mai stava succedendo? E poi Dalamar ricordò, i guardiani! Certo, non l’avrebbero mai lasciato passare!
«Guardiani, ascoltate le mie parole e obbedite,» cominciò a dire Dalamar, concentrando i suoi pensieri e le sue energie, mormorando le parole che avrebbero aiutato Caramon a superare i terribili difensori della Torre e a entrare nella stanza.
Dietro a Dalamar le teste di drago si ersero ancora più luminose, mentre davanti a lui, in un angolo in ombra, una mano affondò in una cintura intrisa di sangue e, allo stremo delle forze, strinse l’elsa di un pugnale.
«Caramon,» sussurrò Tanis, fissando gli occhi che l’osservavano, «potremmo andarcene. Risalire le scale. Forse c’è un’altra strada...»
«Non c’è. E non ho intenzione di andarmene,» replicò Caramon cocciuto.
«In nome degli dei, Caramon! Non puoi combattere contro queste dannate creature!»
«Dalamar!» chiamò di nuovo Caramon in preda alla disperazione. «Dalamar, io...»
All’improvviso, come se qualcuno li avesse spenti, quegli occhi ardenti scomparvero.
«Se ne sono andati!» esclamò Caramon lanciandosi in avanti. Ma Tanis lo trattenne.
«Un trucco...»
«No.» Caramon lo trascinò con sé. «Puoi sentirli, anche quando non sono visibili. Io non riesco più a sentirli. E tu?»
«Sento qualcosa,» borbottò Tanis.
«Ma non sono loro e non riguarda noi!» esclamò Caramon, scendendo di corsa la scala a chiocciola che partiva dalla sommità della Torre. In fondo alla scala un’altra porta era aperta. Qui, Caramon si fermò, sbirciando con cautela dentro la parte principale dell’edificio.
Dentro faceva buio, buio come se la luce non fosse stata ancora creata. Le torce erano state spente.
Non c’era nessuna finestra che permettesse neppure alla luce offuscata dal fumo fuori della Torre di filtrare all’interno. Tanis ebbe l’improvvisa visione di se stesso che, entrato in quell’oscurità, scompariva per sempre, cadendo dentro il denso male divorante che permeava ogni roccia e ogni pietra. Al suo fianco sentì il respiro di Caramon farsi più rapido, mentre il corpo dell’omone si faceva teso.
«Caramon, cosa c’è là?»
«Là non c’è niente. Soltanto una lunga caduta fin sul fondo. Il centro della Torre è cavo, ci sono scale che corrono fiancheggiando il muro, stanze che si affacciano sulle scale. Adesso, se ricordo bene, sono su un angusto pianerottolo. Il laboratorio si trova all’incirca un paio di rampe più in basso, rispetto a questo punto.» La voce di Caramon s’interruppe. «Dobbiamo proseguire! Stiamo perdendo tempo! Lui si sta avvicinando!». Afferrò Tanis e continuò con più calma. «Su, basta che ti tenga vicino alla parete. Questa scala conduce giù fino al laboratorio...»
«Un passo falso in questa maledetta oscurità, e per noi non avrà più nessuna importanza cosa farà tuo fratello!» disse Tanis. Ma sapeva che le sue parole erano inutili. Per quanto fosse cieco, in quella notte eterna e soffocante, riuscì quasi a vedere il volto di Caramon tendersi risoluto. Sentì l’omone che trascinava un piede in avanti, cercando di procedere continuando a tastare la parete.
Con un sospiro, Tanis si preparò a seguirlo... poi gli occhi tornarono, appuntandosi su di loro. Tanis portò d’istinto la mano alla spada: un gesto stupido e inutile. Ma gli occhi si limitarono a fissarli, niente più. Poi una voce parlò: «Venite. Da questa parte.» Una mano si agitò nel buio. Non riusciamo a vedere niente, dannazione!» ringhiò Tanis. comparve una luce spettrale, stretta in quella mano devastata. Tanis vide. Malgrado tutto, preferiva l’oscurità. Ma non disse niente, poi Caramon si era messo a scendere di corsa le scale, una rampa dopo l’altra. Arrivati in fondo, gli occhi e la mano e la luce si arrestarono. Davanti a loro c’era una porta aperta, e più oltre una stanza.
All’interno della stanza una vivida luce splendeva, uscendo a fiotti anche nel corridoio. Caramon si precipitò in avanti e Tanis lo seguì, affrettandosi a chiudere la porta alle proprie spalle, in modo che quegli orribili occhi non potessero seguirli.
Si girò e si fermò, ispezionando con lo sguardo l’intera stanza, e si rese conto d’un tratto di dove si trovava: nel laboratorio di Raistlin. Tanis, restette, stordito, il corpo premuto contro la porta, osservò Caramon che si precipitava in avanti per inginocchiarsi accanto ad una figura rannicchiata sul pavimento in una pozza di sangue. Dalle vesti nere, Tanis capì che si trattava di Dalamar. Ma non riuscì a reagire, non riuscì a muoversi.
Il male fuori della porta era stato soffocante, polveroso, vecchio di secoli. Ma il male qua dentro era vivo... viveva e palpitava e pulsava. Il gelo s’irradiava dai libri d’incantesimi sugli scaffali, rilegati in azzurro notte, il suo calore emanava da una nuova serie di libri d’incantesimi rilegati in nero, contrassegnati da rune in forma di clessidra, che si trovavano accanto ai primi. Il suo sguardo inorridito fissò dentro i becher, e negli occhi torturati che lo fissavano. Si sentì soffocare dall’odore delle polveri, delle muffe, dei funghi e delle rose e, da qualche parte, dall’odore dolciastro della carne bruciata.
Poi il suo sguardo venne attirato e trattenuto da una luce ardente che si irradiava da un angolo.
Quella luce era bellissima, eppure lo colmò di sgomento e terrore, ricordandogli vividamente il suo incontro con la regina delle Tenebre. Fissò la luce come ipnotizzato, incapace di rivolgere altrove lo sguardo, e vide la luce separarsi in parti distinte, assumendo la forma di cinque teste di drago.
Una porta! Tanis se ne rese conto d’un tratto. Cinque teste si levavano su di una predella dorata, creando una forma ovale con i lunghi colli.
Ognuno di essi era piegato all’interno, con la bocca aperta in un grido pietrificato. Tanis guardò al di là delle teste di drago, il vuoto dentro l’ovale. Là dentro non c’era niente, ma quel niente si muoveva. Tutto era vuoto e vivo. All’improvviso, istintivamente, seppe dove conduceva quella porta, e questa consapevolezza lo raggelò.
«Il Portale,» disse Caramon, vedendo Tanis sbiancarsi in volto e strabuzzare gli occhi. «Vieni qui, dammi una mano.»
«Vai là dentro?» bisbigliò Tanis, selvaggiamente, sbalordito dalla calma dell’omone. Attraversò la stanza e si arrestò accanto all’amico. «Caramon, non essere sciocco!»
«Non ho nessuna scelta, Tanis,» dichiarò Caramon, con quella nuova espressione di tranquilla decisione sul volto. Tanis fece per obbiettare, ma Caramon gli voltò le spalle, tornando accanto all’elfo scuro ferito.
«Ho visto cosa accadrà!» ricordò a Tanis.
Inghiottendo le proprie parole, soffocando su di esse, Tanis s’inginocchiò accanto a Dalamar. L’elfo scuro era riuscito a mettersi in posizione seduta, così da poter fronteggiare il Portale. Era ripiombato nell’incoscienza ma, al suono delle loro voci, i suoi occhi si spalancarono.
«Caramon!» rantolò, allungando una mano tremante. «Tu devi fermare...»
«Lo so, Dalamar,» disse Caramon con gentilezza. «So quello che devo fare. Ma ho bisogno del tuo aiuto! Dimmi...»
Le palpebre di Dalamar sbatterono e si chiusero, la sua pelle era color cenere. Tanis toccò il petto di Dalamar per percepire il battito vitale del giovane elfo. La sua mano aveva appena toccato la pelle del mago quando qualcosa risuonò. Qualcosa stridette contro il suo braccio, colpendo l’armatura e rimbalzando, per poi cadere sferragliando sul pavimento. Abbassando lo sguardo, Tanis vide un pugnale macchiato di sangue.
Sorpreso, si girò di scatto, balzando in piedi con una contorsione, la spada in pugno.
«Kitiara,» bisbigliò Dalamar con un debole cenno del capo.
Scrutando le ombre del laboratorio, Tanis intravide un corpo in un angolo.
«Naturalmente,» mormorò Caramon. «È così che lo uccise.» Tirò su il pugnale da terra. «Questa volta sei stato tu, Tanis, a bloccare il suo lancio.»
Ma Tanis non lo sentì. Rinfoderando la spada, attraversò la stanza, camminando sopra i vetri rotti senza neanche accorgersene, scalciando via un candelabro d’argento che gli era rotolato sotto i piedi.
Kitiara giaceva distesa sullo stomaco, con una guancia premuta contro il pavimento insanguinato, i capelli scuri che le ricadevano sugli occhi. Pareva che il lancio del pugnale avesse esaurito le sue ultime energie. Tanis, avvicinandosi a lei, agitato da un turbine di emozioni, era certo che doveva esser morta.
Ma la volontà indomita che aveva condotto un suo fratello attraverso la tenebra e un altro nella luce, bruciava ancora dentro Kitiara. Sentì un rumore di passi... il suo nemico.
La sua mano si mosse a stringere debolmente la spada. Alzò la testa, sollevò lo sguardo, con occhi che andavano rapidamente oscurandosi.
«Tanis?» lo fissò, perplessa, confusa. Dove si trovava? Flotsam? Erano là di nuovo, insieme?
Certo! Era tornato da lei! Sorridendo, sollevò una mano verso di lui.
Tanis trattenne il fiato, lo stomaco gli si contorse. Mentre lei si muoveva, vide un foro annerito spalancato nel suo petto. Le sue carni erano bruciate, e sotto Tanis potè distinguere il biancore delle ossa. Era una vista talmente macabra che Tanis, nauseato e sopraffatto da un’ondata di ricordi, fu costretto a girare altrove la testa.
«Tanis!» gridò una voce rotta. «Vieni da me!»
Con il cuore colmo di pietà, Tanis s’inginocchiò accanto a lei per sollevarla tra le braccia. Kitiara alzò lo sguardo sul suo viso... e vide la propria morte negli occhi di lui. Fu scossa dalla paura. Lottò per alzarsi.
Ma lo sforzo fu troppo grande per lei. Si accasciò.
«Sono... ferita,» disse rabbiosa in un bisbiglio. «Quanto... grave?» Sollevò una mano e cominciò a toccarsi le ferite.
Strappandosi di dosso il mantello, Tanis l’avvolse intorno al corpo Straziato di Kitiara. «Riposati, Kit,» le disse con voce gentile. «Guarirai. Ti rimetterai in forze.»
«Sei un maledetto bugiardo!» gridò lei, serrando le mani a pugno, facendo eco, se soltanto l’avesse saputo, al morente Elistan. «Mi ha ucciso! Quell’elfo disgraziato!». Sorrise, un sorriso spettrale.
Tanis rabbrividì. «Ma l’ho sistemato per bene! Adesso non potrà più aiutare Raistlin. La Regina delle Tenebre lo ucciderà, li ucciderà tutti!»
Gemendo, si dibatté in preda all’agonia e si aggrappò a Tanis. Lui la tenne stretta. Quando il dolore si alleviò, lei sollevò lo sguardo su di lui. «Sei uno smidollato,» bisbigliò con un tono di voce che era in parte amaro disprezzo, in parte amaro rincrescimento. «Avremmo potuto avere un mondo, tu ed io.»
«Io ho il mondo, Kitiara,» replicò Tanis con voce sommessa, il cuore lacerato dalla ripugnanza e dal dolore.
Kitiara scosse la testa con rabbia e parve sul punto di dire qualcos’altro quando i suoi occhi si spalancarono, lo sguardo fisso su qualcosa all’estremità più lontana della stanza.
«No!» gridò in preda a un terrore che nessuna tortura o sofferenza sarebbero riuscite a strapparle.
«No!». Ritraendosi, rannicchiandosi addosso a Tanis, bisbigliò con voce convulsa e strozzata, «Non lasciare che mi prenda! Tanis, no! Tienilo lontano! Ti ho sempre amato, mezzelfo! Sempre... amato...»
La sua voce divenne un bisbiglio rantolante.
Tanis sollevò lo sguardo, allarmato. Ma la porta era vuota. Là non c’era nessuno. Aveva inteso parlare di Dalamar? «Chi, Kitiara? Non capisco...»
Ma lei non lo sentì. Le sue orecchie erano morte per sempre alla voce dei mortali. Adesso l’unica voce che udiva era quella che avrebbe udito per sempre, per tutta l’eternità.
Tanis sentì afflosciarsi il corpo che stringeva fra le braccia. Lisciando i suoi capelli scuri e riccioluti, scrutò il suo volto, alla ricerca di qualche segno che la morte avesse portato la pace alla sua anima. Ma l’espressione del suo viso era di orrore, i suoi occhi castani erano impietriti nell’orrore, l’affascinante, furfantesco sorriso era contorto in una smorfia.
Tanis sollevò lo sguardo su Caramon. Pallido e con espressione grave, l’omone scosse la testa.
Lentamente, Tanis tornò a deporre il corpo di Kitiara sul pavimento. Chinandosi, fece per baciare quella fronte gelida, ma scoprì di non poterlo fare. L’espressione sul volto del cadavere era troppo truce, troppo spettrale.
Tirando il mantello sopra la testa di Kitiara, Tanis rimase per un momento inginocchiato accanto al suo corpo, circondato dalla tenebra. E poi sentì il passo di Caramon, sentì una mano sul suo braccio.
«Tanis...»
«Sto bene,» rispose burbero il mezzelfo, alzandosi in piedi. Ma, nella sua mente, sentiva ancora l’implorazione di Kitiara sul punto di morte...
«Tienilo lontano!».
Capitolo settimo.
«Sono lieto che tu sia qui con me, Tanis,» disse Caramon.
Era in piedi davanti al Portale, e lo fissava con intensità, seguendo ogni movimento e ogni ondeggiamento del vuoto al suo interno. Accanto a lui sedeva Dalamar, sorretto da cuscini sulla sua sedia, il volto pallido e tirato per il dolore, il braccio legato da una rozza fasciatura. Tanis camminava incessantemente avanti e indietro. Adesso le teste dei draghi ardevano con tale intensità che fissarli direttamente faceva male agli occhi.
«Caramon,» cominciò a dire Tanis, «per favore...»
Caramon si voltò a guardarlo, con la stessa espressione, calma e grave, immutata.
Tanis era perplesso. Come avrebbe potuto discutere con il granito? Sospirò. «D’accordo. Ma come farai a entrare là dentro?» chiese d’un tratto.
Caramon sorrise. Sapeva quello che Tanis era stato sul punto di dire, e gli era grato per non averlo detto.
Rivolgendo un’occhiata cupa al Portale, Tanis indicò con un gesto l’apertura. «Da quanto mi hai già detto, Raistlin ha dovuto studiare per anni, per diventare questo Fistandantilus e intrappolare Dama Crysania convincendola ad andare con lui, e anche allora c’è riuscito a malapena!» Caramon spostò il suo sguardo su Dalamar. «Puoi varcare il Portale, elfo oscuro?»
Dalamar scosse la testa. «No. Come hai detto, ci vuole qualcuno dotato di un grande potere per attraversare quella temibile soglia, Io non ho quel potere, forse non l’avrò mai. Ma non corrucciarti, Mezzelfo. Non stiamo sprecando il nostro tempo. Sono certo che Caramon non avrebbe intrapreso questa missione se non avesse saputo come fare a entrare.» Dalamar fissò intensamente il grosso guerriero. «Poiché, deve entrare... Altrimenti siamo condannati.»
«Quando Raistlin combatterà nell’Abisso contro la Regina delle Tenebre e i suoi famigli,» disse Caramon con voce calma e priva d’espressione, «avrà bisogno di concentrarsi completamente su di loro, escludendo qualunque altra cosa. Non è forse vero, Dalamar?»
«Sicuramente.» L’elfo scuro rabbrividì e si strinse addosso ancora di più le vesti nere con la mano sana. «Un respiro, un battito di ciglia, un sussulto, e loro lo squarteranno e lo divoreranno.»
Caramon annuì.
Come fa ad essere così calmo? si chiese Tanis. E una voce dentro di lui rispose, è la calma di qualcuno che conosce e accetta il proprio destino.
«Nel suo libro,» continuò Caramon, «Astinus ha scritto che Raistlin, sapendo di dover concentrare la sua magia per combattere la Regina, aprìre il Portale per assicurarsi una via di fuga prima di cominciare a combattere. Così, quando fosse arrivato l’avrebbe trovata spalancata per entrarvi, e tornare così su questo mondo.»
«Inoltre sapeva, senza alcun dubbio, che in quel momento sarebbe stato troppo debole per riuscire ad aprirla da solo,» mormorò Dalamar. «Avrebbe avuto bisogno di essere al culmine delle sue forze.
Sì, hai ragione. L’aprirà, e presto. E quando lo farà, tutti quelli che avranno la forza e il coraggio necessari per varcare il confine, potranno entrare.»
L’elfo scuro chiuse gli occhi, mordendosi le labbra per evitare di urlare. Aveva rifiutato una pozione per alleviare il dolore. «Se fallisci,» disse a Caramon, «sono io la vostra ultima speranza.»
La nostra ultima speranza, pensò Tanis: un elfo scuro. Questa è follia! Non può succedere.
Appoggiandosi contro il tavolo di pietra, si prese la testa fra le mani. In nome degli dei, quant’era stanco! Il corpo era dolorante, le ferite lo torturavano e gli pungevano. Si era tolto il pettorale dell’armatura, ma si sentiva ancora pesante come se avesse una lapide appesa al collo. Ma per quanto male gli facesse il corpo, l’anima gli faceva ancora più male. I ricordi gli aleggiavano intorno come i guardiani della Torre, protendendosi a toccarlo con le loro mani gelide. Caramon, che sottraeva furtivo il cibo dal piatto di Flint quando il nano gli voltava la schiena. Raistlin che evocava visioni meravigliose per i deliziati bambini di Flotsam. Kitiara che rideva, buttandogli le braccia al collo, bisbigliandogli all’orecchio. Tanis si sentì stringere il cuore, il dolore gli fece salire le lacrime agli occhi. No! Era tutto sbagliato! Certamente non era così e avrebbe dovuto finire!
Un libro comparve ondeggiando alla sua vista annebbiata: il libro di Caramon, appoggiato sul tavolo di pietra, l’ultimo libro di Astinus, pensò tra sè non può essere, non è così che finrà? Allora divenne conscio di Caramon che lo stava guardando preoccupato. Arrabbiato, si asciugò gli occhi e la faccia e si levò in piedi con un sospiro.
Ma i fantasmi rimasero con lui, sospesi accanto a lui... e accanto al corpo bruciato e martoriato che giaceva lì nell’angolo sotto il suo mantello.
L’umano, il mezzelfo e l’elfo scuro osservavano il Portale in silenzio. Un orologio ad acqua sul caminetto segnava il passare del tempo, le gocce cadevano ad una ad una con la regolarità di un battito di cuore. La tensione nella stanza divenne spasmodica fino a quando sembrò sul punto di spezzarsi e di rimbalzare per il laboratorio come una scudisciata di acre orrore. Dalamar cominciò a borbottare in elfico. Tanis gli scoccò all’improvviso un’occhiata, temendo che l’elfo scuro potesse essere stato colto dal delirio. Il volto del mago era pallido, cadaverico, i suoi occhi cerchiati da profonde ombre purpuree erano affondati dentro le orbite. Il loro sguardo non si spostò mai, ma rimase fisso in continuazione sul vuoto turbinante. Perfino la calma di Caramon pareva sul punto di cedere. Le sue grosse mani si serravano e si disserravano nervose, il sudore gli copriva il corpo, luccicando al bagliore delle cinque teste di drago. Cominciò involontariamente a rabbrividire. I muscoli delle sue braccia si contraevano spasmodicamente.
E poi Tanis sentì una strana sensazione impadronirsi di lui. L’aria era immobile, troppo immobile. I rumori della battaglia che infuriava nella città, fuori dalla Torre, cessarono all’improvviso. Anche all’interno della torre i suoni si spensero. Le parole che Dalamar stava borbottando gli morirono sulle labbra. Il silenzio li avvolse, fitto e soffocante come l’oscurità nel corridoio, come il male all’interno della stanza. Lo sgocciolio dell’orologio ad acqua crebbe d’intensità, ingrandito, ogni goccia pareva scuotere le ossa di Tanis. Gli occhi di Dalamar si spalancarono con un sussulto, le sue mani si contrassero, stringendo nervosamente le vesti nere tra le dita dalle nocche sbiancate.
Tanis si avvicinò ancora di più a Caramon e scoprì che l’omone stava cercando di fare la stessa cosa. Tutti e due parlarono allo stesso tempo. «Caramon...»
«Tanis...»
Disperatamente, Caramon afferrò Tanis per il braccio. «Ti prenderai cura di Tika per me, non è vero?»
«Caramon, non posso lasciarti entrare là dentro da solo!». Tanis lo strinse. «Verrò...»
«No, Tanis.» La voce di Caramon suonò ferma. «Se fallirò, Dalamar avrà bisogno del tuo aiuto. Dì addio a Tika da parte mia, e cerca di spiegarle, Tanis. Dille che l’amo moltissimo, al punto da...» la voce gli venne meno. Non riuscì a continuare. Tanis si strinse a lui.
«So cosa dirle,» rispose, ricordando una propria lettera di addio. Caramon annuì, scrollandosi via le lacrime dagli occhi e tirando un profondo e tremulo sospiro. «E dì addio a Tas. Io... io non credo che abbia mai capito. Non proprio.» Riuscì a sorridere. «Naturalmente prima dovrai riuscire a farlo scendere da quel castello volante.»
«Credo che lo sapesse, Caramon,» disse Tanis con voce sommessa. Le teste dei draghi cominciarono a produrre un suono stridulo, un debole urlio che sembrava provenire da molto lontano. Caramon divenne teso.
L’urlo si fece più forte, più vicino e più stridulo. Il portale ardeva di diversi colori, la testa di ogni drago irradiava un bagliore sfolgorante. «Preparati,» lo avvertì Dalamar con voce rotta. «Addio, Tanis.» Caramon gli tenne stretta la mano con forza. «Addio, Caramon.»
Lasciando la mano dell’amico, Caramon arretrò. Il vuoto si dischiuse. Il Portale si aprì.
Tanis guardò dentro di esso, seppe di aver guardato dentro poiché non riuscì a voltarsi. Ma non riuscì mai a ricordare con chiarezza ciò che aveva visto. Lo sognava ancora dopo molti anni e sapeva di averlo sognato, poiché si svegliava in piena notte inzuppato di sudore. Ma a quel punto l’immagine scompariva sempre dalla sua coscienza, per non venire più riafferrata dalla sua mente sveglia. E poi, rimaneva là disteso, a fissare l’oscurità, tremante per molte ore ancora.
Ma questo sarebbe accaduto più tardi. Adesso sapeva soltanto che doveva fermare Caramon! Ma non poteva muoversi. Non poteva urlare. Paralizzato, colpito dall’orrore, guardò, mentre Caramon, con un’ultima, tranquilla occhiata, si voltava e saliva sulla piattaforma dorata.
I draghi lanciarono un urlo acuto e stridente, carico di trionfo, di odio... Tanis non capì se fosse l’una o l’altra cosa. Il suo proprio urlo, che gli fu letteralmente strappato dal corpo, si smarrì in quel suono assordante.
Vi fu lo schianto di un’onda turbinante, accecante, multicolore. E poi il buio. Caramon se n’era andato.
«Possa Paladine essere con te,» bisbigliò Tanis, soltanto per udire, con un profondo sconforto, la voce di Dalamar fargli eco: «Che Takhisis, la mia Regina, ti accompagni.»
«L’ho visto,» disse Dalamar, un attimo dopo. Guardando intensamente all’interno del Portale, si alzò a metà, per distinguere più chiaramente. Gli sfuggì un rantolo di dolore, avendo scordato la sua infermità nell’eccitazione. Imprecando, si lasciò riaffondare tra i cuscini. Il suo volto era pallido e coperto di sudore.
Tanis smise il suo incessante andirivieni e si fermò accanto a Dalamar.
«Là,» indicò al mezzelfo, il fiato gli usciva sibilante tra i denti stretti. Con riluttanza, sentendo ancora gli effetti dello shock che si prolungavano in lui da quando aveva guardato per la prima volta dentro il portale. Tanis vi diresse lo sguardo una seconda volta. Dapprima non riuscì a vedere nulla, salvo un paesaggio spoglio e desolato che si stendeva sotto un cielo ardente. E poi vide una luce rossa riflettersi sopra n’armatura smagliante. Vide una piccola figura immobile davanti al portale, con la spada in pugno, rivolta verso la parte opposta, in attesa di... «Come farà a chiuderlo?» chiese Tanis, cercando di parlare con calma, anche se il dolore gli soffocava la voce. «Non può farlo,» rispose Dalamar.
Tanis lo fissò allarmato. «Allora, cosa impedirà alla Regina di varcarlo un’altra volta?»
«Non può varcarlo, a meno che qualcuno non lo varchi prima di lei, mezzelfo,» rispose Dalamar con una punta d’irritazione, «altrimenti sarebbe entrata già molto prima di adesso. Raistlin lo tiene aperto. Se lui lo varcherà, lei lo seguirà. Con la morte di Raistlin il Portale si chiuderà.»
«Allora Caramon dovrà ucciderlo... uccidere suo fratello?»
«Sì.»
«E dovrà morire anche lui,» mormorò Tanis.
«Prega che muoia!» Dalamar si inumidì le labbra. Il dolore lo stordiva, lo nauseava. «Poiché neppure lui potrà tornare attraverso il Portale. E malgrado che la morte per mano della Regina delle Tenebre possa essere ,molto lenta, molto spiacevole, credimi, Mezzelfo, è sempre preferibile alla vita!»
«Lui lo sapeva...»
«Sì, lo sapeva. Ma il mondo sarà salvo, Mezzelfo,» osservò Dalamar, cinicamente. Riaffondando nella sua sedia, continuò a fissare il Portale, spiegazzando e lisciando alternativamente con la mano le pieghe delle sue vesti nere coperte di rune.
«No, non il mondo, un’anima,» fece per rispondere Tanis con amarezza, quando sentì alle sue spalle la porta del laboratorio aprirsi con un cigolio.
Lo sguardo di Dalamar si spostò immediatamente. Con gli occhi luccicanti, la sua mano andò a una pergamena d’incantesimi che si era infilata alla cintura.
«Nessuno può entrare,» disse con voce sommessa a Tanis che si era voltato a quel rumore. «I guardiani...»
«Non possono fermarlo,» disse Tanis, lo sguardo fisso sulla porta con un’espressione di paura che rispecchiò, per un istante, quella di terrore pietrificato sulla faccia morta di Kitiara.
Dalamar esibì un tetro sorriso, e si abbandonò di nuovo sulla sedia. Non c’era bisogno di guardarsi intorno. Il gelo della morte scorreva attraverso la stanza come una fetida nebbia.
«Entra, Lord Soth,» disse Dalamar. «Ti aspettavo.»
Capitolo ottavo.
Caramon fu accecato dalla luce sfolgorante che riusciva a penetrare, ardente, perfino attraverso le sue palpebre chiuse. Poi l’oscurità lo avvolse e, quando riaprì gli occhi, per qualche istante riuscì a vedere, e si sentì cogliere dal panico, ricordando quella, volta che si era trovato accecato e smarrito nella Torre della Grande stregoneria. Ma, gradualmente, anche il velo dell’oscurità si levò e i suoi occhi si abituarono alla luminosità arcana dell’ambiente in cui si trovava. Ardeva di uno strano bagliore rosato, come se il sole fosse appena tramontato, gli aveva detto Tasslehoff. E il paesaggio era proprio quello che il kender gli aveva descritto: un territorio vasto e vuoto, sotto un cielo vasto e vuoto. Il cielo e la terra erano dello stesso colore dovunque guardasse, in ogni direzione.
Salvo in una. Voltando la testa, Caramon vide il Portale, adesso alle sue spalle. Era l’unica fascia di colore in quella terra spoglia. Incorniciato in un’ovale formato dalle cinque teste di drago, gli pareva piccolo e lontano anche se sapeva che doveva essere molto vicino. Caramon si disse che sembrava un’immagine appesa a una parete. Nonostante potesse vedere Tanis e Dalamar molto chiaramente, questi non si muovevano. Avrebbero potuto benissimo essere dei soggetti dipinti, colti in un movimento sospeso e costretti a trascorrere immobili l’eternità fissando il nulla. Voltando loro decisamente la schiena, chiedendosi, con una fitta di dolore, se potessero vedere lui allo stesso modo in cui lui poteva vedere loro, Caramon sfoderò la spada e, con i piedi piantati saldamente nel terreno immutevole, aspettò suo fratello.
Caramon non aveva nessun dubbio, proprio nessuno, che una battaglia fra lui e Raistlin sarebbe finita con la sua stessa morte. Anche se Raistlin era indebolito, la sua magia sarebbe sempre stata forte. E Caramon conosceva abbastanza bene suo fratello da sapere che Raistlin, se poteva farlo, non si sarebbe mai presentato totalmente vulnerabile. Gli sarebbe sempre rimasto un incantesimo, o, per lo meno, il pugnale d’argento che teneva al polso.
Ma anche se morirò, il mio obbiettivo sarà stato raggiunto, pensò Caramon con calma. Sono forte, in salute, basterà trafiggere con un solo colpo di spada quel corpo fragile e sottile. Sapeva che questo sarebbe riuscito a farlo, prima che la magia di suo fratello lo incenerisse, come virtualmente lo aveva incenerito una volta, molto tempo addietro, nella Torre della Grande Stregoneria...
Le lacrime gli pungevano gli occhi, gli scorrevano giù per la gola. Le inghiottì, costringendo i suoi pensieri a volgersi altrove per distogliere la mente dalle sue paure... dal suo dolore.
Dama Crysania.
Povera donna, sospirò Caramon. Sperò, per il suo bene, che fosse morta in fretta... senza mai essere cosciente...
Caramon sbatté le palpebre, sorpreso, puntando lo sguardo davanti a sé. Cosa stava succedendo?
Là, dove prima non c’era stato niente sull’ardente orizzonte rosato, adesso spiccava un oggetto. Si ergeva nerissimo contro il cielo rosa, e sembrava piatto, come se fosse stato ritagliato da un pezzo di carta. Le parole di Tas gli risuonarono di nuovo nella mente. Ma lo riconobbe: era un palo di legno... di quelli che ai vecchi tempi avevano usato per bruciare le streghe!
I ricordi tornarono ad affluirgli alla memoria. Poteva vedere Raistlin legato al palo, le fascine di legna ammucchiate intorno a lui che stava lottando per liberarsi, lanciando stridule urla di sfida a coloro che aveva cercato di salvare dalla loro stessa follia smascherando un ciarlatano eretico. Ma avevano creduto che lui fosse una strega.
«Siamo arrivati appena in tempo, Sturm ed io.» borbottò Caramon, ricordando la spada del cavaliere che balenava al sole. Era bastata la sua luce a mettere in fuga i villici superstiziosi.
Guardando più da vicino il palo, che parve di propria volontà accostarsi ancora di più a lui, Caramon vide una figura giacere ai suoi piedi. Era Raistlin? Il palo scivolò sempre più vicino, oppure era lui che stava camminando verso di esso? Caramon girò di nuovo la testa. Il Portale sembrava molto più indietro, ma poteva vederlo. Allarmato, temendo di venire spazzato via, lottò per fermarsi e ci riuscì, immediatamente. Poi udì di nuovo la voce del kender.
Tutto quello che devi fare, per andare da qualsiasi parte, è pensare di trovarti là. Soltanto, fai attenzione perché l’Abisso può alterare e distorcere quello che vedi.
Guardando il palo di legno, Caramon pensò di trovarsi là, e all’istante fu accanto ad esso. Tornando a voltarsi, lanciò un’occhiata in direzione del Portale, e lo vide appeso come un dipinto in miniatura fra il cielo il suolo. Soddisfatto di poter tornare indietro in ogni momento, Caramon si affrettò a raggiungere la figura che si trovava sotto il palo. Dapprima aveva pensato che fosse abbigliata di nero, ed il suo cuore aveva dato un sobbalzo. Ma adesso si avvide che gli era apparsa come una forma nera contro lo sfondo luminoso; in realtà le vesti che indossava erano bianche... E poi seppe.
Naturalmente, era a lei che aveva pensato. «Crysania,» disse. Lei aprì gli occhi e girò la testa verso l’origine della sua voce, ma gli occhi non si fissarono su di lui. Guardarono al di là di lui e Caramon si rese conto che era cieca.
«Raistlin?» bisbigliò, con una voce talmente piena di speranza e di desiderio che Caramon avrebbe dato qualsiasi cosa, la vita stessa, per confermare quella speranza.
Ma, scuotendo la testa, s’inginocchiò e le prese la mano nella sua.
«Sono Caramon, Dama Crysania.»
Lei girò gli occhi ciechi verso il suono della sua voce, stringendo debolmente la sua mano nella propria. Lei guardò nella sua direzione, confusa. «Caramon? Dove siamo?»
«Ho varcato il Portale, Crysania,» lui rispose. Lei sospirò, chiudendo gli occhi. «Così, sei qui nell’Abisso con noi...»
«Sì.»
«Sono stata folle, Caramon,» lei mormorò. «Ma sto pagando la mia follia. Vorrei... vorrei averlo saputo... È stato fatto del male... a qualcun altro... oltre a me? E a lui?». L’ultima parola fu quasi inudibile. «Dama...» Caramon non sapeva come rispondere. Ma Crysania lo fermò. Poteva percepire la tristezza nella sua voce. chiudendo gli occhi, con le lacrime che le colavano lungo le guance, gli premette la mano contro le labbra. «Naturalmente. Capisco!» bisbigliò.
È per questo che sei venuto. Mi spiace, Caramon! Mi spiace tanto!»
Cominciò a piangere. Stringendola a sé, Caramon la cullò per calmarla, come se fosse una bambina. Capì, allora, che Crysania stava morendo.
Poteva sentire la vita che lasciava il suo corpo già mentre lo teneva fra le braccia. Ma cosa l’avesse colpita, di quali ferite avesse sofferto, questo non poteva immaginarlo, poiché non c’era nessun segno sulla sua pelle.
«Non c’è niente di cui dispiacersi, mia signora,» le disse, lisciandole i folti capelli neri e lucidi che le ricadevano sul volto mortalmente pallido. «Tu l’amavi. Se questa è la tua follia, allora è anche la mia, e sono pronto a pagare, con gioia.»
«Se soltanto fosse vero!» lei gemette. «Ma è stato il mio orgoglio, la mia ambizione, a condurmi qui!»
«Davvero, Crysania?» chiese Caramon. «Se così fosse, come mai Paladine ha esaudito le tue preghiere e ti ha aperto il Portale quando si era rifiutato di esaudire le preghiere del Gran Sacerdote?
Perché ti ha benedetto con quel dono, se non perché ha visto quello che c’era davvero nel tuo cuore?»
«Paladine mi ha voltato le spalle!» lei gridò. Afferrando il medaglione con la mano, cercò di strapparselo dal collo. Ma era troppo debole. La sua mano si chiuse sopra il medaglione e rimase là.
E, mentre lo faceva, un’espressione di pace riempì il suo viso.
«No,» disse parlando sommessamente fra sé, «lui è qui. Mi stringe. Lo vedo con tanta chiarezza...»
Caramon si alzò in piedi e la sollevò tra le braccia. La testa di Crysania gli ricadde contro la spalla e il suo corpo si rilassò nella sua stretta. «Torniamo al Portale,» lui le disse.
Lei non rispose, ma sorrise. L’aveva sentito, oppure stava ascoltando un’altra voce?
Rivolto verso il Portale che scintillava in distanza come un gioiello multicolore, Caramon pensò di trovarsi vicino ad esso, e avanzò rapidamente.
D’un tratto l’aria intorno a lui si spaccò crepitando. I lampi si abbatterono dal cielo come tante stilettate, lampi quali Caramon non aveva mai visto prima. Migliaia di sfrigolanti biforcazioni purpuree colpirono il suolo, intrappolandolo per un istante in una spettacolare prigione le cui sbarre erano la morte. Paralizzato dallo shock, Caramon non riuscì più a muoversi. Perfino dopo che i lampi furono scomparsi attese, intimorito, l’esplosivo rimbombare del tuono che avrebbe dovuto assordarlo per sempre. Ma vi fu soltanto il silenzio, il silenzio e, in lontananza, un acuto urlo d’agonia.
Crysania aprì gli occhi. «Raistlin,» disse, stringendo ancora di più la mano intorno al medaglione.
«Sì,» rispose Caramon.
Le lacrime colarono lungo le guance di Crysania. Chiuse gli occhi e si tenne aggrappata a Caramon. Lui continuò a procedere in direzione del portale. Adesso camminava lentamente, un’idea inquietante, allarmante, gli si era affacciata alla mente. Dama Crysania stava morendo, certo. Il pulsare della vita nel suo collo era debole, palpitava sotto le sue dita come il cuore di un uccellino.
Ma non era morta, non ancora. Forse, se fosse riuscito a farle riattraversare il Portale, sarebbe riuscita a sopravvivere. Ma sarebbe riuscito a farglielo varcare, senza varcarlo lui stesso? Sempre stringendola fra le braccia, Caramon si avvicinò ancora di più al portale. O meglio, il Portale si avvicinò a lui, balzò verso di lui mentre si avvicinava, aumentando di dimensioni, gli occhi dei draghi lo fissavano scintillanti, le bocche aperte per ghermirlo e divorarlo. Poteva ancora vedere attraverso il Portale, poteva vedere Tanis e Dalamar, uno in piedi, l’altro seduto; nessuno dei due si muoveva, entrambi erano pietrificati nel tempo. Avrebbero potuto aiutarlo? sostenere Crysania?
«Tanis!» gridò. «Dalamar!»
Ma, anche se lo sentirono gridare, non reagirono alla sua voce. Delicatamente, appoggiò Dama Crysania sul terreno immutevole davanti al Portale. Allora Caramon seppe che non c’era nessuna speranza, l’aveva saputo da sempre. Avrebbe potuto riportarla indietro e lei sarebbe sopravvissuta.
Ma ciò avrebbe significato che Raistlin sarebbe vissuto e fuggito, attirando la Regina dietro di sé, condannando alla distruzione il mondo e le sue genti. Si lasciò cadere su quello strano terreno. Si sedette accanto a Crysania e le prese la mano. In un certo senso era lieto che lei fosse lì con lui. Non si sentiva più così solo. Il tocco della sua mano era confortante. Se soltanto avesse potuto salvarla...
«Cos’hai intenzione di fare a Raistlin, Caramon?» chiese Crysania, dopo qualche istante, con voce sommessa.
«Impedirgli di lasciare l’Abisso,» rispose Caramon. La sua voce risuonò monotona, senza inflessione.
Lei annuì, stringendogli saldamente la mano, fissandolo con gli occhi ciechi.
«Ti ucciderà, vero?»
«Sì,» rispose Caramon con fermezza. «Ma non prima di essere caduto anche lui.»
Uno spasimo di dolore contorse il volto di Crysania. La donna afferrò la mano di Caramon...
«Ti aspetterò!» disse, soffocando. La sua voce s’indebolì. «Ti aspetterò... Quando sarà finita, mi farai da guida poiché non posso più vedere. Mi porterai da Paladine. Mi condurrai fuori dalla tenebra.»
I suoi occhi si chiusero, la sua testa ricadde lentamente, come se fosse appoggiata su un cuscino.
Ma la sua mano stringeva ancora quella di Caramon. Il petto le si alzava e le si abbassava con il respiro. Caramon le appoggiò le dita sul collo, sentì la vita pulsare sotto di esse.
Era stato pronto a condannare se stesso a morte, era pronto a condannare suo fratello. Era stato tutto così semplice!
Ma... poteva condannare lei?
Forse aveva ancora tempo... Forse avrebbe potuto condurla attraverso il Portale e tornare...
Pieno di speranza, Caramon si alzò in piedi e prese tra le braccia il corpo di Crysania, per risollevarlo da terra. Poi, con la coda dell’occhio, intravide un movimento.
Si girò di scatto, e vide Raistlin.
Capitolo nono.
«Cavaliere della Rosa Nera,» ripetè Dalamar.
Occhi di fiamma fissarono Tanis, che aveva portato di scatto la mano all’elsa della spada. Nel medesimo istante delle dita sottili gli toccarono il braccio, facendolo sobbalzare.
«Non interferire, Tanis,» disse Dalamar con voce sommessa. «Non gl’importa niente di te. Viene per una cosa soltanto.»
Quel serpentino sguardo fiammeggiante guizzò oltre Tanis. La luce delle candele traeva riflessi dall’antica armatura, consunta e decorata sulla quale era ancora visibile, sotto i segni anneriti delle bruciature e del suo stesso sangue (da moltissimo tempo divenuto polvere) il tenue profilo della Rosa, il simbolo dei Cavalieri di Solamnia. Piedi che calzavano stivali ma che non producevano nessun suono attraversarono la stanza. Gli occhi arancione avevano trovato il loro oggetto in un angolo in ombra: la forma rannicchiata che giaceva sotto il mantello di Tanis.
Tienilo lontano! Tanis sentì la voce spasmodica di Kitiara. Ti ho sempre amato, mezzelfo!
Lord Soth si fermò e s’inginocchiò accanto al corpo. Ma parve incapace di toccarlo, come se fosse stato trattenuto da qualche forza invisibile. Alzandosi in piedi, si voltò, i suoi occhi arancione fiammeggiarono nella vuota oscurità sotto l’elmo che indossava.
«Lasciala libera per me, Tanis Mezzelfo,» disse quella voce cavernosa. «Il tuo amore la vincola a questo piano. Rinuncia a lei.»
Tanis, stringendo la spada, fece un passo avanti.
«Ti ucciderà, Tanis,» lo ammonì Dalamar. «Ti ucciderà senza nessuna esitazione. Lasciala libera per lui. Dopotutto, penso che forse è lui l’unico fra noi ad averla veramente capita.»
Gli occhi arancione lampeggiarono. «Capita? Ammirata! Come per me, il suo destino era quello di regnare, di conquistare! Ma lei era più forte di me. Poteva gettare via l’amore che minacciava d’incatenarla. Se non fosse stato per uno scherzo del fato, avrebbe dominato tutto Ansalon!»
La voce cavernosa risuonò per la stanza, sorprendendo Tanis per la sua passione, il suo odio.
«Ed era là!». Strinse il pugno racchiuso nel guanto di cotta. «Intrappolata a Sanction come una bestia in gabbia, intenta a far piani per una guerra che non poteva sperare di vincere. Il suo coraggio e la sua risolutezza cominciavano a indebolirsi. Si era perfino lasciata incatenare come una schiava a un elfo scuro suo amante! Sarebbe stato meglio che fosse morta combattendo, piuttosto che la sua vita si spegnesse come una candela sgocciolante.»
«No!» borbottò Tanis, stringendo la mano sulla spada. «No...»
Le dita di Dalamar si chiusero sul suo polso. «Non ti ha mai amato, Tanis,» gli disse, gelido. «Ti ha usato, come ha usato noi tutti, perfino lui.» L’elfo scuro lanciò un’occhiata a Lord Soth. Tanis parve sul punto di parlare, ma Dalamar l’interruppe. «Ti ha usato fino in fondo, Mezzelfo. Perfino adesso, si protende dall’aldilà, sperando che tu la salvi.»
Tanis esitò ancora. Nella sua mente ardeva l’immagine del suo volto pieno di orrore. L’immagine ardeva, le fiamme si levavano...
Le fiamme riempirono la vista di Tanis. Fissandole, vide un castello, un tempo orgoglioso e nobile, adesso nero e sgretolato, che crollava in mezzo alle fiamme. Vide una fanciulla elfa adorabile e delicata, con un bambino tra le braccia, che cadeva in mezzo alle fiamme. Vide guerrieri che correvano, morendo, precipitando in mezzo alle fiamme. E dalle fiamme sentì giungere la voce di Lord Soth.
«Tu hai la vita, Mezzelfo. E hai molto per cui vivere. E tra i vivi, c’è chi dipende da te. Lo so, poiché tutto ciò che possiedi un tempo era mio. L’ho gettato via, scegliendo di vivere nelle tenebre invece che nella luce. Vuoi seguirmi? Vuoi buttare via tutto ciò che possiedi per qualcuno che, tempo addietro, ha scelto di percorrere i sentieri della notte?»
Ho il mondo. Tanis udì le sue stesse parole. Il volto di Laurana gli sorrideva.
Chiuse gli occhi... Il volto di Laurana, bello, saggio, adorabile. La luce splendeva tra i suoi capelli dorati, traeva scintille dai suoi limpidi occhi elfici. La luce divenne più luminosa, come una stella.
Risplendeva pura e brillante, irradiandosi su di lui con una tale intensità da impedirgli di distinguere, ancora, nella sua memoria, l’altra gelida faccia sotto il mantello.
Lentamente, Tanis ritrasse la mano dalla spada.
Lord Soth si voltò. S’inginocchiò, sollevò il corpo avvolto nel mantello, adesso imbrattato da macchie scure di sangue, fra le sue braccia invisibili. Pronunciò una parola magica. Tanis ebbe l’improvvisa visione di un abisso tenebroso che si spalancava ai piedi del Cavaliere della Morte. Un gelo capace di trafiggere l’anima spazzò la stanza, la raffica lo costrinse a girare la testa, come per proteggersi da un vento sferzante.
Quando infine potè nuovamente guardare, l’angolo in ombra era vuoto.
«Se ne sono andati!» la mano di Dalamar gli lasciò libero il polso. «E anche Caramon.»
«Andati?». Voltandosi, con movimenti incerti, vacillanti, rabbrividendo, il corpo intriso d’un gelido sudore, Tanis guardò ancora una volta il Portale. Il paesaggio ardente era vuoto.
Una voce cavernosa echeggiò: Vuoi buttare via tutto ciò che possiedi per qualcuno che ha scelto, tempo addietro, di percorrere i sentieri della notte?
La canzone di Lord Soth
Capitolo decimo
Metti da parte la luce sepolta
della candela, della torcia, e del legno marcio,
e ascolta il virare della notte
intrappolata nel tuo sangue nascente.
Quanto è tranquilla la mezzanotte, amore, quanto è caldo il vento dove volano i corvi, dove tutta la luce mutevole della luna, amore, impallidisce nel tuo occhio scolorito.
Quanto forte mi chiama il tuo cuore, amore, quanto è vicina l’oscurità al tuo petto, quanto tumultuosi sono i fiumi, amore, risucchiati attraverso il tuo polso morente.
E, amore, quale calore nasconde la tua fragile pelle, puro come il sale, dolce come la morte, e nel buio la luna rossa cavalca la volpe di fuoco del tuo alito.
Davanti a lui, il Portale.
Dietro di lui, la Regina. Dietro di lui, il dolore, la sofferenza.
Davanti a lui: la vittoria.
Appoggiandosi al Bastone di Magius, talmente debole da riuscire a stento a tenersi in piedi, Raistlin tenacemente continuò a far campeggiare l’immagine del Portale nella sua mente. Gli pareva di aver camminato, incespicato, strisciato un interminabile miglio dopo l’altro per raggiungerlo.
Adesso era vicino. Poteva vedere i suoi vividi, meravigliosi colori, i colori della vita, il verde dell’erba, l’azzurro del cielo, il bianco delle nubi, il nero della notte, il rosso del sangue...
Il sangue. Guardò le proprie mani, macchiate di sangue, il suo stesso sangue. Le sue ferite erano troppo numerose per poterle contare. Colpito dalle mazze, trafitto dalle spade, riarso dal fulmine, ustionato dal fuoco, era stato attaccato da chierici scuri, da stregoni scuri, da legioni di spettri e di demoni, tutti al servizio della Regina delle Tenebre. Le vesti nere gli penzolavano intorno ridotte a brandelli chiazzati. Ogni singolo respiro era una straziante agonia. Già da molto tempo aveva smesso di vomitare sangue. E malgrado fosse colto da lunghi accessi di tosse, al punto da non riuscire più a rimanere in piedi, era costretto ad accasciarsi sulle ginocchia in preda a conati di vomito, ma non c’era niente... non c’era più niente dentro di lui.
E aveva resistito a tutto questo.
L’esultanza scorreva come febbre nelle sue vene. Aveva resistito, era sopravvissuto. Viveva... a malapena. Ma pur sempre viveva. Il furore della Regina pulsava dietro di lui. E poteva sentire il suolo e il cielo palpitare insieme ad esso. Aveva sconfitto i migliori dei suoi e adesso non rimaneva nessuno che potesse sfidarlo.
Nessuno, salvo lei stessa.
Il Portale tremolò in un turbinio di colori nella sua visione a clessidra. Si avvicinò, si avvicinò sempre più. Dietro di lui la Regina... la rabbia la rendeva incauta, imprudente. Sarebbe fuggito dall’Abisso, adesso lei non poteva più fermarlo.
Un’ombra passò sopra di lui, raggelandolo. Sollevò lo sguardo, vide le dita di una mano gigantesca oscurare il cielo, con le unghie che luccicavano rosse di sangue.
Raistlin sorrise, e continuò ad avanzare. Era un’ombra, nient’altro. La mano che proiettava quell’ombra cercò di ghermirlo, ma invano. Lui era troppo vicino al Portale e lei, certa che i suoi famigli l’avrebbero fermato, era troppo lontana. La sua mano avrebbe afferrato gli orli delle sue lacere vesti nere, quando avesse varcato la soglia del Portale e, con le sue ultime forze, lui l’avrebbe trascinata attraverso il varco.
E poi, una volta arrivati sul suo piano, chi si sarebbe rivelato il più forte?
Raistlin tossì, ma già mentre tossiva, già mentre il dolore lo straziava, sorrise... no, sogghignò, un sogghigno intriso di sangue.
Stringendosi il petto con una mano e serrando nell’altra il Bastone di Magius, Raistlin avanzò, centellinando con estrema attenzione la propria vita a seconda dei propri bisogni, assaporando, l’uno dopo l’altro, ognuno dei suoi respiri brucianti, come un usuraio che gioisce davanti a una moneta di rame. L’imminente battaglia sarebbe stata gloriosa. Adesso sarebbe stato il suo turno di chiamare a sé le legioni perché combattessero per lui. Gli stessi dei avrebbero risposto alla chiamata, poiché la Regina, comparendo nel mondo con tutta la sua potenza e la sua maestosità, avrebbe fatto precipitare su di esso l’ira dei cieli. Le lune sarebbero cadute, i pianeti sarebbero usciti dalle loro orbite, cambiando i loro percorsi. Gli elementi avrebbero obbedito alla sua volontà: il vento, l’aria, l’acqua, il fuoco, ogni cosa sarebbe stata sotto il suo comando.
E adesso, davanti a lui, il Portale, con le teste di drago che lanciavano urla stridenti d’impotenza e furore, sapendo di non avere il potere di fermarlo.
Soltanto un altro respiro, un altro sussultante battito del cuore, un altro passo...
Sollevò la testa incappucciata, e si arrestò.
Una figura, prima non visibile, oscurata da una nebbia di dolore e di sangue e dalle ombre della morte, si levò davanti a lui, ritta in piedi sullo sfondo del Portale, con una spada luccicante in pugno. Raistlin la fissò, in un momento di completa e totale incomprensione. Poi la gioia salì come una marea nel suo corpo infranto.
«Caramon!»
Tese una mano tremante. Non sapeva che miracolo fosse mai quello. Ma il suo gemello era là, come lo era sempre stato, che lo aspettava, che aspettava di combattere al suo fianco...
«Caramon!» ansimò Raistlin. «Aiutami, fratello mio.»
La fatica lo stava sopraffacendo, il dolore stava avendo la meglio su di lui. Stava rapidamente perdendo la facoltà di pensare, di concentrarsi. La sua magia non sfavillava più come il mercurio nel suo corpo, ma si muoveva pigramente, coagulandosi come il sangue sulle sue ferite.
«Caramon, vieni da me. Non posso camminare da solo...»
Ma Caramon non si muoveva. Rimaneva là, fermo, con la spada in pugno, fissandolo con un misto di amore e di dolore nello sguardo, un dolore profondo, bruciante. Un dolore che penetrava come la lama di un coltello attraverso quella nebbia di sofferenza, esponendo l’anima spoglia e vuota di Raistlin. Ma poi seppe. Seppe perché il suo gemello si trovava là.
«Mi blocchi la strada, fratello,» disse Raistlin freddamente.
«Lo so.»
«Fatti da parte, allora, se non intendi aiutarmi!». La voce di Raistlin, proveniente dalla sua gola martoriata, crepitava di furore.
«No.»
«Pazzo! Morirai!». Era soltanto un sussurro, sommesso... e letale.
Caramon emise un profondo sospiro. «Sì,» disse con voce ferma. «E questa volta morirai anche tu.»
Il cielo si oscurò sopra le loro teste. Le ombre si addensarono tutt’intorno, come se la luce venisse lentamente risucchiata via. L’aria divenne sempre più gelida a mano a mano che la luce si faceva più fioca. Ma Raistlin poteva percepire uno sconfinato calore fiammeggiante alle sue spalle, la collera della sua Regina.
La paura gli torse le budella, la rabbia gli strappò lo stomaco. Le parole magiche gli salirono alla bocca, sulle sue labbra avevano il sapore del sangue. Fece per scagliarle contro il suo gemello, ma soffocò e tossì e cadde sui ginocchi. Tuttavia, le parole erano ancora là, la magia era al suo comando. Avrebbe visto il suo gemello bruciare tra le fiamme, così come aveva visto, molto tempo addietro, l’immagine illusoria del suo gemello bruciare nella Torre della Grande Stregoneria. Se soltanto... se soltanto avesse potuto riprendere fiato...
Lo spasimo passò, le parole magiche ribollirono nel suo cervello. Sollevò lo sguardo, un ringhio grottesco gli contorceva il volto, sollevò la mano...
Caramon era immobile davanti a lui, la spada in pugno, e lo fissava con occhi colmi di pietà.
Pietà! Quell’espressione si abbatté su Raistlin con la violenza di cento spade. Sì, il suo gemello sarebbe morto, ma non con quell’espressione sul viso!
Appoggiandosi al Bastone, Raistlin si tirò in piedi. Sollevò la mano e si scostò il cappuccio nero dalla testa, in modo che suo fratello potesse vedere se stesso, condannato, riflesso nei suoi occhi dorati.
«Così, provi pietà per me, Caramon,» Raistlin sibilò. «Cialtrone scervellato e beota. Sei incapace di comprendere il potere che sono riuscito a raggiungere, il dolore che ho vinto, le vittorie che sono state mie. Osi provare pietà per me? Prima che ti uccida, e io ti ucciderò, fratello mio, voglio che ti sia ben conscio nel cuore che io uscirò fuori nel mondo per diventare un dio!»
«Lo so, Raistlin,» rispose Caramon con voce ferma. La pietà non svanì dai suoi occhi, anzi si fece ancora più intensa. «Ed è per questo che provo pietà per te, perché ho visto il futuro. Conosco il risultato.»
Raistlin fissò suo fratello, sospettando un espediente ingannevole. Sopra di lui il cielo tinto di rosso divenne ancora più scuro, ma la mano protesa in alto si era adesso fermata. Poteva sentire la Regina che esitava. Aveva scoperto la presenza di Caramon. Raistlin percepiva la sua confusione, la sua paura. Il dubbio perdurante che Caramon potesse essere una qualche apparizione evocata per fermarlo, svanì. Raistlin si avvicinò di un altro passo a suo fratello.
«Hai visto il futuro? Come?»
«Quando hai attraversato il Portale, il campo magico ha influenzato il congegno, scagliando me e Tas nel futuro.»
Raistlin divorò suo fratello con gli occhi, avidamente. «E... cosa accadrà?»
«Vincerai,» rispose Caramon, in tutta semplicità. «Sarai vittorioso, non soltanto contro la Regina delle Tenebre, ma contro tutti gli altri dei. Soltanto la tua costellazione risplenderà nei cieli... per un po’...»
«Per un po’?» Gli occhi di Raistlin si restrinsero. «Dimmelo! Cosa accadrà? Chi mi minaccerà? Chi mi deporrà?»
«Tu stesso,» rispose Caramon, la voce piena di tristezza. «Tu regnerai su un mondo morto, Raistlin, un mondo di ceneri grigie, di rovine fumanti e di cadaveri gonfi. Sarai solo in quei cieli, Raistlin. Cercherai di creare, ma non è rimasto niente dentro di te a cui tu possa attingere, e così succhierai la vita direttamente dalle stelle, fino a farle esplodere e morire. E poi non ci sarà più niente intorno a te, più niente dentro di te.»
«No!» ringhiò Raistlin. «Tu menti, dannazione a te! Menti!». Raistlin scagliò il Bastone di Magius lontano da sé e si lanciò in avanti, afferrando suo fratello con le mani artigliate. Colto di sorpresa, Caramon sollevò la spada, ma cadde sul terreno mutevole a una parola di Raistlin. La stretta dell’omone si chiuse convulsa sulle braccia del suo gemello. Potrebbe spezzarmi in due, pensò Raistlin, con un sorriso di scherno. Ma non lo farà. È debole. È smarrito. E saprò la verità!
Raistlin sollevò la mano bruciante, chiazzata di sangue, e la premette sulla fronte di suo fratello, trascinando fuori le visioni dalla mente di Caramon e trasferendole nella propria.
E Raistlin vide.
Vide le ossa del mondo, i moncherini degli alberi, il fango e le ceneri grigie, le rocce flagellate dai fulmini, il fumo che si levava, i corpi in putrefazione dei morti...
Vide se stesso, sospeso nel gelido vuoto, con nulla intorno, con nulla dentro. Il vuoto premeva su di lui, lo schiacciava. Lo rodeva, lo divorava. Lui si contorceva su se stesso, cercando nutrimento: una goccia di sangue, un frammento di dolore. Ma là non c’era niente. Là non ci sarebbe mai stato niente. E lui avrebbe continuato a contorcersi, a strisciare dentro se stesso, per non trovare niente... niente... niente.
Raistlin lasciò ricadere la testa sul petto, la sua mano scivolò giù dalla testa di suo fratello, stringendosi per il dolore. Sapeva che sarebbe avvenuto, lo sapeva con ogni fibra del proprio corpo infranto. Lo sapeva perché il vuoto era già là. Era dentro di lui da tanto tempo... da così tante tempo.
Oh, non l’aveva consumato completamente, non ancora. Ma poteva quasi vedere la propria anima, spaventata, sola, rannicchiata in un angolo buio e vuoto.
Con un grido di dolore Raistlin spinse suo fratello lontano da sé. Si guardò intorno. Le ombre s’incupivano ancora. La sua Regina non esitava più. Stava raccogliendo le proprie forze.
Raistlin abbassò lo sguardo, cercando di pensare, cercando di trovare la rabbia dentro di sé, cercando di attizzare la fiamma ardente della sua magia... Ma anche questa stava morendo. Preso nella morsa della paura cercò di correre, ma era troppo debole. Fece un passo, incespicò e cadde carponi. La paura lo scuoteva. Cercò aiuto, tendendo la mano...
Udì un suono, un gemito, un pianto. La sua mano si chiuse sopra un tessuto bianco. Sentì una pelle calda!
«Bupu,» bisbigliò Raistlin. Avanzò strisciando con un singhiozzo soffocato.
Il corpo della nana dei fossi giaceva davanti a lui, il volto tirato e affamato, gli occhi spalancati per il terrore. Sventurata, terrorizzata, la nana si ritrasse piena di terrore.
«Bupu!» gridò Raistlin afferrandola, in preda alla disperazione, «Bupu, non ti ricordi di me? Mi hai dato un libro, una volta. Un libro e uno smeraldo.» Rovistando in una delle sue borse, tirò fuori la vivida, scintillante gemma verde. «Ecco, Bupu. Guarda, “il bel sasso”. Prendilo. Tienilo! Ti proteggerà!»
La nana allungò la mano verso lo smeraldo ma, mentre lo faceva, le sue dita s’irrigidirono nella morte.
«No!» gridò Raistlin, e sentì la mano di Caramon sul suo braccio.
«Lasciala stare!» gridò Caramon, aspro, afferrando il suo gemello e scagliandolo indietro. «Non le hai già fatto male abbastanza?»
Caramon impugnava ancora una volta la spada. La sua luce sfolgorante feriva gli occhi di Raistlin.
E alla sua luce Raistlin vide non Bupu, ma Crysania, con la pelle annerita e coperta di vesciche, con gli occhi che lo fissavano senza vederlo.
Vuoto... vuoto. Non c’era nulla dentro di lui? Sì... c’era qualcosa. Non molto, ma pur sempre qualcosa. La sua anima gli tese la mano. E la sua stessa mano rispose, protendendosi a toccare la pelle coperta di vesciche di Crysania. «Non è morta, non ancora,» disse.
«No, non ancora,» rispose Caramon, sollevando la spada. «Lasciala stare! Lascia almeno che muoia in pace!»
«Vivrà, se la porterai al di là del Portale.»
«Sì, vivrà,» disse Caramon, amaro, «e anche tu, vero, Raistlin? La porterò al di là del Portale, e tu subito ci seguirai...»
«Portala con te.»
«No!» Caramon scosse la testa. Anche se i suoi occhi luccicavano di lacrime e il suo volto era pallido per il dolore e l’angoscia, avanzò verso suo fratello tenendo pronta la spada.
Raistlin alzò la mano. Caramon si trovò incapace di muoversi, la sua spada era sospesa in quell’aria calda e in movimento.
«Portala con te, e prendi anche questo.»
Allungando il braccio, la fragile mano di Raistlin si chiuse intorno al Bastone di Magius che giaceva al suo fianco. La luce del suo cristallo ardeva limpida e intensa nell’oscurità che si andava infittendo, diffondendo su tutti e tre il suo magico bagliore. Raistlin sollevò il Bastone e lo porse al suo gemello.
Caramon esitò, inarcò le sopracciglia.
«Prendilo!» gli intimò Raistlin, brusco, sentendo che le forze gli venivano meno. Tossì.
«Prendilo!» ripetè, ansimando per respirare. «Prendilo e varca il Portale insieme a Crysania. Usa il Bastone per chiuderlo alle tue spalle.»
Caramon lo fissò senza comprendere, poi i suoi occhi diventarono due fessure sottili.
«No, non sto mentendo,» ringhiò Raistlin. «Ti ho mentito altre volte, ma non adesso. Prova. Vedi tu stesso. Guarda, ti libero dall’incantesimo. Non posso lanciare un altro incantesimo. Se scoprirai che sto mentendo potrai uccidermi. Non sarò in grado di fermarti.»
Il braccio con cui Caramon impugnava la spada venne liberato. Potè muoverlo. Sempre impugnando la spada, gli occhi fissi sul suo gemello, tese l’altra mano, esitante. Le sue dita toccarono il Bastone: fissò intimorito la luce nel cristallo, aspettandosi che si spegnesse, lasciandoli tutti nell’oscurità gelida che si stava addensando intorno a loro.
Ma la luce non ebbe alcun fremito. La mano di Caramon si chiuse intorno al Bastone, sopra la mano di suo fratello. La luce sfolgorava, diffondendo la sua radiosità sulle vesti nere lacere e insanguinate, sull’armatura resa opaca da uno strato di fango.
Raistlin liberò lentamente il Bastone, quasi cadde ma si risollevò barcollando, mettendosi dritto senza nessun aiuto, da solo. Il Bastone in mano a Caramon continuò a sfolgorare.
«Spicciati,» lo sollecitò Raistlin con freddezza. «Impedirò alla Regina di seguirvi. Ma le mie forze non dureranno a lungo.»
Caramon lo fissò per un momento, poi guardò il Bastone, la sua luce che continuava a brillare. Alla fine, con un sospiro affannoso, rinfoderò la spada.
«Cosa sarà... di te?» chiese con voce aspra, inginocchiandosi per prendere Crysania tra le braccia.
Verrai torturato nella mente e nel corpo. Alla fine di ogni giorno morirai per il dolore. All’inizio di ogni notte ti riporterò alla vita. Non sarai in grado di dormire ma giacerai sveglio in tremante attesa del giorno a venire. Al mattino la mia faccia sarà la prima cosa che vedrai.
Queste parole si avvolsero intorno al cervello di Raistlin come un serpente. Dietro di sé, poteva sentire una soffocante risata di scherno.
«Vattene, Caramon,» disse, «lei sta arrivando.»
La testa di Crysania era appoggiata contro l’ampio petto di Caramon. I capelli scuri le ricadevano sul volto pallido. La sua mano stringeva ancora il medaglione di Paladine. Mentre la guardava, Raistlin vide svanire le devastazioni del fuoco, lasciando il suo volto privo di cicatrici, raddolcito in un’espressione di tranquillo riposo.
Raistlin sollevò lo sguardo sul volto di suo fratello, e vide quell’eterna espressione stupida, quell’espressione di sconcerto, di perplessità ferita.
«Sciocco rincretinito! Cosa t’importa di ciò che mi accadrà? Vattene fuori da qui!»
L’espressione di Caramon cambiò, o forse non cambiò. Forse era stata sempre così. Le forze gli stavano venendo meno molto rapidamente, e la sua vista era offuscata. Ma gli parve di cogliere la comprensione negli occhi di Caramon...
«Addio... fratello mio,» disse Caramon. Stringendo Crysania fra le braccia, con il Bastone di Magius in una mano, Caramon si voltò e si allontanò. La luce del Bastone creava un cerchio intorno a lui, un cerchio d’argento che risplendeva nell’oscurità come i raggi di Solinari, quando la luna creava scintillanti riflessi sulle calme acque del lago Crystalmir. I raggi argentei colpirono le teste di drago, immobilizzandole, tramutandole anch’esse in argento, azzittendo le loro urla.
Caramon varcò il Portale. Raistlin, osservandolo con la sua anima, intravide una confusione di colori e di vita e sentì un breve alito di calore toccargli la guancia infossata.
Dietro di sé udì la risata di scherno gorgogliare, trasformandosi in un respiro aspro e sibilante. Potè udire il viscido rumore d’una gigantesca coda scagliosa, il crepitare dei tendini delle ali. Là dietro, cinque teste bisbigliavano parole di tormento e di terrore.
Raistlin rimase là, risoluto, con lo sguardo fisso sul Portale. Vide Tanis che accorreva ad aiutare Caramon, lo vide prendere Crysania fra le braccia. Le lacrime offuscarono la vista di Raistlin.
Voleva seguirli! Voleva che Tanis gli toccasse la mano! Voleva stringere Crysania tra le sue braccia... Fece un passo avanti.
Vide Caramon che si voltava verso di lui, con il Bastone in mano.
Caramon guardò l’interno del Portale, guardò il suo gemello, guardò al di là del suo gemello.
Raistlin vide gli occhi di suo fratello spalancarsi per la paura.
Raistlin non ebbe bisogno di voltarsi per sapere quello che suo fratello aveva visto. Takhisis rannicchiata dietro di lui. Poteva sentire il gelo del suo ripugnante corpo da rettile scorrergli intorno, facendogli svolazzare le vesti. La sentì alle proprie spalle, eppure la Regina delle Tenebre non pensava a lui, vedeva spalancata la via che conduceva al mondo.
«Chiudila!» urlò Raistlin.
Una vampa bruciò la pelle di Raistlin. Un artiglio gli trafisse la schiena. Incespicò, cadde in ginocchio. Ma non tolse mai gli occhi dal Portale e vide Caramon, il volto del suo gemello in preda all’angoscia, fare un passo verso di lui.
«Chiudila, pazzo!» stridette Raistlin, stringendo i pugni. «Lasciami solo! Non ho più bisogno di te!
Non ho bisogno di te!»
E poi la luce scomparve. Il Portale si chiuse di colpo e l’oscurità gli piombò addosso con furore inarrestabile, travolgente. Gli artigli gli lacerarono la pelle, i denti gli penetrarono nei muscoli e gli schiacciarono le ossa. Il sangue gli colò dal petto, ma senza portarsi via la sua vita.
Urlò, e avrebbe urlato, e avrebbe continuato a urlare, all’infinito.
Qualcosa lo toccò... una mano... L’afferrò, stringendola, mentre la mano lo scuoteva delicatamente.
Una voce chiamò: «Raist! Svegliati! E stato soltanto un sogno. Non aver timore. Non permetterò che ti facciano del male! Ecco, guarda... ti faccio ridere!»
Le spire del drago si strinsero, mozzandogli il respiro. Luccicanti zanne nere gli divorarono gli organi vitali, gli mangiarono il cuore. Lacerandogli il corpo, cercarono la sua anima.
Un braccio robusto lo cinse, tenendolo stretto a sé. Una mano si levò, rilucente d’argento, formando immagini infantili nella notte, e la voce, appena udibile, bisbigliò: «Guarda, Raist, i coniglietti... »
Lui sorrise. Non aveva più paura. Caramon era là.
Il dolore si alleviò. Il sogno venne ricacciato indietro. Sentì, molto lontano, un gemito di amaro disappunto e di collera. Non aveva importanza. Niente aveva più importanza. Adesso si sentiva soltanto stanco, così stanco... molto stanco...
Appoggiando la testa sul braccio di suo fratello, Raistlin chiuse gli occhi e si lasciò trasportare da un sonno buio, interminabile, senza sogni.
Capitolo undicesimo.
Le gocce dell’orologio ad acqua colavano costanti, incessanti, echeggiando nel laboratorio silenzioso. Guardando dentro il Portale con gli occhi che gli bruciavano per lo sforzo, Tanis quasi si convinse che le gocce stessero cadendo, ad una ad una, sui suoi nervi spasmodicamente tesi.
Sfregandosi gli occhi, voltò le spalle al Portale con un ringhio amareggiato, e si mosse per dare un’occhiata fuori dalla finestra. Dopo tutto quello che aveva vissuto, sarebbe rimasto assai poco sorpreso se avesse scoperto che la primavera era giunta e trascorsa, che l’estate era sbocciata e morta, e l’autunno stava iniziando.
Il fumo denso non passava più turbinando davanti alla finestra. Gli incendi, avendo divorato tutto ciò di cui potevano nutrirsi, si stavano spegnendo. Alzò lo sguardo al cielo. I draghi erano scomparsi alla vista sia i buoni sia i cattivi. Tese l’orecchio. Nessun suono proveniva dalla città sotto di lui. La foschia nebbiosa, la tempesta e il fumo gravavano ancora su di essa, incupiti ancora di più dall’oscurità del Bosco di Shoikan.
La battaglia è finita. Se ne rese conto, sia pure intontito. È finita. E noi abbiamo vinto... La vittoria.
Una vittoria vuota e sciagurata.
E poi, un palpito di luce azzurra attirò il suo sguardo. Spaziando con gli occhi sulla città, Tanis gemette.
La cittadella volante era improvvisamente comparsa alla vista. Piombando giù dalle nubi tempestose, stava allegramente sbandando, essendosi procurata da qualche parte uno stendardo di un azzurro brillante che sbatteva al vento. Tanis guardò con un po’ più di attenzione, pensando di riconoscere non soltanto lo stendardo ma anche il grazioso minareto dal quale sventolava, adesso appollaiato come un ubriaco su una torre della cittadella.
Scuotendo la testa, il mezzelfo non potè fare a meno di sorridere. Lo stendardo e il minareto, fino a poco tempo prima avevano fatto parte entrambi del palazzo di Lord Amothus.
Appoggiandosi contro la finestra, Tanis continuò a osservare la cittadella, la quale aveva acquisito un drago bronzeo come guardia d’onore. Sentì rilassarsi un po’ la sua tetraggine, il dolore, la paura e la tensione che l’avevano assillato. Non aveva importanza ciò che sarebbe accaduto al mondo o sugli altri piani d’esistenza; alcune cose, e fra queste i kender, non cambiavano mai.
Tanis seguì con lo sguardo il castello che si dirigeva ondeggiando ;, sopra la baia, poi, però, rimase considerevolmente sorpreso di vedere la cittadella rovesciarsi tutt’a un tratto, rimanendo sospesa in aria a testa in giù.
«Cosa sta combinando, Tas?»
E poi Tanis lo seppe: la cittadella cominciò a ballonzolare pittorescamente ! su e giù come una saliera. Forme nere con ali coriacee ruzzolarono fuori dalle finestre e dalle porte. Su e giù, su e giù, ballonzolò la cittadella , mentre, sempre più numerose, le forme nere ne cadevano fuori. Tanis sogghignò. Tas faceva sgomberare le guardie! Poi, quando i draconici cessarono di traboccare fuori per cadere in acqua, la cittadella tornò , a raddrizzarsi e continuò per la sua strada... e mentre guizzava via allegramente, con lo stendardo azzurro che sbatteva al vento, come impazzita eseguì un tuffo sconsiderato e infelice nell’oceano!
Tanis trattenne il respiro, ma la cittadella ricomparve quasi subito, schizzando fuori dall’acqua come un delfino che avesse issato la bandiera azzurra, per levarsi ancora una volta nel cielo (adesso l’acqua scorreva fuori da ogni apertura concepibile) e sparire fra le nubi tempestose. Scuotendo la testa, sorridendo, Tanis si voltò e vide Dalamar che indicava il Portale. «Eccolo. Caramon è tornato nella sua posizione.»
Rapidamente il mezzelfo attraversò la stanza e tornò a fermarsi davanti al Portale.
Poteva vedere Caramon, ancora una minuscola figura rivestita da una sfolgorante armatura. Ma adesso stava portando qualcuno tra le braccia. «Raistlin?» chiese Tanis, perplesso. «Dama Crysania,» rispose Dalamar. «Forse è ancora viva!» «Sarebbe meglio per lei se non lo fosse,» replicò Dalamar freddamente.
L’amarezza indurì ancora di più la sua voce e la sua espressione. «Meglio per tutti noi! Adesso Caramon dovrà fare una difficile scelta.»
«Cosa vuoi dire?»
«Si renderà conto, inevitabilmente, che potrebbe salvarla riportandola lui stesso attraverso il Portale. Il che ci lascerebbe tutti alla mercé di suo fratello, o della Regina, o di entrambi!»
Tanis rimase silenzioso, limitandosi a osservare. Caramon si stava avvicinando sempre di più al Portale, con il corpo abbigliato di bianco della donna tra le braccia.
«Cosa sai di lui?» chiese Dalamar d’un tratto. «Che decisione prenderà? L’ultima volta che l’ho visto era un buffone sbronzo, ma le sue esperienze sembrano averlo cambiato.»
«Non lo so,» disse Tanis, turbato, parlando più a se stesso che a Dalamar. «Il Caramon che conoscevo un tempo era soltanto una mezza persona, l’altra metà apparteneva a suo fratello. Adesso è diverso. È cambiato.» Tanis si grattò la barba, corrugando la fronte. «Poveretto, davvero non so...»
«Ah, sembra che la scelta sia stata fatta a suo vantaggio,» disse Dalamar. Nella sua voce il sollievo si mescolava alla paura.
Tanis guardò dentro il Portale e vide Raistlin. Vide l’incontro finale tra i gemelli.
Tanis non parlò mai a nessuno di quell’incontro, nonostante quanto aveva visto e sentito fosse inciso indelebilmente nella sua memoria, scoprì di non poterne parlare. Dare voce a quei fatti, sarebbe parso degradarli, privarli del loro splendido orrore, della loro terribile bellezza.
Ma spesso, se era depresso o infelice, avrebbe ricordato l’ultimo dono di un’anima ottenebrata e ringraziato gli dei per la loro benedizione.
Caramon trasportò Dama Crysania attraverso il Portale. Tanis si precipitò avanti per aiutarlo, e prese Crysania tra le braccia, fissando con meraviglia l’omone che impugnava il Bastone magico, la cui luce risplendeva ancora viva.
«Rimani con lei, Tanis,» disse Caramon. «Devo chiudere il Portale.»
«Affrettati!» Tanis sentì il brusco respiro di Dalamar. Vide l’elfo scuro che fissava il Portale in preda all’orrore. «Chiudilo!» gridò.
Reggendo Crysania fra le braccia, Tanis abbassò lo sguardo su di lei e si rese conto che stava morendo. Il suo respiro s’interrompeva, la sua pelle era color cenere, le labbra azzurrognole. Ma non poteva far niente per lei, salvo portarla in un luogo sicuro.
Un luogo sicuro! Si guardò intorno, il suo sguardo andò a un angolo in ombra dov’era giaciuta un’altra donna. Era il punto più lontano dal Portale. Là, Crysania sarebbe stata al sicuro... al sicuro come avrebbe potuto esserlo in qualunque altro luogo, pensò con dolore. La mise giù, nella posizione più comoda possibile, poi si affrettò a tornare indietro, davanti a quell’apertura sul vuoto.
Qui, Tanis si fermò, ipnotizzato dallo spettacolo che gli si apriva davanti agli occhi.
L’ombra del male riempiva il Portale, le teste metalliche dei draghi Che formavano l’accesso ululavano trionfanti. Le teste vive dei draghi al di là del Portale si agitavano sopra il corpo della loro vittima mentre l’arcimago cadeva sotto i loro artigli.
«No, Raistlin!». Il volto di Caramon si contorse per l’angoscia. Fece ;un passo verso il Portale.
«Fermalo!» urlò furente Dalamar. «Fermalo, Mezzelfo! Uccidilo, se è necessario! Chiudi il Portale!»
La mano di una donna si avventò verso l’apertura e, mentre essi guardavano storditi per l’orrore, quella mano divenne l’artiglio di un drago, le Unghie coronate di rosso, chiazzate di sangue. La mano della Regina si avvicinava sempre di più al Portale, con l’intenzione di tenere aperto quel varco sul mondo così da poter, ancora una volta, conquistarsi l’ingresso. «Caramon!» gridò Tanis, balzando avanti. Ma cosa poteva fare? Non era abbastanza forte per sopraffare fisicamente l’omone.
Andrà da lui, pensò Tanis angosciato. Non lascerà morire suo fratello...
No, disse una voce dentro il mezzelfo. Non lo farà... e là sta la salvezza del mondo.
Caramon si fermò, trattenuto dal potere di quella mano macchiata di sangue. L’adunco artiglio di drago era vicino, e dietro di esso luccicavano occhi malevoli e trionfanti. Lentamente, lottando contro quella forza malefica, Caramon sollevò il Bastone di Magius.
Non accadde nulla!
Le teste di drago dell’ingresso ovale ruppero l’aria con grida simili a squilli di tromba, salutando l’ingresso della loro Regina nel mondo.
Poi, una forma d’ombra comparve accanto a Caramon. Abbigliato di I nero, con i capelli bianchi che ricadevano giù dalle spalle, Raistlin sollevò una mano dalla pelle dorata e afferrò il Bastone di Magius, giusto accanto a dov’era stretto dalla mano del suo gemello.
Il Bastone avvampò di una luce pura e argentea.
La luminosità multicolore all’interno del Portale turbinò e roteò e lottò né tenebre né luce, né movimento né immobilità, né calore ne luce. C’era semplicemente il nulla
Caramon era immobile, tutto solo, davanti al Portale col Bastone di Magiustretto nella mano. La luce del potente talismano avvampò ancora una volta
Poi vacillò. E si spense.
Tutto era immobile, poi dalla tenebra giunse un sussurro: «Addio, fratello mio».
Capitolo dodicesimo.
Astinus di Palanthas sedeva nella Grande Biblioteca, intento a scrivere la sua storia con quei tratti neri e nitidi che avevano registrato tutte le vicende di Krynn dal primo giorno in cui gli dei avevano contemplato il mondo, fino all’ultimo, quando il grande libro si sarebbe concluso per sempre.
Astinus scriveva, ignorando il caos che lo circondava, o meglio, tale era la presenza di quell’uomo, che sembrava esser lui a costringere il caos a ignorarlo.
Erano passati soltanto due giorni dalla fine di quella cui Astinus si era riferito, nelle sue Cronache, come “La sfida dei Gemelli” (ma che chiunque altro chiamava «La Battaglia di Palanthas»). La città era in rovina. I soli edifici ancora in piedi erano la Torre della Grande Stregoneria e la Grande Biblioteca, e la Biblioteca non era rimasta illesa.
Il fatto che fosse ancora in piedi era dovuto, in larga parte, all’eroismo degli Estetici. Guidati dal tondo Bertrem, il cui coraggio era stato attizzato, così si diceva, dalla vista di un draconico che aveva osato porre una mano artigliata su uno dei libri sacri, gli Estetici avevano attaccato il nemico con tale ardore e con un tale selvaggio e incurante disprezzo per la vita che pochi di quei rettili erano riusciti a salvarsi.
Ma, come il resto di Palanthas, gli Estetici avevano pagato un prezzo assai pesante per la vittoria.
Molti del loro ordine erano periti in battaglia. Essi erano stati pianti dai loro confratelli, alle loro ceneri era stato dato un onorato riposo fra quei libri per proteggere i quali avevano sacrificato la vita. Il prode Bertrem non era morto. Soltanto leggermente ferito, aveva visto il suo nome riportato in uno dei grandi libri accanto a quelli degli altri Eroi di Palanthas. La vita non poteva più offrire nessun’altra ricompensa a Bertrem. Non passava mai accanto a quel particolare libro senza tirarlo giù furtivamente dallo scaffale, aprendolo alla Pagina e crogiolandosi alla luce della sua gloria.
La bella città di Palanthas adesso non era altro che un ricordo e qualche riga di descrizione nei libri di Astinus. Cumuli di pietre carbonizzate e annerite segnavano le tombe dei palazzi nobiliari. I ricchi depositi, con le loro botti di vino e di birra di ottima qualità, i loro magazzini colmi di cotone e di grano, le casse rigurgitanti di meraviglie provenienti da ogni parte di Krynn giacevano su montagne di ceneri. Gli scafi bruciati delle navi galleggiavano nei porti, anch’essi soffocati dalla cenere. I mercanti frugavano in mezzo alle macerie dei loro negozi, recuperando quello che potevano. Le famiglie fissavano le loro case in rovina, sorreggendosi a vicenda, e ringraziando gli dei di avere, per lo meno, salvato la vita.
Molti non c’erano riusciti. I Cavalieri di Solamnia all’interno della città erano periti quasi tutti, combattendo la loro battaglia senza speranza contro Lord Soth e le sue micidiali legioni. Uno dei primi a cadere era stato il focoso sir Markham. Fedele al giuramento fatto a Tanis, il cavaliere non aveva combattuto contro Lord Soth, ma aveva invece radunato i compagni guidandoli in una carica contro i suoi guerrieri scheletrici. Anche dopo essere stato trafitto molte volte, aveva continuato a combattere coraggiosamente, conducendo più e più volte i suoi uomini insanguinati ed esausti in furibondi assalti contro il nemico finché non era caduto, morto, dal suo cavallo.
Molti erano coloro che a Palanthas, grazie al coraggio dei cavalieri, erano sopravvissuti invece di perire sotto le lame fredde come il ghiaccio dei nonmorti che, così si diceva, erano misteriosamente svaniti, quando il loro condottiero era comparso in mezzo a loro reggendo fra le braccia un corpo avvolto in un sudario.
I corpi dei Cavalieri di Solamnia, pianti come eroi, erano stati portati dai loro compagni nella Torre del Sommo Chierico. E qui erano stati sepolti, in una tomba dove già giaceva il corpo di Sturm Brightblade, Eroe della Guerra delle Dragonlance.
Nell’aprire il sepolcro, che non era più stato disturbato sin dalla Battaglia della Torre del Sommo Chierico, i cavalieri erano rimasti stupiti nel trovare intatto il corpo di Sturm, senza che il tempo l’avesse devastato. Un gioiello elfico luccicava sul suo petto e si pensò che questo fosse la causa del miracolo. Tutti quelli che entrarono, quel giorno, nel sepolcro per piangere i loro cari caduti in battaglia fissarono quel gioiello che irradiava una costante luminosità e provarono una sensazione di pace che alleviava l’amaro tormento del loro dolore.
I cavalieri non furono i soli a essere rimpianti. A Palanthas erano morti anche molti cittadini comuni, uomini che avevano difeso la città e la famiglia, donne che avevano difeso la casa e i figli.
I cittadini di Palanthas bruciarono i loro morti seguendo un’usanza antica di secoli, disperdendo in mare le ceneri dei loro cari, là dove si mischiarono alle ceneri della loro amata città.
Astinus aveva registrato tutto a mano a mano che accadeva. Aveva continuato a scrivere, così riferirono gli Estetici con reverenziale timore, perfino mentre Bertrem, da solo, percuoteva a morte con un randello un draconico che aveva osato invadere lo studio del Maestro. Astinus stava ancora scrivendo quando era divenuto gradualmente consapevole, al di sopra del trepestio delle scope, dei colpi di martello, del vociare, che Bertrem gli stava facendo ombra. Sollevò la fronte e si accigliò.
Bertrem, che non una sola volta era impallidito davanti al nemico, divenne d’un pallore mortale e arretrò all’istante, lasciando che la luce del sole tornasse a cadere sulla pagina.
Astinus riprese a scrivere. «Allora?» disse.
«Caramon Majere e un... un kender sono qui a farti visita, Maestro.» Se Bertrem avesse detto che un demone dell’Abisso era giunto per incontrare Astinus, non sarebbe riuscito a infondere più orrore nella sua voce di quando aveva pronunciato la parola «kender». «Falli entrare,» lo sollecitò Astinus.
«Loro, Maestro?» non potè fare a meno di balbettare Bertrem in preda allo sbigottimento.
Astinus sollevò lo sguardo, tornando ad accigliarsi. «Quel draconico non ha danneggiato il tuo udito, non è vero, Bertrem? Non hai ricevuto, magari, una botta in testa?»
«N... no, Maestro.» Bertrem arrossì e si affrettò a uscire dalla stanza, inciampando nelle sue vesti.
«Caramon Majere e... e Tassle... f... foot B... Burr... hoof,» annunciò Bertrem in preda alla confusione, qualche istante più tardi.
«Tasslehoff Burrfoot,» lo corresse il kender, porgendo una piccola mano ad Astinus, il quale la strinse con solennità. «E tu sei Astinus di Palanthas,» continuò Tas, con il ciuffo che gli sobbalzava per l’eccitazione. «Ti ho già incontrato, ma non puoi ricordarlo, perché non è ancora successo. O piuttosto, a pensarci bene, non accadrà mai, vero, Caramon?»
«No,» rispose l’omone. Astinus girò lo sguardo su Caramon, fissandolo intensamente.
«Non assomigli al tuo gemello,» gli disse, freddamente, «ma d’altra parte Raistlin aveva subito molte prove che l’avevano segnato fisicamente e mentalmente. Però c’è qualcosa di lui nei tuoi occhi...»
Lo storico corrugò la fronte, perplesso. Non capiva, e non c’era mai stato niente sulla faccia di Krynn che non capisse. Di conseguenza, s’incollerì.
Era molto raro che Astinus s’incollerisse. Quando accadeva, la sua irritazione si trasmetteva come un’ondata di terrore fra gli Estetici.
Sì, era proprio incollerito. Le sue sopracciglia grigie si rizzarono, le labbra si strinsero, e c’era un’espressione nei suoi occhi che indusse il kender a guardarsi intorno nervosamente, chiedendosi se non avesse lasciato qualcosa fuori in corridoio di cui aveva urgente bisogno... adesso!
«Cosa sta succedendo?» chiese lo storico, alla fine, picchiando la mano sul suo libro, facendo saltare in aria la penna, versando fuori l’inchiostro, e costringendo alla fuga Bertrem, il quale stava aspettando fuori in corridoio, con tutta la velocità concessa dai sandali sbatacchianti.
«C’è un mistero intorno a te, Caramon Majere, e per me non ci sono misteri! Conosco tutto ciò che accade sulla faccia di Krynn. Conosco il pensiero di ogni creatura vivente! Vedo le loro azioni!
Leggo i desideri nei loro cuori! Eppure non posso leggere i tuoi occhi!»
«Tas te l’ha detto,» disse Caramon imperturbabile. Affondando la mano nello zaino che aveva addosso, l’omone tirò fuori un enorme libro rilegato in cuoio che depose delicatamente davanti allo storico.
«È uno dei miei!» esclamò Astinus, dopo avergli lanciato un’occhiata. Le rughe sulla sua fronte si accentuarono. Alzò la voce fino a urlare. «Da dove è venuto? Nessuno dei miei libri esce di qui senza che io lo sappia! Bertrem...»
«Guarda la data.»
Astinus fissò furioso Caramon per un attimo, poi spostò lo sguardo rabbioso sul libro. Guardò la data sul volume, preparandosi a gridare di nuovo per chiamare Bertrem. Ma il grido gli morì in gola. Fissò la data, spalancando gli occhi. Sprofondò sulla sedia, facendo passare lo sguardo dal volume a Caramon, poi lo riportò sul volume.
«E il futuro quello che vedo nei tuoi occhi!»
«Il futuro che si trova in questo libro,» disse Caramon, fissandolo con solenne gravità.
«Noi ci siamo stati!» esclamò Tas, sollevando fremente lo sguardo. «Vuoi che te lo racconti? È la storia più meravigliosa che ci sia. Vedi, siamo tornati a Solace. Soltanto, non sembrava Solace.
Infatti, ero convinto che ci trovassimo su una luna, perché avevo pensato ad una luna quando abbiamo usato il congegno magico, e...» «Zitto, Tas,» gli intimò Caramon, gentilmente. Si alzò in piedi, mise la mano sulla spalla del kender e lasciò la stanza in silenzio. » Tas, trascinato con fermezza fuori dalla porta, lanciò un’occhiata dietro di sé. «Addio,» gridò, agitando la mano. «È stato un piacere rivederti ehm, prima, uh, dopo... insomma, qualunque cosa sia.»
Ma Astinus non lo sentì. Quel giorno, in cui ricevette il libro da Caramon Majere, fu l’unico dell’intera storia di Palanthas in cui non registrò nulla, soltanto un’annotazione:
Questo giorno, come sopra. Dopoveglia ascendente 14, Caramon Majere mi ha portato le Cronache di Krynn, volume 2000. Un volume scritto da me che non scriverò mai.
I funerali di Elistan rappresentarono, per la gente di Palanthas, anche i funerali della loro amata città. La cerimonia venne tenuta allo spuntare del giorno, come Elistan aveva richiesto, e tutti a Palanthas vi parteciparono: vecchi, giovani, ricchi e poveri. I feriti che potevano venire mossi venirono trasportati fuori dalle loro case, i loro giacigli vennero disposti all’erba bruciacchiata e annerita dei prati, un tempo bellissimi, del Tempio.
Fra questi c’era Dalamar. Nessuno mormorò quando l’elfo scuro venne aiutato ad attraversare il prato da Tanis e Caramon, per prendere il suo posto sotto un boschetto di pioppi tremoli bruciati e carbonizzati, poiché correva voce che il giovane apprendista usufruitore di magia avesse combattuto contro la Signora Scura, come veniva chiamata Kitiara, sconfiggendola, causando in tal modo la distruzione delle sue forze.
Elistan aveva chiesto d’essere seppellito nel suo Tempio, ma adesso questo era impossibile: del Tempio non c’era più nulla, salvo un guscio sventrato di marmo. Lord Amothus aveva offerto la tomba di famiglia, ma Crysania aveva rifiutato. Ricordando che Elistan aveva trovato la sua fede nelle miniere degli schiavi di Pax Tharkas, la Reverenda Figlia, ora capo della chiesa, decretò che venisse messo a riposare sotto il Tempio, in una delle caverne sotterranee che adesso venivano usate come magazzini.
Anche se qualcuno ne fu sconcertato, nessuno mise in discussione gli ordini di Crysania. Le caverne vennero pulite e santificate, e con i resti del Tempio venne costruita una tomba di marmo. E da quel giorno, perfino durante i grandi tempi della chiesa che sarebbero venuti, tutti i sacerdoti vennero posti a riposare in quell’umile luogo, che ben presto fu conosciuto come uno dei luoghi più sacri di Krynn.
La gente si sedette sul prato in silenzio. Gli uccelli, non sapendo niente di guerra, di morte o di dolore, ma consci soltanto che il sole si levava e che essi erano vivi nella chiara luminosità del mattino, riempirono l’aria con i loro canti. I raggi del sole coronavano d’oro le montagne, ricacciando le tenebre della notte, portando la luce in quei cuori gravidi di dolore.
Soltanto una persona si levò per pronunciare l’elogio funebre di Elistan, e tutti giudicarono giusto che fosse lei a farlo. Non soltanto perché adesso prendeva il suo posto, come lui aveva richiesto, come capo della chiesa, ma perché lei pareva riassumere per tutto il popolo di Palanthas la loro perdita e il loro dolore.
Si diceva, tra la gente, che quella mattina era la prima volta che si era alzata dal letto da quando Tanis Mezzelfo l’aveva condotta giù dalla Torre della Grande Stregoneria fino ai gradini della Grande Biblioteca, dove i chierici erano all’opera tra i feriti e i morenti. Lei stessa era stata prossima alla morte. Ma la sua fede e le preghiere dei chierici l’avevano riportata alla vita. Non avevano potuto, però, restituirle la vista.
Quella mattina Crysania era davanti a loro, con gli occhi fissi sul sole che non avrebbe mai più rivisto. I suoi raggi traevano riflessi dai neri capelli che incorniciavano il volto reso bello da un’espressione di profonda e perenne compassione e fede.
«Mentre mi trovo qui nel buio,» disse con una voce che s’innalzava dolce e pura tra i canti delle allodole, «sento il calore della luce sulla mia pelle, e so che il mio viso è rivolto verso il sole. Posso guardare in faccia il sole perché i miei occhi sono per sempre velati dalla tenebra. Ma se voi che potete vedere guarderete troppo a lungo il sole, perderete la vista, proprio come quelli che vivendo troppo nella tenebra perderanno un po’ per volta la loro.
«Questo ci ha insegnato Elistan, che i mortali non sono stati creati per vivere solamente alla luce del sole o nell’ombra, ma in entrambi. Entrambi presentano i loro pericoli, se vengono usati male, ed entrambi concedono i loro premi. Noi abbiamo superato le nostre prove di sangue, di tenebra e di fuoco...» la sua voce tremò e s’interruppe. Quelli più vicini a lei videro le lacrime rigarle le guance.
Ma quando continuò, la sua voce era forte e ferma, anche se le lacrime luccicavano alla luce del sole. «Abbiamo superato queste prove come Huma superò le sue, con grandi perdite, con grandi sacrifici, ma forti nella consapevolezza che il nostro spirito risplende e che noi, forse, risplendiamo più luminosi fra tutte le Stelle del firmamento.
«Perché, anche se qualcuno dovesse scegliere di percorrere i sentieri della notte, fissando la luna nera per farsi guidare, mentre altri percorrono i sentieri del giorno, i sentieri impervi di entrambi, cosparsi di rocce, possono diventare più facili grazie al tocco di una mano, alla voce di un amico.
La capacità di amare, di prendersi cura degli altri, è data a noi tutti: il più grande dono degli dei a tutte le specie. La nostra bella città è perita tra le fiamme.» La sua voce si addolcì. «Abbiamo perduto molti di coloro che amavamo, e forse può sembrarci che la vita sia un fardello troppo difficile perché possiamo sopportarla. Ma tendete la mano, e questa toccherà la mano di qualcuno protesa verso la vostra ed, insieme, troverete la forza e la speranza necessarie per andare avanti.»
Dopo la cerimonia, quando i chierici ebbero trasportato il corpo di Elistan nel luogo del suo definitivo riposo, Caramon e Tas cercarono Dama Crysania. La trovarono tra i chierici, con il braccio appoggiato a quello della giovane donna che le faceva da guida.
«Ci sono due persone che vorrebbero parlare con te, Reverenda Figlia,» l’informò la giovane chierica.
Dama Crysania si voltò, porgendo la mano. «Lasciate che vi tocchi,» disse.
«Sono Caramon,» cominciò l’omone, impacciato, «e...»
«... e Tas,» aggiunse il kender, con voce docile e sottomessa. «Siete venuti per dirmi addio,» sorrise Dama Crysania. «Sì. Partiamo oggi stesso,» confermò Caramon, tenendole la mano nella propria.
«Andrete direttamente a casa a Solace?»
«No, non ancora,» disse Caramon a bassa voce. «Torniamo a Solanthas con Tanis. Poi, quando mi sentirò un po’ più me stesso, userò il congegno magico per tornare a Solace.»
Crysania gli strinse la mano, attirandolo vicino a sé. «Raistlin è in pace, Caramon,» gli disse con voce sommessa. «E tu?»
«Sì, mia signora,» rispose Caramon, con voce ferma e risoluta. «Sono in pace. Finalmente.»
Sospirò. «Ho soltanto bisogno di parlare con Tanis e di districare le faccende della mia vita, di rimetterle in ordine. Tanto per incominciare,» aggiunse arrossendo e con un sorriso di vergogna,
«ho bisogno di sapere come si fa a costruire una casa! Ero ubriaco per la maggior parte del tempo quando ho lavorato alla nostra, e non avevo e non ho la più pallida idea di ciò che stavo facendo.»
La guardò e lei, conscia che lui la stava fissando, anche se non poteva vederlo, sorrise, e la sua pelle pallida si tinse d’un rosa lievissimo. Vedendo quel sorriso, e vedendo le lacrime che cadevano intorno ad esso, Caramon l’attirò a sé a sua volta. «Mi spiace. Vorrei averti potuto risparmiare questo...»
«No, Caramon,» replicò lei con voce sommessa. «Poiché adesso vedo, vedo chiaramente, come Loralon mi aveva promesso.» Gli baciò la mano, premendosela sulla guancia. «Addio, Caramon.
Paladine sia con te.»
Tasslehoff tirò su col naso.
«Addio, Crysania... voglio dire, Re... Reverenda Figlia,» disse Tas con una vocina sottile sottile, sentendosi d’un tratto solo, e corto. «Mi... mi dispiace di aver combinato tanti pasticci...»
Ma Dama Crysania lo interruppe. Voltando le spalle a Caramon, allungò la mano e gli lisciò il ciuffo. «La maggior parte di noi cammina nella luce e nell’ombra, Tasslehoff,» disse, «ma ci sono pochissimi prescelti che percorrono questo mondo portando la propria luce per illuminare sia il giorno sia la notte.»
«Davvero? Devono affaticarsi terribilmente, trascinandosi appresso una luce del genere! Si tratta di una torcia? Non può essere una candela. La cera gli si fonderebbe addosso, sgocciolandogli dentro le scarpe e... senti... pensi che potrò incontrare qualcuno del genere?» chiese Tas, con vivo interesse.
«Tu sei qualcuno del genere,» rispose Dama Crysania. «E non credo che dovrai mai preoccuparti che la cera ti coli nelle scarpe. Addio, Tasslehoff Burrfoot. Non c’è bisogno che chieda la benedizione di Paladine su di te, perché so che sei uno dei suoi più intimi amici...»
«Be’» chiese Caramon d’un tratto, mentre lui e Tas si facevano strada tra la folla, «hai deciso quello che farai adesso? Hai la cittadella volante, Lord Amothus te l’ha concessa. Puoi andare dovunque su Krynn. Forse perfino su una delle lune, se lo vorrai.»
«Oh, quella.» Tas, ancora un po’ sconvolto dopo il suo colloquio con Crysania, parve avere qualche difficoltà a ricordare ciò di cui Caramon stava parlando. «Non ho più la cittadella. Non appena mi sono messo a esplorarla, ho scoperto che è spaventosamente grande e noiosa. E che non poteva arrivare fino alla luna. Ci ho provato. Sai,» aggiunse guardando Caramon con occhi spalancati, «che se sali abbastanza in alto, il naso comincia a sanguinarti? E inoltre fa un freddo tremendo, e tutto diventa molto scomodo. Inoltre, sembra che le due lune siano molto più lontane di quanto avessi immaginato. Ora, se avessi il congegno magico...» lanciò un’occhiata di traverso a Caramon.
«No,» ribatté Caramon, con severità. «Assolutamente no. Quello tornerà a Par-Salian.»
«Potrei portarglielo io,» si offrì Tas, servizievole. «Mi darebbe la possibilità di spiegargli come Gnimsh era riuscito a ripararlo, e come io ho scombussolato l’incantesimo e... No?». Tirò un sospiro. «Immagino di no. Be’, comunque ho deciso di rimanere insieme a te e a Tanis... se mi volete, s’intende.» Fissò Caramon con un po’ d’ansia.
Caramon rispose allungando le mani e stringendo il kender in un abbraccio che schiacciò parecchi oggetti interessanti d’incerto valore che aveva nelle borse.
«A proposito,» aggiunse Caramon dopo un ripensamento, «cosa ne hai fatto della cittadella volante?»
«Oh,» Tas agitò le mani con noncuranza, «l’ho data a Rounce.»
«Il nano dei fossi!» Caramon si fermò, sgomento.
«Non può farla volare, non da solo!» gli garantì Tas. «Anche se,» aggiunse dopo un attimo di profonda riflessione, «suppongo che potrebbe riuscirci, se riuscisse a farsi aiutare da qualche altro nano dei fossi. Non ci avevo pensato...»
Caramon gemette. «Dov’è?»
«L’ho fatta adagiare al suolo per lui in un bel posto. Un posto molto bello. Il quartiere più ricco di una città che abbiamo sorvolato. A Rounce piaceva, la cittadella, non la città. Be’, a pensarci bene, credo che gli sia piaciuta anche la città. Comunque, mi è stato di grande aiuto e tutto il resto, così gli ho chiesto se voleva la cittadella, e lui ha detto di sì, e così ho messo giù quell’affare in quel posto libero...
«Ha causato una notevole sensazione,» aggiunse Tas tutto felice. «Un uomo è uscito di corsa da quel grande castello in cima a una collina, proprio accanto a dove avevo fatto scendere la cittadella, e ha cominciato a urlare che quel terreno era proprietà sua e che diritto avevamo di farci cadere sopra un altro castello, dando il via a una bellissima lite. Gli ho fatto notare che il suo castello non copriva certo tutta la proprietà, e sono sicuro di avergli citato parecchi vantaggi che gli sarebbero venuti da questa condivisione di proprietà... se soltanto fosse stato ad ascoltarmi. Poi Rounce ha cominciato a dire che avrebbe condotto là tutto il clan dei Burp o qualcosa del genere, e che sarebbero andati a vivere nella cittadella, e all’uomo è venuto un attacco di qualche tipo e l’hanno portato via e ben presto l’intera città era lì intorno. Per un po’ è stato proprio eccitante, ma poi la cosa è diventata noiosa. Sono lieto che Fireflash avesse deciso di accompagnarci. Mi ha riportato indietro.»
«Non mi avevi raccontato niente di tutto questo!» esclamò Caramon fissando il kender e facendo del suo meglio per apparire truce.
«Cre... credo che mi sia uscito di mente,» borbottò Tas. «Durante queste giornate ho avuto un sacco di cose a cui pensare, sai.»
«Lo so, Tas,» convenne Caramon. «Mi sono preoccupato per te. Ieri ti ho visto parlare a qualche altro kender. Potresti tornare a casa, sai. Una volta mi confidasti che avevi pensato di ritornare a Kendermore.»
Il volto di Tas assunse un’espressione insolitamente seria. Facendo scivolare la mano in quella di Caramon si avvicinò, sollevando lo sguardo su di lui... uno sguardo estremamente grave. «No, Caramon,» disse con voce sommessa. «Non è la stessa cosa. Sem... sembra che io non riesca più a parlare con gli altri kender.» Scosse la testa, il suo ciuffo frusciò avanti e indietro. «Ho cercato di dire loro di Fizban e del suo cappello, di Flint e del suo albero, e... e di Raistlin e del povero Gnimsh.» Tas deglutì e, tirato fuori un fazzoletto, si asciugò gli occhi. «Non sembrano capire.
Semplicemente non... be’... non gl’importa un bel niente! è difficile prendere a cuore qualcosa, non... non è vero, Caramon? Qualche volta fa male.»
«Sì, Tas,» replicò Caramon con calma. Erano entrati in un boschetto ombreggiato. Tanis li stava aspettando sotto un pioppo tremolo alto e grazioso, le cui piccole foglie primaverili luccicavano dorate al bagliore del . sole mattutino. «Fa male la maggior parte delle volte, ma il dolore è sempre meglio che esser vuoti dentro.»
Tanis si avvicinò e mise un braccio intorno alle ampie spalle di Caramon, l’altro braccio intorno a quelle di Tas. «Pronti?» chiese.
«Pronti,» rispose Caramon.
«Bene. I cavalli sono da questa parte. Ho pensato di cavalcare. Avremmo potuto prendere la carrozza ma, a essere onesti, mi sono sempre sentito imprigionato in quel dannato affare. E anche Laurana, anche se non lo ammetterà mai. La campagna è bellissima in questo periodo dell’anno.
Prenderemo tutto il nostro tempo e ce la godremo.»
«Tu vivi a Solanthas, non è vero, Tanis?» disse Tas, mentre salivano in sella ai cavalli e si avviavano lungo la strada annerita e in rovina. La gente che aveva lasciato il funerale e adesso tornava a raccogliere i frammenti superstiti della propria vita, udì la voce allegra del kender echeggiare pei le strade ancora molto tempo dopo che se n’era andato.
«Sono stato a Solanthas, una volta. Hanno una prigione incredibilmente bella. Una delle più belle in cui sia stato. Mi ci mandarono per errore, naturalmente. Un equivoco a proposito d’una teiera d’argento che era ruzzolata giù finendo, per puro caso, in una delle mie borse...»
Dalamar salì la ripida scala a chiocciola che conduceva su nel laboratorio in cima alla Torre della Grande Stregoneria. Saliva i gradini, invece di spostarsi magicamente, poiché quella notte aveva un lungo viaggio davanti a sé. Anche se i chierici di Elistan gli avevano curato le ferite, era ancora debole e non voleva sprecare le proprie forze. Più tardi, quando la luna nera fosse stata nel cielo, avrebbe viaggiato traverso l’etere fino alla Torre della Grande Stregoneria di Wayreth per partecipare a un Conclave degli Stregoni, uno dei più importanti mai tenutisi in quell’era. Par-Salian stava per lasciare il posto di Capo del Conclave. Si doveva scegliere il suo successore.
Probabilmente si sarebbe trattato della Veste Rossa, Justarius. Dalamar non aveva nulla in contrario.
Sapeva di non essere ancora abbastanza potente per diventare il nuovo arcimago. Non ancora, comunque. Ma serpeggiava anche la sensazione che si dovesse anche scegliere un nuovo Capo dell’Ordine delle Vesti Nere. Dalamar sorrise. Non aveva alcun dubbio su chi sarebbe stato. Aveva fatto tutti i suoi preparativi per partire. I guardiani avevano ricevuto le loro istruzioni: nessuno, vivo o morto, doveva venire ammesso alla Torre durante la sua assenza. Non che fosse probabile. Il Bosco di Shoikan manteneva la propria truce vigilanza, indenne alle fiamme che avevano spazzato il resto di Palanthas. Ma la tenebrosa solitudine che la Torre aveva conosciuto per tanto tempo sarebbe presto finita.
Per ordine di Dalamar, parecchie stanze all’interno della Torre erano state pulite e rimesse a nuovo.
Dalamar aveva l’intenzione di ritornare portando con sé parecchi apprendisti: Vesti Nere, certo, ma forse una o due Vesti Rosse, se ne avesse trovato qualcuna di adatta. Sperava di poter trasmettere le capacità che aveva acquisito, il sapere che aveva imparato. E, lo ammise a se stesso, desiderava compagnia. Ma, prima, c’era qualcosa che doveva fare.
Prima di entrare nel laboratorio, si fermò sulla soglia. Non era più tornato in quella stanza da quando Caramon lo aveva trasportato fuori di lì, nell’ultimo, fatidico giorno. Adesso era notte. La stanza era al buio. Ad una sua parola le candele si accesero guizzando, riscaldando la stanza con la loro morbida luminosità. Ma le ombre rimasero sospese negli angoli come creature viventi.
Tenendo alto il candelabro che stringeva in mano, Dalamar compì un lento giro della stanza, scegliendo diversi oggetti, pergamene, una bacchetta magica, diversi anelli, e li mandò, pronunciando una semplice parola, giù, nel suo studio.
Passò davanti all’angolo scuro dove Kitiara era morta. Il suo sangue ancora macchiava il pavimento. Quel punto della stanza era freddo, ghiacciato, e Dalamar non vi si attardò. Passò davanti al tavolo di legno con i suoi becher e le sue bottiglie, gli occhi lo fissarono ancora imploranti dal loro interno. Con una parola li chiuse... per sempre.
Infine giunse davanti al Portale. Le cinque teste di drago, eternamente rivolte verso il vuoto, urlavano ancora il loro silenzioso, pietrificato peana alla Regina delle Tenebre. L’unica luce che risplendeva sopra quelle teste scure, metalliche, senza vita era il riflesso delle sue candele. Dalamar guardò dentro il Portale. Non c’era niente. Dalamar lo fissò per lunghi momenti. Poi, allungando la mano, tirò un cordone di seta dorata che pendeva dal soffitto. Una pesante tenda scese giù, avvolgendo il Portale in uno strato di denso velluto purpureo.
Voltandosi dall’altra parte, Dalamar si trovò a guardare gli scaffali che si trovavano proprio in fondo al laboratorio. La luce delle candele illuminava file di volumi rilegati in azzurro-notte, decorati di rune d’argento. Un freddo intenso s’irradiava da essi.
I libri degli incantesimi di Fistandantilus, adesso suoi. E là dove quelle file di libri terminavano, cominciava una nuova fila di libri: volumi rilegati in nero decorati con rune d’argento. Ognuno di quei volumi, Dalamar lo constatò toccandone uno con la mano, bruciava d’un calore interiore che faceva sembrare stranamente vivi quei libri al tocco. Dalamar guardò con attenzione ogni libro.
Tutti, non uno escluso, contenevano le proprie meraviglie, i propri misteri e... il proprio potere.
L’elfo scuro percorse gli scaffali in tutta la loro lunghezza. Quando giunse là dove finivano, accanto alla porta, mandò il candelabro a posarsi sul grande tavolo di pietra. Con una mano già sulla maniglia, tese l’altra verso un ultimo oggetto.
In un angolo oscuro c’era il Bastone di Magius, appoggiato alla parete. Per un attimo Dalamar trattenne il respiro, pensando di aver visto una luce scaturire dal cristallo in cima al Bastone... il cristallo che era rimasto freddo e scuro sin da quel giorno. Ma poi si rese conto, con una sensazione di sollievo, che era soltanto il riflesso della luce delle candele. Con una parola estinse le fiamme, facendo piombare la stanza nell’oscurità.
Guardò da vicino l’angolo in cui si trovava il Bastone. Era smarrito nella notte, non c’era nessun luccichio.
Inspirando a fondo, e poi esalando un lungo sospiro, Dalamar uscì dal laboratorio. Chiuse con decisione la porta alle proprie spalle. Affondò la mano in una scatola di legno, sulla quale erano incise rune potenti, ne estrasse una chiave d’argento e l’infilò in una serratura d’argento decorata, una serratura nuova, una serratura che non era stata fatta da nessun fabbro su Krynn. Bisbigliando parole magiche, Dalamar girò la chiave nella serratura. Si udì uno scatto. Ne seguì un secondo. La trappola mortale era predisposta.
Dalamar si voltò e chiamò a sé uno dei guardiani. Al suo ordine, quegli occhi disincarnati galleggiarono fino a lui.
«Prendi questa chiave,» gli disse Dalamar, «e tienila con te per tutta l’eternità. Non consegnarla a nessuno, neppure a me. E da questo momento in avanti, il tuo posto è a guardia di questa porta.
Nessuno deve entrare, e che la morte sia rapida per coloro che lo tenteranno.»
Gli occhi del guardiano si chiusero per assentire. Mentre Dalamar ridiscendeva le scale, vide gli occhi, riaperti, incorniciati dalla porta, che rivolgevano alla notte il loro gelido bagliore.
L’elfo scuro annuì fra sé, soddisfatto, e proseguì per la sua strada.
Il Ritorno a Casa.
Toc, toc, toc. Tika Waylan Majere si rizzò a sedere sul letto.
Cercando di sentire al di sopra del battito del proprio cuore, ascoltò, aspettando d’identificare il rumore che l’aveva svegliata dal suo sonno profondo.
Niente.
L’aveva sognato? Spingendo indietro la massa dei riccioli rossi che le ricadevano sul viso, Tika guardò assonnata fuori dalla finestra. Era mattino presto. Il sole non era ancora spuntato, lasciando il cielo limpido e azzurro sullo sfondo della luce zodiacale. Gli uccelli si erano svegliati, dando inizio alle loro attività domestiche, cinguettando e litigando allegramente. Ma a Solace non si era mosso ancora nessuno. Di solito, perfino il guardiano notturno soccombeva alla calda, dolce influenza delle notti primaverili, e a quell’ora dormiva, con la testa che gli era ricaduta sul petto, russando pacificamente.
Devo aver sognato, si ripetè Tika, spaventata. Mi chiedo se mi abituerò mai a dormire da sola...
Ogni più piccolo rumore mi fa svegliare del tutto.
Rintanandosi un’altra volta nel letto, cercò di rimettersi a dormire. Stringendo gli occhi con forza, Tika finse che Caramon si trovasse là. Giaceva accanto a lui, premuta contro il suo ampio petto, e lo sentiva respirare, sentiva battere il suo cuore, caldo, sicuro. La mano di Caramon le batté sulla spalla mentre lui mormorava sonnacchioso, «È soltanto un brutto sogno, Tika... domattina sarà tutto sparito...»
Toc, toc, toc.
Tika spalancò gli occhi. Non aveva sognato! Il rumore, qualunque fosse la causa, veniva da sopra!
Qualcuno, o qualcosa, era là in alto... in alto, sul vallenwood!
Buttando da parte le coperte e muovendosi furtiva, in silenzio, come aveva imparato durante le sue avventure guerresche, Tika afferrò una vestaglia dai piedi del letto, si contorse per infilarsela (era tanto nervosa che confuse le maniche), e scivolò fuori dalla camera da letto.
Toc, toc, toc.
Strinse le labbra con decisione. Qualcuno era là sopra, sopra la sua nuova casa. La casa che Caramon stava costruendo per lei, in alto tra i rami del vallenwood. Cosa stavano facendo?
Rubando? C’erano gli arnesi di Caramon...
Tika quasi scoppiò a ridere, ma invece venne fuori un singhiozzo. Gli arnesi di Caramon! Il martello con la testa sbilenca che volava via tutte le volte che colpiva un chiodo, la sega alla quale mancavano tanti denti da farla assomigliare a un nano dei fossi sogghignante, la pialla che non avrebbe lisciato neanche il burro. Ma erano oggetti preziosi per Tika. Non li aveva toccati, erano sempre dove li aveva lasciati lui.
Toc, toc, toc.
Dopo che ebbe strisciato fuori nel soggiorno della sua piccola casa, Tika aveva già la mano sulla maniglia della porta quando si fermò.
«Un’arma,» borbottò. Lanciò una rapida occhiata intorno a sé e agguantò la prima cosa che vide: la sua pesante padella di ferro. Stringendola saldamente per il manico, Tika aprì lentamente e in silenzio la porta d’ingresso e sgusciò fuori.
I raggi del sole stavano giusto illuminando le cime delle montagne, facendo risaltare le loro vette coperte di neve contro il cielo limpido e azzurro. La rugiada scintillava sull’erba, trasformandola in uno scrigno pieno di gioielli, l’aria del mattino era dolce, frizzante e pura. Le nuove foglie dei vallenwood, d’un vivido verde, frusciavano e quasi sembravano ridere man mano che il sole le toccava, svegliandole. Quel mattino era talmente fresco, chiaro e luccicante che avrebbe potuto benissimo essere il primissimo mattino del primissimo giorno, con gli dei che contemplavano sorridenti la loro opera.
Ma Tika non stava pensando agli dei, o al luminoso mattino, o alla rugiada che era fredda sui suoi piedi nudi. Stringendo la padella in una mano, tenendola nascosta dietro la schiena, salì furtiva i pioli della scala che conducevano fino alla casa incompiuta, appollaiata fra i robusti rami del vallenwood. Giunta quasi alla cima, si fermò, sbirciando oltre l’orlo.
Ah, ah! C’era qualcuno lassù! Riuscì a malapena a distinguere una figura rannicchiata in un angolo in ombra. Tirandosi oltre l’orlo, sempre senza produrre il minimo rumore, Tika attraversò con passi furtivi il pavimento di legno, aumentando la stretta delle sue dita sulla padella.
Ma mentre attraversava il pavimento, strisciando alle spalle dell’intruso, le parve di udire una risatina soffocata.
Esitò, poi proseguì risolutamente. È soltanto la mia immaginazione, si disse, avvicinandosi alla figura ammantata. Adesso poteva vederlo con chiarezza: era un uomo, un umano, e a giudicare dalle braccia nerborute e dalle spalle robuste, era uno degli uomini più grossi che Tika avesse mai visto!
Era carponi, con l’ampia schiena girata verso di lei, e lo vide sollevare una mano. Stringeva il martello di Caramon!
Come osava toccare le cose di Caramon ! Ah, grosso o no che fosse, erano tutti dello stesso formato quand’erano distesi sul pavimento.
Tika sollevò la padella...
«Caramon! Attento!» gridò una vocina stridula.
L’omone balzò in piedi e si girò. La padella cadde sul pavimento con un sonoro sferragliare. Lo stesso accadde al martello e a una manciata di chiodi.
Tika strinse il marito fra le braccia con un singhiozzo di gratitudine.
«Non è meraviglioso, Tika? Scommetto che sei rimasta sorpresa, non è vero? Sei rimasta sorpresa, Tika? E, dimmi, avresti davvero picchiato forte Caramon sulla testa se io non ti avessi fermato?
Sarebbe stato interessante da guardare, anche se non credo che avrebbe fatto molto bene a Caramon.
Ehi, ricordi quando hai colpito quel draconico sulla testa con la padella, quello che stava per maltrattare Gilthanas? Tika?... Caramon?»
Tas guardò i suoi due amici. Non stavano dicendo una sola parola. Non sentivano una sola parola.
Se ne stavano stretti l’uno all’altra e basta. Il kender sentì un’umidità sospetta salirgli agli occhi.
«Be’,» disse deglutendo e sorridendo, «scendo giù e vi aspetto in soggiorno.»
Scivolando giù per la scala, Tas entrò nella piccola casa ordinata che si trovava all’ombra del vallenwood, e una volta dentro, tirò fuori un fazzoletto, si soffiò il naso e poi cominciò ad esplorare allegramente i mobili.
«A quanto pare,» disse fra sé, ammirando talmente un nuovissimo vaso per dolci da cacciarlo distrattamente in una delle sue borse (dolci compresi), fermamente convinto di averlo rimesso sullo scaffale, «Tika e Caramon resteranno lassù per un bel po’, forse perfino per tutto il resto della mattina. Forse sarebbe una buona occasione per rimettere ordine tra la mia roba.»
Sedendosi a gambe incrociate sul pavimento, il kender rovesciò allegramente le sue borse, sparpagliando il contenuto sul tappeto. Mentre sgranocchiava distrattamente qualche dolce, lo sguardo orgoglioso di Tas andò a un intero fascio di nuove mappe che Tanis gli aveva dato.
Srotolandole l’una dopo l’altra, il suo piccolo dito tracciò il percorso di tutti i luoghi meravigliosi che aveva visitato durante le sue molte avventure.
«Sono stati dei bei viaggi,» disse dopo un po’, «ma sicuramente è ancora più bello tornare a casa.
Rimarrò qui con Tika e Caramon. Saremo tutti una famiglia. Caramon mi ha detto che potrò avere una stanza nella nuova casa e... diamine, questo cos’è?» guardò più da vicino la mappa. «Merilon?
Non ho mai sentito parlare di una città chiamata Merilon. Chissà com’è...
«No!» replicò Tas. «Hai finito con le avventure, Burrfoot. Già così hai abbastanza storie da raccontare a Flint. Ti sistemerai e diventerai un rispettabile membro della società. Forse perfino Gran Sceriffo.»
Arrotolando la sua mappa, tra amabili sogni della sua presentazione alle elezioni di Gran Sceriffo, voltò le spalle alle mappe e ricominciò a rovistare fra i suoi tesori. «Una penna bianca di pollo, uno smeraldo, un topo morto... uh, dove diavolo l’ho preso? Un anello modellato così da assomigliare ad un piccolo serto d’edera, un minuscolo drago dorato... è strano, certamente non mi ricordo di averlo messo in borsa. Un cristallo azzurro rotto, un dente di drago, dei petali bianchi di rosa, un vecchio coniglio di pezza tutto consumato di qualche ragazzino e, oh, guarda, ecco i disegni di Gnimsh per l’ascensore e... cos’è questo? Un libro! Tecniche di Prestidigitazione per Stupire e Deliziare! Ora, questo sì che è interessante, sono sicuro che mi verrà buono e... oh, no,» Tas corrugò la fronte, irritato, «di nuovo quel braccialetto d’argento di Tanis. Mi chiedo come faccia a conservare qualcosa, quando io non gli sono intorno a raccogliere tutto quello che lui perde. È estremamente sbadato. Mi chiedo come Laurana faccia a sopportarlo.»
Sbirciò dentro la borsa. «È tutto, credo.» Sospirò. «Be’, sicuramente è stato interessante. Per la maggior parte davvero meraviglioso. Ho incontrato parecchi draghi. Ho fatto volare una cittadella.
Mi sono trasformato in topo. Ho rotto un Globo dei draghi. Paladine e io siamo diventati amici personali...
«Ci sono stati dei momenti tristi,» aggiunse fra sé, con voce sommessa.
«Ma adesso per me non sono neppure tristi. Mi provocano soltanto un piccolo, strano dolore proprio qui,» si premette la mano sul cuore. «Mi mancheranno moltissimo le avventure. Ma non c’è più nessuno con cui viverle. Tutti si sono sistemati, la loro vita è vivace e piacevole...». La sua piccola mano esplorò il fondo liscio di un’ultima borsa. «È ora che anch’io mi sistemi, come ho detto, e credo che quello di Gran Sceriffo sia un lavoro molto affascinante, e...
«Aspetta...cos’è questo? Proprio in fondo...» tirò fuori un piccolo oggetto, quasi smarrito, ficcato in un angolo della borsa. Tenendolo in mano, fissandolo con vivo stupore, Tas esalò un sospiro profondo e tremante.
«Come ha fatto Caramon a perderlo? È stato sempre così attento a questo. Ma d’altronde di recente ha avuto un sacco di cose a cui pensare. Andrò a restituirglielo. Probabilmente sarà terribilmente preoccupato di averlo perso. Dopotutto, cosa direbbe Par-Salian...»
Studiando quel comunissimo ciondolo anonimo che aveva in mano, Tas non si accorse affatto che l’altra sua mano, in apparenza agendo per proprio conto, dal momento che lui aveva smesso di cercare l’avventura, gli era scivolata dietro le spalle chiudendosi sul contenitore delle mappe.
«Com’era il nome di quel posto? Merilon?»
Doveva essere stata la mano a parlare. Certamente non Tas, che aveva rinunciato all’avventura.
Il contenitore delle mappe finì in una borsa insieme a tutti gli altri tesori di Tas; la mano si affrettò a raccoglierli ad uno ad uno, mettendoli via.
La mano raccolse anche tutte le borse di Tas, buttandogliele a tracolla, appendendogliele alla cintura, ficcandone una dentro la tasca dei suoi nuovissimi gambali d’un rosso vivace.
Tutta indaffarata, la mano cominciò a trasformare quel comune, anonimo ciondolo in uno scettro bellissimo, tutto ricoperto di gioielli, e per di più dall’aspetto molto magico.
«Una volta che avrai finito,» disse Tas severamente, rivolto alla propria mano, «lo porteremo subito sopra e lo consegneremo a Caramon.»
«Dov’è Tas?» mormorò Tika, riscuotendosi un po’ dal calore e dal conforto delle forti braccia di Caramon.
Caramon, appoggiando la guancia sulla sua testa, le baciò i riccioli rossi e la strinse ancora di più.
«Non lo so. Dev’essere sceso in casa. credo.»
«Ti rendi conto,» disse Tika accoccolandosi a sua volta contro di lui. «che non ci rimarrà un solo cucchiaio?»
Caramon sorrise. Portandole la mano al mento, le sollevò la testa e le baciò le labbra...
Un’ora più tardi i due giravano per la casa non ancora completata. Caramon indicava i miglioramenti e i cambiamenti che aveva in mente di attuare. «La stanza del bambino sarà qui,» disse, «vicino alla nostra camera da letto, e questa sarà la camera dei nostri figli più grandicelli...
No, credo che ci vorranno due stanze, una per i bambini e l’altra per le bambine.» Finse d’ignorare il rossore di Tika. «E la cucina e la stanza di Tas e la stanza degli ospiti. Tanis e Laurana verranno a farci visita, e...» la voce di Caramon si spense.
Era arrivato a quell’unica stanza della casa che aveva completato, la stanza con il marchio dello stregone scolpito su una targa appesa sopra la porta.
Tika lo guardò, il suo volto ridente era diventato d’un tratto pallido e serio.
Caramon alzò una mano, prese la targa e la staccò. La fissò in silenzio per lunghi istanti. Poi, con un sorriso, la porse a Tika.
«Conservala per me; vuoi, mia cara?» chiese con voce sommessa e gentile.
Tika sollevò verso di lui uno sguardo meravigliato, le sue dita tremanti scivolarono sopra i bordi lisci della targa, seguendo i simboli arcani incisi su di essa.
«Mi dirai cos’è successo, Caramon?» gli chiese infine.
«Un giorno,» lui rispose, accogliendola nuovamente tra le braccia, tenendola stretta a sé. «Un giorno,» ripetè. Poi, baciandole i riccioli rossi, rimase là a guardare la città, mentre questa si svegliava e cominciava a vivere.
Attraverso le foglie del vallenwood che facevano da riparo, poteva vedere il tetto a due falde della Locanda. Adesso poteva udire delle voci... delle voci ancora assonnate che ridevano, lanciavano rimbrotti. E poteva sentire l’odore fumoso dei fuochi delle cucine che si levava in aria, riempiendo la valle verdeggiante d’una impalpabile nebbiolina.
Tenne sua moglie tra le braccia, sentendosi circondato dal suo amore, vedendo il proprio amore per lei risplendere vivido e tranquillo davanti a sé, puro e bianco come la luce di Solinari... oppure la luce che risplendeva da un cristallo in cima a un bastone magico...
Caramon sospirò, un sospiro lungo e profondo, soddisfatto. «Comunque, non ha nessuna importanza,» borbottò. E aggiunse: «Sono a casa.»
Canto nuziale (un ritornello)
Postfazione
Ma tu ed io, attraverso le pianure in fiamme,attraverso l’oscurità della terra,
affermiamo il mondo, la sua gente,
i cieli che han dato loro i natali,
il respiro che passa fra noi,
questa nuova casa in cui ci troviamo
e tutte queste cose rese più grandi
dai voti fra un uomo e una donna.
così i nostri viaggi su Krynn sono giunti alla fine.
Sappiamo che ciò creerà disappunto in molti di voi che avevano sperato che le nostre avventure in questa terra meravigliosa durassero per sempre. Ma, come potrebbe dire la mamma di Tasslehoff, «Arriva un momento in cui bisogna mettere fuori il gatto, chiudere a chiave la porta, infilare la chiave sotto lo zerbino, e incamminarsi lungo la strada.»
Naturalmente la chiave rimarrà sempre sotto lo zerbino (sempre che nessun altro kender si trasferisca a vivere in città), e non escludiamo la possibilità di metterci un giorno a viaggiare lungo quella strada alla ricerca della chiave. Ma adesso abbiamo nelle nostre borse il magico congegno di Tas per i viaggi nel tempo (fortunatamente per Krynn!), e ci sono altri mondi che saremmo ansiosi di esplorare prima di tornare su questo.
Non avevamo nessuna idea, quando il progetto di DRAGONLANCE © iniziò, che avrebbe avuto il successo che ha avuto. Le ragioni sono molte, ma la principale, credo, è che abbiamo avuto una compagine davvero formidabile che ha lavorato al progetto. Dagli scrittori agli illustratori, ai progettisti dei giochi, ai curatori, tutti quelli che facevano parte della compagine di DRAGONLANCE amavano il proprio lavoro e hanno travalicato il proprio dovere per assicurarne il successo. Tracy dice che, da qualche parte, Krynn esiste per davvero e che tutti noi ci siamo stati.
Sappiamo che è vero, perché è così difficile dirle addio.
Parlando di addii, ci siamo resi conto per la prima volta della profondità dei sentimenti che i lettori provavano per i nostri personaggi e il mondo che avevamo creato quando abbiamo ricevuto una valanga di lettere a proposito della morte di Sturm.
«So che Sturm non significa niente per voi!» ha scritto un lettore sconvolto. «Dopotutto, è soltanto un parto della vostra immaginazione.»
Naturalmente, era assai più di questo per noi. Passando tanto tempo con i nostri personaggi, avevano finito col diventare reali anche per noi. Trionfiamo con loro, ci addoloriamo con loro, e piangiamo con loro. Non abbiamo «ucciso» Sturm arbitrariamente. Il nobile Cavaliere di Solamnia era stato inteso come un eroe tragico fin dall’inizio del progetto. La morte fa parte della vita, è una parte che tutti noi affrontiamo, e dobbiamo imparare a viverci insieme, perfino il nostro spensieratissimo kender.
La morte di Sturm è adombrata, nel primo libro, dal Maestro della Foresta, che fissa direttamente il cavaliere quando dice, «Noi non piangiamo la morte di coloro che muoiono adempiendo il proprio destino.»
Il coraggioso sacrificio di Sturm costringe i cavalieri a riesaminare i loro valori e alla fine fornisce i mezzi per unirli. Sturm è morto com’è vissuto: con coraggio, con onore, al servizio degli altri. Il suo ricordo vive per coloro che l’hanno amato, proprio come la luce del Gioiello Stellare penetra con i propri raggi le tenebre. Molte volte, quando i suoi amici sono turbati, o affrontano una situazione pericolosa, il ricordo del cavaliere torna alla loro memoria, dando loro forza e coraggio.
Sapevamo che la morte di Flint avrebbe avuto un triste impatto su Tasslehoff e, invero, abbiamo pianto più per Tas quando Flint è morto più di quanto non abbiamo fatto per il vecchio nano, il quale aveva vissuto pienamente. Ma qualcosa in Tas cambiò per sempre (e per il meglio) quando perse quel suo amico burbero ma dal cuore tenero. Anche questo è stato un cambiamento necessario (anche se qui Tanis avrebbe aggiunto che certe cose non cambiano mai, e fra queste i kender!), ma sapevamo che Tas avrebbe dovuto affrontare una strada molto impervia nella seconda trilogia.
Sapevamo che aveva bisogno di forza, e soprattutto di compassione per farcela.
Avevamo sempre sperato che ci si presentasse l’occasione di raccontare la storia di Caramon e Raistlin, perfino mentre stavamo ancora lavorando alla prima trilogia. LEGGENDE crebbe in scopi e profondità mentre lavoravamo ancora sulle CRONACHE, e perciò è stato molto semplice continuare a viaggiare lungo la strada insieme a quei personaggi che avevano ancora bisogno di noi.
Era importante per noi mostrare in LEGGENDE una cerca che non era tanto intesa a salvare un mondo quanto (come dice Par-Salian), a salvare un’anima. Tutti credevano che fosse l’anima di Raistlin quella alla quale ci riferivamo ma, naturalmente, era quella del suo gemello. L’arcimago si era già condannato. L’unica cosa che lo salva alla fine è l’amore di suo fratello e quella piccola scintilla di attenzione nel proprio cuore che neppure l’oscurità dentro di lui riesce completamente a estinguere.
Ma adesso questa strada ci ha condotto, come alla fine devono fare tutte le strade, a un commiato.
Noi autori c’incamminiamo lungo una via, i nostri personaggi lungo un’altra. Adesso ci sentiamo fiduciosi di poterli lasciare. Non hanno più bisogno di noi. Caramon ha trovato le risorse interiori di cui ha bisogno per affrontare la vita. Lui e Tika avranno molti figli e figlie, e saremmo sorpresi se almeno uno non diventasse mago.
Indubbiamente i bambini di Caramon si uniranno all’unico figlio di Tanis (un giovane tranquillo e riflessivo) e con i gemelli dai capelli dorati di Riverwind e Goldmoon in questa o quella avventura.
Potrebbero forse cercare di scoprire che ne è stato di Gilthanas e Silvara. Potrebbero viaggiare fino ai regni uniti degli elfi, ricongiunti finalmente da Alhana e Porthios, i quali, dopotutto, finiranno per innamorarsi in maniera profonda e duratura. Potrebbero incontrare i figli di Bupu (lei ha sposato l’Highbulp quando lui non guardava) oppure potrebbero perfino viaggiare per un po’ con «Nonno» Tasslehoff.
Astinus scriverà le cronache di queste avventure, naturalmente, anche se noi non lo faremo. E voi che vi dedicate ai giochi di ruolo di DRAGONLANCE verrete senza alcun dubbio a sapere molto di più sulle ulteriori avventure di quanto ne sapremo mai noi. In ogni caso continuerete, speriamo, a divertirvi un mondo in quella terra favolosa. Ma noi dobbiamo andare per la nostra strada.
Stringiamo la mano a Tas (che sta di nuovo tirando su col naso) e gli diciamo addio (controllando prima le nostre borse, naturalmente, alleggerendo Tas dei molti oggetti personali che abbiamo lasciato inesplicabilmente «cadere»). Poi guardiamo il kender che si allontana saltellando lungo la strada, con il ciuffo che gli ballonzola in testa, e immaginiamo di poterlo vedere, in lontananza, che incontra un vecchio stregone confusionario, il quale se ne va in giro a cercare il cappello smarrito, che ha sulla testa.
E poi scompaiono alla nostra vista. Con un sospiro ci voltiamo e c’incamminiamo lungo la nuova strada che ci incita ad andare avanti.