La guerra dei gemelli

Margaret Weis e Tracy Hickman

Questo libro è dedicato a te che condividi il nostro viaggio attraverso Krynn. Ti ringraziamo, lettore, per aver percorso questa strada con noi.

Ringraziamenti.

Ci sono molte persone il cui interesse e il lavoro svolto sui libri e sui moduli di DRAGONLANCE hanno fatto di questa serie l’attuale successo. Apprezziamo profondamente l’aiuto e il sostegno che ci hanno dato.

Membri della Squadra del Progetto DRAGONLANCE: Harold Johnson, Laura Hickman, Douglas Niles, Jeff Grubb, Michael Dobson, Michael Breault, Bruce Heard, Roger E. Moore.

Progetto: Ruth Hoyer.

Mappe: Steve Sullivan.

Curatore: Jean Blashfield Black.

Aiuti e consigli preziosi: Patrick L. Price, Dezra e Terry Phillips, John «Dalamar» Walker, Carolyn Vanderbilt, Bill Larson, Janet e Gary Pack.

Illustratori del CALENDARIO DRAGONLANCE 1987: Clyde Caldwell, Larry Elmore, Keith Parkinson, Jeff Easley.

E alla fine vogliamo ringraziare tutti voi che avete impiegato il vostro tempo per scriverci. Lo apprezziamo moltissimo.

Margaret Weis e Tracy Hickman

Libro primo.

Il fiume continua a scorrere...

Le buie acque del tempo vorticarono intorno alle vesti nere dell’arcimago, trasportando lui, e quelli che erano con lui, avanti attraverso gli anni.

Il cielo grondava fuoco, la montagna cadde sulla città di Istar, affondandola giù, giù, nelle viscere del suolo. Le acque del mare, mosse a pietà da quell’orrenda distruzione, si precipitarono dentro per riempire il vuoto. L’immenso Tempio, dove il Gran Sacerdote stava ancora aspettando che gli dei esaudissero le sue richieste, scomparve dalla faccia del mondo. Perfino quegli elfi del mare che si avventurarono nel Mare di Sangue di Istar appena creato, contemplarono con meraviglia il luogo dove il Tempio si era innalzato. Adesso, là non c’era niente, soltanto un profondo pozzo nero.

L’acqua del mare al suo interno era talmente scura e gelida che perfino quegli elfi, nati e cresciuti nelle profondità marine, e che laggiù vivevano, non osavano nuotare vicino ad esso.

Ma erano in molti, in Ansalon, a invidiare gli abitanti di Istar. Almeno per loro la morte era giunta in fretta.

Per coloro che erano sopravvissuti all’immediata distruzione di Ansalon, la morte fu lenta ad arrivare, assumendo aspetti orrendi: carestie, malattie, assassinii...Guerra.

Capitolo primo.

Un urlo rauco di paura e di orrore frantumò il sonno di Crysania. Talmente improvviso e spavento-so fu l’urlo, e così profondo il suo sonno che, per un momento, non riuscì a immaginare cosa l’avesse svegliata. Terrorizzata e confusa si guardò intorno, cercando di capire dove si trovava, cercando di scoprire cosa l’a-vesse spaventata al punto da rendere rauco e affannoso il suo respiro.

Era distesa su un pavimento umido e duro. Il suo corpo era in preda a tremiti causati dal gelo che le penetrava le ossa; i denti le battevano per il freddo. Trattenendo il fiato, cercò di sentire o di vedere qualcosa. Ma l’o-scurità circostante era densa e impenetrabile, il silenzio profondo.

Cercò d’inspirare, ma parve che l’oscurità le sottraesse l’aria. Il panico l’afferrò. Disperatamente cercò di esplorare l’oscurità, di popolarla con forme e contorni. Ma la sua mente restava vuota.

L’oscurità restò priva di dimensioni. Era eterna...

Poi sentì nuovamente l’urlo, e lo riconobbe come la causa del suo risveglio. E, malgrado avesse quasi emesso un sospiro di sollievo nell’udire il suono di un’altra voce umana, la paura che udì in quell’urlo echeggiò nella sua anima.

Disperatamente, cercando con frenesia di penetrare l’oscurità, si costrinse a pensare, a ricordare.

C’erano state le pietre che cantavano, una voce che salmodiava: quella di Raistlin, e le sue braccia intorno a lei. Poi la sensazione di entrare nell’acqua e di venir trasportata velocemente in una vasta oscurità.

Raistlin! Allungando una mano tremante, Crysania non sentì niente accanto a sé, salvo la pietra umida e gelida. E poi il ricordo le balenò nella memoria con tutto il suo terrificante impatto.

Caramon che si lanciava su suo fratello con la spada balenante in mano... Le sue parole mentre lanciava un incantesimo chiericale per proteggere il mago... il rumore della spada che cadeva sferragliando sul pavimento di pietra.

Ma quel grido... era la voce di Caramon. E se...

«Raistlin!» gridò Crysania terrorizzata, alzandosi in piedi con uno sforzo. La sua voce scomparve, svanì, inghiottita dalla tenebra. Fu una sensazione così terribile che non osò più chiamare.

Stringendosi le braccia intorno al corpo, rabbrividendo per il freddo intenso, la mano di Crysania andò involontariamente al medaglione di Paladine che aveva al collo. La benedizione del dio scese ad avvolgerla e a darle sollievo.

«Luce,» bisbigliò, e tenendo stretto il medaglione tra le dita pregò il dio perché illuminasse la tenebra.

Una morbida luce sgorgò dal medaglione tra le sue dita, respingendo il velluto nero che la soffocava, permettendole infine di respirare. Sfilandosi la catenella da sopra la testa, Crysania tenne alto il medaglione. Proiettando intorno a sé il suo splendore, cercò di ricordare da quale direzione era giunto l’urlo.

Ebbe la rapida impressione di mobilia infranta e annerita, ragnatele, libri che giacevano sparpagliati sul pavimento, scaffali che cadevano dalle pareti. Ma tutto questo faceva paura quasi quanto la stessa tenebra; era la tenebra che l’aveva originato. Quegli oggetti avevano più diritto di lei di trovarsi in quel luogo.

L’urlo echeggiò di nuovo.

Con la mano che le tremava, Crysania si voltò rapidamente verso il suono. La luce del dio squarciò la tenebra mettendo in vivido e sconvolgente risalto due figure. Una, abbigliata di nero giaceva silenziosa e immobile sul freddo pavimento di pietra. Sopra quella figura immobile si ergeva un uomo gigantesco. Rivestito di un’armatura dorata macchiata di sangue, con un collare di ferro saldato intorno al collo, fissava la tenebra, le mani protese, la bocca spalancata, il volto bianco per il terrore.

Il medaglione scivolò via dalle mani inerti di Crysania, quando riconobbe il corpo che giaceva rannicchiato ai piedi del guerriero.

«Raistlin!» bisbigliò.

Soltanto quando sentì la catenella di platino scivolarle tra le dita, soltanto quando la preziosa luce intorno a lei tremolò, pensò a muovere di scatto le mani per afferrarla.

Attraversò di corsa la distanza che la separava dai due, il suo mondo vacillò alla luce che ondeggiava come impazzita dalla sua mano. Delle forme scure fuggirono da sotto i suoi piedi, ma Crysania non si accorse neppure della loro presenza. Colma d’una paura più soffocante della tenebra, s’inginocchiò accanto al mago.

Questi giaceva bocconi sul pavimento, il cappuccio calato sulla testa. Crysania lo sollevò con delicatezza, girandolo dall’altra parte. Intimorita, gli scostò il cappuccio dal volto e tenne sospeso sopra di lui il medaglione ardente. La paura le raggelava il cuore.

La pelle del mago era cinerea, le labbra bluastre, gli occhi chiusi e infossati sopra gli zigomi scavati.

«Cos’hai fatto?» gridò a Caramon, alzando lo sguardo dal punto in cui era inginocchiata accanto al corpo in apparenza senza vita del mago. «Cos’hai fatto?» volle sapere, la voce rotta dal dolore e dal furore.

«Crysania?» bisbigliò Caramon con voce roca.

La luce del medaglione proiettava strane ombre sopra la forma del torreggiante gladiatore. Con le braccia ancora protese, le mani che annaspavano debolmente nell’aria, chinò la testa verso il suono della sua voce. «Crysania?» ripetè, con un singhiozzo. Facendo un passo verso di lei, inciampò nelle gambe di suo fratello e cadde lungo disteso sul pavimento.

Si rialzò quasi subito, si rannicchiò carponi, con il respiro affannoso, gli occhi ancora spalancati e fissi. Tese una mano.

«Crysania?» si lanciò verso il suono della sua voce. «La tua luce! Portaci la tua luce! Presto!»

«Ho una luce, Caramon! Ho... benedetto sia Paladine!» mormorò Crysania, fissandolo alla luce diffusa del medaglione. «Sei cieco!»

Allungando una mano gli prese le dita che continuavano ad annaspare. Al suo tocco, Caramon singhiozzò di nuovo per il sollievo. Le dita di Caramon si chiusero sulla sua mano, schiacciandola, e Crysania si morse il labbro per il dolore. Ma resistette, e continuò a reggere il medaglione con la mano libera.

Si alzò in piedi e aiutò Caramon a fare altrettanto. Il guerriero si aggrappò alla sua mano in preda a un disperato terrore, con gli occhi ancora fissi davanti a sé, spiritati, ciechi, E Crysania sentì che il suo grosso corpo era scosso da un tremito. La donna scrutò nel buio cercando disperatamente una sedia, un divano... qualcosa.

E poi, d’un tratto, divenne conscia che la tenebra la stava guardando a sua volta.

Distogliendo subito lo sguardo, facendo attenzione a tenerlo fisso entro la luce del medaglione, guidò Caramon fino all’unico grande mobile che vide.

«Ecco, siediti qui,» lo sollecitò. «Appoggiati a questo.»

Fece sistemare Caramon sul pavimento, con la schiena appoggiata a una scrivania di legno decorata da sculture che, pensò, le parevano vagamente familiari. Ma era troppo turbata e preoccupata per pensarci su molto.

«Caramon?» disse con voce tremante. «Raistlin è... lo hai ucciso...» Non riuscì a proseguire.

«Raistlin?» Caramon girò gli occhi ciechi verso il suono della sua voce. L’espressione sul suo volto si fece allarmata. Cercò di alzarsi. «Raist! Dove...»

«No. Stai seduto!» gli ordinò Crysania colta da una rabbia e da una paura improvvise. Gli mise una mano sulla spalla e lo spinse giù.

Gli occhi di Caramon si chiusero, un sorriso sarcastico gli contorse il volto. Per un attimo, assomigliò moltissimo al suo gemello.

«No, non l’ho ucciso,» disse con amarezza. «Come avrei potuto? L’ultima cosa che ho sentito eri tu che invocavi Paladine, poi tutto è diventato buio. I miei muscoli non volevano muoversi, la spada mi è caduta di mano. E poi...»

Ma Crysania non lo stava ascoltando. Tornando di corsa a Raistlin, a pochi passi da loro, si chinò di nuovo accanto al mago. Tenendo il meda-glione accostato al suo viso, allungò le mani all’interno del cappuccio nero, per sentire il battito della vita nel suo collo. Chiudendo gli occhi per il sollievo, recitò una silenziosa preghiera a Paladine.

«È vivo!» bisbigliò. «Ma allora, cos’ha?»

«Cos’ha?» chiese Caramon. L’amarezza e il dolore gli alteravano ancora la voce. «Non posso vedere...»

Arrossendo, quasi colta da un senso di colpa, Crysania descrisse le condizioni del mago.

Caramon scrollò le spalle. «E esausto a causa dell’incantesimo che ha lancialo,» commentò con voce priva d’espressione.

«E ricordati che era già debole in partenza, per lo meno è quello che mi ha detto. Malato a causa della vicinanza degli dei, o qualcosa del genere.» Abbassò la voce. «L’ho visto così altre volte. Quando usò per la prima volta il Globo dei draghi, dopo riusciva a muoversi a stento. Allora lo tenni fra le braccia...»

S’interruppe, fissando la tenebra, adesso il suo volto era calmo... calmo e trace. «Non c’è niente che noi possiamo fare per lui,» disse. «Deve riposare.»

Dopo un breve silenzio, Caramon chiese con calma: «Dama Crysania, puoi guarirmi?»

Crysania sentì la pelle che le bruciava. «Temo... temo di no,» rispose sconsolata. «Deve... dev’essere stato il mio incantesimo ad accecarti.» Ancora una volta, nel suo ricordo, vide il grosso guerriero con in pugno la spada chiazzata di sangue, sul punto dì uccidere suo fratello... sul punto di uccidere lei, se si fosse intromessa.

«Mi spiace,» disse con voce sommessa, sentendosi stanca e raggelata al punto da star quasi male.

«Ma ero disperata e... spaventata. Non preoccuparti, comunque,» aggiunse, «l’incantesimo non è permanente. Col tempo si esaurirà.»

Caramon sospirò. «Capisco,» disse. «C’è una luce in questa stanza? Hai detto che ne avevi una.»

«Sì,» rispose Crysania. «Ho il medaglione...»

«Guardati intorno. Dimmi dove siamo. Descrivimelo.»

«Ma Raistlin...»

«Si riprenderà,» rispose seccamente Caramon con voce aspra e imperiosa. «Torna qui, accanto a me. Fai come ti dico! La nostra vita, la sua vita, possono dipendere da questo! Dimmi dove siamo!»

Aguzzando lo sguardo nella tenebra, Crysania sentì tornarle la paura. Scostandosi riluttante dal mago, tornò indietro e si sedette accanto a Caramon.

«Non... non c’è molto...» balbettò, risollevando sopra di sé il meda-glione ardente. «Non... non riesco a vedere molto al di là della luce del medaglione. Ma mi sembra un posto dove sono già stata, soltanto non riesco a identificarlo. In giro ci sono dei mobìli, ma sono tutti rotti e carbonizzati, come se ci fosse stato un incendio. Ci sono molti libri sparsi tutt’intorno. C’è una grande scrivania di legno, ci sei appoggiato con la schiena. Sembra l’unico mobile ancora intatto. E mi sembra familiare,» aggiunse, perplessa, a bassa voce. «È bellissima, scolpita con ogni gene-re di strane creature.»

Caramon tastò sotto di sé con la mano. «Un tappeto,» disse, «sopra un pavimento di pietra.»

«Sì, il pavimento è coperto da un tappeto, o lo era. Ma adesso è lacerato, e pare che qualcosa l’abbia mangiato...»

Si sentì soffocare nel vedere una forma scura sgattaiolare via dalla luce.

«Cosa?» chiese Caramon, in tono secco.

«Ecco cos’è che l’ha mangiato,» rispose Crysania con una piccola Risata nervosa. «I topi.» Cercò di continuare la descrizione della stanza: «C’è un caminetto, ma non è stato usato per anni. E tutto pieno di ragnatele. Ma in realtà tutto questo posto è coperto di ragnatele...»

Ma la voce le venne meno. Improvvise immagini di topi che cadevano dal soffitto e di sorci che le correvano tra i piedi la fecero rabbrividire, inducendola a raccogliere intorno a sé le vesti bianche. Il camino spoglio e annerito le ricordò quanto sentiva freddo.

Sentendo il suo corpo che tremava, Caramon ebbe un pallido sorriso e, prendendole una mano e stringendola con forza, disse con una voce che suonò terribile per la sua calma. «Dama Crysania, se tutto ciò che dovremo affrontare sono topi e ragni, potremo considerarci fortunati.»

Crysania ricordò il grido di puro terrore che l’aveva destata. Eppure lui non era stato in grado di vedere! Si affrettò a girare lo sguardo tutt’intorno. «Ma qui... Tu devi aver sentito o percepito qualcosa, perché...»

«Percepito,» l’interruppe Caramon con voce sommessa. «Sì, l’ho percepito. Ci sono cose in questo posto, Crysania. Cose orribili. Sento che ci stanno osservando! Posso percepire il loro odio. Dovunque sia questo posto, ci siamo intromessi nella loro vita. Non lo senti anche tu?»

Crysania fissò l’oscurità. Così, l’oscurità l’aveva davvero guardata a sua volta! Adesso che Caramon ne aveva parlato, poteva percepire qualcosa là fuori. Qualcosa o, come aveva detto Caramon, cose!

Più aguzzava lo sguardo e più si concentrava su di esse, più diventavano reali. Malgrado non potesse vederle, sapeva che aspettavano, appena oltre il cerchio di luce proiettato dal medaglione. Il loro odio era intenso, come Caramon aveva detto e, cosa ancora peggiore, sentiva il loro male scorrere raggelante intorno a lei. Era come... come...

Crysania trattenne il fiato.

«Sst,» sibilò, stringendo con forza la mano di Caramon. «Niente. E soltanto che so dove siamo,» disse in tono sommesso.

Lui non rispose ma girò gli occhi ciechi su di lei.

«La Torre della Grande Stregoneria di Palanthas!» bisbigliò.

«Dove vive Raistlin?» Caramon parve sollevato.

«Sì... no.» Crysania scosse le spalle in un gesto d’impotenza. «È la stessa stanza in cui mi sono trovata, il suo studio... ma non sembra la stessa. Sembra che nessuno vi abbia abitato per centinaia d’anni o forse anche più e, Caramon, ecco... Ha detto che mi avrebbe portato in un luogo e in un tempo dove non c’erano chierici! Dev’essere dopo il cataclisma e prima della guerra. Prima di...»

«Prima che lui tornasse per rivendicare a sé il possesso della Torre,» disse Caramon con voce truce.

«E questo significa che la maledizione grava ancora sulla Torre, Dama Crysania. Noi, dunque, ci troviamo nell’unico posto su Krynn in cui il male regna supremo. L’unico posto più temuto di ogni altro sulla faccia del mondo. L’unico posto in cui nessun mortale osa mettere piede, protetto dal Bosco di Shoikan e soltanto gli dei sanno da cos’altro ancora! Ci ha portati qui! Ci siamo materializzati nel suo cuore!»

D’un tratto Crysania vide dei pallidi volti comparire fuori dal cerchio di luce, come se fossero stati convocati dalla voce di Caramon. Teste senza corpo, che la fissavano con occhi che si erano chiusi molto tempo prima in una morte tenebrosa e orribile, fluttuavano nell’aria gelida, con la bocca che si spalancava pregustando il sangue vivo e caldo.

«Caramon, posso vederli!» esclamò Crysania con voce soffocata, stringendosi addosso all’omone.

«Posso vedere le loro facce!»

«Ho sentito le loro mani su di me,» disse Caramon. Rabbrividendo convulsamente, sentendo che anche lei rabbrividiva, la cinse con il braccio, attirandola a sé. «Mi hanno attaccato. Il loro tocco mi ha raggelato la pelle. È stato allora che mi hai sentito urlare.»

«Ma perché non li ho visti prima? Adesso, cos’è che impedisce loro di attaccarci?»

«Tu, Dama Crysania,» spiegò Caramon con voce sommessa. «Tu sei un chierico di Paladine. Queste sono creature generate dal male, create dalla maledizione. Non hanno il potere di farti del male.»

Crysania fissò il medaglione che stringeva in mano. La luce sgorgava ancora da esso ma, proprio mentre lo guardava, la luminosità parve diventale più fioca. Con una sensazione di colpa ricordò il chierico elfo, Loralon. Ricordò il suo rifiuto di accompagnarlo. Le sue parole le riecheggiarono nella mente: Vedrai solamente quando sarai accecata dalla tenebra...

«Sono un chierico, è vero,» disse con voce sommessa, cercando di tener fuori la disperazione dalle sue parole, «ma la mia fede è... imperfetta. Questi esseri percepiscono i miei dubbi, la mia debolezza. Forse un chierico forte come Elistan avrebbe l’energia di combatterli. Io non credo di averla.» Il bagliore divenne ancora più fioco. «La mia luce sta venendo meno, Caramon,» aggiunse un attimo dopo. Sollevando lo sguardo poté vedere quei pallidi volti farsi avidamente più vicini, e si strinse ancora di più a lui. «Cosa possiamo fare?»

«Cosa possiamo fare? Non ho armi! Non posso vedere!» gridò Caramon in preda all’angoscia, serrando il pugno.

«Zitto!» gli ordinò Crysania, afferrandogli il braccio, gli occhi puntati sulle figure fluttuanti.

«Sembrano rafforzarsi, quando parli così! Forse si nutrono di paura. Le creature del Bosco di Shoikan lo fanno, così mi ha detto Dalamar.»

Caramon tirò un profondo respiro. Il suo corpo luccicò di sudore e cominciò ad essere scosso da un violento tremito.

«Dobbiamo cercare di svegliare Raistlin,» disse Crysania.

«Non serve!» bisbigliò Caramon attraverso i denti che gli battevano. «So che...»

«Dobbiamo provare!» insistè Crysania con fermezza, pur se tremava al pensiero di percorrere anche pochi passi sotto quei terribili sguardi.

«Fa’ attenzione. Muoviti lentamente,» le consigliò Caramon, lasciandola andare.

Tenendo in alto il medaglione e sfidando gli sguardi della tenebra puntati su di lei, Crysania strisciò fino a Raistlin. Appoggiò una mano sulla spalla sottile del mago abbigliato di nero. «Raistlin!» chiamò, con la voce più alta che osò, scuotendolo. «Raistlin!»

Non vi fu risposta. Sarebbe stato lo stesso se avesse cercato di destare un cadavere. A questo pensiero, lanciò un’occhiata alle figure in attesa. Avrebbero ucciso lui? si chiese. Dopotutto, non esisteva in quel tempo. Il«Maestro del Passato e del Presente» non era ancora tornato per reclamare la sua proprietà, quella Torre.

Oppure sì?

Crysania chiamò di nuovo il mago e, mentre lo faceva, tenne gli occhi fissi sui non morti, i quali si stavano avvicinando sempre più a mano a mano che la luce diventava più debole.

«Fistandantilus!» gridò a Raistlin.

«Sì!» esclamò Caramon, che aveva capito. «Riconoscono quel nome. Cosa sta succedendo? Sento un cambiamento...»

«Si sono fermati!» disse Crysania, quasi senza fiato. «Adesso lo stanno fissando.»

«Torna indietro!» le ordinò Caramon, dalla sua posizione accovacciata. «Stai lontana da lui. Allontana da lui quella luce! Lascia che lo vedano come esiste nella loro tenebra!»

«No!» replicò Crysania con rabbia. «Sei pazzo! Una volta che la luce non ci sarà più, lo divoreranno...»

«È la nostra unica possibilità!»

Lanciandosi alla cieca addosso a Crysania, Caramon la colse impreparata. L’afferrò tra le forti braccia e la strappò via da Raistlin, buttandola sul pavimento. Poi le cadde sopra di traverso, schiacciandola e facendole mancare il respiro.

«Caramon!» Crysania rantolò per riuscire a respirare. «Lo uccideranno! Non...» Freneticamente Crysania lottò contro il grande guerriero, ma lui la tenne inchiodata sotto di sé.

Stringeva ancora il medaglione fra le dita. La sua luce diventava sempre più debole. Torcendosi con uno sforzo, vide che adesso Raistlin giaceva nella tenebra, fuori dal cerchio di luce.

«Raistlin!» urlò. «No! Lasciami andare, Caramon! Stanno andando da lui...»

Ma Caramon la trattenne ancora più saldamente, premendola giù contro il freddo pavimento. La sua faccia era angosciata, ma allo stesso tempo truce e risoluta, i suoi occhi ciechi la fissavano. La sua pelle era premuta contro quella di lei, i muscoli tesi e annodati.

Avrebbe lanciato un altro incantesimo contro di lui! Le parole erano sulle sue labbra quando un acuto urlo di dolore trafisse la tenebra.

«Paladine, aiutami!» pregò Crysania.

Non accadde nulla.

Agitandosi debolmente, cercò un’altra volta di sfuggire a Caramon, ma non c’era speranza, e lo sapeva. E adesso, a quanto pareva, perfino il suo dio l’aveva abbandonata. Urlando per la frustrazione, maledicendo Caramon, potè soltanto guardare.

Adesso quelle pallide figure circondavano Raistlin. Crysania poteva intravederlo soltanto alla luce dell’orrenda aura irradiata dai loro corpi putrescenti. La gola le faceva male e un sordo gemito le sfuggì dalle labbra quando una delle creature spettrali sollevò le gelide mani e le appoggio sul corpo del mago.

Raistlin urlò. Sotto le vesti nere il suo corpo sussultò in preda agli spasimi.

Anche Caramon udì l’urlo di suo fratello. Crysania potè vederlo riflesso sul suo volto pallido come la morte. «Lasciami alzare!» lo implorò. Ma anche se un sudore freddo gl’imperlava la fronte, scosse la testa risoluto, tenendole strette le mani in una morsa.

Raistlin urlò di nuovo. Caramon rabbrividì e Crysania sentì i suoi Muscoli infiacchirsi. Lasciando cadere il medaglione, riuscì a liberare le braccia e fece per colpirlo con i pugni chiusi. Ma mentre stava per farlo, la luce del medaglione scomparve, facendoli sprofondare ambedue nella più completa oscurità. Il corpo di Caramon venne d’un tratto strappato via dal suo. Il suo urlo angosciato si fuse con le urla di suo fratello.

Stordita, con il cuore che le martellava per il terrore, Crysania lottò per alzarsi a sedere, frugando freneticamente il pavimento intorno a sé alla ricerca del medaglione.

Un volto si avvicinò al suo. Crysania sollevò di scatto la testa interrompendo la sua ricerca, pensando che fosse Caramon...

Non era Caramon. Una testa scorporata le fluttuava accanto.

«No!» bisbigliò, incapace di muoversi, sentendo che la vita le veniva prosciugata dalle mani, dal corpo, dal suo stesso cuore. Mani scheletriche l’afferrarono per le braccia, attirandola vicina; labbra esangui si spalancarono, avide di calore.

«Paladi...» Crysania cercò d’innalzare una preghiera, ma sentì che l’anima le veniva succhiata fuori del corpo dal tocco mortale della creatura.

Poi sentì vagamente e molto lontano una debole voce intonare parole magiche. La luce esplose intorno a lei. Quella testa così vicina alla sua scomparve con un urlo acuto, quelle mani scheletriche lasciarono la stretta. Si sentì un acre odore di zolfo.

«Shirak.» La luminosità spettrale era scomparsa. Un tranquillo chiarore illuminava la stanza.

Crysania si sollevò a sedere. «Raistlin!» bisbigliò con gratitudine. Barcollando, trascinandosi carponi, attraversò il pavimento annerito e distrutto per raggiungere il mago, il quale giaceva disteso sulla schiena respirando affannosamente. Teneva una mano appoggiata al Bastone di Magius. La luce s’irradiava dalla sfera di cristallo stretta nell’artiglio del drago dorato in cima al bastone.

«Raistlin! Stai bene?»

Inginocchiandosi accanto a lui, fissò il suo volto pallido e sottile mentre apriva gli occhi. Il mago annuì stancamente. Poi, alzando un braccio, l’attirò giù, su di sé. Abbracciandola, le accarezzò i morbidi capelli neri. Crysania potè sentire il battito del suo cuore. Lo strano calore del suo corpo mise in fuga il gelo.

«Non aver paura,» le bisbigliò lui, tranquillizzandola, sentendola tremare. «Non ci faranno del male. Mi hanno visto e mi hanno riconosciuto. Ti hanno fatto qualcosa?»

Crysania non riuscì a rispondere, potè soltanto scuotere la testa. Raistlin tornò a sospirare. Crysania, gli occhi chiusi, giaceva nel suo abbraccio, smarrita ma confortata.

Poi, quando la mano riandò ai suoi capelli, sentì il suo corpo tendersi. Quasi con rabbia lui l’afferrò per le spalle e la spinse lontana da sé.

«Dimmi cos’è successo,» le ordinò, sia pure con un filo di voce.

«Mi sono svegliata qui...» balbettò Crysania. L’orrore della sua esperienza e il ricordo del caldo tocco di Raistlin la confondevano e la spaventavano. Ma, vedendo i suoi occhi che diventavano freddi e impazienti, si indusse a continuare, mantenendo calma la voce. «Ho sentito Caramon che gridava...»

Gli occhi di Raistlin si spalancarono. «Mio fratello?» esclamò, sorpreso. «Così, l’incantesimo ha trasportato anche lui. Sono sorpreso di essere ancora vivo. Dov’è?» Sollevando leggermente la testa vide suo fratello che giaceva privo di sensi sul pavimento. «Cos’ha?»

«Ho... ho lanciato un incantesimo. È cieco,» disse Crysania, arrossendo. «Non avevo intenzione di farlo, è stato quando ha tentato di ucci... ucciderti, a Istar, subito prima del Cataclisma... »

«Lo hai accecato! Paladine... lo hai accecato!» Raistlin scoppiò a ridere. Il suono della risata riverberò sulle gelide pietre, e Crysania si ritrasse provando un brivido di orrore. Ma la risata s’impigliò nella gola di Raistlin. Il mago cominciò a soffocare e rantolò per respirare.

Crysania lo guardò impotente, fino a quando gli spasimi non furono passati e Raistlin giacque di nuovo tranquillo. «Prosegui,» bisbigliò, irritato.

«L’ho sentito gridare, ma non riuscivo a vedere al buio. Ma il medaglione mi ha fatto luce, ho trovato Caramon e... ho capito che era cieco. E ho trovato anche te. Eri privo di sensi. Non potevo svegliarti. Caramon mi ha detto di descrivere dove ci trovavamo, e poi ho visto...» rabbrividì, «ho visto quegli... quegli orrendi...»

«Continua,» disse Raistlin.

Crysania tirò un profondo sospiro. «Poi la luce del medaglione ha cominciato a diminuire...»

Raistlin annuì.

«... e quegli esseri sono venuti verso di noi. Ti ho chiamato usando il nome di Fistandantilus. Ciò li ha fatti fermare. Poi...» la voce di Crysania perse la sua paura e fu venata da una punta di collera,

«tuo fratello mi ha afferrato e mi ha scagliato sul pavimento, urlando qualcosa come “Lascia che lo vedano come esiste nella sua oscurità!” Quando la luce di Paladine non ti ha più toccato, quelle creature...» Rabbrividì e si coprì il volto con le mani, udendo ancora il terribile urlo di Raistlin echeggiarle nella mente.

«Mio fratello ha detto questo?» chiese Raistlin con voce sommessa, un istante dopo.

Crysania mosse le mani per guardarlo, perplessa dal tono della sua voce, ammirato e stupito insieme. «Sì,» disse con freddezza un istante dopo. «Perché?»

«Ci ha salvato la vita,» osservò Raistlin, con un tono di voce ancora più caustico. «Quel grosso imbecille ha avuto davvero una buona idea. Forse dovresti lasciarlo cieco, lo aiuta a pensare.»

Raistlin cercò di ridere, ma la risata divenne una tosse che quasi lo fece soffocare. Crysania si mosse verso di lui per aiutarlo, ma lui la fermò con espressione feroce, mentre il suo corpo si contorceva per il dolore. Rotolandosi su un lato, vomitò.

Ricadde sulla schiena indebolito, le labbra macchiate di sangue, le mani che si contraevano. Il suo respiro era poco profondo e troppo veloce. Di tanto in tanto un nuovo accesso di tosse gli squassava il corpo.

Crysania lo fissò impotente.

«Una volta mi dicesti che gli dei non possono guarire questa malattia. Ma tu stai morendo, Raistlin! Non c’è qualcosa che io possa fare?» chiese con voce sommessa, non osando toccarlo.

Raistlin annuì, ma per un istante non riuscì né a parlare né a muoversi. Alla fine, con ovvio sforzo, sollevò una mano tremante dal pavimento gelato e fece segno a Crysania di avvicinarsi. Quando lei si chinò sopra di lui, sollevando la mano Raistlin le toccò la guancia, attirando a sé il suo volto. Il suo respiro era ardente.

«Acqua!» rantolò Raistlin con voce troppo fioca. Crysania riuscì a capirlo solamente leggendo il movimento delle sue labbra incrostate di sangue. «Una pozione... mi aiuterebbe...» Con un debole movimento la sua mano andò a una tasca delle sue vesti. «Ah... è il calore d’un fuoco. Non... ho... la forza...»

Crysania annuì, per mostrare che aveva capito.

«Caramon?» Le sue labbra articolarono la parola.

«Quegli... quegli esseri l’hanno attaccato,» disse Crysania, lanciando un’occhiata al corpo immobile del grosso guerriero. «Non sono sicura che sia ancora vivo...»

«Abbiamo bisogno di lui! Devi... guarirlo!» Raistlin non riuscì a continuare ma giacque ansante, respirando con difficoltà, gli occhi chiusi.

Crysania inghiottì, rabbrividendo. «Ne... ne sei sicuro?» chiese, esitante. «Ha cercato di assassinarti...»

Raistlin sorrise, poi scosse la testa. Il cappuccio nero frusciò lievemente a quel movimento.

Aprendo gli occhi, sollevò lo sguardo su Crysania, che potè vedere nelle profondità dei loro abissi castani. La fiamma dentro il mago bruciava bassa, donando ai suoi occhi un diffuso calore assai diverso dai fuochi furiosi che vi ardevano in precedenza.

«Crysania...» mormorò, «sto per... perdere conoscenza... Rimarrai sola... in questo luogo tenebroso... Mio fratello... potrà aiutarti... Il calore...» I suoi occhi si chiusero, ma la sua stretta sulla mano di Crysania si accentuò, come per sforzarsi di usare la forza vitale della donna per tenersi aggrappato alla realtà. Con uno sforzo violento, aprì di nuovo gli occhi per guardare direttamente dentro quelli di lei.

«Non lasciare questa stanza!» le intimò, pur muovendo le labbra a fatica. Gli occhi gli si arrovesciarono nelle orbite.

Sarai sola! Crysania si guardò intorno, più che mai intimorita, sentendo che il terrore saliva in lei a soffocarla. Acqua! Calore! Come avrebbe potuto riuscire a farcela? Non poteva! Non in quella camera del male!

«Raistlin,» implorò, stringendo la fragile mano del mago tra le sue, appoggiandovi la guancia.

«Raistlin, per favore, non lasciarmi!» bisbigliò, ritraendosi al tocco della sua pelle fredda. «Non posso fare quello che mi chiedi! Non ne ho il potere! Non posso creare l’acqua dalla polvere...»

Gli occhi di Raistlin si aprirono. Erano scuri quanto la stanza in cui si trovava. Muovendo la mano, la mano che lei reggeva, tracciò una linea dai suoi occhi giù lungo la guancia. Poi la sua mano s’indebolì e la testa gli ricadde su un lato.

Crysania sollevò la propria mano sulla sua pelle, in preda alla confusione, chiedendosi cosa mai avesse inteso dire con quello strano gesto... Non era stata una carezza. Aveva forse cercato di dirle qualcosa. Ma cosa mai? La pelle le bruciava per il suo tocco... riportandole alla mente dei ricordi...

E poi seppe. Non posso creare l’acqua dalla polvere... «Le mie lacrime!» mormorò.

Capitolo secondo.

Seduta in solitudine nella camera gelida, inginocchiata accanto al corpo immobile di Raistlin, vedendo Caramon disteso lì accanto, pallido e senza vita, d’un tratto Crysania si trovò a invidiarli entrambi con rabbia furibonda. Come sarebbe stato facile, pensò, scivolare nell’incoscienza e lasciare che la tenebra s’impadronisse di lei! Il male di quel luogo, che in apparenza era fuggito nell’udire la voce di Raistlin, stava tornando. Poteva sentirlo sul suo collo come una corrente fredda.

Degli occhi la fissavano dall’ombra, occhi che, a quanto sembrava, venivano tenuti a distanza soltanto dalla luce del Bastone di Magius, il quale brillava ancora. Anche privo di sensi, Raistlin continuava a tenervi sopra la mano.

Crysania appoggiò con delicatezza l’altra mano dell’arcimago, quella che lei reggeva, sul suo petto.

Poi tornò a sedersi, con le labbra serrate, inghiottendo le lacrime.

«Si e affidano a me,» si disse, parlando per disperdere l’arcano sussurrio che sentiva intorno a sé.

«Nella sua debolezza confida nella mia forza. Per tutta la mia vita,» continuò asciugandosi le lacrime dagli occhi, «mi sono vantata della mia forza. Eppure, fino ad ora, non ho mai saputo cos’è la vera forza.» Il suo sguardo andò a Raistlin. «Adesso la vedo in lui! Non lo abbandonerò!»

«Calore!» disse ancora, rabbrividendo al punto che riuscì a stento a reggersi in piedi. «Ha bisogno di calore. Tutti noi ne abbiamo bisogno.» Sospirò impotente. «Ma come posso ottenerlo? Se mi trovassi nel Castello della Muraglia di Ghiaccio, le mie preghiere da sole sarebbero sufficienti a tenerci caldi. Paladine ci aiuterebbe, ma questo non è il gelo del ghiaccio o della neve.

«È molto più intenso, congela lo spirito più che il sangue. Qui, in questo luogo del male, la mia fede può sorreggermi, ma non ci riscalderà mai!»

Pensando a questo e lanciando un’occhiata intorno alla stanza che intravedeva vagamente alla luce del Bastone, Crysania vide le forme ombrose delle tende a brandelli che penzolavano dalle finestre.

Fatte di pesante tessuto, erano abbastanza grandi da coprire tutti loro. Il suo morale si risollevò, ma riaffondò quasi subito quando si rese conto che erano troppo lontane, sul lato opposto della stanza.

Appena visibili all’interno di quell’oscurità che si contorceva, le finestre erano fuori del cerchio di luce vivida proiettata dal Bastone.

«Dovrò arrivare fin là,» si disse, «in mezzo alle ombre!» Il cuore le venne quasi meno, le forze le si infiacchirono. «Chiederò l’aiuto di Paladine.» Ma mentre parlava, il suo sguardo andò al medaglione che giaceva freddo e scuro sul pavimento.

Chinandosi per raccoglierlo, esitò, temendo per un attimo di toccarlo, ricordando, in preda al dolore, come la sua luce si fosse spenta all’arrivo del male.

Ancora una volta il suo pensiero andò a Loralon, il grande chierico elfo che era venuto per condurla via prima del Cataclisma. Lei aveva rifiutato, scegliendo invece di rischiare la vita, per sentire le parole del Gran Sacerdote, le parole che avevano causato la collera degli dei. Paladine era in collera? L’aveva abbandonata nella sua collera, così come aveva abbandonato tutto Krynn dopo la terribile distruzione di Istar? Oppure la sua guida divina era semplicemente incapace di penetrare i gelidi strati del male che avvolgevano la Torre maledetta della Grande Stregoneria?

Confusa e spaventata, Crysania sollevò il medaglione. Non riluceva. Non faceva niente. Il metallo era freddo a contatto con la sua mano. Immobile al centro della stanza, reggendo il medaglione, con i denti che le battevano, s’impose di avvicinarsi a una finestra.

«Se non lo farò,» mormorò attraverso le labbra intirizzite, «morirò di freddo. Moriremo tutti,» aggiunse. Fissò di nuovo i gemelli. Raistlin indossava le sue vesti di velluto nero, ma lei ricordava la sensazione di gelo che aveva provato stringendo la sua mano. Caramon era ancora vestito come lo era stato per i Giochi gladiatorii, con poco più dell’armatura dorata e il perizoma.

Sollevando il mento, Crysania lanciò un’occhiata di sfida agli esseri invisibili che bisbigliavano in agguato intorno a lei, poi uscì con passo incerto fuori dal cerchio di luce magica diffuso dal Bastone di Raistlin.

Quasi nello stesso istante l’oscurità divenne viva! I bisbigli divennero più forti e, con orrore, Crysania si accorse di poter capire le parole!

Con quanta forza il tuo cuore chiama, amore; quanto è vicina l’oscurità al tuo petto; come sono tumultuosi i fiumi, amore, risucchiati attraverso il tuo polso morente.

E, amore, quale calore nasconde la tua fragile pelle, puro come il sale, dolce come la morte; e nel buio la luna rossa cavalca il fuoco fatuo del tuo respiro.

Avvertì un tocco di dita gelide sulla sua pelle. Crysania sussultò per il terrore e si ritrasse, ma non vide nulla!

Sentendosi quasi male per la paura e l’orrore di quel macabro canto d’amore dei morti, non riuscì a muoversi per parecchi istanti.

«No!» esclamò infine, incollerita. «Andrò avanti! Queste creature del male non mi fermeranno! Sono un chierico di Paladine! Anche se il mio dio mi ha abbandonato, non abbandonerò la mia fede!»

Sollevando la testa, Crysania tese la mano davanti a sé come se volesse schiudere l’oscurità al pari di una tenda. Poi proseguì verso la finestra. Il brusio risuonò intorno a lei, udì delle risate arcane, ma niente venne a farle del male, niente la toccò. Infine, dopo un viaggio che parve lungo molte miglia, raggiunse la finestra.

Aggrappandosi alle tende, tutta tremante, con le gambe fiacche, le scostò e guardò fuori sperando di poter vedere le luci della città di Palanthas da cui trarre conforto. Ci sono altri esseri umani là fuori, si disse, premendo la faccia contro il vetro. Vedrò le luci...

Ma la profezia non si era ancora avverata. Raistlin, come maestro del passato e del presente, non era ancora tornato con il potere di rivendicare la Torre, come sarebbe accaduto in futuro. E così la Torre rimaneva avvolta in un’impenetrabile oscurità, come se una perpetua nebbia nera vi fosse sospesa intorno. Se le luci della bellissima città di Palanthas ardevano, lei non poteva vederle.

Con un sospiro desolato, Crysania strinse il panno e gli dette uno strattone. Il tessuto marcio cedette subito, quasi seppellendola in un sudario di broccato, mentre la tenda si afflosciava sul pavimento.

Ringraziando il cielo, Crysania si avvolse il pesante tessuto intorno alle spalle a mo’ di mantello, infagottandosi con gratitudine nel suo calore.

Con movimenti impacciati tirò giù un’altra tenda e la trascinò attraverso la stanza buia, sentendola raschiare sul pavimento mentre raccoglieva i frammenti dei mobili rotti lungo il cammino.

La luce magica del Bastone brillava guidandola attraverso la tenebra. Quando l’ebbe finalmente raggiunta crollò sul pavimento, tremando per la fatica e la reazione al terrore che aveva provato.

Non si era resa conto fino a quel momento di quanto fosse stanca. Erano notti ormai che non dormiva, sin da quando la tempesta si era abbattuta su Istar. Adesso che sentiva più caldo, il pensiero di avvolgersi ancora più strettamente nella tenda e di scivolare nell’oblio la tentava in maniera irresistibile.

«Smettila!» s’intimò. Costringendosi a rialzarsi in piedi trascinò la tenda fino a Caramon e s’inginocchiò accanto a lui. Lo coprì con il pesante tessuto, tirandolo sopra le sue ampie spalle. Il suo petto era immobile; respirava appena. Appoggiando la fredda mano sul suo collo, Crysania cercò un battito... e lo trovò. Era lento e irregolare. E poi vide i segni sul suo collo, segni completamente bianchi, come di labbra scarnificate.

La testa priva di corpo fluttuò nel ricordo di Crysania. Rabbrividendo, la bandì dai propri pensieri e, avvolta nella tenda, appoggiò le mani sulla fronte di Caramon.

«Paladine,» pregò con voce sommessa, «se non hai voltato le spalle al tuo chierico per la collera, se soltanto cercherai di capire che quanto il tuo chierico fa, è in tuo onore, se vorrai squarciare questa terribile oscurità quel tanto che basta per esaudire questa preghiera: guarisci quest’uomo! Se il suo destino non si è ancora compiuto, se c’è ancora qualcosa che deve fare, concedigli la salute. Se così non fosse, allora raccogli la sua anima con gentilezza fra le tue braccia, Paladine, in modo che possa dimorare per l’eternità...»

Crysania non riuscì a proseguire. Le forze le vennero meno. Affaticata, prosciugata dal terrore e dai propri conflitti interiori, smarrita e sola nella vasta oscurità, si lasciò cadere la testa fra le mani e cominciò a piangere: gli amari singhiozzi di qualcuno che non vede nessuna speranza.

E poi sentì una mano toccare la sua. Trasalì per il terrore, ma quella mano era forte e calda.

«Suvvia, Tika,» disse una voce profonda e assonnata, «mi rimetterò, non piangere.»

Alzando il volto bagnato di lacrime, Crysania vide il petto di Caramon alzarsi ed abbassarsi, respirando profondamente. Il suo volto aveva perso il pallore mortale, i segni bianchi sul suo collo erano sbiaditi. Battendole la mano per tranquillizzarla, le sorrise.

«È soltanto un brutto sogno, Tika,» borbottò. «Sarà tutto finito... entro domattina...»

Tirandosi la tenda intorno al collo, rannicchiandosi nel suo stesso calore, Caramon spalancò la bocca dando in un immenso sbadiglio, e si girò sul fianco scivolando in un sonno profondo e pacifico.

Troppo stanca e intorpidita anche soltanto per offrire i propri ringraziamenti, Crysania riuscì soltanto a rimanere seduta per qualche istante a contemplare l’omone che dormiva. Poi un suono le giunse all’orecchio, attirando la sua attenzione: uno sgocciolio d’acqua! Voltandosi, vide - per la prima volta - una caraffa d’acqua appoggiata sull’orlo della scrivania. Il lungo collo era rotto e la caraffa giaceva distesa sul fianco, con l’imboccatura sospesa, sopra l’orlo. A quanto pareva era rimasta vuota per lungo tempo, il suo contenuto doveva essere stato versato fuori cent’anni prima.

Ma adesso risplendeva colma di un liquido limpido che sgocciolava sul pavimento, con delicatezza, una goccia per volta, e ogni goccia luccicava alla luce del Bastone.

Tendendo la mano, Crysania raccolse alcune delle gocce sul palmo della mano, poi, esitante, portò la mano alle labbra.

«Acqua...» bisbigliò.

Il sapore era debolmente amaro, quasi salato, ma le parve l’acqua più deliziosa che avesse mai bevuto. Costringendo il proprio corpo dolorante a muoversi, si versò dell’altra acqua nella mano, inghiottendola con avidità. Mettendo la caraffa in posizione verticale sulla scrivania, vide il livello dell’acqua alzarsi di nuovo, sostituendo quella che aveva bevuto.

Adesso poteva ringraziare Paladine con parole che si levavano dal profondo del suo essere, talmente dal profondo che non riuscì a pronunciarle. La sua paura della tenebra e delle creature che vi dimoravano svanì. Il suo dio non l’aveva abbandonata, era ancora con lei, anche se, forse, lei l’aveva deluso.

Placate le sue paure, lanciò un’ultima occhiata a Caramon. Vedendolo dormire pacificamente con i segni del dolore cancellati dalla sua faccia, gli voltò le spalle e si avvicinò a suo fratello là dove giaceva rannicchiato nelle sue vesti, con le labbra livide per il freddo.

Stendendosi accanto al mago, sapendo che il calore del suo corpo li avrebbe scaldati entrambi, Crysania stese la tenda sopra di loro e, appoggiando la testa sulla spalla di Raistlin, chiuse gli occhi e si lasciò avvolgere dall’oscurità.

Capitolo terzo.

«Lo ha chiamato “Raistlin”. »

«Ma, poi, “Fistandantilus” ! »

«Come possiamo esserne sicuri? Questo non è giusto! Non è giunto attraverso il Bosco, com’era stato predetto. Lui non è venuto con il potere! E questi altri? Lui sarebbe dovuto venire da solo!»

«Eppure percepisci la sua magia! Non oso sfidarlo...»

«Neppure per una ricompensa così ricca?»

«L’odore del sangue ti ha fatto impazzire! Se è lui, e dovesse scoprire che ti sei cibato dei suoi prescelti, ti rispedirà in quella eterna tenebra dove sognerai sempre il sangue caldo e non lo gusterai mai!»

«E se non lo è, e noi mancheremo al nostro dovere di sorvegliare questo posto, allora arriverà lei nella sua collera, e ci farà sembrare piacevole quel destino!»

Silenzio. Poi: «C’è un modo per accertarcene...»

«È pericoloso. È debole, potremmo ucciderlo.»

«Dobbiamo saperlo! Meglio che lui muoia piuttosto che noi manchiamo al nostro dovere verso Sua Maestà Tenebrosa.»

«Sì... La sua morte potrebbe venir spiegata. La sua vita... forse no.»

Un dolore freddo, bruciante, penetrò gli strati della sua coscienza come schegge di ghiaccio che gli trafiggessero il cervello. Raistlin lottò nella loro stretta, combattendo attraverso la nebbia della nausea e della fatica per tornare per un breve momento alla consapevolezza. Aprendo gli occhi, si sentì quasi soffocare dalla paura quando vide due pallide teste fluttuare sopra di lui, intente a fissarlo con occhi d’una immensa oscurità.

Avevano appoggiato le loro mani sul suo petto: era il tocco di quelle dita di ghiaccio che lo stava lacerando, penetrando fino alla sua anima.

Guardando dentro quegli occhi il mago seppe quello che cercavano e fu colto da un improvviso terrore. «No,» esclamò senza respirare. «Non intendo vivere di nuovo quell’esperienza!»

«Lo farai. Dobbiamo sapere!» fu tutto quello che dissero.

A quell’insulto, Raistlin fu colto dalla rabbia. Ringhiando un’amara maledizione, cercò di sollevare le braccia dal pavimento per liberarsi dalla stretta mortale di quelle mani spettrali. Ma fu inutile. I suoi muscoli si rifiutarono di reagire, un dito si contrasse, nulla più.

Il furore, il dolore e l’amara frustrazione gli fecero lanciare un urlo acuto, ma fu un suono che nessuno udì, neppure lui. Le mani aumentarono ancora di più la loro stretta, il dolore lo trafisse, e lui affondò, non nell’oscurità, ma nel ricordo.

Non c’erano finestre nella Stanza dell’Apprendimento, dove i sette apprendisti fruitori di magia lavoravano quella mattina. La luce del sole non era ammessa, né lo era quella delle due lune: l’argentea e la rossa. In quanto alla terza luna, quella nera, la sua presenza poteva venir percepita qui come altrove, su Krynn, senza esser vista.

La stanza era illuminata da grosse candele di cera d’api infisse in candelabri d’argento posti sui tavoli.

Quella era la sola stanza nel grande castello di Fistandantilus illuminata da candele. In tutte le altre, globi di vetro con incantesimi di luce lanciati in continuazione su di essi erano sospesi nell’aria, diffondendo un magico bagliore che illuminava la perpetua penombra di quella tenebrosa fortezza.

Ma i globi non venivano usati nella Stanza dell’Apprendimento, per una ragione molto valida: se fossero stati portati dentro quella stanza, la loro luce sarebbe subito venuta meno. Là dentro veniva sempre tenuto in funzione un incantesimo Scaccia magia. Di qui la necessità di candele e il bisogno di tener lontana qualunque influenza potesse venir assorbita dal sole o dalle due lune che diffondevano luce.

Sei degli apprendisti sedevano l’uno accanto all’altro a un tavolo, alcuni parlavano fra loro, altri studiavano in silenzio. Il settimo sedeva in disparte, a un tavolo posto sul lato opposto della stanza.

Di tanto in tanto uno dei sei sollevava la testa e lanciava un’occhiata inquieta all’apprendista che sedeva in disparte, poi si affrettava ad abbassare la testa, perché non importava chi lo guardasse o quando, il settimo era sempre lì che ricambiava lo sguardo.

I sei trovavano la cosa divertente, e anche il settimo si concesse un amaro sorriso. Raistlin non aveva trovato molto da ridere durante i mesi che aveva passato nel castello di Fistandantilus. Non era stato un periodo facile per lui. Oh, era stato abbastanza semplice mantenere l’inganno, impedendo a Fistandantilus d’indovinare la sua vera identità, nascondendo i suoi veri poteri, dando a vedere di essere semplicemente uno di quel gruppo di sciocchi che lavoravano per conquistarsi i favori del grande stregone, diventando così suoi apprendisti.

Per Raistlin l’inganno era autentica linfa vitale. Gli piacevano perfino i suoi piccoli espedienti per mantenere il vantaggio sugli altri apprendisti, facendo sempre tutto un po’ meglio, costringendoli a restare con i nervi a fior di pelle, cogliendoli sempre alla sprovvista. Gli piaceva anche il suo gioco con Fistandantilus. Poteva percepire l’attenzione del mago concentrata su di lui. Sapeva ciò che il grande stregone pensava: chi è questo apprendista? Da dove attingeva il potere che l’arcimago sentiva ardere dentro di lui, ma che non riusciva a definire?

Talvolta a Raistlin pareva di cogliere Fistandantilus che studiava la sua faccia, come se pensasse che gli era familiare...

Sì, a Raistlin quel gioco piaceva. Ma in modo del tutto inaspettato incappò in qualcosa che non gli era piaciuto. In qualcosa che, suo malgrado, gli ricordava il più infelice periodo della sua vita: i suoi vecchi giorni di scuola.

Il Subdolo, era quello il soprannome che gli avevano dato gli apprendisti alla scuola del suo vecchio Maestro. Senza che nessuno mai lo amasse, senza che nessuno si fidasse mai di lui, temuto perfino dal suo Maestro, Raistlin aveva passato una giovinezza amara e solitaria. L’unica persona che si fosse mai curata di lui era stato suo fratello gemello, Caramon, e il suo amore era stato così condiscendente e soffocante che spesso Raistlin aveva trovato più facile accettare l’odio dei suoi compagni di classe.

E adesso, anche se disprezzava quegli idioti che cercavano di compiacere un Maestro il quale, alla fine, avrebbe finito soltanto per assassinare quello prescelto, e malgrado si divertisse a imbrogliarli e a deriderli, talvolta, nella solitudine della notte, Raistlin provava ancora una fitta di dolore quando li sentiva riuniti insieme che ridevano...

Con rabbia ricordava a se stesso che ciò era al di sotto dei suoi interessi. Lui aveva una meta assai più grande da raggiungere. Doveva concentrarsi, conservare le sue forze. Poiché oggi era il giorno.

Il giorno in cui Fistandantilus avrebbe scelto il suo apprendista.

Voi sei ve ne andrete, pensò Raistlin fra sé. Ve ne andrete odiandomi e disprezzandomi, e nessuno saprà mai che uno di voi mi deve la vita!

La porta che dava sulla Stanza dell’Apprendistato si aprì con un forte cigolio, facendo sussultare allarmate le sei figure abbigliate di nero che sedevano insieme allo stesso tavolo. Raistlin, osservandoli con un sorriso contorto, vide l’identico sorriso di scherno sulla faccia grigia e raggrinzita dell’uomo che era comparso sulla soglia.

Lo sguardo luccicante dello stregone si posò su ciascuno dei sei apprendisti, inducendo ognuno di essi a impallidire e ad abbassare la testa incappucciata mentre le loro mani giocherellavano con i componenti degli incantesimi, oppure si serravano per il nervosismo.

Alla fine Fistandantilus girò i suoi occhi neri puntandoli sul settimo apprendista che sedeva in disparte. Raistlin incontrò il suo sguardo senza batter ciglio, il suo sorriso contorto si contorse ancora di più, diventando di scherno. Le sopracciglia di Fistandantilus si contrassero. Colto da una rabbia improvvisa, chiuse la porta sbattendola. I sei apprendisti sussultarono a quell’improvviso schianto che infranse il silenzio.

Lo stregone s’incamminò verso la parte anteriore della Stanza dell’Apprendimento, con passo lento e incerto. Si appoggiava ad un bastone e le sue ossa scricchiolarono quando prese posto su uno scranno. Lo sguardo dello stregone si posò ancora una volta sui sei apprendisti seduti davanti a lui e, mentre li fissava, mentre fissava i loro giovani corpi sani, una delle mani rugose si alzò per accarezzare un ciondolo che portava appeso a una lunga e pesante catena che gli girava intorno al collo: un singolo cristallo di ematite incastonato in argento non lavorato.

Spesso gli apprendisti avevano discusso fra loro di quel ciondolo, chiedendosi quali fossero le sue virtù. Era l’unico ornamento che Fistandantilus portava su di sé, e tutti sapevano che doveva avere un enorme valore. Perfino l’apprendista di più infimo livello poteva percepire i potenti incantesimi protettivi e repulsivi che gli erano stati lanciati sopra, difendendolo da ogni forma di magia. Quali capacità aveva? bisbigliavano fra loro, e le loro congetture andavano dall’evocazione di creature dai piani celesti alla possibilità di comunicare con Sua Maestà Tenebrosa in persona.

Naturalmente, c’era uno di loro che avrebbe potuto dirglielo. Raistlin sapeva quello che faceva. Ma teneva per sé quella conoscenza.

La mano nodosa e tremante di Fistandantilus si chiuse avidamente sopra l’ematite, mentre il suo sguardo famelico andava da un apprendista all’altro. Raistlin avrebbe potuto giurare che lo stregone si era leccato le labbra, e il giovane mago provò, per un attimo, un’improvvisa paura. E se fallissi? si chiese rabbrividendo. È potente. Il più potente stregone che sia mai vissuto! E io sono forte abbastanza? E se...

«Cominciate la prova, » disse Fistandantilus con voce rotta, puntando lo sguardo su uno dei sei.

Con fermezza, Raistlin bandì i suoi timori. Aveva lavorato un’intera vita per ottenere questo. Se avesse fallito sarebbe morto. Aveva affrontato la morte altre volte. In realtà, sarebbe stato come incontrare un vecchio amico...

Ad uno ad uno i giovani maghi si alzarono dai loro posti, aprirono i loro libri magici e recitarono gli incantesimi. Se lo Scaccia magia non fosse stato lanciato sulla Stanza dell’Apprendimento, questa si sarebbe riempita di spettacoli meravigliosi. Sfere di fuoco sarebbero esplose all’interno delle sue mura, riducendo in cenere tutti quelli che si fossero trovati alla sua portata; fantasmi di draghi avrebbero alitato fiamme illusorie; orrende creature sarebbero state trascinate urlanti fuori da altri piani di esistenza. Così, invece, la stanza restò immersa nella calma e nel silenzio, illuminata dalla luce delle candele, in cui si udiva soltanto il salmodiare dei lanciatori d’incantesimi e il frusciare dei fogli dei libri di magia.

Uno alla volta, i maghi completarono le loro prove, poi tornarono a sedersi. Tutti l’eseguirono in maniera eccezionalmente buona. Non era un risultato inatteso. Fistandantilus ammetteva a studiare ulteriormente con lui soltanto sette dei più abili tra i giovani maschi fruitori di magia, che avessero già superato la crudele Prova della Torre della Grande Stregoneria. Da quel numero ne avrebbe scelto uno come suo assistente.

Almeno essi credevano.

La mano dell’arcimago toccò l’ematite. Il suo sguardo andò a Raistlin. «Il tuo turno, mago,» disse.

Vi fu un guizzo in quei vecchi occhi. Le rughe sulla fronte dello stregone si accentuarono un po’ di più, come per cercare di ricordare il volto del giovane mago.

Raistlin si alzò lentamente in piedi, sempre esibendo un sorriso cinico e amaro, come se tutto questo fosse al di sotto della sua dignità. Scrollando le spalle in un gesto d’indifferenza, chiuse il libro degli incantesimi sbattendolo. A questo, gli altri sei apprendisti si scambiarono delle occhiate severe.

Fistandantilus corrugò la fronte, ma c’era una scintilla nei suoi occhi scuri.

Con voce scorrevole e sarcastica, Raistlin cominciò a recitare a memoria il complicato incantesimo.

Gli altri apprendisti si agitarono a quella dimostrazione di abilità, fissandolo con odio e palese invidia.

Fistandantilus lo guardava, il suo cipiglio divenne un’espressione famelica talmente malevola che quasi finì per interrompere la concentrazione di Raistlin.

Costringendosi a tenere la mente fissa sul proprio lavoro, il giovane mago completò l’incantesimo e, d’un tratto, la Stanza dell’Apprendimento venne illuminata da una vampa accecante di luce multicolore e il suo silenzio venne infranto dal fragore di un’esplosione!

Fistandantilus sussultò, il sogghigno scomparve dal suo volto. Gli altri apprendisti boccheggiarono.

«Come hai fatto a spezzare l’incantesimo dello Scaccia magia?» chiese Fistandantilus rabbioso.

«Che razza di strano potere è mai questo?»

Per tutta risposta, Raistlin aprì le mani. Teneva tra i palmi una sfera di fiamma azzurra e verde, che avvampava d’un tale bagliore che nessuno poteva fissarla direttamente. Poi, con lo stesso sorriso di scherno, batté le mani. La sfera di fuoco scomparve.

La Stanza dell’Apprendimento era di nuovo silenziosa, soltanto che adesso era il silenzio della paura, mentre Fistandantilus si alzava in piedi. Con la collera che gli balenava intorno come un alone di fiamma, si avvicinò al settimo apprendista.

Raistlin non si ritrasse davanti a quella collera. Rimase in piedi, immobile, seguendo freddamente l’avanzare dello stregone.

«Come sei riuscito a...» cominciò Fistandantilus con voce raschiante. Poi il suo sguardo cadde sulle snelle mani del giovane mago. Con un ringhio rabbioso, lo stregone allungò la mano e afferrò il polso di Raistlin.

Raistlin rantolò per il dolore, il tocco dell’arcimago era gelido come una tomba. Ma s’indusse ugualmente a sorridere, anche se sapeva che il suo sorriso doveva assomigliare a quello di un teschio.

«Magnesio!» Fistandantilus attirò a sé Raistlin con uno strattone, tenendogli la mano sotto la luce di una candela in modo che tutti potessero vedere. «Un comune trucco da prestigiatore, degno soltanto degli illusionisti da strada!»

«Così mi guadagnavo da vivere,» replicò Raistlin a denti stretti per vincere il dolore. «Ho ritenuto che andasse bene usarlo in mezzo a questa raccolta di dilettanti che hai messo insieme, Grande Mago.»

Fistandantilus accentuò ancora di più la stretta. Raistlin soffocava per il dolore, ma non lottò né cercò di ritrarsi. Né abbassò lo sguardo davanti a quello del Maestro. Malgrado la sua stretta fosse dolorosa, il volto dello stregone era interessato, incuriosito.

«Così, ti consideri meglio di questi altri?» chiese Fistandantilus a Raistlin con voce sommessa, quasi gentile, ignorando i mormorii rabbiosi degli apprendisti.

Raistlin dovette fare una pausa per raccogliere le forze e riuscire a parlare attraverso la nebbia del dolore. «Tu sai che lo sono!»

Fistandantilus lo fissò, la sua mano gli stringeva ancora il polso. Raistlin colse un’improvvisa paura negli occhi del vecchio, una paura che venne rapidamente estinta dall’espressione di fame insaziabile. Fistandantilus allentò la stretta sul polso di Raistlin. Il giovane mago non potè fare a meno di reprimere un sospiro d’intenso sollievo mentre ricadeva sulla sua sedia, sfregandosi il polso. Su di esso il segno della mano dell’arcimago era visibile con chiarezza, aveva fatto diventare la sua pelle bianca come il ghiaccio.

«Uscite di qui!» intimò Fistandantilus con voce secca. I sei maghi si alzarono, le vesti nere frusciarono intorno a loro. Anche Raistlin si alzò. «Tu rimani,» gli disse il mago con voce fredda.

Raistlin tornò a sedersi, sempre sfregandosi il polso dolorante. Il calore e la vita stavano riaffluendo in esso. Fistandantilus seguì fino alla porta gli altri giovani maghi che se ne andavano, poi, voltandosi, fronteggiò il suo nuovo apprendista.

«Questi altri se ne andranno presto, e avremo il castello tutto per noi. Raggiungimi nelle camere segrete giù nelle viscere del castello quando sarà la Veglia Oscura. Sto conducendo un esperimento che richiederà la tua... assistenza.»

Raistlin osservò inorridito e affascinato la mano del vecchio che andava all’ematite, accarezzandola con amore. Per un attimo Raistlin non riuscì a rispondere. Poi esibì un sorriso di scherno, soltanto che questa volta lo rivolse a se stesso, per acquietare la propria paura.

«Sarò là, Maestro,» disse.

Raistlin giaceva sulla lastra di pietra del laboratorio situato molto in profondità nel castello dell’arcimago. Neppure le sue pesanti vesti di tessuto nero riuscivano a tener lontano il gelo, e Raistlin tremava senza controllo. Ma se ciò fosse dovuto al freddo, alla paura o all’eccitazione, non avrebbe saputo dirlo.

Non poteva vedere Fistandantilus, ma poteva sentirlo: il frusciare delle sue vesti, i tonfi soffocati del suo bastone sul pavimento, le pagine del libro degli incantesimi che venivano sfogliate...

Giacendo sulla lastra, fingendosi impotente sotto l’influenza dello stregone, Raistlin divenne teso. Il momento si avvicinava in fretta.

Come in risposta, Fistandantilus comparve nel suo campo visivo, sporgendosi sopra il giovane mago con quell’espressione di famelica voracità, con il ciondolo di ematite che penzolava dalla catena intorno al suo collo.

«Sì,» disse lo stregone. «Sei abile. Più abile e più potente di qualunque altro giovane apprendista che abbia incontrato durante questi molti, moltissimi anni.»

«Cosa mi farai?» chiese Raistlin con voce roca. Il tono disperato della sua voce non era interamente forzato. Doveva riuscire ad apprendere come funzionava il ciondolo.

«Che importanza può avere?» gli chiese Fistandantilus con freddezza, appoggiando la mano sul petto del giovane mago.

«Il mio... scopo nel venire da te era quello d’imparare,» disse Raistlin, serrando i denti e cercando di non contorcersi a quel tocco ripugnante. «Sono pronto a imparare, perfino all’ultimo istante!»

«Lodevole.» Fistandantilus annuì, fissando la tenebra, i suoi pensieri erano lontani. Era probabile che la sua mente stesse ripassando l’incantesimo, pensò Raistlin fra sé. «Mi piacerà abitare un corpo e una mente così assetati di sapere, e che per di più dimostrano un’innata abilità nell’Arte. Molto bene, ti spiegherò. E la mia ultima lezione, apprendista, imparala bene.

«Giovanotto, non puoi conoscere gli orrori che si vivono diventando vecchi. Come ricordo bene la mia prima vita, e come ricordo bene la terribile sensazione di rabbia e di frustrazione che provai quando mi resi conto che io, il più potente fruitore di magia che sia mai vissuto, ero destinato a rimanere intrappolato in un corpo debole e disgraziato che veniva consumato dall’età! La mia mente, la mia mente era integra! In verità, mentalmente ero più forte di quanto lo fossi mai stato in tutta la mia vita! Ma tutto questo potere, tutte queste vaste conoscenze sarebbero andati sprecati, ridotti in polvere! Divorati dai vermi!

«Allora indossavo le Vesti Rosse..,

«Hai trasalito? Sei rimasto sorpreso? Prendere le Vesti Rosse era stata una decisione cosciente, presa a sangue freddo dopo che avevo visto in qual modo potevo guadagnare meglio. Nella Neutralità s’impara meglio poiché si può attingere ad entrambe le estremità dello spettro senza dover niente a nessuna. Andai da Gilean, Dio della Neutralità, implorandolo che mi venisse concesso di rimanere su questo piano così da ampliare il mio sapere. Ma, in questo, il Dio del Libro non poteva aiutarmi. Gli umani erano la sua creazione, ed era a causa della mia impaziente natura umana e della consapevolezza della brevità della mia vita che avevo proseguito freneticamente i miei studi. Mi venne consigliato di accettare il mio destino.»

Fistandantilus scrollò le spalle. «Leggo la comprensione nei tuoi occhi, apprendista. In un certo senso mi spiace ucciderti. Credo che avremmo potuto sviluppare una ben rara intesa. Ma, per abbreviare una lunga storia, uscii e m’incamminai nella tenebra. Maledicendo la luna rossa, chiesi che mi venisse concesso di vedere la luna nera. La Regina delle Tenebre udì la mia preghiera ed esaudì la mia richiesta. Indossando le Vesti Nere, mi dedicai al suo servizio e, in cambio, venni condotto sul suo piano di esistenza. Ho visto il futuro, sono vissuto nel passato. Fu lei a darmi questo ciondolo, cosicché adesso sono in grado di scegliere un nuovo corpo durante il mio soggiorno in questo tempo. E quando scelgo di attraversare i confini del tempo e di entrare nel futuro, c’è un corpo pronto ad accettare la mia anima.»

Raistlin non riuscì a reprimere un brivido a quelle parole. Il suo labbro si contorse per l’odio. Era il suo, il corpo del quale lo stregone parlava! Pronto, e in attesa...

Ma Fistandantilus non se ne accorse. Lo stregone sollevò il ciondolo di ematite, preparandosi a lanciare l’incantesimo.

Guardando il ciondolo mentre luccicava alla pallida luce proiettata da un globo al centro del laboratorio, Raistlin sentì accelerare il battito del suo cuore. Le sue mani si serrarono.

Facendo uno sforzo, con la voce che gli tremava per un’eccitazione che sperava sarebbe stata scambiata per terrore, bisbigliò: «Dimmi come agisce! Dimmi quello che mi succederà!»

Fistandantilus sorrise, la sua mano fece ruotare lentamente l’ematite sopra il petto di Raistlin.

«Appoggerò questo sopra il tuo petto, proprio sopra il tuo cuore. E, lentamente sentirai la tua forza vitale lasciare il tuo corpo. Credo che il dolore sia straziante. Ma non durerà a lungo, apprendista, se non lotterai contro di esso. Arrenditi e perderai presto conoscenza. Da quanto ho osservato, lottare serve soltanto a prolungare l’agonia.»

«E non ci sono parole da pronunciare?» chiese Raistlin, rabbrividendo.

«Certo,» rispose Fistandantilus in tono gelido, chinandosi accanto a Raistlin, con gli occhi quasi alla stessa altezza di quelli del giovane mago. Facendo attenzione, appoggiò l’ematite sul petto di Raistlin. «Stai per udirle... Saranno gli ultimi suoni che sentirai...»

Raistlin sentì che la pelle gli si accapponava a quel tocco, e per un attimo riuscì a stento a trattenersi dal liberarsi e fuggire. No, si disse, freddo e lucido, stringendo le mani, affondando le unghie nella carne così che il dolore distraesse i suoi pensieri dalla paura, devo sentire le parole!

Rabbrividendo, si costrinse a giacere, immobile, ma non riuscì a impedirsi di chiudere gli occhi, cancellando così la vista di quella faccia malefica e raggrinzita, così vicina alla sua, al punto da sentire l’odore dell’alito in putrefazione...

«Così va bene,» disse una voce sommessa, «rilassati...» Fistandantilus cominciò a salmodiare.

Concentrandosi su quel complicato incantesimo, lo stregone chiuse gli occhi, oscillando avanti e indietro, mentre premeva il ciondolo di ematite contro la pelle di Raistlin. Perciò Fistandantilus non si accorse che le sue parole venivano ripetute, mormorate febbrilmente, dalla vittima predestinata.

Quando si rese conto che qualcosa non andava, aveva terminato di recitare l’incantesimo e se ne stava là, immobile, in attesa della prima infusione di nuova vita nelle sue antiche ossa.

Non accadde nulla.

Allarmato, Fistandantilus aprì gli occhi. Fissò con stupore il giovane mago vestito di nero che giaceva sulla fredda lastra di marmo, e poi lo stregone produsse uno strano suono inarticolato e barcollò all’indietro in preda a un’improvvisa paura che non potè nascondere.

«Vedo che alla fine mi hai riconosciuto,» disse Raistlin, rizzandosi a sedere. Teneva una mano appoggiata alla lastra di pietra, ma l’altra era affondata in una delle tasche segrete delle sue vesti. «E questo sistema il corpo che ti aspetta nel futuro.»

Fistandantilus non rispose. Il suo sguardo saettò in direzione della tasca di Raistlin, come se volesse penetrare il tessuto con i suoi occhi neri.

Poi, recuperò rapidamente la sua compostezza. «Il grande Par-sallian ti ha mandato qui, indietro nel tempo, piccolo mago?» chiese, deridendolo. Ma il suo sguardo rimase fisso sulla tasca.

Raistlin scosse la testa mentre scivolava giù dalla lastra di pietra. Continuando a tenere la mano infilata nella tasca, alzò l’altra per tirarsi indietro il cappuccio dalla testa, permettendo a Fistandantilus di vedere il suo vero volto, non l’illusione che aveva mantenuto durante tutti quei lunghissimi mesi. «Sono venuto da solo. Adesso sono il Maestro della Torre.»

«E impossibile,» ringhiò lo stregone.

Raistlin sorrise, ma non c’era nessun sorriso in risposta nei suoi occhi gelidi, che tenevano Fistandantilus inquadrato nel loro sguardo a specchio.

«Così hai pensato. Ma hai commesso un errore. Mi hai sottovalutato. Mi hai strappato parte della mia forza vitale durante la Prova, in cambio della tua protezione dall’Elfo scuro. Mi hai costretto a vivere una vita di continuo dolore in un corpo infranto, condannandomi a dipendere da mio fratello. Mi hai insegnato a usare il Globo dei draghi e mi hai tenuto in vita quando invece sarei morto là, nella Grande Biblioteca di Palanthas. Durante la Guerra delle Lance mi hai aiutato a ricacciare la Regina delle Tenebre nell’Abisso dove lei non sarebbe più stata una minaccia per il mondo, o per te. Poi, dopo aver guadagnato abbastanza forza in questo tempo, intendevi tornare nel futuro e rivendicare il mio corpo! Tu saresti diventato me.»

Raistlin vide gli occhi di Fistandantilus restringersi, e il giovane mago divenne teso, la sua mano si chiuse sopra l’oggetto che stringeva tra le vesti. Ma lo stregone si limitò ad aggiungere con voce pacata: «È tutto giusto. Cosa intendi fare in proposito? Assassinarmi?»

«No,» rispose Raistlin, con voce sommessa. «Io intendo diventare te.»

«Pazzo!» Fistandantilus scoppiò in una risata stridente. Sollevando una mano raggrinzita esibì il ciondolo di ematite. «Il solo modo in cui potresti farlo è di usare questo su di me! Ed è protetto contro ogni forma di magia da incantesimi la cui potenza tu non sei neppure in grado di concepire, piccolo mago...»

La sua voce si spense in un sussurro, strangolata dallo shock quando Raistlin tolse la mano dalla tasca. Nel palmo della mano giaceva un ciondolo di ematite.

«Protetto da ogni forma di magia,» disse il giovane mago, con un sogghigno simile a quello di un teschio. «Ma non protetto contro la destrezza di un comune illusionista da strada...»

Raistlin vide lo stregone diventare pallido come la morte. Gli occhi di Fistandantilus andarono febbrili alla catenella che aveva appesa al collo. Ma adesso che l’illusione era stata rivelata, si rese conto di non stringere niente in mano.

Un suono lacerante, crepitante, ruppe il silenzio. Il pavimento di pietra sotto i piedi di Raistlin si sollevò, facendo cadere in ginocchio il giovane mago. Le rocce esplosero quando le fondamenta del laboratorio si spezzarono in due. Al di sopra del caos si levò la voce di Fistandantilus, intonando un potente incantesimo convocatorio.

Riconoscendolo, Raistlin rispose stringendo l’ematite che aveva in mano mentre lanciava intorno al proprio corpo un incantesimo schermante per avere il tempo di operare la propria magia.

Rannicchiato sul pavimento, si girò e vide una figura emergere con violenza dalle fondamenta, il cui viso e la cui forma orrenda erano qualcosa che avrebbe potuto comparire soltanto in un sogno demenziale.

«Prendilo, tienilo fermo!» strillò Fistandantilus, indicando Raistlin. L’apparizione avanzò verso il giovane mago come un’onda di marea lungo il pavimento in rovina e allungò verso di lui le sue spire che si contorcevano come tentacoli.

La paura travolse Raistlin mentre la creatura di altri mondi operava su di lui la sua orribile magia.

L’incantesimo schermante si sbriciolò sotto quell’attacco. L’apparizione avrebbe divorato la sua anima e si sarebbe cibata delle sue carni.

Il controllo! Lunghe ore di studio, la forza a lungo esercitata e la rigorosa autodisciplina fecero affluire alla mente di Raistlin le parole dell’incantesimo che gli serviva. Nel giro di pochi istanti era completato. Mentre il giovane mago cominciava a cantare le parole che avrebbero bandito la creatura, sentì l’estasi della sua magia scorrergli lungo il corpo, liberandolo dalla paura.

L’apparizione esitò.

Inferocito, Fistandantilus ordinò al mostro di continuare.

Raistlin gli ordinò di fermarsi.

Infuriata, l’apparizione li guardò entrambi, con le spire che si contorcevano... il suo stesso aspetto tremolava e cambiava. Entrambi i maghi tenevano il mostro sotto controllo, osservando con attenzione l’avversario, aspettando il battito di una palpebra, la contrazione di un labbro, il sussulto spasmodico di un dito che si sarebbero rivelati fatali.

Nessuno dei due si mosse, pareva che non ci fosse nessuna probabilità che qualcuno dei due lo facesse. La resistenza di Raistlin era maggiore, ma la magia di Fistandantilus veniva da fonti antiche; poteva fare appello a poteri invisibili a proprio sostegno.

Alla fine, fu la stessa apparizione che non ce la fece più a resistere. Intrappolata fra due poteri uguali in conflitto fra loro, tirata e spinta in direzioni opposte, il suo essere magico finì per disintegrarsi. Con un lampo accecante, esplose.

La violenza dell’esplosione scaraventò all’indietro entrambi i maghi, mandandoli a sbattere contro le pareti. Un odore spaventoso riempì la stanza e i vetri, frantumati, caddero come una pioggia. Le pareti del laboratorio erano annerite, carbonizzate. Qua e là piccoli incendi ardevano di vivaci fiamme multicolori, proiettando un bagliore livido su quella sconvolgente distruzione.

Pur barcollando, Raistlin si rialzò subito in piedi, asciugandosi il sangue da un taglio sulla fronte. Il suo nemico non fu meno veloce, anch’egli ben conscio che la debolezza avrebbe significato la morte. I due maghi si fronteggiarono nella luce incerta.

«Così, siamo arrivati a questo!» disse Fistandantilus, con la sua voce rotta e antica. «Avresti potuto continuare a condurre una vita tranquilla. Ti avrei risparmiato le debolezze, le ignominie della vecchiaia. Perché precipitarti verso la tua morte?»

«Tu lo sai,» replicò Raistlin con voce sommessa, respirando affannosamente, quasi stremato di forze.

Fistandantilus annuì lentamente, tenendo gli occhi su Raistlin. «Come ho detto,» mormorò, «è assai spiacevole che questo accada. Avremmo potuto fare molto insieme, tu ed io. Adesso...»

«La vita per uno, la morte per l’altro,» disse Raistlin. Protese la mano e depose con attenzione il ciondolo di ematite sulla fredda lastra di pietra. Poi udì le parole del canto, e alzò la voce, rispondendo anche lui con il canto.

La battaglia durò a lungo. I due guardiani della Torre, che contemplavano lo spettacolo da essi evocato dai ricordi del mago vestito di nero che giaceva alla loro portata, erano smarriti e confusi.

Fino a quel punto avevano seguito tutto attraverso la vista di Raistlin. Ma adesso i due fruitori di magia erano così vicini l’uno all’altro che i guardiani della Torre vedevano la battaglia attraverso gli occhi di entrambi gli avversari.

I lampi sprizzavano crepitanti dalle punte delle loro dita, i corpi abbigliati di nero si contorcevano per il dolore, urla di sofferenza e di furore echeggiavano fra gli schianti delle rocce e delle travi.

Magiche pareti di fuoco fondevano muri di ghiaccio, venti roventi soffiavano con la forza degli uragani. Tempeste di fuoco spazzavano i corridoi, le apparizioni balzavano fuori dall’Abisso al comando dei loro padroni, le forze elementari scuotevano le fondamenta stesse del castello. La grande, cupa fortezza di Fistandantilus cominciò a creparsi, le pietre cadevano giù dagli spalti.

E poi, con un terribile urlo di rabbia e di dolore, uno dei maghi vestiti di nero crollò al suolo, con il sangue che gli colava dalla bocca.

Qual era l’uno, quale l’altro? Chi era caduto? I guardiani cercarono freneticamente di capirlo, ma era impossibile.

L’altro mago, quasi del tutto svuotato d’energie, si riposò un momento, poi riuscì a trascinarsi lungo il pavimento. La sua mano tremante si allungò fin sopra la superficie della lastra di pietra, si mosse a tentoni, poi trovò e afferrò il ciondolo di ematite. Con le ultime forze che gli rimanevano, il mago dalle vesti nere strinse il ciondolo e tornò indietro, strisciando, per poi inginocchiarsi accanto al corpo ancora vivo della sua vittima.

Il corpo sul pavimento si contorse nei tormenti dell’agonia, un grido stridulo gorgogliò dalle sue labbra schiumanti sangue. Poi, d’un tratto, le urla cessarono. La pelle del mago si raggrinzì e si ruppe come pergamena disseccata, i suoi occhi fissarono l’oscurità senza vederla. Appassì lentamente.

Con un sospiro fremente l’altro mago crollò sopra il corpo della sua vittima, lui stesso debole, ferito, quasi prossimo alla morte. Ma stretta nella sua mano c’era l’ematite, e attraverso le sue vene scorreva sangue nuovo, dandogli una vita che, col tempo, avrebbe ripristinato la sua salute. Nella sua mente c’erano conoscenze, ricordi di centinaia d’anni di potere, incantesimi, visioni di meraviglie e di terrori che coprivano l’arco di molte generazioni. Ma c’erano anche i ricordi di un fratello gemello, ricordi di un corpo infranto, di un’esistenza prolungata e dolorosa.

Mentre due vite si fondevano dentro di lui, mentre centinaia di strani ricordi in conflitto fra loro si accalcavano dentro di lui, il mago vacillò sotto quell’impatto. Rannicchiandosi accanto al corpo del suo rivale, il mago vestito di nero che era uscito vincitore dalla battaglia fissò l’ematite nella sua mano. Poi bisbigliò in preda all’orrore: «Chi sono io?»

Capitolo quarto.

I guardiani scivolarono via da Raistlin, fissandolo con occhi vacui. Troppo debole per muoversi, il mago li fissò a sua volta, i suoi occhi riflettevano le tenebre.

«Vi dico questo.» Parlò loro senza voce e venne compreso. «Toccatemi di nuovo e vi trasformerò in polvere, come ho fatto con lui!»

«Sì, Maestro,» bisbigliarono le voci, mentre i loro pallidi volti tornavano a confondersi fra le ombre.

«Cosa...» mormorò Crysania con voce assonnata. «Hai detto qualcosa?. Rendendosi conto di aver dormito con la testa sulla sua spalla, arrossi confusa e imbarazzata e si affrettò a rizzarsi a sedere.

«Po... posso andare a prenderti qualcosa?» chiese.

«Acqua calda.» Raistlin si riadagiò fiaccamente sulla schiena. «Per la mia pozione.»

Crysania lanciò un’occhiata intorno a sé, scostandosi gli scuri capelli dagli occhi. Una luce grigia filtrava dalle finestre. Sottile, esile come un fantasma, non era di nessun conforto. Il Bastone di Magius proiettava ancora la sua luce, tenendo lontane le creature buie della notte. Ma non diffondeva nessun calore. Crysania si sfregò il collo dolorante. Era irrigidita e sofferente e sapeva che doveva aver dormito per ore. La stanza era ancora gelida. Con espressione desolata guardò la griglia del caminetto, fredda e annerita.

«C’è della legna,» balbettò; il suo sguardo andò ai mobili fracassati che le giacevano intorno, «ma non... non ho nessuna esca, nessun acciarino, non posso...»

«Sveglia mio fratello,» ringhiò Raistlin, e subito il suo respiro si fece ansimante. Cercò di aggiungere qualcosa, ma riuscì soltanto a fare un debole gesto. I suoi occhi scintillarono d’una tale rabbia e il suo volto fu contorto da un tale furore che Crysania lo fissò allarmata, percependo in lui un gelo perfino più freddo dell’aria che aveva intorno.

Raistlin chiuse gli occhi, stremato, e portò la mano al petto. «Per favore,» bisbigliò in preda a un’estrema sofferenza, «il dolore...»

«Certo,» disse Crysania gentilmente, sopraffatta dalla vergogna. Cosa doveva essere, vivere con un dolore come quello, giorno dopo giorno? Sporgendosi in avanti, si tolse la tenda dalle spalle e, con cura, la rimboccò intorno a Raistlin. Il mago annuì con gratitudine, ma non riuscì a parlare. Poi, rabbrividendo, Crysania attraversò la stanza fino al punto in cui giaceva Caramon.

Fece per allungare una mano e toccargli la spalla, poi esitò. E se fosse stato ancora cieco? pensò.

Oppure, se fosse stato in grado di vedere e avesse deciso di... di uccidere Raistlin?

Ma la sua esitazione durò soltanto un attimo. Con gesto deciso, gli mise la mano sulla spalla e lo scosse. Se tentasse di farlo, si disse, cupa, io lo fermerò. L’ho fatto una volta, posso farlo di nuovo.

Proprio mentre lo toccava, divenne conscia dei pallidi guardiani annidati nel buio, che seguivano ogni sua mossa.

«Caramon,» lo chiamò con voce sommessa, «Caramon, svegliati. Per favore! Ci serve...»

«Cosa?» Caramon balzò su a sedere, portando istintivamente la mano all’elsa della spada, che non c’era più. Il suo sguardo si mise a fuoco su Crysania, la quale si rese conto, con sollievo venato di paura, che lui poteva vederla. Tuttavia, la fissò senza espressione, mostrando di non riconoscerla, poi si guardò rapidamente intorno per capire dove si trovava.

Allora Crysania vide riaffiorare i ricordi nell’oscurarsi dei suoi occhi, li vide riempirsi d’un intenso tormento. Vide la rimembranza nel serrarsi dei muscoli della sua mascella e nella fredda occhiata che le rivolse. Era sul punto di dire qualcosa, di scusarsi, di spiegare, di rimproverarlo, quando, tutt’a un tratto, gli occhi di Caramon si colmarono di tenerezza e il suo volto si ammorbidì per la preoccupazione.

«Dama Crysania,» disse Caramon, rizzandosi a sedere e trascinando via la tenda dal proprio corpo,

«tu stai gelando! Ecco, avvolgiti in questa.»

Prima che lei potesse dire una sola parola di protesta, egli l’avvolse confortevolmente nella tenda.

Crysania notò che, mentre lo faceva, lanciava un’occhiata al suo gemello. Ma il suo sguardo passò rapido sopra Raistlin, come se non esistesse.

Crysania l’afferrò per un braccio. «Caramon,» gli disse, «ci ha salvato la vita. Ha lanciato un incantesimo. Quelle creature, là nel buio, ci lasciano stare perché lui gliel’ha imposto!»

«Perché lo riconoscono come uno dei loro!» esclamò Caramon, aspro, abbassando lo sguardo e cercando di ritrarre il braccio dalla sua stretta. Ma Crysania lo trattenne, più con lo sguardo che con le sue mani gelate.

«Adesso puoi ucciderlo,» replicò, con rabbia. «Guarda, è indifeso, debole. Naturalmente, se lo farai, moriremo tutti. Ma eri preparato a farlo in ogni caso, non è vero?»

«Non posso ucciderlo,» dichiarò Caramon. I suoi occhi castani erano limpidi e freddi, e Crysania, ancora una volta, colse una sorprendente rassomiglianza fra i gemelli. «Guardiamo in faccia la realtà, Reverenda Figlia: se io ci provassi, tu non faresti altro che accecarmi un’altra volta.»

Caramon scostò la mano di Crysania dal proprio braccio.

«Almeno uno di noi deve poter vedere con chiarezza,» dichiarò.

Crysania si sentì arrossire per la vergogna e la rabbia, sentendo le parole di Loralon echeggiare nel sarcasmo del guerriero. Caramon le voltò le spalle e si affrettò ad alzarsi.

«Ora accenderò un fuoco,» disse con voce fredda e dura, «se quegli esseri...» agitò una mano, «se quegli amici di mio fratello là fuori me lo permetteranno.»

«Credo che non faranno difficoltà,» disse Crysania, parlando con uguale freddezza e alzandosi in piedi anche lei. «Non mi hanno ostacolato quando... quando ho strappato giù le tende.» Non potè impedire che un tremito le s’insinuasse nella voce al ricordo di quelle ombre di morte che avrebbero potuto intrappolarla.

Caramon le lanciò un’occhiata e, per la prima volta, Crysania si rese conto di quale doveva essere il proprio aspetto. Avvolta in una tenda di velluto nero putrescente, le sue vesti bianche strappate e macchiate di sangue, annerite dalla polvere e dalla cenere del pavimento. Involontariamente si portò la mano ai capelli, un tempo così lisci e accuratamente intrecciati e raccolti a crocchia. Adesso le penzolavano intorno al viso in tante ciocche scarmigliate. Poteva sentire le lacrime disseccate sulle guance, lo sporco, il sangue...

Impacciata, si pulì il volto con la mano e cercò di ravviarsi i capelli. Poi, rendendosi conto di quanto futile e perfino stupido dovesse apparire quel suo gesto, e incollerita ancora di più dall’espressione impietosita di Caramon, si raddrizzò con umiliata dignità.

«Così, non sono più la fanciulla di marmo che hai incontrato la prima volta,» disse con alterigia,

«proprio come tu non sei più l’ubriacone che ho conosciuto. Pare che entrambi abbiamo imparato una o due cose durante il nostro viaggio.»

«Io so di averle imparate,» dichiarò Caramon con voce grave.

«Davvero?» ribatté Crysania. «Me lo stavo appunto chiedendo! Hai appreso, come ho appreso io... che i maghi mi hanno mandata indietro nel tempo sapendo che non sarei tornata?»

Caramon la fissò. Crysania esibì un cupo sorriso.

«No,» proseguì. «Eri inconsapevole di questo piccolo particolare, o per lo meno è quello che ha detto tuo fratello. Il congegno del tempo poteva venir usato soltanto da una persona, quella a cui era stato affidato: tu! I maghi mi hanno mandato indietro nel tempo perché vi morissi, poiché avevano paura di me!»

Caramon corrugò la fronte. Aprì la bocca, la chiuse, poi scosse la testa. «Avresti potuto lasciare Istar con quell’elfo che era venuto a prenderti.»

«Tu ci saresti andato?» volle sapere Crysania. «Avresti rinunciato a vivere nel nostro tempo se ti fosse stato possibile evitarlo? No! Forse che io sono così diversa?»

Le rughe sulla fronte di Caramon si accentuarono, e stava per rispondere, ma in quel momento Raistlin tossì. Lanciando un’occhiata al mago, Crysania sospirò e disse: «Farai meglio ad accendere quel fuoco, altrimenti periremo tutti.» Voltando la schiena a Caramon, il quale era ancora intento a fissarla in silenzio, si avvicinò al fratello.

Guardando il fragile mago, Crysania si chiese se avesse sentito. Si chiese se fosse anche soltanto cosciente.

Era cosciente, ma anche se Raistlin era consapevole di ciò che gli altri due avevano detto, pareva troppo debole per mostrarsi interessato. Versando un po’ d’acqua in una scodella crepata, Crysania s’inginocchiò accanto a lui. Strappando un lembo dalla porzione più pulita delle sue vesti, ripulì il volto di Raistlin, e scoprì che ardeva per la febbre perfino in quella stanza gelida.

Sentì Caramon alle sue spalle intento a raccogliere dei pezzi di legno dei mobili fracassati, ammucchiandoli nel caminetto.

«Ho bisogno di qualcosa come esca,» borbottò fra sé l’omone. «Ah, questi libri...»

A queste parole gli occhi di Raistlin si spalancarono di colpo: mosse la testa e cercò debolmente di alzarsi.

«Non farlo, Caramon!» gridò Crysania, allarmata. Caramon si arrestò, con un libro in mano. «è pericoloso, fratello mio!» rantolò Raistlin con voce fioca. «Libri d’incantesimi! Non toccarli...»

La voce gli venne meno, ma lo sguardo dei suoi occhi febbricitanti era fisso su Caramon con un’espressione così evidente di preoccupazione che perfino Crysania parve sorpresa. Borbottando qualcosa d’inintelligibile, l’omone lasciò cadere il libro e cominciò a cercare intorno alla scrivania.

Crysania vide gli occhi di Raistlin chiudersi per il sollievo.

«Ecco. Sembrano delle... lettere,» disse Caramon dopo aver scorso per un momento le carte sul pavimento. «Andranno... andranno bene?» chiese, arcigno.

Raistlin annuì senza parlare e, nel giro di pochi istanti, Crysania sentì il crepitio del fuoco. Rivestita di lacca, la legna dei mobili fracassati prese rapidamente fuoco, e ben presto le fiamme arsero d’una luce viva e confortante. Fissando le ombre, Crysania vide quei pallidi volti che si ritraevano, ma non se ne andarono.

«Dobbiamo spostare Raistlin vicino al fuoco,» disse, alzandosi in piedi. «E ha detto qualcosa a proposito d’una pozione...»

«Sì,» rispose Caramon con voce piatta. Fermandosi accanto a Crysania, abbassò lo sguardo su suo fratello. Poi scrollò le spalle. «Lascia che ci arrivi con la sua magia, se è questo che vuole.»

Gli occhi di Crysania avvamparono di collera. Si girò verso Caramon con parole roventi sulle labbra ma, a un debole gesto di Raistlin, si morse il labbro inferiore e rimase zitta.

«Hai scelto un momento assai poco opportuno per maturare, fratello mio,» bisbigliò il mago.

«Forse,» disse Caramon lentamente, con la faccia colma d’ineffabile dolore. Scuotendo la testa, tornò indietro, accanto al fuoco. «Forse non ha più nessuna importanza.»

Crysania, osservando Raistlin che seguiva suo fratello con lo sguardo, fu sorpresa nel vederlo uscire in un rapido, segreto sorriso, annuendo soddisfatto. Poi, quando sollevò lo sguardo su di lei, il sorriso subito scomparve. Sollevando un braccio, le fece segno di avvicinarsi a lui.

«Posso reggermi in piedi,» bisbigliò, «con il tuo aiuto.»

«Ecco, avrai bisogno del tuo bastone,» disse Crysania, tendendo la mano per prenderlo.

«Non toccarlo! » le intimò Raistlin, bloccandole la mano. «No,» ripetè con maggior gentilezza, tossendo fino a rischiare di soffocare. «Se altre mani... lo toccano... la luce viene meno...»

Rabbrividendo involontariamente, Crysania lanciò una rapida occhiata intorno alla stanza. Raistlin, facendo passare lo sguardo da Crysania alle forme tremolanti che si libravano appena all’esterno del bagliore del Bastone, scosse la testa.

«No, non credo che ci attaccherebbero,» disse con voce sommessa, mentre Crysania lo cingeva con le braccia e lo aiutava ad alzarsi. «Sanno chi sono.» A quelle parole le sue labbra si arricciarono in un sorriso di scherno, e quasi soffocò.

«Sanno chi sono,» ripetè con maggiore fermezza, «e non osano mettersi contro di me. Ma...» tossì di nuovo, e si appoggiò pesantemente a Crysania, con un braccio intorno alla sua spalla, e stringendo il Bastone con l’altra mano, «... saremo più al sicuro se la luce del Bastone continuerà ad ardere.»

Il mago barcollò mentre parlava e fu quasi sul punto di cadere a terra. Crysania si fermò un momento per permettergli di riprendere fiato. Anche il suo respiro era più veloce del normale, rivelando il groviglio confuso delle sue emozioni. Sentendo l’aspro martellare del respiro affaticato di Raistlin, si sentì consumare dalla pietà per la sua debolezza. Però, poteva sentire il calore bruciante del corpo premuto così vicino al suo. C’era l’odore intossicante dei componenti del suo incantesimo: petali di rosa, spezie, e le sue vesti nere erano morbide al tatto, più morbide della tenda alle sue spalle. Lo sguardo di Raistlin incontrò il suo mentre se ne stavano là, immobili; per un istante la superficie simile a uno specchio dei suoi occhi si spezzò, e lei vide calore e passione. Di riflesso, il braccio che la circondava si strinse di più, attirandola più vicina con un gesto che sembrava distratto.

Crysania arrossì, bramando insieme, disperatamente, di fuggire e di rimanere per sempre in quel caldo abbraccio. Abbassò velocemente lo sguardo, ma era troppo tardi. Sentì Raistlin irrigidirsi.

Con rabbia lui ritrasse il braccio. Spingendola da parte, ghermì il Bastone per sorreggersi.

Ma era ancora troppo debole. Barcollò e cominciò a cadere. Crysania si mosse per aiutarlo, ma d’un tratto un corpo gigantesco s’interpose fra lei e il mago. Forti braccia sollevarono Raistlin come se fosse soltanto un bambino. Caramon trasportò suo fratello fino a una poltrona sgangherata e annerita, pesantemente imbottita, che aveva trascinato accanto al fuoco. Per qualche istante Crysania non riuscì a muoversi da dove si trovava, appoggiata alla scrivania. Fu soltanto quando si rese conto di trovarsi sola, al buio, fuori dalla luce sia del fuoco che del Bastone, che si affrettò anche lei a raggiungere il fuoco.

«Siediti, Dama Crysania,» la sollecitò Caramon, tirando accanto al camino un’altra poltrona e battendola con le mani per ripulirla meglio che poteva dalla polvere e dalle ceneri.

«Grazie,» mormorò Crysania, tentando, per qualche ragione, di evitare lo sguardo dell’omone.

Lasciandosi sprofondare nella poltrona, si rannicchiò accanto al fuoco, fissando le fiamme fino a quando non le parve di aver recuperato parte della sua compostezza.

Quando fu in grado di guardarsi intorno, vide Raistlin abbandonato sulla sua poltrona, gli occhi chiusi, il respiro irregolare. Caramon stava scaldando dell’acqua in una pentola di ferro tutta ammaccata che, a vederla, doveva aver tirato fuori dalla cenere del caminetto. Era in piedi davanti ad essa, lo sguardo intento sull’acqua. La luce delle fiamme traeva riflessi dalla sua armatura dorata, riluceva sulla sua pelle liscia e abbronzata. I suoi muscoli s’increspavano mentre fletteva le grosse braccia per tenersi caldo.

È un uomo dalla corporatura davvero magnifica, pensò Crysania, poi rabbrividì. Ancora una volta lo vide entrare in quella stanza sotto il Tempio condannato, con la spada insanguinata in pugno, la morte negli occhi...

«L’acqua è pronta,» annunciò Caramon, e Crysania tornò alla Torre con un sussulto.

«Lasciami preparare quella pozione,» lei si affrettò a rispondere, grata di poter fare qualcosa.

Raistlin aprì gli occhi quando lei gli si avvicinò. Guardando dentro di essi, Crysania vide soltanto un riflesso di se stessa, pallida, smunta, scarmigliata. Senza parlare, lui le porse una piccola borsa di velluto. Mentre Crysania la prendeva, indicò con un gesto suo fratello, poi riaffondò nella poltrona, esausto.

Crysania prese la piccola borsa, si voltò e vide Caramon che la guardava, un’espressione di perplessità mista a tristezza dava al suo volto una gravità insolita. Ma tutto quello che disse, fu:

«Metti un po’ di queste foglie in quella tazza, poi riempila con l’acqua calda.»

«Cos’è?» domandò Crysania, incuriosita. Quando aprì la borsa il suo naso si arricciò allo strano, amaro odore delle erbe. Caramon versò l’acqua nella tazza che lei reggeva in mano.

«Non lo so,» disse Caramon, scrollando le spalle. «Era sempre Raist quello che raccoglieva le erbe e le mischiava. Par-sallian gli ha dato la ricetta dopo... dopo la Prova, quando stava così male. Certo,» le sorrise, «so che ha un odore orribile e deve avere un sapore ancora peggiore.» Lanciò un’occhiata quasi amorevole a suo fratello. «Ma l’aiuterà.» La sua voce divenne aspra, raschiarne.

D’un tratto voltò la testa dall’altra parte.

Crysania portò la pozione fumante a Raistlin, il quale strinse la tazza con mani tremanti portandola avidamente alle labbra. Sorseggiandola, dette in un sospiro di sollievo e, ancora una volta, riaffondò tra i cuscini della poltrona.

Un silenzio imbarazzante calò nella stanza. Caramon teneva di nuovo lo sguardo abbassato sul fuoco. Anche Raistlin fissava le fiamme e sorseggiava la sua pozione senza fare commenti.

Crysania tornò alla propria poltrona per far ciò, se ne rese conto, che anche gli altri due certamente stavano facendo: dipanando i propri pensieri, per cercare di tirar fuori un senso da quanto era accaduto.

Poche ore prima, lei si era trovata in una città condannata, una città destinata a morire a causa dell’ira degli dei. Era stata sull’orlo d’un completo collasso fisico e mentale. Adesso poteva ammetterlo, anche se allora non aveva potuto. Con quanta indulgenza aveva immaginato che la sua anima fosse cinta dalle mura di acciaio della sua fede. Adesso vedeva, con vergogna e rincrescimento, che non di acciaio si era trattato. Non acciaio, ma ghiaccio. Ghiaccio che si era fuso all’aspra luce della verità, lasciandola esposta e vulnerabile. Se non fosse stato per Raistlin, sarebbe perita laggiù, a Istar.

Raistlin... Si sentì arrossire. Questo era quel qualcosa con cui non aveva mai pensato di doversi battere: l’amore, la passione. Molti anni prima era stata fidanzata a un giovane che le piaceva molto.

Ma non lo amava. In realtà non aveva mai veramente creduto nell’amore, il genere di amore che esisteva nelle storie raccontate ai bambini. Essere avvinti in questo modo a un’altra persona le era sembrato un ostacolo, una debolezza da evitare. Ricordava qualcosa che Tanis Mezzelfo aveva detto a proposito di sua moglie, Laurana... cos’era mai? «Quando se ne sarà andata, sarà come se mi mancasse il mio braccio destro...»

Che romantiche stupidaggini! aveva pensato allora. Ma adesso chiese a se stessa... era questo che provava per Raistlin? I suoi pensieri andarono all’ultimo giorno che aveva trascorso a Istar, alla terribile tempesta, al balenare dei lampi... e a come si era trovata all’improvviso tra le sue braccia. Il suo cuore si contrasse al rapido tormento del desiderio mentre sentiva, ancora una volta, il suo forte abbraccio. Ma c’era anche una violenta paura, una strana ripugnanza. Ricordò con riluttanza il febbricitante luccichio dei suoi occhi, la sua esultanza in mezzo alla tempesta, come se fosse stato lui stesso ad evocarla.

Era come lo strano odore degli incantesimi che gli si era appiccicato addosso, il piacevole odore delle rose e delle spezie ma, mischiato ad esso, l’afrore nauseante delle creature putrefatte e l’acre odore dello zolfo. Mentre il suo corpo anelava il tocco di Raistlin, qualcosa nella sua anima si ritraeva in preda all’orrore...

Lo stomaco di Caramon rumoreggiò sonoramente. Fu quasi uno stupefacente fragore in quella stanza in cui gravava un mortale silenzio.

Sollevando lo sguardo, i suoi pensieri brutalmente interrotti, Crysania vide l’omone imporporarsi per l’imbarazzo. D’un tratto, all’improvviso conscia della propria fame (non riusciva a ricordare l’ultima volta che aveva mandato giù un boccone) Crysania scoppiò a ridere.

Caramon la fissò dubbioso, forse pensando che fosse in preda a un attacco isterico. All’espressione perplessa sulla faccia dell’omone, Crysania rise ancora di più. In effetti, ridere le faceva provare una buona sensazione. L’oscurità della stanza parve venir sospinta indietro, le ombre si sollevarono dalla sua anima. Rise con allegria e, alla fine, invischiato dalla natura contagiosa della sua gioia, anche Caramon cominciò a ridere, pure se continuava a scuotere la testa, tutto rosso in faccia.

«Così gli dei ci ricordano che siamo umani,» disse Crysania, quando riuscì di nuovo a parlare, asciugandosi le lacrime dagli occhi. «Ci troviamo qui, nel più orribile luogo immaginabile, circondati da creature che aspettano con ansia di divorarci in un sol boccone, e tutto quello che adesso mi riesce di pensare è quanto sono disperatamente affamata!»

«Abbiamo bisogno di cibo,» replicò Caramon con calma, ritornando serio tutto d’un tratto. «E di indumenti decenti, se vogliamo rimanere qui a lungo.» Guardò suo fratello. «Per quanto tempo resteremo qui?»

«Non per molto,» rispose Raistlin. Aveva terminato la pozione, e la sua voce era già più forte. Un po’ di colore era riaffiorato sul suo pallido viso. «Mi serve tempo per riposare, per recuperare le mie forze, e per completare i miei studi. Questa dama,» i suoi occhi luccicanti fissarono Crysania, e lei rabbrividì al tono improvvisamente impersonale della sua voce, «ha bisogno di entrare in comunione con il suo dio e di rinnovare la sua fede. Poi saremo pronti a varcare il Portale. E allora, fratello mio, potrai andare dove vorrai.»

Crysania sentì l’occhiata interrogativa di Caramon, ma tenne il proprio volto immobile e privo d’espressione, anche se il freddo, casuale accenno di Raistlin all’ingresso nel temuto Portale, entrando nell’Abisso e affrontando la Regina delle Tenebre, le aveva raggelato il cuore. Perciò si rifiutò d’incontrare lo sguardo di Caramon e continuò a fissare il fuoco.

L’omone sospirò, poi si schiarì la gola. «Mi manderai a casa?» chiese al suo gemello.

«Se è là che desideri andare.»

«Sì,» ribadì Caramon con voce profonda e severa. «Voglio tornare da Tika e... parlare con Tanis.»

La sua voce si spezzò. «Dovrò... dovrò spiegargli in qualche modo che Tas è morto... là a Istar...»

«In nome degli dei, Caramon,» sbottò Raistlin, facendo un gesto d’irritazione con la mano sottile,

«pensavo che avessimo visto un barlume di maturità occhieggiare in quel tuo corpaccione! Senza alcun dubbio quando tornerai troverai Tasslehoff seduto nella tua cucina intento a deliziare Tika, snocciolandole una sciocca storia dopo l’altra, dopo averti svuotato la casa, nel frattempo!»

«Cosa?» Caramon impallidì, sgranando gli occhi.

«Ascolta, fratello mio!» sibilò Raistlin, puntando un dito contro Caramon. «Il kender si è condannato da se stesso quando ha scombussolato l’incantesimo di Par-sallian. C’è una buona ragione per impedire a quelli della sua razza, e alla razza dei nani e degli gnomi, di viaggiare indietro nel tempo. Dal momento che sono stati creati a causa di un incidente, per un ghiribizzo del destino e la disattenzione del dio Reorx, queste razze non si sono trovate all’interno del fiume del tempo come invece gli umani, gli elfi e gli orchi, le razze che per prime sono state create dagli dei.

«Così, il kender avrebbe potuto alterare il tempo, come ha subito intuito quando mi sono lasciato inavvertitamente sfuggire questo fatto. Non potevo permettere che ciò accadesse! Se avesse fermato il Cataclisma, com’era sua intenzione, chissà cosa avrebbe potuto succedere! Forse saremmo ritornati nel nostro tempo per scoprire che la Regina delle Tenebre regnava suprema e incontrastata, dal momento che il Cataclisma è stato mandato, in parte, per preparare il mondo alla sua venuta e dargli la forza di sconfiggerla...»

«Così, lo hai assassinato!» lo interruppe Caramon con voce roca.

«Gli ho detto come doveva fare per impadronirsi del congegno.» Raistlin quasi masticò le parole.

«Gli ho insegnato come usarlo, e l’ho rimandato a casa!»

Caramon sbatté le palpebre. «L’hai fatto davvero?» chiese sospettoso.

Raistlin sospirò e tornò ad appoggiare la testa sui cuscini della poltrona. «L’ho fatto, ma non mi aspetto che tu mi creda, fratello mio.» Le sue mani acconciarono fiaccamente le vesti nere che indossava. «Perché dovresti farlo, dopotutto?»

«Sai,» intervenne Crysania con voce sommessa, «mi pare di ricordare, durante quegli ultimi, terribili momenti prima che il terremoto colpisse Istar, di aver visto Tasslehoff. Era... con me... nella Camera Sacra...»

Vide gli occhi di Raistlin socchiudersi in una fessura. Il suo sguardo luccicante penetrò il suo cuore e la fece trasalire, distraendo per un attimo i suoi pensieri.

«Continua,» la sollecitò Caramon.

«Ri... ricordo che aveva con sé il congegno magico. Per lo meno, mi è parso che l’avesse. Ha detto qualcosa in proposito.» Crysania si portò la mano alla fronte. «Ma non riesco a pensare a cosa fosse. È... è tutto così tremendo e confuso! Ma... sono sicura di averlo sentito dire che aveva il congegno!»

Raistlin ebbe un lieve sorriso. «Sicuramente crederai a Dama Crysania, fratello mio!» Scrollò le spalle. «Un chierico di Paladine non può mentire.»

«Così, Tasslehoff si trova a casa? In questo preciso momento?» domandò Caramon, cercando di assimilare quella stupefacente informazione. «E quando tornerò, lo troverò...»

«... sano e salvo, e stracarico della maggior parte dei tuoi averi,» terminò Raistlin con sarcasmo. «Ma adesso dobbiamo rivolgere la nostra attenzione a faccende più urgenti. Hai ragione, fratello mio, abbiamo bisogno di cibo e d’indumenti caldi, ed è improbabile che troveremo qui l’uno e gli altri. L’epoca nella quale ci siamo spostati si trova circa un centinaio di anni dopo il Cataclisma. Questa Torre,» agitò la mano intorno a sé, «è rimasta deserta durante tutti questi anni. Adesso è custodita dalle creature della tenebra evocate dalla maledizione del fruitore di magia il cui corpo è ancora Impalato sulle punte della ringhiera sotto di noi. Intorno ad essa è cresciuto Il bosco di Shoikan, e non c’è nessuno in tutto Krynn che osi entrarvi.

«Nessuno, salvo me, naturalmente. No, nessuno può entrare. Ma i guardiani non impediranno che uno di noi, tu, fratello mio, per esempio, esca. Andrai a Palanthas e comprerai cibo e indumenti. Potrei produrli io, con la magia, ma non oso sprecare inutilmente energia da adesso fino al momento in cui io, vale a dire Crysania ed io, varcheremo il Portale.»

Caramon spalancò gli occhi. Il suo sguardo andò alle finestre annerite dalla fuliggine, i suoi pensieri alle orripilanti storie che si raccontavano sul bosco di Shoikan che si stendeva più oltre. «ti darò un amuleto che ti proteggerà,» fratello mio,» aggiunse Raistlin, esasperato, vedendo l’espressione spaventata sul volto di Caramon. «In realtà, un amuleto sarà necessario, ma non per aiutarti ad attraversare il Bosco. Qui dentro è molto più pericoloso. I guardiani mi obbediscono ma hanno sete del tuo sangue. Non metter piede fuori di questa stanza senza di me. Ricordalo. E anche tu, Dama Crysania.»

«Dove... dove si trova questo Portale?» chiese Caramon all’improvviso.

«Nel laboratorio sopra di noi, in cima alla Torre,» rispose Raistlin. «I portali venivano tenuti nel luogo più sicuro che gli stregoni potessero concepire, poiché, come puoi ben immaginare, sono estremamente pericolosi.»

«È tipico degli stregoni immischiarsi in cose che farebbero assai bene a lasciar stare,» ringhiò Caramon. «In nome degli dei, perché mai hanno creato una porta sull’Abisso?»

Congiungendo le punte delle dita, Raistlin fissò il fuoco, parlando alle fiamme come se fossero le uniche che avessero il potere di capirlo.

«Quando c’è sete di conoscenza, molte cose vengono create. Alcune sono buone e tutti noi ne traiamo beneficio. Una spada nella tua mano, Caramon, difende la causa della giustizia e della verità, e protegge gli innocenti. Ma una spada nella mano di... diciamo della nostra amata sorella Kitiara, troncherebbe in due la testa degli innocenti, se ciò facesse i suoi interessi. È forse colpa di colui che ha creato la spada?»

«N...» cominciò a dire Caramon, ma il suo gemello lo ignorò.

«Molto tempo fa, durante l’Era dei Sogni, quando i fruitori di magia erano rispettati e la magia fioriva su Krynn, le cinque Torri della Grande Stregoneria si ergevano come fari di luce nel buio mare dell’ignoranza che si stendeva su questo mondo. Là venivano operate grandi magie che andavano a beneficio di tutti. E c’erano progetti per attuarne anche di più grandi. Chi lo sa? adesso avremmo potuto cavalcare i venti, librarci nei cieli come i draghi. Forse avremmo perfino potuto lasciare questo mondo e andare ad abitare su altri, molto, molto lontani...»

La sua voce si era fatta sommessa e tranquilla. Caramon e Crysania ascoltavano immobili, incantati dal suono della sua voce, ammaliati dalla visione della sua magia.

Sospirò. «Ma così non sarebbe stato. Nel desiderio di accelerare le loro grandi opere, gli stregoni decisero che era indispensabile comunicare direttamente gli uni con gli altri, da una Torre all’altra, senza bisogno degli scomodi incantesimi di teletrasporto. E così vennero costruiti i Portali.»

«Ci riuscirono, dunque?» Gli occhi di Crysania brillarono di meraviglia.

«Sì, ci riuscirono!» sbuffò Raistlin. «Al di là dei loro sogni più sfrenati,» abbassò la voce, «e dei loro peggiori incubi. Poiché i Portali non soltanto davano la possibilità di trasferirsi con un solo passo dall’una all’altra Torre o fortezza della magia, anche le più remote, ma anche di accedere ai regni degli dei, come un inetto stregone del mio stesso ordine ebbe a scoprire per propria sventura.»

D’un tratto Raistlin rabbrividì, e si strinse ancora più addosso le vesti nere, rannicchiandosi vicino al fuoco.

«Tentato dalla Regina delle Tenebre, come soltanto lei può tentare i mortali quando decide di farlo,» il volto di Raistlin impallidì ancora di più, «usò il Portale per entrare nel suo regno e conquistare il premio che lei gli offriva ogni notte, nei suoi sogni.» Raistlin scoppiò a ridere, una risata amara, sarcastica.

«Sciocco! Cosa gli sia successo non lo sa nessuno. Non fece mai più ritorno attraverso il Portale. Ma la Regina lo fece. E con lei arrivarono legioni di draghi...»

«Le prime Guerre dei Draghi!» rantolò Crysania.

«Sì, causateci da uno della mia razza sprovvisto di disciplina e di autocontrollo. Il quale si era lasciato sedurre...» Interrompendosi, Raistlin fissò pensieroso il fuoco.

«Ma questo io non l’avevo mai sentito!» protestò Caramon. «Secondo le leggende, i draghi arrivarono insieme a...»

«La tua storia è limitata alle favole che si raccontano ai bambini quando vanno a letto, fratello mio!» esclamò Raistlin, insofferente. «E dimostra, infatti, quanto poco tu sappia dei draghi. Sono creature indipendenti, orgogliose, egocentriche, e del tutto incapaci di mettersi insieme per cucinare la cena, e ancora meno di coordinare qualunque sforzo per intraprendere una guerra. No, quella volta la Regina entrò nel mondo in tutta la sua completezza, non soltanto l’ombra che era stata durante la nostra guerra contro di lei. Intraprese la guerra contro il mondo e fu soltanto grazie al grande sacrificio di Huma che venne ricacciata.»

Raistlin tacque per qualche istante con le mani sulle labbra, riflettendo. «Qualcuno dice che Huma non usò la Dragonlance per distruggerla fisicamente, come narra la leggenda. Ma che piuttosto la lancia avesse alcune proprietà magiche e che gli permisero di ricacciare la Regina dentro il Portale e chiuderlo ermeticamente. Il fatto che l’abbia ricacciata dimostra che, in questo mondo, ella è vulnerabile.» Raistlin fissò le fiamme. «Se ci fosse stato qualcuno... qualcuno dotato di un vero potere, al Portale, quando entrò, qualcuno capace di distruggerla del tutto invece di ricacciarla semplicemente indietro, allora è senz’altro possibile che la storia sarebbe stata riscritta.»

Nessuno parlò. Crysania teneva gli occhi fissi sulle fiamme, vedendovi forse la stessa visione gloriosa dell’arcimago. Caramon fissò il volto del suo gemello.

Lo sguardo di Raistlin lasciò all’improvviso le fiamme, lampeggiando e tornando a fuoco con gelida e limpida intensità. «Domani, quando sarò più forte, salirò da solo nel laboratorio,» la sua occhiata severa spazzò sia Caramon che Crysania, «e comincerò i miei preparativi. Tu, Dama, sarà meglio che inizi ad entrare in comunione con il tuo dio.»

Crysania deglutì nervosamente. Rabbrividendo, tirò la sua poltrona più vicina al fuoco. Ma d’un tratto, Caramon si alzò in piedi fermandosi davanti a lei. Chinandosi, le strinse le braccia con le mani robuste, costringendola a guardarlo negli occhi.

«Questa è follia. Dama,» disse con voce sommessa e compassionevole. «Lascia che ti porti via da questo luogo buio! Tu sei spaventata, e hai delle buone ragioni per esserlo! Forse non tutto ciò che Par-sallian ha detto su Raistlin era vero. Forse neppure tutto quello che ho pensato su di lui era vero. Forse l’ho giudicato male. Ma questa è una cosa che vedo chiaramente, Dama: sei spaventata, e non ti biasimo! Lascia che Raistlin faccia questa cosa da solo! Lascialo sfidare gli dei, se è questo che vuole! Ma non andare con lui... torna a casa! Lascia che ti riporti nel tuo tempo, lontano da qui.»

Raistlin non parlò, ma i suoi pensieri echeggiarono nella mente di Crysania con la stessa chiarezza come se li avesse pronunciati ad alta voce. Hai sentito il Gran Sacerdote! Hai detto tu stessa che conosci il suo errore! Paladine ti favorisce. Perfino in questo luogo tenebroso esaudisce le tue preghiere. Sei tu la sua prescelta! Tu avrai successo dove il Gran Sacerdote ha fallito! Vieni con me, Crysania. È questo il nostro destino!

«Sì, sono spaventata,» disse Crysania, liberando con gentilezza le proprie braccia dalle mani di Caramon. «E la tua preoccupazione per me mi commuove davvero. Ma questa mia paura è una debolezza che devo combattere. Con l’aiuto di Paladine la vincerò, prima di entrare nel Portale insieme a tuo fratello.»

«Così sia, allora,» replicò Caramon con gravità, distogliendo lo sguardo.

Raistlin sorrise, un sorriso tenebroso, segreto, che non si rifletté nei suoi occhi, e neppure nella sua voce.

«E adesso, Caramon,» disse caustico, «se hai finito d’immischiarti in faccende che sei del tutto incapace di comprendere, farai meglio a prepararti per il tuo viaggio. È metà mattina, adesso. I mercati, per quello che sono in quest’epoca di desolazione, stanno giusto per aprirsi.» Affondando una mano in una tasca delle sue vesti nere, Raistlin tirò fuori diverse monete e le lanciò a suo fratello. «Questo dovrebbe essere sufficiente per i nostri bisogni.»

Caramon afferrò al volo le monete, con un movimento istintivo. Poi esitò, fissando suo fratello con la stessa espressione che Crysania gli aveva visto assumere nel Tempio a Istar, e ricordò di aver pensato: che terribile odio... che terribile amore!

Infine Caramon abbassò lo sguardo, ficcando il denaro nella cintura.

«Vieni qui da me, Caramon,» disse Raistlin con voce sommessa.

«Perché?» borbottò Caramon, d’un tratto sospettoso.

«Be’, c’è la faccenda di quel collare di ferro intorno al tuo collo. Vuoi camminare per le strade mostrando ancora quel marchio di schiavitù? E qui c’è l’amuleto.» Raistlin parlò con infinita pazienza, ma vedendo che Caramon esitava ancora, aggiunse: «Ti consiglierei di non lasciare questa stanza senza di esso. Comunque, la decisione è tua...»

Lanciando un’occhiata alle pallide facce che li stavano ancora osservando attentamente dalle ombre, Caramon si fermò davanti a suo fratello, con le braccia incrociate sul petto. «E adesso, cosa?» ringhiò.

«Inginocchiati davanti a me.»

Gli occhi di Caramon lampeggiarono di collera. Un’amara imprecazione gli ardeva sulle labbra ma, lanciando un’occhiata furtiva in direzione di Crysania, deglutì e si rimangiò le parole.

Il volto pallido di Raistlin appariva rattristato. Sospirò. «Sono esausto, Caramon. Non ho la forza di alzarmi. Per favore...»

Serrando le mascelle, Caramon si abbassò lentamente, piegando il ginocchio sul pavimento, così da trovarsi alla stessa altezza del suo fragile gemello abbigliato di nero.

Raistlin bisbigliò una parola. Il collare di ferro di spezzò in due e cadde giù dal collo di Caramon, rimbalzando con uno sferragliare metallico sul pavimento.

«Vieni più vicino,» disse Raistlin.

Deglutendo, sfregandosi il collo, Caramon fece come gli veniva detto, anche se fissò suo fratello con amarezza. «Faccio questo per Crysania,» disse con voce tesa. «Se si trattasse soltanto di te e di me, ti lascerei marcire in questo posto immondo!»

Tendendo le mani, Raistlin le appoggiò su entrambi i lati della testa dei suo gemello con un gesto che apparve tenero, quasi carezzevole. «Lo faresti, fratello mio?» chiese Raistlin a Caramon con voce così sommessa da essere poco più di un sussurro. «Mi lasceresti? Là, ad Istar, mi avresti davvero ucciso?»

Caramon si limitò a fissarlo, incapace di rispondere. Poi, Raistlin si chinò in avanti e baciò suo fratello sulla fronte. Caramon sussultò, come se fosse stato toccato da un ferro rovente.

Raistlin lasciò la stretta.

Caramon lo fissò angosciato. «Non lo so!» mormorò con voce rotta. «Che gli dei mi aiutino, non lo so!»

Con un singhiozzo straziante, si coprì la faccia con le mani. La sua testa affondò sulle ginocchia del fratello.

Raistlin accarezzò i suoi riccioluti capelli castani. «Suvvia, Caramon,» gli disse con voce gentile.

«Ti ho dato l’amuleto. Ora le creature della tenebra non possono farti del male, no, fintanto che io sono qui.».

Capitolo quinto.

Caramon si fermò sulla soglia dello studio scrutando il corridoio più oltre, un’oscurità che era viva di bisbigli e occhi. Accanto a lui c’era Raistlin, con una mano sul braccio del gemello e il Bastone di Magius nell’altra.

“Tutto andrà bene, fratello mio,” disse Raistlin con voce sommessa. “Fidati di me.”

Caramon sbirciò fugacemente il fratello con la coda dell’occhio. Cogliendo la sua espressione, Raistlin ebbe un sorriso sardonico.

“Ti farò accompagnare da uno di questi,” continuò il mago, facendo un gesto con la mano sottile.

“Preferirei di no!” borbottò Caramon, accigliandosi quando il paio di occhi incorporei che gli erano più vicini si avvicinò ancora di più.

“Assistilo,” ordinò Raistlin a quegli occhi. “È sotto la mia protezione. Mi vedi? Sai chi sono?”

Gli occhi abbassarono il loro sguardo, reverenti, poi si fissarono freddi e spettrali su Caramon. Il grosso guerriero rabbrividì e lanciò un’ultima occhiata a Raistlin, soltanto per vedere il volto di suo fratello farsi cupo e severo.

“I guardiani ti condurranno sano e salvo attraverso il Bosco.

“Però, potresti avere altre cose da temere, una volta che l’avrai lasciato, fratello mio. Questa città non è il posto bello e sereno che diventerà fra duecento anni. Adesso è affollata di profughi che vivono nelle fogne, per le strade, dovunque sia possibile. Ogni mattino i carri passano rumoreggiando sull’acciottolato per rimuovere i corpi di coloro che sono morti durante la notte. Là fuori ci sono ancora uomini pronti ad assassinarti per rubarti gli stivali. Compera una spada per prima cosa e tienila apertamente in pugno.”

“Mi preoccuperò io della città,” sbottò Caramon. Si girò di scatto e si allontanò lungo il corridoio, cercando senza molto successo d’ignorare i pallidi occhi ardenti che fluttuavano accanto alla sua spalla.

Raistlin osservò la scena fino a quando suo fratello e il guardiano non ebbero superato il bagliore della luce magica del Bastone, venendo inghiottiti dalla malsana oscurità. Aspettando fino a quando perfino l’eco dei passi di suo fratello si fu dissolto, Raistlin si voltò e rientrò nello studio.

Dama Crysania sedeva sulla sua poltrona cercando, senza troppo successo, di pettinarsi con le dita i capelli aggrovigliati. Arrivando accanto a lei senza farsi vedere, dopo aver attraversato il pavimento con passo felpato, Raistlin affondò la mano in una delle tasche delle sue vesti nere e ne estrasse una manciata di sottile sabbia bianca. Avvicinandosi alle sue spalle, il mago sollevò la mano e lasciò che la sabbia colasse giù sui capelli scuri della donna.

“Ast tasark simiralan krynawi,” bisbigliò Raistlin, e quasi subito la lesta di Crysania le ricadde sul petto, gli occhi le si chiusero, e la donna entrò in un sonno profondo e magico. Spostandosi così da trovarsi davanti a lei, Raistlin la fissò per lunghi momenti.

Nonostante si fosse lavata via dal viso le chiazze di sangue e di lacrime, i segni del viaggio attraverso la tenebra erano ancora visibili nelle ombre azzurre sotto le sue lunghe ciglia e nel pallore della sua carnagione; un taglio spiccava sopra il suo labbro. Allungando una mano, Raistlin le lisciò i capelli che le ricaddero in ciocche scure intorno agli occhi.

Crysania aveva buttato da parte la tenda di velluto nero che aveva usato come coperta, quando la stanza aveva cominciato a scaldarsi grazie al fuoco. Le sue bianche vesti, lacerate e macchiate di sangue, le si erano sciolte intorno al collo. Raistlin poteva vedere la morbida curva del suo seno sotto il tessuto bianco, che si alzava e si abbassava al ritmo del suo respiro profondo e costante.

“Se io fossi come gli altri uomini, sarebbe mia,” disse Raistlin con voce sommessa.

La sua mano si attardò intorno al volto di lei, arricciandosi intorno alle dita i suoi capelli scuri e crespi.

“Ma io non sono come gli altri uomini,” proseguì il giovane mago. Lasciò ricadere i suoi capelli, prese la tenda e gliel’avvolse di nuovo intorno alle spalle e al corpo addormentato. Crysania sorrise, forse stava facendo un sogno dolcissimo, e si rannicchiò ancora di più nella poltrona, appoggiando la mano sul bracciolo e facendovi riposare sopra la testa.

Raistlin passò la mano sulla pelle liscia del viso di Crysania, richiamando alla memoria vivi ricordi.

Cominciò a tremare. Non doveva fare altro che invertire l’incantesimo del sonno, prenderla fra le braccia, stringerla come l’aveva stretta quando aveva lanciato il magico incantesimo che li aveva portati in questo luogo. Avrebbero avuto un’ora da soli prima che Caramon tornasse...

“Io non sono come gli altri uomini!” ringhiò Raistlin.

Di scatto, si scostò, e il suo sguardo arcigno incontrò gli occhi fissi e attenti dei guardiani.

“Proteggetela mentre io non ci sono,” disse ai molti spettri semivisibili che si libravano nell’aria, annidandosi fra le ombre cupe negli angoli dello studio. “Voi due,” ordinò a quelli che si erano trovati con lui quando si era svegliato, “accompagnatemi.”

“Sì, Maestro,” mormorarono i due. Quando la luce del Bastone cadde su di loro, divennero visibili i deboli contorni di vesti nere.

Uscendo fuori in corridoio, Raistlin chiuse con molta attenzione la porta dello studio alle proprie spalle. Strinse il Bastone, pronunciò con voce sommessa una singola parola di comando, e venne trasportato all’istante nel laboratorio in cima alla Torre della Grande Stregoneria.

Non aveva ancora avuto il tempo di tirare un respiro quando venne aggredito da qualcosa che si era materializzato dalla tenebra.

Urla stridule e ululati d’indignazione si levarono intorno a lui. Forme scure sfrecciarono dall’oscurità, sfidando la luce del Bastone, mentre dita bianche come ossa lo ghermivano alla gola e gli afferravano le vesti, lacerando il tessuto. L’attacco era stato talmente rapido e improvviso e così orrenda l’ondata d’odio, che Raistlin rischiò d’essere irrimediabilmente travolto.

Ma quasi subito riprese la padronanza di sé. Facendo descrivere al Bastone un ampio arco, urlando rauche parole magiche, respinse gli spettri.

“Parlate con loro!” ordinò ai due guardiani che erano con lui. “Dite loro chi sono!”

“Fistandantilus,” sentì che dicevano in mezzo al frastuono che gli rombava nelle orecchie. “Anche se il suo tempo non è ancora venuto com’è stato predetto... un esperimento di magia...”

Indebolito e stordito, Raistlin raggiunse barcollando una poltrona e si accasciò su di essa.

Maledicendosi amaramente per essersi trovato impreparato a un assalto come quello e imprecando a quel suo corpo debole che ancora una volta lo tradiva, si asciugò il sangue da un taglio sul viso e lottò per non perdere i sensi.

Questa è opera tua, mia Regina. I pensieri gli affluivano tetri attraverso una nebbia di dolore. Non osi combattere apertamente. Sono troppo forte per te su questo... mio piano... d’esistenza! Hai la tua testa di ponte in questo mondo. Già da ora il tuo Tempio è comparso a Neraka nella sua forma perversa. Hai svegliato i draghi del male. Stanno rubando le uova dei draghi buoni. Ma la porta rimane chiusa, la Pietra delle Fondamenta è stata bloccata dal sacrificio altruistico dell’amore. E questo è stato il tuo errore poiché adesso, grazie al tuo ingresso nel nostro piano, hai reso possibile il nostro ingresso nel tuo! Non posso ancora raggiungerti... tu non puoi raggiungere me... Ma verrà il momento... verrà il momento...

“Non ti senti bene, Maestro?” chiese una voce spaventata accanto a lui. “Sono davvero desolato che non ci sia stato possibile impedire che ti facessero del male, ma ti sei mosso troppo in fretta! Per favore, perdonaci. Lascia che ti aiutiamo...”

“Non potete far nulla!” ringhiò Raistlin, tossendo. Sentì alleviarsi il dolore nel petto. “Lasciatemi solo un momento... Ho bisogno di riposare. Cacciate fuori di qui questi altri.”

“Sì, Maestro.”

Chiudendo gli occhi, aspettando che passassero quell’orrendo stordimento e il dolore, Raistlin rimase seduto per un’ora nel buio a rivedere mentalmente i suoi piani. Aveva bisogno di due settimane ininterrotte di riposo e di studio per prepararsi. Qui avrebbe potuto trovare facilmente quel tempo. Crysania era sua, l’avrebbe seguito volontariamente, addirittura con slancio, invocando i poteri di Paladine per aiutarlo ad aprire il Portale e combattere gli spaventevoli guardiani che si trovavano al di là di esso.

Disponeva delle conoscenze di Fistandantilus, conoscenze accumulate dal mago nell’arco dei secoli.

E aveva anche le proprie conoscenze, oltre alla forza del suo giovane corpo. Quando fosse stato pronto ad entrare, si sarebbe trovato all’apice del suo potere, il più grande arcimago mai vissuto su Krynn!

Questo pensiero lo confortò e gli diede rinnovata energia. Finalmente lo stordimento scomparve, il dolore si attenuò. Alzandosi in piedi lanciò una rapida occhiata intorno a sé. Riconosceva il laboratorio, naturalmente. Aveva esattamente lo stesso aspetto di quando vi era entrato in un passato che adesso si trovava duecento anni nel futuro. Allora vi era giunto con il potere, com’era stato predetto. La porta si era aperta, i guardiani malefici l’avevano accolto con reverenza, non l’avevano aggredito.

Mentre percorreva il laboratorio con il Bastone di Magius che gli illuminava la strada, Raistlin lanciò intorno a sé occhiate incuriosite. Notò delle strane differenze che lo lasciavano perplesso.

Ogni cosa avrebbe dovuto essere esattamente com’era quando sarebbe arrivato tra duecento anni.

Ma un becher adesso intatto era rotto quando l’aveva trovato. E un libro degli incantesimi giaceva sul pavimento mentre adesso si trovava sopra un grande tavolo di marmo.

“I guardiani toccano gli oggetti?” chiese ai due che erano rimasti con lui. Le vesti gli frusciarono intorno alle caviglie mentre si dirigeva verso l’estremità opposta del vasto laboratorio, avvicinandosi alla Porta Che Non Veniva Mai Aperta.

“Oh, no, Maestro” rispose uno dei due, sbigottito. “Non ci è permesso toccare alcunché.”

Raistlin scrollò le spalle. Un mucchio di cose potevano accadere in duecento anni, per spiegare fatti come quelli. “Forse un terremoto,” commentò fra sé, perdendo interesse alla cosa mentre si avvicinava alle ombre prospicienti il Portale.

Sollevando il Bastone di Magius, fece risplendere davanti a sé la luce magica. Le ombre fuggirono dal lato più lontano del laboratorio, l’angolo in cui si trovava il Portale con le sue incisioni in platino che raffiguravano le cinque teste di drago, e i suoi giganteschi battenti d’argento e acciaio che nessuna chiave su Krynn poteva aprire.

Raistlin sollevò in alto il Bastone... e dette in un rantolo.

Per lunghi momenti non potè fare altro che guardare, respirando affannosamente, con i pensieri che ribollivano e ardevano. Poi il suo urlo acuto di rabbia, collera e furore penetrò il tessuto vivente dell’oscurità della Torre.

Talmente orrendo fu il grido che echeggiò attraverso i bui corridoi della Torre, che i guardiani malefici si rintanarono in mezzo alle loro ombre, chiedendosi se per caso la temuta Regina non fosse piombata in mezzo a loro.

Caramon udì il grido quando varcò la porta ai piedi della Torre. Rabbrividendo per l’improvviso terrore, lasciò cadere i pacchi che trasportava e, con mano tremante, accese la torcia che aveva portato con sé. Poi, stringendo in pugno la lama nuda della nuova spada che aveva comperato, il grosso guerriero salì di corsa la scala, a due gradini per volta.

Piombando nello studio, vide Dama Crysania che si guardava intorno con occhi assonnati e impauriti.

“Ho sentito un urlo...” disse, sfregandosi gli occhi e alzandosi in piedi.

“Stai bene?” ansimò Caramon, cercando di riprendere fiato.

“Sì... sì...” lei rispose, sorpresa, quando si rese conto di quello che lui stava pensando. “Non sono stata io. Devo essermi addormentata. Mi ha svegliato...”

“Dov’è Raist?” volle sapere Caramon.

“Raistlin!” ripetè lei, allarmata, e fece per uscire dalla porta, oltrepassando Caramon, ma lui l’afferrò.

“È per questo che hai dormito,” disse con voce cupa, toccandole i capelli e facendo scivolare giù da essi una sottile sabbia bianca. “L’incantesimo del sonno.”

Crysania sbatté le palpebre. “Ma perché...”

“Lo scopriremo.”

“Guerriero,” disse una voce gelida, quasi sfiorandogli l’orecchio.

Girandosi di scatto, Caramon scagliò Crysania dietro di sé, sollevando la spada quando una figura spettrale abbigliata di nero si materializzò nella tenebra. “Cerchi lo stregone? È di sopra, nel laboratorio. Ha bisogno di aiuto, ma ci è stato ordinato di non toccarlo.”

“Vado,” esclamò Caramon. “Da solo.”

“Vengo con te,” replicò Crysania. “Sì, con te,” ripetè in tono deciso, in risposta all’accigliarsi di Caramon.

Questi fece per discutere poi, ricordando che lei era un chierico di Paladine e già una volta aveva esercitato i suoi poteri su quelle creature delle tenebre, scrollò le spalle e si arrese, anche se con assai poca grazia.

“Cosa gli è successo, se vi è stato dato l’ordine di non toccarlo?” chiese Caramon con voce burbera allo spettro, mentre insieme a Crysania lo seguiva fuori dallo studio nel buio corridoio.

“Rimani vicino a me,” borbottò rivolto a Crysania, ma l’ordine non era necessario.

Se prima l’oscurità era parsa animata, adesso pulsava, palpitava, fremeva di vita, mentre i guardiani, sconvolti dall’urlo, si accalcavano nei corridoi. Anche se adesso era vestito con indumenti caldi che aveva comperato al mercato, Caramon rabbrividiva convulsamente per il gelo che s’irradiava dai loro corpi non morti. Accanto a lui Crysania tremava al punto che quasi non riusciva a camminare.

“Lascia che regga io la torcia,” disse a denti stretti. Caramon le porse la torcia, poi la cinse con il braccio destro, attirandola a sé. Lei gli mise il braccio intorno alla vita: entrambi traevano conforto dalla carne vivente mentre salivano la scala dietro allo spettro.

“Cos’è successo?” chiese di nuovo Caramon, ma lo spettro non rispose. Si limitò semplicemente a indicare la scala a chiocciola che si dipanava sopra di loro.

Stringendo la spada nella mano sinistra, Caramon seguì, insieme a Crysania, lo spettro che fluiva su per le scale, con la luce della torcia che danzava e ondeggiava.

Dopo quella che parve una scalata interminabile, i due raggiunsero la cima della Torre della Grande Stregoneria, entrambi doloranti e spaventati, raggelati fino al cuore.

“Dobbiamo riposare,” sussurrò Caramon con un filo di voce tra labbra intirizzite. Crysania si appoggiò a lui, con gli occhi chiusi e il respiro affannoso. Lo stesso Caramon, che pure si trovava in eccellenti condizioni fisiche, ritenne adesso di non essere assolutamente in grado di salire un’altra rampa.

“Dov’è Raist... Fistandantilus?” balbettò Crysania, dopo che il suo respiro fu ritornato quasi normale.

“All’interno.” Lo spettro indicò di nuovo, questa volta una porta chiusa. Mentre la indicava, la porta si mosse, spalancandosi in silenzio.

Un soffio d’aria gelida uscì dalla stanza come un’onda scura, increspando i capelli di Caramon e soffiando di Iato il mantello di Crysania. Per un momento, Caramon non riuscì a muoversi. La sensazione di malvagità che usciva da quella stanza era sopraffacente. Ma Crysania, con la mano stretta saldamente sopra il medaglione di Paladine, cominciò ad avanzare.

Allungando una mano, Caramon la tirò indietro. “Lasciami andare per primo.”

Crysania gli rivolse uno stanco sorriso. “In qualunque altra occasione, salvo questa, guerriero,” gli disse, “ti concederei il privilegio. Ma qui, il medaglione che possiedo è un’arma formidabile quanto la tua spada.”

“Non hai bisogno di nessun’arma,” dichiarò lo spettro con freddezza. “Il Maestro ci ha ordinato di assicurarci che non vi venisse fatto alcun male. Obbediremo alla sua richiesta.”

“E se fosse morto?” chiese Caramon aspro, sentendo Crysania che s’irrigidiva per la paura dietro di lui.

“Se fosse morto,” rispose lo spettro con un luccichio negli occhi, “il vostro sangue caldo sarebbe già sulle nostre labbra. Adesso entrate.”

Esitando, seguito dappresso da Crysania, Caramon entrò nel laboratorio. Crysania sollevò la torcia, reggendola alta, mentre entrambi si fermavano, guardandosi intorno.

“Là,” bisbigliò Caramon; l’innata intimità che esisteva fra i gemelli lo condusse verso la massa scura appena visibile sul pavimento in fondo al laboratorio.

Dimenticando le sue paure, Crysania si affrettò ad avanzare. Caramon la seguì più lentamente, scrutando guardingo la tenebra.

Raistlin giaceva disteso sul fianco, con il cappuccio tirato sul viso. Il Bastone di Magius giaceva a una certa distanza da lui, la sua luce era spenta, come se Raistlin, in preda a una rabbia amara, l’avesse scagliato lontano da sé. A quanto pareva, durante il suo volo aveva rotto un becher e fatto cadere sul pavimento un libro d’incantesimi.

Porgendo a Caramon la torcia, Crysania s’inginocchiò accanto al mago e gli tastò il collo alla ricerca del battito della vita. Era debole e irregolare, ma indubbiamente Raistlin era vivo. Crysania tirò un sospiro di sollievo, poi scosse la testa. “Sta bene, ma non capisco. Cosa gli è successo?”

“Non è ferito fisicamente,” disse lo spettro, librandosi accanto a loro. “È venuto su questo lato del laboratorio come se cercasse qualcosa, borbottando di un Portale. Tenendo alto il Bastone, si è fermato là dove si trova adesso, guardando dritto davanti a sé. Poi ha urlato, ha scagliato via il Bastone, ed è caduto sul pavimento, imprecando in preda al furore fino a quando non ha perduto conoscenza.”

Perplesso, Caramon sollevò la torcia. “Mi chiedo cosa possa essere successo,” mormorò. “Ma qui non c’è niente! Niente, salvo una parete vuota!”.

Capitolo sesto.

«Come si è comportato?» chiese Crysania con voce sommessa quando entrò nella stanza. Scostando il bianco cappuccio dalla testa, si slacciò il mantello per consentire a Caramon di sfilarglielo dalle spalle.“Irrequieto,” rispose il guerriero, lanciando un’occhiata verso un angolo in ombra. «Aspettava con impazienza il tuo ritorno.»

Crysania sospirò e si morse il labbro. «Vorrei avere notizie migliori.»«Sono lieto che tu non le abbia,” dichiarò Caramon in tono severo, ripiegando il mantello di Crysania sopra una sedia. «Forse rinuncerà a questa folle idea e tornerà a casa»

«Non posso...» cominciò a dire Crysania, ma venne interrotta.

«Se voi due avete finito con qualunque cosa stiate facendo là al buio, forse vorrai venirmi a riferire quello che hai scoperto, Dama.»

Crysania arrossì intensamente. Lanciando un’occhiata irritata a Caramon, attraversò di corsa la stanza fin dove Raistlin era disteso su un giaciglio accanto al fuoco.

La collera del mago era costata parecchio. Caramon l’aveva trasportato giù dal laboratorio, dove l’avevano trovato disteso davanti alla parete di nuda pietra, fino allo studio. Crysania aveva improvvisato un letto sul pavimento, poi aveva guardato impotente Caramon che curava suo fratello con la stessa delicatezza di una madre nei confronti di un bambino malato. Ma c’era assai poco che perfino l’omone avesse potuto fare per il suo fragile gemello. Raistlin era rimasto privo di sensi per più di un giorno, borbottando strane parole nel suo oblio. A un certo punto si era svegliato, urlando per il terrore, ma subito era risprofondato nell’oscurità, qualunque fosse, in cui stava vagando.

Privi della luce del Bastone che neppure il guerriero aveva osato toccare e che, quindi, era stato costretto a lasciare nel laboratorio, Caramon e Crysania sedevano rannicchiati accanto a Raistlin.

Avevano tenuto acceso il fuoco, ma erano entrambi ben consci della presenza, nell’ombra, dei guardiani della Torre, che aspettavano e osservavano.

Infine Raistlin si svegliò. Con il suo primo respiro ordinò a Caramon di preparargli la pozione e, dopo averla bevuta, fu in grado di mandare uno dei guardiani a prendere il Bastone. Poi fece segno a Crysania: «Devi andare da Astinus,» bisbigliò.

«Astinus!» Crysania ripetè con espressione stupefatta, senza capire. «Lo storico? Ma perché, non capisco...»

Gli occhi di Raistlin scintillarono, una chiazza di colore ardeva sulle sue pallide guance con un fulgore febbrile. «Il Portale non è qui!» ringhiò, digrignando i denti con furore impotente. Serrò le mani e quasi subito cominciò a tossire. Fissò Crysania con occhi furenti.

«Non sprecare il mio tempo con domande sciocche! Vai e basta!» le ordinò con una collera così terribile che lei si ritrasse, stupefatta. Raistlin cadde all’indietro, annaspando per respirare.

Preoccupato, Caramon sollevò lo sguardo su Crysania. Lei si avvicinò alla scrivania fissando, senza vederli, alcuni dei libri d’incantesimi anneriti e sbrindellati che giacevano su di essa.

«Adesso aspetta un momento, Dama,» disse Caramon con voce sommessa, alzandosi in piedi e venendo verso di lei. «Non penserai davvero di andare? E poi, chi è questo Astinus? E come pensi di attraversare il Mosco senza un amuleto?»

«Ho un amuleto,» mormorò Crysania. «Me lo diede tuo fratello quando... ci siamo incontrati la prima volta. In quanto ad Astinus, è il custode della Grande Biblioteca di Palanthas, il Cronista della Storia di Krynn.»

«Potrà anche esserlo alla nostra epoca, ma adesso certamente non sarà là!» esclamò Caramon, esasperato. «Pensaci, Dama!»

«Ci sto pensando,» sbottò Crysania, lanciandogli un’occhiata incollerita. «Astinus è conosciuto come il Senza Età. È stato il primo a mettere piede su Krynn, così dicono le leggende, e sarà l’ultimo a lasciarlo.»

Caramon la fissò, scettico.

«Registra tutta la storia a mano a mano che passa, sa tutto quello che è accaduto nel passato e quello che accade nel presente. ma,» Crysania lanciò a Raistlin un’occhiata preoccupata, «non può vedere il futuro. Perciò non sono sicura di quale aiuto potrà esserci.»

Caramon era ancora dubbioso e, ovviamente, non credendo neppure alla metà di quella storia inverosimile, aveva discusso a lungo per cercare d’indurla a non andare. Ma Crysania era divenuta ancora più decisa, fino a quando perfino Caramon si era reso conto di non avere nessun’altra scelta.

Raistlin era peggiorato, invece di migliorare. La pelle gli bruciava per la febbre, piombava in periodi di completa incoerenza e, quand’era di nuovo se stesso, voleva sapere con rabbia per quale motivo Crysania non fosse ancora andata a far visita ad Astinus.

Così, Crysania aveva affrontato i terrori del Bosco, e quelli ugualmente spaventosi delle strade di Palanthas. Adesso s’inginocchiò accanto al letto del mago, con il cuore addolorato nel vedere che lottava per rizzarsi a sedere, con l’aiuto di suo fratello, il suo sguardo luccicante fisso avidamente su di lei.

«Dimmi tutto» le intimò con voce roca. «Esattamente com’è successo. Non lasciare fuori niente.»

Annuendo muta, ancora scossa dalla terrorizzante camminata attraverso la Torre, Crysania si sforzò di calmarsi e di districare i propri pensieri.

«Sono andata nella Grande Biblioteca e... e ho chiesto di vedere Astinus,» cominciò a dire, lisciando nervosamente le pieghe della semplice veste bianca che Caramon le aveva portato per sostituire il vestito macchiato di sangue che prima aveva indossato. «Gli estetici si sono rifiutati di farmi entrare, ma poi ho loro mostrato il medaglione di Paladine. Questo li ha gettati nella confusione, come puoi ben immaginare. Da cento anni non si manifestava più alcun segno degli antichi dei, così, alla fine, uno di loro è corso ad avvertire Astinus.

«Dopo aver aspettato un po’, sono stata condotta nella camera dove siede tutto il giorno e molte volte fino a notte inoltrata, a registrare la storia del mondo.» Crysania fece una pausa, d’un tratto spaventata dall’intensità dello sguardo di Raistlin. Pareva che, se avesse potuto, le avrebbe strappato le parole dal cuore. Distogliendo per un attimo lo sguardo da lui per ricomporsi, Crysania continuò, con lo sguardo adesso fisso sul fuoco: «Sono entrata nella stanza e lui... lui sedeva là, intento a scrivere, ignorandomi. Poi l’estetico che era con me ha annunciato il mio nome: “Crysania della casa di Tarinius”, come tu mi avevi detto di dirgli. E poi...»

Si interruppe, corrugando leggermente la fronte.

Raistlin si agitò. «Cosa?»

«Poi Astinus ha sollevato lo sguardo,» disse Crysania, in tono perplesso, tornando a voltarsi verso Raistlin. «Ha addirittura smesso di scrivere e ha messo giù la penna. E ha detto, Tu!, con una voce così tonante che sono rimasta sorpresa e l’estetico che era con me è quasi svenuto. Ma prima che io potessi dire qualcosa o chiedergli quello che avesse voluto dire, o anche soltanto come facesse a conoscermi, ha preso la penna e, portandola sopra le parole che aveva appena scritto, le ha depennate!»

«Depennate? ripetè Raistlin, pensieroso, con gli occhi scuri fissi nel vuoto. «Depennate,» mormorò ancora, riaffondando nel suo giaciglio.

Vedendo Raistlin assorto nei suoi pensieri, Crysania rimase zitta fino a quando non lo vide rialzare lo sguardo e fissarla.

«E poi cos’ha fatto?» chiese il mago, sempre più stanco.

«Ha riscritto qualcosa sopra il punto in cui aveva commesso l’errore, se di questo si trattava. Poi ha sollevato di nuovo lo sguardo su di me, e ho creduto che si sarebbe incollerito. Anche l’estetico l’ha creduto. Ma Astinus è rimasto del tutto calmo. Ha congedato l’estetico e mi ha pregato di sedermi.

Poi mi ha chiesto per quale motivo ero venuta.

“Gli ho detto che stavamo cercando il Portale. Ho aggiunto, come tu mi hai detto, che avevamo ricevuto informazioni le quali ci avevano indotto a credere che il Portale si trovasse nella Torre della Grande Stregoneria di Palanthas, ma che, dopo alcune ricerche, avevamo scoperto che le nostre informazioni erano sbagliate. Il Portale non si trovava là.

“Ha annuito, come se la cosa non lo sorprendesse affatto. “Il Portale è stato trasferito quando il Gran Sacerdote ha cercato di conquistare la Torre. Per ragioni di sicurezza, naturalmente. Col tempo, potrebbe tornare nella Torre della Grande Stregoneria di Palanthas, ma adesso non è là che si trova”.

“Dov’è che si trova, allora?” gli ho chiesto.

Per parecchi istanti non mi ha risposto, e poi...” Qui Crysania prese a balbettare e lanciò un’occhiata intimorita a Caramon, come per avvertirlo di tenersi saldo.

Vedendo la sua espressione, Raistlin si rizzò a sedere sul giaciglio. «Dimmelo!» le intimò con asprezza.

Crysania tirò un profondo sospiro. Avrebbe guardato altrove, ma Raistlin la prese per il polso e, malgrado la sua debolezza, la strinse con tanta fermezza che Crysania scoprì di non potersi liberare.

«Ha... ha detto che una simile informazione ti sarebbe costata. Ogni uomo ha il suo prezzo, perfino lui.» «Costarmi!» ripetè Raistlin, con un impercettibile mormorio, gli occhi ardenti.

Crysania tentò senza successo di liberarsi, mentre la stretta si accentuava dolorosamente.

«Qual è il costo?» volle sapere Raistlin.

«Ha detto che tu l’avresti saputo!» rantolò Crysania. «Ha detto che glielo avevi promesso molto tempo fa.”

Raistlin le liberò il polso. Crysania ricadde all’indietro, lontano da lui, sfregandosi il braccio ed evitando lo sguardo impietosito di Caramon. Improvvisamente l’omone si alzò in piedi e si allontanò a grandi passi. Ignorandolo, e ignorando Crysania, Raistlin riaffondò nei suoi cuscini sfilacciati, con la faccia pallida e tirata, gli occhi improvvisamente scuri e cerchiati.

Crysania si alzò in piedi e andò a versarsi un bicchiere d’acqua. Ma la mano le tremava talmente che versò la maggior parte del contenuto sulla scrivania e fu costretta a metter giù la caraffa.

Arrivandole alle spalle, Caramon versò l’acqua e le porse il bicchiere, con un’espressione grave sul viso.

Portando il bicchiere alle labbra, Crysania fu improvvisamente conscia che Caramon le guardava il polso. Abbassando lo sguardo, vide i segni della mano di Raistlin sulla sua pelle. Rimettendo giù il bicchiere sulla scrivania, Crysania tirò rapidamente la veste sopra il braccio ferito.

«Non aveva intenzione di farmi del male,» disse con voce sommessa, in risposta all’occhiata severa, furente e silenziosa di Caramon. “Il dolore lo rende impaziente. Cos’è la nostra sofferenza, paragonata alla sua? Certamente fra tutti sei tu quello che lo capisce meglio. È talmente preso dalla sua grandissima visione che non sa neppure quando fa del male agli altri.»

Voltandosi, tornò là dove giaceva Raistlin, lo sguardo fisso sul fuoco, senza però vederlo.

«Oh, lo sa benissimo,» borbottò Caramon tra sé. «Comincio proprio adesso a rendermene conto. L’ha sempre saputo.»

Astinus di Palanthas, storico di Krynn, sedeva nella sua stanza, intento a scrivere. L’ora era tarda, molto tarda, in effetti era passata Vegliascura. Gli estetici avevano da tempo chiuso e sbarrato le porte della Grande Biblioteca. Pochi vi erano ammessi durante il giorno, nessuno di notte. Ma le sbarre e le serrature non erano nulla per l’uomo che era entrato nella Biblioteca e che adesso si ergeva, figura di tenebra, davanti ad Astinus.

Lo storico neppure sollevò lo sguardo. «Cominciavo a chiedermi dov’eri,« disse, continuando a scrivere.

«Non stavo bene,» rispose la figura, con le vesti nere che frusciavano. Come se le fosse appena venuto in mente di farlo, la figura tossì.

«Confido che ti senta meglio.» Astinus non sollevò la testa.

«Mi sto riprendendo lentamente,» disse la figura. «Molte cose mettono a dura prova le mie forze.»

«Siediti, allora,» l’invitò Astinus, indicando con un gesto della penna d’oca una sedia, senza distogliere lo sguardo dal suo lavoro.

La figura, con un sorriso contorto sulla faccia, si avvicinò alla sedia con passo felpato e si sedette. Il silenzio si prolungò nella stanza, interrotto soltanto dal raschiare della penna di Astinus e dagli occasionali colpi di tosse dell’intruso abbigliato di nero.

Infine Astinus mise giù la penna e sollevò lo sguardo per incontrare quello del visitatore. Questi tirò indietro il cappuccio nero dal viso. Fissandolo in silenzio per lunghi momenti, Astinus annuì fra sé.

«Non conosco questo viso, Fistandantilus, ma conosco i tuoi occhi. Però hanno qualcosa di strano.

Vedo il futuro nelle loro profondità. Così, sei diventato maestro del tempo, eppure non sei tornato con il potere, come è stato predetto.”

«Il mio nome non è Fistandantilus, Immortale. È Raistlin, e questa è una spiegazione sufficiente per quello che è successo.» Il sorriso di Raistlin scomparve, i suoi occhi si strinsero. «Ma certamente lo sapevi, no?» Fece un gesto. «Certamente la battaglia ?finale tra noi è stata registrata...»

«Ho registrato il nome, così come ho registrato la battaglia,” replico Astinus, con freddezza. “Vuoi vedere l’annotazione... Fistandantilus?»

Raistlin corrugò la fronte, i suoi occhi luccicarono pericolosamente. Ma Astinus rimase imperturbato. Lasciandosi andare contro lo schienale, studiò con calma l’arcimago.

“Hai portato quello che ho chiesto?”

“L’ho fatto,” rispose Raistlin con amarezza. “La sua creazione mi è costata giorni di dolore e ha minato le mie forze, altrimenti sarei venuto prima.”

E adesso, per la prima volta, un accenno di emozione brillò sul volto freddo e senza età di Astinus.

Si sporse avidamente in avanti, con gli occhi che gli ri splendevano, quando Raistlin scostò lentamente le pieghe delle sue vesti nere, rivelando quello che sembrava un globo di vetro vuoto sospeso nella cavità vuota del suo petto, simile a un cuore limpido e cristallino.

Perfino Astinus non riuscì a trattenere un sussulto a quella vista, ma a quanto pareva non era niente più d’una illusione perché, con un gesto, Raistlin fece ondeggiare in avanti il globo. Con l’altra mano si ricoprì l’esile petto con il tessuto nero.

Non appena il globo gli fluttuò accanto, Astinus vi posò le mani sopra, accarezzandolo amorevolmente. Al suo tocco il globo si riempì di luce lunare: argentea, rossa, perfino la strana aura della luna nera era visibile. Sotto le lune turbinavano le visioni, in rapida successione.

«Tu ora vedi scorrere il tempo anche mentre sediamo qui,» disse Raistlin, la sua voce si tinse d’un inconsapevole orgoglio. «E così, Astinus, non dovrai più affidarti ai tuoi invisibili messaggeri dei piani oltre stanti per sapere ciò che accade intorno a te. Da questo momento in avanti i messaggeri saranno i tuoi stessi occhi.»

«Sì! Sì!» mormorò Astinus; gli occhi guardavano dentro il globo luccicanti di lacrime, le mani appoggiate su di esso gli tremavano.«E adesso il mio pagamento,» continuò Raistlin con freddezza.

«Dov’è il Portale?»

Astinus sollevò lo sguardo dal globo. «Non riesci a indovinare, Uomo del Futuro e del Passato? Hai letto la storia...»

Raistlin fissò Astinus senza parlare, il suo volto divenne sempre più pallido e gelido fino ad assomigliare a una maschera di morte.

«Hai ragione, ho letto la storia. Allora è per questo che Fistandantilus andò a Zhaman,» disse infine l’arcimago.

Astinus annuì in silenzio.

«“Zhaman, la fortezza magica, situata nelle Pianure di Dergoth... vicino a Thorbardin, la dimora dei nani delle montagne. E Zhaman è la terra dominata dai nani delle montagne,» proseguì Raistlin con voce priva d’espressione, come se stesse leggendo un libro di testo. «E dove, in questo stesso momento, i loro cugini, i nani delle colline, stanno andando, sospinti dal male che ha consumato il mondo sin dall’epoca del Cataclisma, per chiedere rifugio nell’antica patria tra i monti.»

«Il Portale si trova...»

«... nelle viscere delle segrete di Zhaman,» concluse Raistlin con amarezza. “Là Fistandantilus combatté la Grande Guerra dei Nani.. . »

«Combatterà...» lo corresse Astinus.

«Combatterà,» mormorò Raistlin, «la guerra che abbraccerà la sua stessa fine!»

Il mago tacque. Poi, d’un tratto, si alzò in piedi e si avvicinò alla scrivania di Astinus. Appoggiando la mano sul libro, lo girò verso di sé. Astinus l’osservò con freddo e distaccato interesse.

«Hai ragione,» disse Raistlin, scorrendo la scrittura ancora umida sulla pergamena. «Vengo dal futuro, ho letto le Cronache, così come tu le hai composte. Parte di esse, comunque. Ricordo di aver letto questa annotazione, quella che scriverai là.» Indicò uno ?spazio vuoto, poi recitò a memoria:

«In questa data, cadendo il 30 dopo Scuraveglia, Fistandantilus mi ha portato il Globo del Passaggio del Tempo Presente.»

Astinus non rispose. La mano di Raistlin cominciò a tremare. «Scriverai questo?» insistè, con voce stridula per la rabbia.

Astinus non rispose per qualche istante, poi glielo confermò, con una leggera scrollata di spalle.

Raistlin sospirò. «Così non farò nulla che non sia stato fatto prima!» Serrò all’improvviso le mani, e quando parlò di nuovo la sua voce era tesa per lo sforzo indispensabile a controllarsi.»

«Dama Crysania è venuta parecchi giorni or sono. Ha detto che, quando è entrata, stavi scrivendo e, dopo averla vista, hai depennato qualcosa. Mostrami cos’era.»

Astinus corrugò la fronte.

«Mostramelo!» La voce di Raistlin era rotta, quasi stridula. Mettendo il globo su un lato del tavolo, dove rimase sospeso accanto a lui, Astinus tolse con riluttanza le mani dalla sua superficie di cristallo. La luce si spense, il globo divenne scuro e vuoto. Allungando le mani dietro di sé, lo storico tirò fuori un grande volume rilegato in cuoio e, senza esitazione, trovò la pagina richiesta.

Girò il libro, in modo che Raistlin potesse vedere. L’arcimago lesse quello che era stato scritto, poi anche la correzione. Quando si drizzò, con le vesti nere che gli frusciavano intorno mentre infilava le mani nelle maniche, il suo volto era d’un pallore mortale, ma calmo. «Questo altera il tempo.»

«Questo non altera niente,» ribatté Astinus, gelido. «Lei è venuta al suo posto, è tutto. Uno scambio alla pari. Il tempo continua a scorrere imperturbato.»

«E mi trasporta con sé?»

«A meno che tu non abbia il potere di cambiare il corso dei fiumi buttandoci dentro un sasso,» osservò Astinus con sarcasmo.

Raistlin lo guardò, ed ebbe un fugace sorriso. Poi indicò il globo. «Stai attento, Astinus,» bisbigliò,

«stai attento al sasso! Arrivederci, Immortale.» D’un tratto la stanza fu vuota, salvo che per Astinus.

Lo storico rimase seduto in silenzio a riflettere. Poi, girando il libro verso di sé, lesse ancora una volta quello che stava scrivendo quando Crysania era entrata: In questa data, levandosi 15

Dopoveglia, Denubis, un chierico di Paladine, è arrivato qui, essendo stato mandato dal grande arcimago Fistandantilus, per scoprire dove si trova il Portale. In cambio del mio aiuto, Fistandantilus creerà ciò che mi ha promesso da molto tempo: il Globo del Passaggio del Tempo Presente...

Il nome di Denubis era stato depennato, era stato aggiunto quello di Crysania.

Capitolo settimo.

«Sono morto,» disse Tasslehoff Burrfoot. Tenne gli occhi chiusi ed Aspettò un momento, con ansia.

«Sono morto,» disse di nuovo. «Cielo, cielo. Questo dev’essere l’Aldilà.»

Passò un altro momento.

«Be’, c’è una cosa che posso dire in proposito, che è proprio buio.»

Ma non successe ancora niente. Tas scoprì che il suo interesse nell’essere morto cominciava a scemare. Si accorse di trovarsi disteso sulla schiena su qualcosa di estremamente duro e scomodo, e freddo, che aveva tutte le apparenze della pietra.

«Forse sono stato disteso su una lastra di marmo, come Huma,» disse, cercando di riattivare un po’ del suo entusiasmo. «Oppure nella cripta di un eroe, come quella dove abbiamo seppellito Sturm.»

Quel pensiero lo dilettò per un po’, poi: «Ahi!». Si premette la mano sul fianco, avvertendo un dolore lancinante alle costole e, allo stesso tempo, notò un altro dolore alla testa. Si rese anche conto che tremava dal freddo, che una roccia aguzza lo pungeva sulla schiena, e che aveva il collo irrigidito.

«Oh, di certo non mi aspettavo questo,» sbottò irritato. «Voglio dire, stando a tutti i resoconti, quando si è morti non si dovrebbe sentire niente!» ripetè piccato quando il dolore non scomparve.

«Dannazione!» borbottò ancora. «Forse c’è stata un po’ di confusione. Forse sono morto ma il mio corpo non ne è stato ancora informato. Certamente non sono diventato tutto rigido, e sono sicuro che dovrebbe accadere proprio questo. Così, non mi resta che aspettare.»

Dimenandosi per mettersi più comodo (togliendo, per prima cosa, la scheggia di roccia da sotto la schiena), Tas incrociò le mani sul petto e fissò l’oscurità immobile e impenetrabile sopra di lui.

Dopo essere rimasto così per qualche minuto, aggrottò la fronte.

«Se questo vuol dire essere morti, allora di sicuro non è come dovrebbe essere,» dichiarò con severità. «Adesso non soltanto sono morto, sono anche annoiato. Insomma,» aggiunse, dopo aver fissato l’oscurità per qualche altro momento ancora, «immagino di non poter fare molto per la mia morte, ma posso far qualcosa per la mia noia. È ovvio che c’è stata un po’ di confusione. Dovrò parlare con qualcuno di questa storia.»

Rizzandosi a sedere, fece per ruotare le gambe e saltare giù dalla lastra di marmo, ma scoprì che, a quanto pareva, lui giaceva su un pavimento di pietra. «Che sgarbati!» commentò indignato. “Perché non buttarmi addirittura in una concimaia?”

Si alzò in piedi, incespicando, fece un passo e andò a sbattere contro qualcosa di duro e massiccio.

«Una roccia,» disse rabbuiandosi e passando le mani sopra di essa. «Umpf! Flint muore e a lui danno un albero! Io muoio e mi piglio una roccia. È ovvio che qualcuno ha fatto qualcosa di sbagliato.»

«Ehi!» si mise poi a gridare, muovendosi a tentoni nel buio. «C’è qualcuno, qui?... Be’, e cosa ne so? Ho ancora le mie borse! Hanno lasciato che mi portassi dietro tutto, perfino il congegno magico. Per lo meno, è stato riguardoso da parte loro. Però,» Tas strinse le labbra con fare risoluto, «qualcuno farà meglio a escogitare qualcosa per questo dolore. Non sono affatto disposto a rassegnarmici.»

Indagando con le mani, dal momento che non riusciva a vedere niente, Tas passò incuriosito le dita sulla grande roccia. Pareva coperta da immagini scolpite, rune, forse? E ciò gli parve familiare.

Anche la forma di quella grande roccia era strana.

«Non è una roccia, dopotutto! A quanto pare è una tavola,» commentò perplesso. «Una tavola di roccia scolpita con rune...» Poi il ricordo gli tornò. «Lo so!» gridò trionfante. «È quella grande scrivania di pietra nel laboratorio dove sono andato a cercare Raistlin, Caramon e Crysania, per scoprire che se n’erano andati tutti e mi avevano lasciato solo. Mi trovavo là quando la montagna di fuoco mi è caduta addosso! In effetti, è il posto dove sono morto!»

Si tastò il collo. Sì, il collare di ferro era ancora là, il collare che gli avevano messo addosso quando era stato venduto come schiavo. Continuando a muoversi a tentoni nel buio, Tas inciampò su qualcosa.

Abbassando la mano, si ferì con qualcosa di tagliente.

«La spada di Caramon!» disse, tastando l’elsa. «Ricordo di averla trovata sul pavimento. E questo vuol dire,» aggiunse Tas con crescente indignazione, «che non mi hanno neppure seppellito. Hanno lasciato il mio corpo dov’era! Mi trovo nell’interrato di un Tempio in rovina.» Cogitabondo, si succhiò il dito sanguinante. Un pensiero improvviso gli balenò nella mente. «Ed immagino che abbiano intenzione di farmi andare a piedi in qualunque posto mi è destinato nell’Aldilà! Non forniscono neanche un mezzo di trasporto... questa è davvero la goccia che fa traboccare il vaso!»

Alzò la voce fino a mettersi ad urlare. «Ascoltate,» strillò, scuotendo il piccolo pugno. «Voglio parlare con chiunque comandi qui dentro!”»Ma non ci fu nessuna risposta.

«Niente luce,» brontolò Tas, inciampando e cadendo su qualcos’altro. «Intrappolato in fondo a un Tempio in rovina, morto! Probabilmente sul fondo del Mare di Sangue di Istar... Ehi,» disse, fermandosi a pensare, «forse incontrerò qualche elfo del mare, come quelli di cui mi ha parlato Tanis. Ma no, l’avevo dimenticato,» sospirò. «Sono morto, e non è possibile, almeno da quello che mi è dato di capire, incontrare gente dopo che si è morti. A meno di essere dei nonmorti come Lord Soth.» Il kender si rallegrò parecchio. «Chissà come si fa a ottenere un lavoro come quello? Lo chiederò. Essere un cavaliere della morte è certo qualcosa di molto eccitante. Ma per prima cosa devo scoprire dove mi trovo e perché sono qui.»

Risollevandosi di nuovo, Tas riuscì ad arrivare a quella che ritenne fosse la parte anteriore della stanza sotto il Tempio. Stava pensando al Mare di Sangue di Istar, chiedendosi come mai non ci fosse acqua dappertutto, quando gli venne in mente qualcos’altro.

«Oh, cielo!” borbottò. “Il Tempio non è finito dentro il Mare di Sangue, è finito a Neraka! Infatti, io mi trovavo nel Tempio quando ho sconfitto la Regina delle Tenebre.»

Tas arrivò a una porta, potè sentirla toccando il telaio, e sbirciò fuori nella tenebra che era fittissima.

«Neraka, uh,» fece, chiedendosi se fosse meglio o peggio che trovarsi sul fondo di un oceano.

Fece un passo avanti con cautela e sentì qualcosa sotto il piede. Abbassando il braccio, la sua piccola mano si chiuse su una... «una torcia! Dev’essere quella che si trovava dopo la porta. Ora, qui da qualche parte ho la scatoletta con l’acciarino, l’esca e la pietra focaia...» Frugando in diverse borse, alla fine riuscì a trovarli.

«Strano,» commentò lanciando un’occhiata nel corridoio, mentre la torcia avvampava. «Pare sia rimasto proprio come quando l’ho lasciato, tutto sbriciolato e in rovina dopo il terremoto. Ci sarebbe stato da pensare che la Regina avrebbe rimesso un po’ d’ordine a quest’ora. Non ricordo di aver visto un simile disordine quand’ero a Neraka. Chissà dove sarà la via d’uscita.»

Si voltò a guardare in direzione delle scale che aveva disceso per cercare Crysania e Raistlin. Gli vennero in mente i vividi ricordi delle pareti che si crepavano e delle colonne che crollavano.

«Non va affatto bene, questo è sicuro,» borbottò scuotendo la testa. «Accidenti, come fa male.» Si portò la mano alla fronte. «Mi sembra di ricordare che quella era la sola via d’uscita.»

Sospirò, sentendosi per un attimo un po’ abbattuto. Ma ben presto riaffiorò la sua allegria di kender.

«Comunque, ci sono un sacco di crepe nelle pareti... Forse si è aperta qualche altra uscita.»

Camminando lentamente, memore del dolore che provava alla testa e alle costole, Tas uscì nel corridoio. Controllò con molta attenzione ogni singola parete senza vedere niente di promettente, fino a quando non raggiunse l’estremità del corridoio. Qui scoprì una larghissima fessura nel marmo che, a differenza delle altre, formava un’apertura più profonda di quanto la luce della torcia di Tas poteva illuminare.

Soltanto un kender avrebbe potuto infilarsi in quella spaccatura... ma lo stesso Tas ci passava a stento: fu costretto a ridisporre tutte le sue borse e a infilarvisi di lato.

«Tutto quello che posso dire è che... essere morto è di sicuro una grande seccatura!» borbottò spremendo il proprio corpo attraverso la crepa e facendosi un buco nei calzari azzurri.

Le cose, in seguito, non migliorarono. Una delle sue borse s’impigliò su uno spuntone di roccia, e dovette fermarsi a strattonarla fino a quando non riuscì a liberarla. Poi la fessura si restrinse al punto che cominciò seriamente a temere che non ce l’avrebbe fatta. Togliendosi di dosso tutte le borse, le tenne sopra la testa insieme alla torcia e, dopo aver trattenuto il fiato ed essersi strappato la camicia, si dimenò energicamente un’ultima volta e riuscì a passare oltre. A questo punto, però, era accaldato, sudato, dolorante e di cattivo umore.

«Mi sono sempre chiesto perché mai la gente fosse tanto contraria a morire,» dichiarò, «ed adesso lo so.»

Soffermandosi per riprendere fiato e risistemare le proprie borse, il kender fu immensamente rallegrato nel veder trapelare una luce dall’estremità opposta della spaccatura. Facendo balenare tutt’intorno la fiamma della torcia, scoprì che la fessura si andava allargando, così, un attimo dopo, proseguì e raggiunse ben presto la fine dello squarcio e l’origine della luce.

Raggiunta l’apertura, Tas sbirciò fuori, tirò un profondo respiro e disse: «Ora, questo è più di quanto avessi in mente!»

Il paesaggio, certamente, non assomigliava a niente che avesse mai visto prima in vita sua. Era piatto e spoglio e si stendeva all’infinito sotto uno sterminato cielo vuoto, che risplendeva di uno strano chiarore, come se il sole fosse appena tramontato oppure un fuoco bruciasse in lontananza.

Ma tutto il cielo aveva quello strano colore, perfino sopra la sua testa. Eppure, malgrado tutta quella luce, le cose intorno a lui erano molto buie. Il paesaggio pareva essere stato ritagliato nella carta nera e incollato su quel cielo dall’aspetto arcano. E il cielo stesso era vuoto: niente sole, né lune, né stelle. Niente.

Tas, cauto, fece un passo, e poi un altro. Il terreno non dava la sensazione di essere diverso da qualunque altro terreno, anche se, mentre lo attraversava, notò che assumeva lo stesso colore del cielo. Sollevando lo sguardo in distanza, però, vide che tornava ad essere nero. Dopo qualche altro passo, si fermò per guardare dietro di sé le rovine del grande Tempio.

«Per la barba del grande Reorx!» rantolò Tas, lasciandosi quasi sfuggire la torcia.

Non c’era niente alle sue spalle! Dovunque fosse il luogo da cui era arrivato, adesso era scomparso!

Il kender si girò, descrivendo un cerchio completo. Niente davanti a lui, niente dietro di lui, niente in nessuna direzione, dovunque volgesse lo sguardo.

Tasslehoff Burrfoot si sentì cadere il cuore dritto in fondo alle sue calzette verdi, dove rimase, rifiutandosi di venir confortato. Senza alcun dubbio quello era il luogo più noioso che avesse visto durante la sua intera esistenza!

«Questo non può essere l’Aldilà,» disse il kender con aria infelice. «Non può essere giusto! Deve esserci un errore... Ehi, un momento! Qui dovrei incontrare Flint! L’ha detto Fizban, e Fizban potrà essere stato confuso su altre cose, ma non mi pareva confuso su questo!

«Vediamo, com’è andata? C’era un grande albero, un bellissimo albero, e sotto di esso sedeva un vecchio nano brontolone, intento a intagliare il legno e... Ehi, là c’è l’albero! Ma da dove è saltato fuori?»

Il kender ammiccò più volte, stupefatto. Proprio davanti a lui, dove un momento prima non c’era stato assolutamente nulla, adesso vedeva un grande albero.

«Non è esattamente la mia idea di un bell’albero,» borbottò Tas, incamminandosi verso di esso, osservando, mentre lo faceva, che il terreno aveva sviluppato la curiosa caratteristica di cercare di scivolargli via da sotto i piedi. “Ma d’altronde, Fizban aveva dei gusti strani e, a pensarci bene, anche Flint.”

Si avvicinò di più all’albero, che era nero, come ogni altra cosa, contorto e curvato in avanti come una strega che un giorno gli era capitato di vedere. Non aveva foglie. «Quell’affare è morto da almeno cento anni!» Tas tirò su col naso. «Se Flint pensa che io abbia intenzione di passare il mio Aldilà seduto insieme a lui sotto un albero morto, allora sarà bene che ci ripensi. Io... Ehi, Flint!» gridò il kender quando arrivò all’albero e si guardò intorno. «Flint? Dove sei? Io... Oh, eccoti qua,» disse vedendo una bassa figura barbuta seduta a terra sull’altro lato dell’albero. «Fizban mi ha detto che ti avrei trovato qui. Scommetto che sei sorpreso di vedermi. Io...»

Il kender, aggirato l’albero, si arrestò di botto. “Ehi,” gridò con rabbia. «Non sei Flint! Chi... Arack!»

Tas arretrò barcollando quando il nano che era stato il Maestro dei Giochi a Istar girò improvvisamente la testa e lo fissò con un ghigno così malvagio sulla sua faccia contorta che il kender sentì il sangue raggelargli nelle vene, una sensazione davvero insolita che non ricordava di aver mai provato prima. Ma prima che avesse il tempo di godersela, il nano balzò in piedi e con un ringhio feroce gli si lanciò addosso.

Con un grido di sorpresa, Tas roteò la torcia per tenere indietro Arack, mentre armeggiava con l’altra mano per afferrare il piccolo pugnale che portava alla cintura. Ma proprio nell’istante in cui lo sfoderava, Arack scomparve. Ancora una volta Tas si trovò giusto al centro del nulla sotto quel cielo dal colore del fuoco.

«Va bene, adesso,» disse Tas e un leggero tremito si insinuò nella sua voce, anche se fece del suo meglio per nasconderlo, «non lo trovo affatto divertente. E deprimente e orribile, e anche se Fizban non ha esattamente promesso che l’Aldilà sarebbe stato una continua festa, sono certo che non aveva niente del genere in mente!» Il kender si girò lentamente, tenendo il pugnale sguainato e la torcia davanti a sé.

«So di non essere mai stato molto religioso,» aggiunse Tas tirando su col naso e fissando quel desolato paesaggio mentre cercava di non scivolare lungo disteso su quel terreno arcano, «ma pensavo di aver condotto una vita piuttosto buona. E ho sconfitto la Regina delle Tenebre. Naturalmente ho avuto un po’ d’aiuto,» aggiunse, pensando che questo poteva essere un buon momento per dar prova di onestà, «e sono un amico personale di Paladine, e...»

«In nome di Sua Maestà Tenebrosa,» disse una voce sommessa dietro di lui, «cosa stai facendo qui?»

Sbigottito, Tasslehoff balzò in aria ad un’altezza di tre piedi, un segno sicuro che il kender si era preso un bello spavento, e si girò di scatto. Là, dove un momento prima non c’era stato nessuno, si ergeva una figura che gli ricordava moltissimo il chierico di Paladine, Elistan, soltanto che questa figura indossava vesti da chierico nere invece che bianche, e dal suo collo, invece del medaglione di Paladine, pendeva il medaglione del Drago a Cinque Teste.

«Uh, perdonami, signore,» balbettò Tas, «ma non sono affatto sicuro di quello che sto facendo qui. Non sono affatto sicuro di dove si trovi il qui, ad essere del tutto sincero e, oh, a proposito, mi chiamo Tasslehoff Burrfoot.» Gli porse cortesemente la piccola mano. «E tu?»

Ma la figura, ignorando la mano del kender, buttò indietro il cappuccio nero e si avvicinò di un altro passo. Tas rimase considerevolmente sorpreso nel vedere dei lunghi capelli color grigio ferro scivolar fuori da sotto il cappuccio, capelli così lunghi, in effetti, che avrebbero senz’altro toccato il suolo se non avessero galleggiato intorno alla figura in una maniera oltremodo bizzarra, come lo fece la lunga barba grigia che d’un tratto parve spuntar fuori da quel volto simile a quello d’un teschio.

«È... è davvero straordinario,» balbettò Tas, rimanendo a bocca aperta. «Come ci sei riuscito? E, immagino che tu non me lo possa dire, ma dove hai detto che mi trovo? Ve... vedi...» La figura si avvicinò di un altro passo e, anche se non aveva paura di lui, o di esso, o di qualunque altra cosa fosse, il kender scoprì di non volere, per qualche buon motivo, che esso, o lui, si avvicinasse di più.

«So... sono morto,» proseguì Tas, cercando di arretrare ma per scoprire, per qualche inspiegabile ragione, che qualcosa lo bloccava. «E, a proposito,» l’indignazione ebbe la meglio sulla paura, «sei tu l’incaricato di questo posto? Perché mi pare proprio che questa faccenda della morte non venga affatto trattata a dovere! Mi sento male!» esclamò Tas, fissando furiosamente la figura con espressione accusatoria. «Ho la testa e le costole che mi fanno male. E poi ho dovuto farmi a piedi tutta questa strada dopo che sono uscito fuori dal sotterraneo del Tempio...»

«Il sotterraneo del Tempio!» Adesso la figura si fermò a pochissimi pollici da Tasslehoff. I suoi capelli grigi fluttuavano come se fossero stati agitati da un vento rovente. Adesso Tas poteva vedere che i suoi occhi avevano lo stesso colore rosso del cielo, il suo volto era grigio, cinereo.

«Sì!» Tas deglutì. A parte tutto il resto, la figura emanava l’odore più orribile che si potesse immaginare. «Sta... stavo seguendo Dama Crysania e lei stava seguendo Raistlin, e...»

«Raistlin!» La figura pronunciò il nome con una voce che fece letteralmente rizzare i capelli in testa a Tas. «Vieni con me!»

La mano della figura, una mano dall’aspetto estremamente singolare, si chiuse sul polso di Tasslehoff. «Uh!» squittì Tas, quando il dolore gli saettò attraverso il braccio. «Mi fai male...»

Ma la figura non gli prestò nessuna attenzione. Chiudendo gli occhi, come smarrita in profonda concentrazione, strinse con forza il kender, e il terreno intorno a Tas cominciò d’un tratto a muoversi e a sollevarsi. Il kender cacciò un rantolo di sorpresa quando il paesaggio stesso assunse un rapido, fluido movimento.

Noi non ci stiamo muovendo, si rese conto Tas, sgomento. E il suolo che si muove!

«Uh,» disse Tas, con un filo di voce. «Dove hai detto che ero?»

«Sei nell’Abisso,» disse la figura con tono sepolcrale.

«Oh, cielo,» esclamò Tas addolorato. «Non pensavo di essere stato così cattivo.» Una lacrima gli scese lungo il naso. «Allora, sarebbe questo l’Abisso. Spero non ti dispiaccia se ti dico che sono terribilmente deluso. Avevo sempre pensato che l’Abisso sarebbe stato un luogo affascinante. Ma finora non lo è. Proprio per niente. È... è spaventosamente noioso e... brutto... e, non intendo davvero essere sgarbato, ma c’è un odore molto singolare.» Tirando su col naso, se lo pulì sulla manica, troppo infelice anche soltanto per cercare un fazzoletto. «Dove hai detto che stiamo andando?»

«Hai chiesto di vedere la persona incaricata di questo posto,» disse la figura, e la sua mano scheletrica si chiuse sul medaglione che portava al collo.

Il paesaggio cambiò. Divenne ogni città che Tas aveva visitato nella sua vita, così almeno pareva, ma nello stesso tempo non era nessuna. Gli era familiare, eppure non riconobbe niente. Era nero, piatto e senza vita, eppure pullulava di vita. Non poteva vedere né sentire niente, ma tutt’intorno a lui c’erano suoni e movimenti.

Tasslehoff fissò la figura accanto a lui, e i piani mutevoli al di là e sopra e sotto di lui, e ammutolì.

Per la seconda volta in vita sua (la prima era stata quando aveva trovato Fizban vivo, mentre il vecchio avrebbe dovuto essere recentemente defunto) Tas non riuscì a pronunciare una sola parola.

Se a ogni kender sulla faccia di Krynn fosse stato chiesto di citare i Posti Che Mi Piacerebbe Visitare Di Più, il piano di esistenza in cui dimorava la Regina delle Tenebre si sarebbe piazzato almeno al terzo posto in qualsivoglia lista.

Ma, adesso, Tasslehoff Burrfoot si trovava proprio lì, in piedi nella sala d’aspetto della grande e terribile Regina, in uno dei luoghi più interessanti conosciuti dagli uomini e dai kender, e non si era mai sentito più infelice in vita sua.

Tanto per cominciare, la stanza in cui il chierico abbigliato di nero e dai capelli grigi gli aveva intimato di aspettare era completamente vuota. Non c’era nessun tavolo con qualche interessante soprammobile, non c’erano sedie (per questo era in piedi). Non c’erano neppure pareti] In realtà, l’unica cosa che gli permetteva di capire che si trovava in una stanza era stata la sensazione di trovarsi in una stanza quando il chierico gli aveva intimato di “rimanere nella sala d’aspetto”.

Ma in realtà, da quello che poteva vedere, lui si trovava nel mezzo del nulla. Era ormai al punto che non era neppure più certo della direzione in cui si trovasse l’alto, o il basso. Entrambi parevano uguali, un arcano chiarore color fiamma.

Cercò di confortarsi, continuando a ripetere in continuazione che avrebbe incontrato la Regina delle Tenebre. Ricordava la storia che Tanis gli aveva raccontato del suo incontro con la Regina nel Tempio di Neraka.

«Ero circondato da una grande tenebra,» aveva detto Tanis e, malgrado fossero passati mesi da quell’esperienza, la voce ancora gli tremava, «ma era parsa più un’oscurità scaturita dalla mia mente che una vera e propria presenza fisica. Non potevo respirare. Poi l’oscurità si levò e mi parlò, anche se non disse una parola. La sentii nella mia mente. E la vidi in tutte le sue forme: il Drago a Cinque Teste, il Guerriero Scuro, la Tentatrice Tenebrosa, poiché non era ancora completamente passata nel nostro mondo. Non aveva ancora conquistato il controllo.»

Tas ricordava Tanis che scuoteva la testa. «Malgrado ciò, la sua maestà e la sua potenza erano grandi. Lei è, dopotutto, una dea, uno dei creatori del mondo. I suoi occhi scuri mi guardarono ben dentro l’anima, ed io non potei fare a meno di genuflettermi ed adorarla...»

E adesso lui, Tasslehoff Burrfoot, avrebbe incontrato la Regina così com’era sul proprio piano di esistenza, forte e potente.

«Forse mi apparirà come il Drago dalle Cinque Teste,» disse Tas per tirarsi su di morale. Ma neppure quella meravigliosa prospettiva l’aiutava, anche se non aveva mai visto qualcosa a cinque teste prima di allora, e ancora meno un drago. Era come se tutta la sua curiosità e il suo spirito di avventura gli stessero colando fuori come sangue che sgocciolasse da una ferita.

«Canterò un po’,» si disse, giusto per udire il suono della propria voce. «Di solito questo mi tira su di morale.»

Cominciò a canticchiare la prima canzone che gli venne in mente, un Inno all’Alba che Goldmoon gli aveva insegnato.

Persino la notte deve venir meno
poiché la luce dorme negli occhi
e l’oscurità diventa oscurità all’oscurità
fino a quando l’oscurità muore.

Ben presto l’occhio risolve
le complessità della notte
nell’immobilità, dove il cuore
cade nella luce favolosa.

Tas stava giusto per cominciare la terza strofa quando divenne consapevole, con profondo orrore, che la sua canzone gli rispondeva come un’eco, soltanto che adesso le parole erano contorte e terribili...

Persino la notte deve venir meno
quando la luce dorme negli occhi,
quando l’oscurità diventa oscurità all’oscurità
e nell’oscurità muore.

Ben presto l’occhio dissolve
confuso dalla notte stuzzicante
dentro l’immobilità del cuore
una favola di luce caduta.

«Smettila!» gridò Tas freneticamente nel silenzio arcano e bruciante che riecheggiava con la sua canzone. «Non intendevo dire questo! Io...» Con sorprendente repentinità il chierico abbigliato di nero si materializzò davanti a Tasslehoff, dando l’impressione di condensarsi dal nulla in quell’ambiente desolato.

«Sua Maestà Tenebrosa ti riceverà subito» annunciò il chierico e, prima che Tasslehoff potesse sbattere le palpebre, si trovò in un altro luogo.

Seppe che era un altro luogo non perché si fosse mosso anche di un solo passo o anche soltanto perché quel luogo era diverso dall’ultimo, ma perché sentì di trovarsi in un altro luogo. C’erano ancora lo stesso chiarore arcano, lo stesso vuoto, soltanto... adesso aveva l’impressione di non essere solo.

Nel momento in cui si rese conto di questo, vide comparire un semplice scranno nero, con lo schienale rivolto verso di lui. Seduta sullo scranno c’era una figura vestita di nero, con un cappuccio calato sulla testa.

Pensando che forse era stato commesso un errore e che il chierico l’avesse portato nel luogo sbagliato, Tasslehoff, stringendo nervosamente le borse nelle mani, girò con cautela intorno allo scranno per vedere la faccia della figura. O forse fu lo scranno a girarsi per vedere la sua faccia. Il kender non ne fu sicuro.

Comunque, quando lo scranno si mosse, la faccia della figura comparve alla sua vista.

Tasslehoff seppe allora che non era stato commesso nessun errore.

Non era un Drago a Cinque Teste quello che vide. Non era un gigantesco guerriero con un’armatura nera e ardente. Non era neppure la Tentatrice Tenebrosa, che tanto aveva infestato i sogni di Raistlin. Era una donna vestita tutta di nero, con un cappuccio aderente calato sopra i capelli, che incorniciava la faccia in un ovale nero. La pelle era bianca, liscia e senza tempo, i suoi occhi grandi e scuri. Le sue braccia, racchiuse in un nero tessuto attillato, erano appoggiate sui braccioli dello scranno, le sue mani bianche s’incurvavano sulle estremità dei braccioli.

L’espressione della sua faccia non faceva inorridire, non terrorizzava, non spaventava, non ispirava nessun timore reverenziale; in realtà non era neppure un’espressione. Eppure, Tas era consapevole che lei lo stava passando al vaglio con cura estrema, scavando nella sua anima, studiando parti di lui della cui esistenza lui stesso non aveva il minimo sospetto.

«So... sono Tasslehoff Burrfoot. Ma... Maestà,» balbettò il kender, porgendole istintivamente la piccola mano. Si rese conto troppo tardi di quel gesto offensivo e fece per ritirare la mano e inchinarsi, ma poi sentì il tocco di cinque dita sul suo palmo. Fu un tocco brevissimo, ma fu come se avesse afferrato una manciata di ortiche. Cinque pungenti rami di dolore gli trafissero il braccio, penetrandogli fino al cuore e facendolo rantolare.

Ma svanirono con la stessa rapidità con cui l’avevano toccato. Si ritrovò molto vicino all’adorabile donna pallida, e talmente pacata era l’espressione dei suoi occhi che Tas avrebbe potuto benissimo dubitare che fosse lei la causa di quel dolore, soltanto che, nell’abbassare lo sguardo sul palmo della sua mano, vi vide un segno simile a una stella a cinque punte.

Raccontami la tua storia.

Tas trasalì. Le labbra della donna non si erano mosse, ma l’aveva udita parlare. Inoltre si rese conto, in preda a un’improvvisa paura, che probabilmente lei conosceva la sua storia molto più di lui stesso.

Sudando, stringendo nervosamente le borse, quel giorno Tasslehoff Burrfoot «fece» storia, almeno per quanto riguarda il modo che hanno i kender di narrare le storie. Raccontò l’intero suo viaggio fino a Istar in meno di dieci secondi. Ed ogni singola parola era vera.

«Par-sallian mi ha mandato accidentalmente indietro nel tempo con il mio amico Caramon. Dovevamo uccidere Fistandantilus che era Raistlin e così non l’abbiamo fatto. Io stavo per fermare il Cataclisma con il congegno magico, ma Raistlin me l’ha fatto rompere. Ho seguito il chierico chiamato Dama Crysania giù fino al laboratorio sotto il Tempio di Istar per cercare Raistlin e fargli riparare il congegno. Il tetto è crollato e mi ha fatto perdere i sensi. Quando mi sono svegliato se n’erano tutti andati e il Cataclisma si era abbattuto e adesso sono morto e sono stato mandato nell’Abisso.»

Tasslehoff tirò un profondo, tremulo sospiro, e si asciugò il viso con l’estremità del suo lungo ciuffo di capelli. Poi, rendendosi conto che il suo ultimo commento era stato assai poco complimentoso, si affrettò ad aggiungere: «Non che io voglia lamentarmi, Vostra Maestà. Sono sicuro che chiunque l’abbia fatto deve aver avuto una buonissima ragione. Dopotutto, io ho rotto un Globo dei draghi, e mi pare di ricordare che qualcuno una volta ha detto che avevo preso qualcosa che non mi apparteneva, e... e non ho avuto per Flint tutto il rispetto che avrei dovuto, immagino, e una volta, per scherzo, ho nascosto i vestiti di Caramon mentre faceva il bagno e così ha dovuto camminare per Solace tutto nudo. Ma,» Tasslehoff non potè fare a meno di tirar su col naso, «ho sempre aiutato Fizban a cercare il suo cappello!»

Non sei morto, disse la voce, né sei stato mandato qui. In effetti, non dovresti affatto trovarti qui.

A questa sorprendente rivelazione, Tasslehoff guardò direttamente la Regina negli occhi scuri e nebulosi. «No?» squittì, sentendo la sua voce farsi tutta strana. «Non sono morto?»

Involontariamente si portò la mano alla testa, che gli faceva ancora male. «Così, questo spiega tutto! Avevo pensato che qualcuno avesse fatto confusione...»

Ai kender non è permesso trovarsi qui, continuò la voce.

«Non mi sorprende affatto,» continuò Tas con tristezza, sentendosi assai più se stesso, dal momento che non era morto. «Ci sono un mucchio di posti su Krynn vietati ai kender.»

La voce poteva benissimo non averlo udito. Quando sei entrato nel laboratorio di Fistandantilus, sei stato protetto dall’incantesimo che aveva lanciato su quel luogo. Il resto di Istar è sprofondato nelle viscere del sottosuolo quando si è abbattuto il Cataclisma. Ma io sono riuscita a salvare il Tempio del Gran Sacerdote. Quando sarò pronta, tornerà nel mondo, come farò anch’io, io stessa.

«Ma non vincerai,» disse Tas senza riflettere. «Io... io lo s... so» tartagliò, mentre quello sguardo scuro lo trafiggeva. «Io c’è... c’ero.»

No, non c’eri, poiché non è ancora successo. Vedi, kender, sconvolgendo l’incantesimo di Par-Sallian, hai fatto sì che sia possibile alterare il tempo. Fistandantilus, o Raistlin, come tu lo conosci, te l’ha detto. E per questo che ti ha mandato a morire, o così pensava. Non voleva che il tempo venisse alterato. Il Cataclisma era necessario per lui così da poter portare quel chierico di Paladine avanti nel tempo quando disporrà dell’unico, vero chierico esistente in tutto il paese.

Tasslehoff credette di vedere per la prima volta un guizzo di tenebroso divertimento negli occhi in ombra della donna, e rabbrividì senza capire il perché.

Ben presto ti rincrescerai di quella decisione, Fistandantilus, mio ambizioso amico. Ma è troppo tardi. Povero, piccolo mortale, hai commesso un errore, un errore costoso. Sei prigioniero nel cappio del tuo stesso tempo. Stai correndo avanti verso la tua fine.

«Non capisco,» gridò Tas.

Sì che capisci, replicò la voce, con calma. La tua venuta mi ha fatto vedere il futuro. Tu mi hai dato la possibilità di cambiarlo. E, distruggendo te, Fistandantilus ha distrutto la sua sola possibilità di liberarsi. Il suo corpo perirà di nuovo, come perì tanto tempo fa. Soltanto che questa volta, quando la sua anima cercherà un nuovo corpo che lo ospiti, io lo fermerò. Così il giovane mago, in futuro, affronterà la Prova nella Torre della Grande Stregoneria, e là morirà. Non vivrà per ostacolare i miei piani. Ad uno ad uno anche gli altri moriranno, poiché senza l’aiuto di Raistlin, Goldmoon non troverà il bastone di cristallo azzurro. Così... l’inizio della fine per il mondo.

«No!» gemette Tas, affranto dall’orrore. «Non... non può essere! Non... non intendevo far questo. Vo... volevo soltanto accompagnare Caramon in questa avventura. Non... non avrebbe potuto farcela da solo. Aveva bisogno di me!»

Il kender si guardò intorno freneticamente, cercando una via di scampo. Ma anche se pareva che fosse possibile scappare in qualunque direzione, non c’era nessun posto dove nascondersi.

Inginocchiandosi davanti alla donna vestita di nero, Tas sollevò lo sguardo su di lei. «Cos’ho fatto? Cos’ho fatto?» gridò freneticamente.

Hai fatto qualcosa per cui perfino Paladine potrebbe essere tentato di voltarti le spalle, kender.

«Cosa mi farai?» singhiozzò Tas, disperato. «Dove andrò?» Sollevò il volto striato di lacrime.

«Immagino che tu non pos... possa rimandarmi da Caramon? O nel mio tempo?»

«Il tuo tempo non esiste più. In quanto a mandarti da Caramon, questo è impossibile, come certamente capisci. No, rimarrai qui, con me, in modo che io possa esser certa che niente vada storto.

«Qui?» rantolò Tas. «Per quanto tempo?»

La donna cominciò a svanire davanti ai suoi occhi, luccicando per poi scomparire completamente nel nulla davanti a lui. Non a lungo, immagino, kender. Niente affatto a lungo. O forse per sempre...

«Cosa vuoi dire? Cosa significa?» Tas si voltò e si trovò davanti il chierico dal volto grigio, il quale era apparso riempiendo il vuoto lasciato da Sua Maestà Tenebrosa. «Non a lungo o per sempre?»

«Anche se non sei morto, stai già adesso morendo. La tua forza vitale ti sta lasciando, come deve accadere a qualsiasi essere vivente che si avventuri per errore qua sotto e che non abbia il potere di combattere il male che lo divora da dentro. Quando sarai morto, gli dei decideranno il tuo destino.»

«Capisco,» disse Tas, ricacciando indietro il nodo in gola. Chinò la testa. «Me lo merito, suppongo. Oh, Tanis, mi dispiace! Davvero non avevo intenzione di farlo...»

Il chierico lo afferrò dolorosamente per il braccio. Il paesaggio circostante cambiò. Il terreno cominciò a scorrere sotto i suoi piedi. Ma Tasslehoff non se ne accorse proprio. Con gli occhi pieni di lacrime, si lasciò andare alla più cupa disperazione e sperò che la morte arrivasse in fretta.

Capitolo ottavo

«Eccoti arrivato,» disse il chierico scuro. Dove?» chiese Tas svogliatamente, più per forza d’abitudine che per interesse.

Il chierico ristette, poi scrollò le spalle. «Suppongo che se ci fosse una prigione nell’Abisso, sarebbe questa.»

Tas si guardò intorno. Come al solito, non c’era niente, semplicemente una distesa vasta e spoglia di vuoto arcano. Non c’erano pareti, né celle, né finestre sbarrate, né porte, né serrature, né carceriere.

E seppe, con profonda certezza, che questa volta non c’era via di scampo.

«Devo forse starmene qui in piedi fino a quando cadrò?» chiese Tas con una vocina sottile. «Voglio dire, non potrei almeno avere un letto e uno sgabello, eh?»

Mentre ancora parlava, un letto si materializzò davanti ai suoi occhi, così come uno sgabello di legno a tre gambe. Ma perfino quegli oggetti familiari gli apparvero così orripilanti, là nel mezzo del nulla, che Tas non riuscì a sopportare di guardarli a lungo.

«Gra... grazie,» balbettò, andando verso lo sgabello e sedendovici sopra con un sospiro. «E il cibo e l’acqua?»

Aspettò un momento, per vedere se anche questi sarebbero comparsi, ma non successe. Il chierico scosse la testa, i suoi capelli grigi formarono una nube vorticante intorno a lui.

«No, le necessità del tuo corpo mortale verranno soddisfatte mentre ti trovi qui. Non sentirai nessuna fame, né sete. Ho perfino guarito le tue ferite.»

D’un tratto Tas si accorse che le costole avevano cessato di fargli male e che il dolore alla testa era scomparso. Il collare di ferro era svanito dal suo collo.

«Non c’è bisogno dei tuoi ringraziamenti,» continuò il chierico, vedendo che Tas stava per aprire la bocca. «Lo facciamo per evitare che tu c’interrompa durante il nostro lavoro. E così, addio...»

Il chierico scuro sollevò la mano, ovviamente preparandosi a partire.

«Aspetta! » gridò Tas, balzando su dal suo sgabello e agguantando quelle vesti scure e fluttuanti.

«Non ti vedrò più? Non lasciarmi solo!» Ma sarebbe stato lo stesso se avesse tentato di afferrare il fumo. Le vesti fluttuanti gli scivolarono fra le mani, e il chierico scuro scomparve.

«Quando sarai morto, restituiremo il tuo corpo alle terre sovrastanti e ci occuperemo della tua anima spedendola velocemente a destinazione... oppure facendola rimanere qui, a seconda di come sarai stato giudicato. Fino ad allora non avremo più nessun bisogno di metterci in contatto con te.»

«Sono solo!» disse Tas, guardando disperato la desolazione tutt’intorno. «Davvero solo... solo fino al momento della morte... e non ci vorrà molto,» aggiunse, triste. Tornò indietro e si sedette di nuovo sullo sgabello. «Tanto vale che muoia il più presto possibile e la faccia finita. Per lo meno avrò la possibilità di andare in qualche posto diverso... spero.» Sollevò lo sguardo su quell’immensità vuota.

«Fizban,» disse ancora Tas con voce sommessa, «probabilmente non mi potrai sentire da qua sotto. E comunque suppongo che non ci sia niente che tu possa fare per me, ma volevo dirti, prima di morire, che non avevo l’intenzione di causare tutti questi guai, scombussolando l’incantesimo di Par-sallian e tornando indietro nel tempo quando non avrei dovuto farlo... e tutto il resto.»

Tirando un sospiro, Tas congiunse le piccole mani, con il labbro inferiore che gli tremava. «Forse non conta molto... e suppongo che, se devo essere onesto, una parte di me se ne sia andata con Caramon soltanto perché...» inghiottì le lacrime che cominciavano a sgocciolargli dal naso, «... solo perché pareva tanto divertente! Ma, davvero, una parte di me è andata con lui perché non doveva, non poteva andare indietro nel tempo da solo! Era stordito a causa dello spirito dei nani, capisci. E io avevo promesso a Tika che mi sarei occupato di lui. Oh, Fizban! Se soltanto ci fosse un modo per uscire da questo pasticcio, farei del mio meglio per raddrizzare le cose. Davvero...»

«Altolà.»

«Cosa?» Tas quasi cadde dallo sgabello. Girandosi di scatto quasi convinto che avrebbe visto Fizban, invece si trovò davanti una bassa figura... ancora più bassa di lui... con brache marrone, una tunica grigia, e un grembiule di cuoio marrone.

«Ho­detto­alto­là,» ripetè la voce in tono piuttosto irritato.

«Oh, a... allò,» balbettò Tas, fissando la figura. Non assomigliava di certo a un chierico scuro, per lo meno Tas non aveva mai sentito dire che qualcuno di loro s’impaludasse con grembiuli di cuoio marrone. Ma, suppose, potevano sempre esserci eccezioni, specialmente considerando il fatto che i grembiuli di cuoio marrone sono indumenti così utili... Tuttavia, questa persona assomigliava talmente a qualcuno che lui conosceva, se soltanto fosse riuscito a ricordare...

«Cielo!» esclamò Tas all’improvviso, facendo schioccare le dita. «Sei uno gnomo! Scusami se ti faccio una domanda così personale,» il kender arrossì per l’imbarazzo, «ma tu sei... uh... morto?»

«Tusì?» chiese lo gnomo, squadrando il kender con sospetto.

«No,» replicò Tas, piuttosto indignato.

«Be’, non­lo­so­non­eppure­io!» sbottò lo gnomo.

«Uh, non potresti parlare un po’ più lentamente?» gli suggerì Tas. «So che la tua gente parla velocemente, ma facciamo fatica a capirvi, qualche volta...»

«Ho detto che non lo sono neppure io!» urlò lo gnomo a voce alta.

«Grazie,» disse Tas con cortesia. «E non sono duro d’orecchi. Puoi parlare con un tono di voce normale, ehm... puoi parlare lentamente e con un normale tono di voce,» si affrettò ad aggiungere, vedendo che lo gnomo stava tirando un profondo respiro.

«Come... ti... chiami?» chiese lo gnomo, parlando con la sveltezza di una lumaca.

«Tasslehoff... Burrfoot.» Il kender gli porse la piccola mano, che lo gnomo afferrò e strinse con vigore. «E tu? Voglio dire, come ti chiami? Oh, non intendevo dire...»

«La forma abbreviata!» gridò Tas, quando lo gnomo si fermò a tirare il fiato.

«Oh.» Lo gnomo parve afflitto. «Gnimsh.»

«Grazie. Lieto di conoscerti... uh... Gnimsh,» disse Tas, sospirando di sollievo. Si era completamente dimenticato che il nome di uno gnomo forniva all’incauto ascoltatore un completo resoconto della sua famiglia, a partire dal primo antenato conosciuto (o immaginato).

«Lieto di conoscerti, Burrfoot,» disse lo gnomo, e si strinsero di nuovo la mano.

«Vuoi sederti?» chiese Tas, prendendo posto sul letto e indicandogli cortesemente lo sgabello. Ma Gnimsh rivolse allo sgabello un’occhiata bruciante e si sistemò su una sedia che si era materializzata all’istante alle sue spalle. Tas cacciò un rantolo a quella vista. Era davvero una sedia straordinaria, aveva un poggiapiedi che andava su e giù e dei dondoli in basso che la facevano ondeggiare avanti e indietro, al punto, se l’occupante lo desiderava, di farlo stare sdraiato in posizione orizzontale come in un letto.

Sfortunatamente, quando Gnimsh vi si sedette sopra, la sedia s’inclinò troppo all’indietro facendo precipitare il nano che batté la testa per terra. Brontolando, lo gnomo si arrampicò di nuovo su di essa e mosse una leva. Questa volta l’appoggio per i piedi schizzò in alto, colpendolo al naso. Nel medesimo istante lo schienale scattò in avanti e, dopo un po’, Tas dovette intervenire per aiutare Gnimsh a salvarsi dalla sedia che pareva volesse divorarlo.

«Dannazione!» esclamò lo gnomo e, con un gesto della mano, rispedì la sedia nel luogo, qualunque fosse, da dov’era uscita, sedendosi poi, sconsolato, sullo sgabello di Tasslehoff.

Avendo visitato gli gnomi, e avendo già visto altre volte le loro invenzioni, Tasslehoff borbottò qualche parola adatta alla circostanza, sul tipo di «Molto interessante... davvero un modello d’avanguardia nel campo delle sedie...»

«No, non lo è,» sbottò Gnimsh, con grande stupore di Tas. «È un modello schifoso. Apparteneva al primo cugino di mia moglie. Non avrei mai dovuto pensarci. Ma,» sospirò, «talvolta ho nostalgia di casa.»

«Lo so,» annuì Tas, mandando giù un improvviso nodo alla gola. «S... se non ti dispiace che te lo chieda, cosa ci fai qui se non sei... uh... morto?»

«E tu, mi dirai cosa ci fai, qui?» replicò Gnimsh.

«Naturalmente,» disse Tas, poi gli venne un pensiero improvviso. Guardandosi intorno guardingo, si sporse in avanti. «Non è che qualcuno si arrabbi, vero?» chiese con un bisbiglio. «Se noi stiamo parlando, voglio dire? Forse non dovremmo farlo...»

«Oh, a loro non importa,» rispose Gnimsh, sprezzante. «Fintanto che non li importuniamo con la nostra presenza, siamo liberi di andare dappertutto. Naturalmente,» aggiunse, «dappertutto assomiglia a questo posto qui, perciò non è che ne valga molto la pena.»

«Capisco,» annuì Tas, interessato. «Tu, come ti sposti?»

«Con la mente. Non te n’eri ancora accorto? No, probabilmente no.»

Lo gnomo sbuffò. «I kender non sono mai stati famosi per il loro cervello.»

«Gli gnomi e i kender sono imparentati,» gli fece notare Tas, in tono stizzito.

«Così ho sentito dire,» rispose Gnimsh, scettico. Era ovvio che non ci credeva affatto.

Tasslehoff decise, nell’interesse della pace, di cambiare argomento. «Così, se voglio andare da qualche parte, devo soltanto pensare al posto, e arriverò là?»

«Entro certi limiti, naturalmente,» disse Gnimsh. «Per esempio, non puoi entrare in nessuno dei sacri recinti dove vanno i chierici scuri...»

«Oh.» Tas sospirò. Quei luoghi si erano trovati in cima alla sua lista di attrazioni turistiche. Poi tornò a rincuorarsi. «Tu hai fatto sbucare dal nulla quella sedia e, a ben pensarci, ho creato io questo letto e questo sgabello. Se penso a qualcosa, questa appare?»

«Provaci,» gli suggerì Gnimsh.

Tas pensò a qualcosa.

Gnimsh sbuffò quando una rastrelliera per cappelli comparve all’estremità del letto.

«Questa sì che è comoda.»

«Stavo soltanto facendo pratica,» ribatté Tas in tono offeso.

«Sarà meglio che tu faccia attenzione,» disse lo gnomo, vedendo illuminarsi la faccia di Tas.

«Talvolta, le cose che compaiono non sono proprio come te le aspetti.»

«Già.» Tas ricordò d’un tratto l’albero e il nano. Rabbrividì. «Immagino che tu abbia ragione. Be’, per lo meno qui ci siamo noi due. Qualcuno con cui parlare. Non puoi immaginare quanto fosse noioso.» Il kender tornò a sedersi sul letto immaginando per prima cosa, e con cautela, un cuscino.

«Insomma, vai avanti. Raccontami la tua storia.»

«Comincia tu.» Gnimsh lanciò un’occhiata in tralice a Tas.

«No, sei mio ospite.»

«Insisto. »

«Insisto anch’io.»

«Tu. Dopotutto sono qua da più tempo di te.»

«Come fai a saperlo?»

«Lo so e basta... Vai avanti.»

«Ma...» D’un tratto Tas si accorse che così non sarebbe arrivato da nessuna parte, e anche se, a quanto pareva, avevano a disposizione tutta l’eternità, lui non aveva in mente di passarla a discutere con uno gnomo.

Inoltre non c’era nessuna ragione per cui non dovesse raccontare la sua storia. E, in ogni caso, gli piaceva raccontare storie. Così, abbandonandosi comodamente con la schiena sul cuscino, raccontò la sua storia. Gnimsh l’ascoltò con interesse, anche se irritò parecchio Tas interrompendolo in continuazione per dirgli di «andare avanti» proprio nei momenti più eccitanti.

Infine Tas giunse alla conclusione. «E così, eccomi qua. Adesso la tua,» disse, contento di potersi fermare per tirare il fiato.

«Insomma,» disse Gnimsh esitante, guardandosi intorno con espressione cupa, come se temesse che qualcuno potesse ascoltare, «tutto è cominciato molti, moltissimi anni fa, con la Cerca per la Vita della mia famiglia. Lo sai, tu,» fissò Tas con occhi furenti, «cos’è una Cerca per la Vita?»

«Certo,» replicò Tas, loquace. «Il mio amico Gnosh aveva una Cerca per la Vita. Soltanto che la sua riguardava i globi dei draghi. Ad ogni gnomo viene assegnato un particolare progetto che deve completare con successo altrimenti non entrerà mai nell’Aldilà...» A Tas venne un pensiero improvviso. «Non sarà per questo che tu ti trovi qui, vero?»

«No.» Lo gnomo scosse la testa coperta di radi ciuffi. «La Cerca per la Vita della mia famiglia consisteva nello sviluppare un’invenzione che potesse trasportarci da un piano di esistenza a un altro. E,» Gnimsh tirò un sospiro, «la mia ha funzionato.»

«Ha funzionato?» chiese Tas, rizzandosi a sedere in preda allo stupore.

«In modo perfetto,» rispose Gnimsh con crescente irritazione.

Tasslehoff lo fissò sbalordito. Mai prima di allora aveva sentito parlare di una cosa del genere, un’invenzione gnomica che funzionava... e in modo perfetto, per giunta!

Gnimsh gli lanciò un’occhiata. «Oh, so quello che stai pensando,» disse. «Sono un fallimento. Tu non conosci neanche la metà della storia. Vedi, tutte le mie invenzioni funzionano. Tutte. »

Gnimsh si prese la testa fra le mani.

«Come... come mai questo fa di te un fallimento?» chiese Tas, confuso.

Gnimsh sollevò la testa, fissandolo. «Ah, a cosa serve inventare qualcosa se poi funziona? Dov’è la sfida? Il bisogno di creatività? Il pensare in avanti? Cosa ne sarebbe del progresso? Sai,» disse con tristezza sempre più profonda, «che se non fossi venuto qui si preparavano a esiliarmi? Dicevano che ero una chiara minaccia per la società. Che avevo fatto arretrare di cento anni l’esplorazione scientifica.»

Gnimsh chinò la testa. «È per questo che non mi spiace trovarmi qui. Come te, me lo merito. È dove probabilmente finirò in ogni caso.»

«Dov’è il tuo congegno?» chiese Tas, colto da un’improvvisa eccitazione.

«Oh, loro me l’hanno portato via, naturalmente,» rispose Gnimsh, agitando una mano.

«Be’» il kender pensò un momento, «non ne puoi immaginare uno? Hai immaginato quella sedia!»

«E hai visto cos’ho fatto!» rispose Gnimsh. «Ho buone probabilità di ritrovarmi con l’invenzione di mio padre. L’ha portato su un altro piano di esistenza, senza alcun dubbio. Il Comitato dei Congegni Esplodenti la sta studiando proprio adesso, infatti, o per lo meno lo stavano facendo quando mi sono trovato incastrato in questo posto. Cosa stai cercando di fare? Di trovare un modo per uscire dall’Abisso?»

«Devo farlo,» dichiarò Tas con risolutezza. «Altrimenti la Regina delle Tenebre vincerà la guerra, e sarà stata tutta colpa mia. Inoltre ho degli amici che stanno correndo un terribile pericolo. Be’, uno di loro non è esattamente un amico, ma è una persona interessante e, anche se ha cercato di uccidermi facendomi rompere il congegno magico, sono sicuro che non è stato niente di personale. Aveva una buona ragione...»

Tas smise di parlare.

«Ecco!» disse, saltando giù dal letto. «Ecco!» gridò con una tale eccitazione che un’intera foresta di rastrelliere per cappelli comparve tutt’intorno al letto con grande allarme da parte dello gnomo.

Gnimsh scivolò giù dal suo sgabello, fissando Tas con circospezione. «Cosa?» chiese, andando a sbattere contro una rastrelliera per cappelli.

«Guarda!» disse Tas, rovistando in mezzo alle sue borse. Ne aprì una, poi un’altra. «Eccolo qua!» disse, tenendo aperta una borsa per mostrarlo a Gnimsh. Ma proprio mentre lo gnomo lo fissava, d’un tratto Tas chiuse la borsa di scatto. «Aspetta!»

«Cosa?» chiese Gnimsh, sorpreso.

«Ci stanno osservando?» domandò Tas, con un filo di voce. «Lo sapranno?»

«Sapranno cosa?»

«Solo... lo sapranno?»

«No, suppongo di no,» rispose Gnimsh, esitando. «Non posso dirlo di sicuro, dal momento che non so cosa non dovrebbero sapere. Ma so che sono tutti molto indaffarati, in questo momento, da quanto posso capire. Svegliare i maghi malvagi e quel genere di cose, richiede un sacco di lavoro.»

«Bene,» disse Tas in tono severo, sedendosi sul letto. «Adesso guarda questo.» Aprì la borsa e ne versò fuori il contenuto. «Questo, che cosa ti ricorda?»

«Proprio l’anno in cui mia madre inventò il congegno per lavare i piatti,» disse lo gnomo, «in cucina si affondava fino al ginocchio nel vasellame rotto. Abbiamo dovuto...»

«No!» sbottò Tas, vivamente irritato. «Ascolta, tieni questo pezzo vicino a quest’altro, e...»

«Il mio congegno per i viaggi dimensionali!» rantolò Gnimsh. «Hai ragione! Assomigliava un po’ a questo. Il mio non aveva tutti questi gioiellini, ma... No, guarda, hai sbagliato tutto. Credo che vada messo qui e non lì. Sì. Hai visto? E poi questa catena si aggancia qui e si avvolge intorno così. No. Non proprio così. Deve andare... Aspetta, adesso ricordo. Prima, questo bisogna infilarlo qua dentro.» Sedendosi sul letto, Gnimsh prese uno dei gioielli e lo conficcò al suo posto. «Adesso mi serve un altro di questi aggeggi rossi.» Cominciò a riordinare i gioielli. «Ma cos’hai fatto con questo affare?» borbottò. «L’hai passato in un tritacarne?»

Ma lo gnomo, assorto nel suo compito, ignorò completamente la risposta di Tas. Nel frattempo, il kender approfittò dell’occasione per raccontare di nuovo la sua storia. Appollaiato sullo sgabello, Tas parlò beatamente e senza interruzioni, mentre, dimenticandosi completamente dell’esistenza del kender, Gnimsh cominciava a sistemare quella miriade di gioielli e di oggettini d’oro e d’argento e le catenelle, facendone mucchietti ordinati.

Tutto questo mentre Tas parlava, anche se continuava a tener d’occhio Gnimsh con il cuore colmo di speranza. Naturalmente, pensò con uno spasimo, aveva pregato Fizban, e c’erano tutte le possibilità di questo mondo che, se Gnimsh fosse riuscito a far funzionare il congegno, questo li spedisse su una luna, o li trasformasse tutti e due in polli, o qualcosa del genere. Ma, decise Tas, avrebbe dovuto correre quel rischio. Dopotutto, aveva promesso che avrebbe tentato di raddrizzare le cose, e anche se aver trovato uno gnomo fallito non era proprio quello che aveva avuto in mente, era sempre meglio che starsene seduto là ad aspettare di morire.

Nel frattempo, Gnimsh aveva creato col pensiero un pezzo di lavagna e un gessetto e stava controllando diagrammi, borbottando fra sé: «Si infila il gioiello A nell’aggeggio dorato B...»

Capitolo nono

«Un posto disgraziato, fratello mio,» osservò Raistlin con voce sommessa, mentre lentamente e con le membra irrigidite smontava dal suo cavallo.

«Ne abbiamo visti di peggio,» commentò Caramon, aiutando Dama Crysania a scendere dal suo destriero. «Dentro fa caldo ed è asciutto, il che lo rende cento volte migliore che qua fuori. Inoltre,» aggiunse burbero, lanciando un’occhiata a suo fratello, che era crollato contro il fianco del cavallo, tossendo e tremando, «nessuno di noi può cavalcare ancora senza riposare. Io mi occuperò dei cavalli. Voi due andate dentro.»

Crysania, rannicchiata nel suo mantello inzuppato, si era fermata in mezzo al fango profondo un piede e fissava la locanda con espressione apatica. Era, come aveva affermato Raistlin, un posto disgraziato.

Nessuno sapeva quale potesse essere il suo nome, poiché nessuna insegna era appesa sopra la porta.

In effetti, l’unica cosa che la distingueva come locanda era un pezzo di lavagna con sopra uno scarabocchio che sembrava dire, «Viaggiatori Benvenuti» (ma avrebbe potuto essere anche «Benveduti»...). L’edificio di pietra era vecchio e di costruzione robusta. Ma il tetto era sfondato, anche se erano stati fatti dei tentativi qua e là di rattopparlo con della paglia. Una finestra era rotta.

Era coperta da un vecchio cappello di feltro, probabilmente per tener fuori la pioggia. Il cortile era soltanto fango, con qualche erbaccia striminzita.

Raistlin era andato avanti. Adesso era fermo sulla soglia della porta spalancata e guardava Crysania.

All’interno ardeva una luce e l’odore del fumo di legna prometteva un fuoco. Mentre il volto di Raistlin s’induriva in un’espressione d’impazienza, una raffica di vento soffiò all’indietro il cappuccio del mantello di Crysania, investendo con la pioggia sferzante il suo viso. Con un sospiro arrancò in mezzo alla melma per raggiungere la porta d’ingresso.

«Benvenuto, padrone. Benvenuta, padrona.» Crysania trasalì a quella voce che le arrivò dal fianco, non aveva visto nessuno quand’era entrata. Voltandosi vide un uomo malaticcio rannicchiato in mezzo alle ombre dietro la porta, nel momento in cui questa si richiudeva sbattendo.

«Una giornata infame, padrone,» aggiunse l’uomo, sfregandosi le mani in atteggiamento servile.

Questo, un grembiule macchiato d’unto, e uno straccio a brandelli buttato sul braccio, facevano di lui il locandiere. Girando lo sguardo su quella locanda sudicia e squallida, Crysania lo giudicò perfettamente in armonia con l’ambiente. L’uomo si avvicinò ancora di più a loro sempre sfregandosi le mani, fino a quando fu talmente vicino che Crysania potè sentire il fetido odore della birra nel suo alito. Coprendosi il viso col mantello, si ritrasse da lui. Nel vedere quel gesto, l’uomo parve sogghignare, il sogghigno di un ubriaco che poteva anche apparire sciocco se non fosse stato per l’espressione astuta nei suoi occhi obliqui.

Per un momento, nel guardarlo, Crysania sentì che avrebbe preferito tornare in mezzo alla tempesta.

Ma Raistlin, limitandosi a lanciare un’occhiata tagliente al locandiere, disse, gelido: «Un tavolo vicino al fuoco.»

«Sì, padrone, sì. Un tavolo vicino al fuoco. Ci sta bene in una giornata cattiva come questa. Venite, padrone, padrona, da questa parte.» Ondeggiando e inchinandosi in una maniera ignobilmente adulatoria che, ancora una volta, veniva smentita dall’espressione degli occhi, l’uomo attraversò obliquamente la stanza strascicando i piedi, mai distogliendo lo sguardo da loro, sospingendoli verso un tavolo sudicio.

«Saresti uno stregone, padrone?» chiese il locandiere, allungando una mano per toccare le vesti nere di Raistlin, ma ritraendola subito all’occhiata di fuoco del mago. «E uno dei neri, per giunta. È passato un sacco di tempo da quando ne abbiamo visto uno,» aggiunse. Raistlin non rispose.

Sopraffatto da un altro accesso di tosse, si appoggiò pesantemente al bastone. Crysania lo aiutò a prender posto su una sedia accanto al fuoco. Lasciandosi cadere su di essa, Raistlin vi si rannicchiò, sporgendosi con gratitudine verso il calore.

«Dell’acqua calda,» ordinò Crysania, slacciandosi il mantello bagnato.

«Cos’ha?» chiese insospettito il locandiere, tirandosi indietro. «Non ha la febbre che brucia, vero? Perché, se è così, potete tornarvene fuori...»

«No,» replicò secca Crysania, buttando da parte il mantello. «La malattia è sua, e non danneggia gli altri.» Chinandosi accanto al mago, sollevò lo sguardo sul locandiere. «Ho chiesto dell’acqua calda,» ripetè perentoriamente.

«Sì.» Il labbro del locandiere s’incurvò. Non si sfregò più le mani, ma le infilò sotto il grembiule bisunto prima di allontanarsi con passo strascicato.

Smarrendo il disgusto nella propria preoccupazione per Raistlin, Crysania si dimenticò del locandiere mentre cercava di sistemare il mago in un modo un po’ più comodo. Gli slacciò il mantello da viaggio e lo aiutò a toglierselo, poi lo stese ad asciugare davanti al fuoco. Cercando in giro per la sala comune della locanda, trovò parecchi logori cuscini sulle sedie e, cercando d’ignorare la sporcizia che li copriva, li portò con sé per disporli intorno a Raistlin, in modo che potesse appoggiarvisi con la schiena e respirare più facilmente.

Inginocchiatasi accanto a lui per aiutarlo a togliersi gli stivali, sentì una mano toccarle i capelli.

«Grazie,» bisbigliò Raistlin, quando lei levò lo sguardo.

Crysania arrossì di piacere. I suoi occhi castani parevano più caldi del fuoco, e la sua mano le scostò dal viso i capelli bagnati con un tocco gentile. Crysania non riuscì a parlare o a muoversi, ma rimase inginocchiata al suo fianco, trattenuta dal suo sguardo.

«Sei la sua donna?»

La voce aspra dell’oste, da dietro le sue spalle, fece trasalire Crysania. Non l’aveva visto avvicinarsi né aveva sentito il suo passo strascicato. Alzandosi in piedi, incapace di guardare Raistlin, si voltò di scatto verso il fuoco senza dir nulla.

«È una dama di una delle case reali di Palanthas,» disse una voce profonda dalla porta d’ingresso.

«E ti sarò grato se vorrai parlare di lei con rispetto, oste.»

«Sì, padrone, sì,» borbottò il locandiere, in apparenza intimidito dall’enorme circonferenza di Caramon quando l’omone entrò trascinando con sé una raffica di vento e di pioggia. «Sono sicuro di non aver voluto mancarle di rispetto e spero che così sia stato interpretato.»

Crysania non rispose. Si girò a metà e disse con voce ovattata: «Metti quell’acqua sul tavolo.»

Quando Caramon chiuse la porta e si avvicinò per raggiungerli, Raistlin tirò fuori la borsa che conteneva la mistura d’erbe per la sua pozione. Buttandola sul tavolo, indicò a Crysania con un gesto di preparargli la bevanda. Poi riaffondò in mezzo ai cuscini, con il respiro affannoso, fissando le fiamme. Conscia dell’occhiata preoccupata che le rivolgeva Caramon, Crysania tenne fisso lo sguardo sulla pozione che stava preparando.

«I cavalli hanno mangiato e bevuto. Non li abbiamo affaticati troppo, così saranno in grado di proseguire dopo un’ora di riposo. Voglio raggiungere Solanthus prima del tramonto,» disse Caramon dopo qualche istante di sgradevole silenzio. Distese il proprio mantello davanti al fuoco.

Nuvole di vapore si alzarono da esso. «Hai ordinato da mangiare?» chiese all’improvviso a Crysania.

«No, soltanto... l’acqua calda,» mormorò Crysania, porgendo a Raistlin la sua bevanda.

«Oste, vino per la dama e il mago, acqua per me, e qualunque cosa tu abbia da mangiare,» ordinò Caramon, sedendosi al tavolo accanto al fuoco, sul lato opposto a suo fratello. Dopo aver viaggiato per settimane attraverso quella terra desolata verso le Pianure di Dergoth, tutti avevano imparato che bisognava accontentarsi di mangiare ciò che era reperibile nelle locande situate lungo il cammino, sempre che, invero, ce ne fosse qualcuna.

«Questo è soltanto l’inizio delle tempeste d’autunno,» commentò Caramon con calma rivolto a suo fratello mentre il locandiere tutto curvo usciva di nuovo dalla stanza. «Più ci inoltreremo a sud, più peggioreranno. Sei sempre deciso ad andare avanti nella tua impresa? Potrebbe essere la tua morte.»

«Cosa vuoi dire con questo?» chiese Raistlin con voce rotta. Alzandosi in piedi, si portò la tazza alle labbra e bevve un po’ della pozione calda.

«Niente, Raistlin,» rispose Caramon, sorpreso dall’occhiata penetrante di suo fratello. «È soltanto che... che... la tua tosse. Peggiora sempre con l’umidità.»

Scoccando un’occhiata tagliente a suo fratello e vedendo che, a quanto pareva, Caramon non aveva voluto dire più di quanto non avesse già detto, Raistlin si abbandonò ancora una volta sui cuscini.

«Sì, sono deciso a portare avanti la mia impresa. E così dovresti fare anche tu, fratello mio, poiché è l’unico modo che hai per poter rivedere la tua preziosa casetta.»

«Mi servirà proprio a tanto, se tu morirai per strada,» ringhiò Caramon.

Crysania fissò Caramon, scossa, ma Raistlin si limitò a sorridere amareggiato. «La tua preoccupazione mi commuove, fratello. Ma non temere per la mia salute. Le mie forze saranno sufficienti per arrivare là e lanciare l’incantesimo finale, se non mi affaticherò troppo nel frattempo.»

«Pare che tu abbia qualcuno che si preoccuperà che questo non ti succeda,» rispose Caramon con gravità, fissando Crysania.

Lei arrossì di nuovo e avrebbe fatto qualche osservazione se l’oste non fosse tornato. Fermandosi accanto a loro, con una pentola piena d’una sostanza fumante in una mano e una caraffa crepata nell’altra, li guardava con fare circospetto.

«Perdonate se ve lo chiedo, padroni,» piagnucolò, «ma prima vorrei vedere il colore dei vostri soldi. Con i tempi che corrono...»

«Ecco,» disse Caramon, tirando fuori una moneta dalla borsa e buttandola sul tavolo. «Questo basterà?»

«Sì, padroni, sì.» Gli occhi del locandiere luccicarono quasi quanto quel pezzo d’argento. Mettendo giù la pentola e la caraffa, facendo sgocciolare lo stufato sul tavolo, afferrò avidamente la moneta, tenendo d’occhio il mago per tutto il tempo, come se avesse timore che potesse farla sparire.

Cacciandosi la moneta in tasca, il locandiere andò con passo strascicato dietro lo squallido bancone e tornò con tre scodelle, tre cucchiai di corno e tre boccali. Sbatté giù anche questi sul tavolo, poi si fece indietro, sfregandosi ancora una volta le mani. Crysania prese le scodelle e, fissandole disgustata, cominciò subito a lavarle nell’acqua calda rimasta.

«Vi serve altro, padroni, padrona?» chiese l’oste con un tono di voce così untuoso che Caramon fece una smorfia.

«Hai pane e formaggio?»

«Sì, padrone.»

«Incartocciane un po’, allora, in un cesto.»

«Proseguirete il viaggio... vero?» chiese l’oste.

Mettendo le scodelle sul tavolo, Crysania sollevò lo sguardo, consapevole d’un sottile cambiamento nella voce dell’uomo. Lanciò un’occhiata a Caramon, per vedere se anche lui se n’era accorto, ma l’omone stava rimescolando lo stufato, annusandolo famelico. Raistlin, dando l’impressione di non aver sentito, continuava a fissare il fuoco, stringendo senza vigore tra le mani il boccale vuoto.

«Non passeremo di certo la notte qua,» disse Caramon, versando lo stufato nelle scodelle con il mestolo.

«Non troverete alloggi migliori a... Dove avete detto che andate?» chiese il locandiere.

«Non ti riguarda,» rispose Crysania con freddezza. Prendendo un’intera scodella di stufato, la portò a Raistlin. Ma il mago, dopo aver dato un’occhiata a quella sostanza densa coperta da uno strato di grasso, le fece segno di portarla via. Per quanto fosse affamata, anche Crysania non riuscì a mandar giù più di qualche cucchiaiata di quell’intruglio, e con molto sforzo. Spingendo da parte la scodella, si avvolse stretta nel suo mantello ancora umido e si rannicchiò sulla sedia, chiudendo gli occhi e cercando di non pensare che fra un’ora e mezza sarebbe stata di nuovo in sella, cavalcando ancora una volta in mezzo a quella terra desolata, martellata dalle tempeste.

Raistlin si era già addormentato. Gli unici suoni li produceva Caramon, intento a mangiare lo stufato con l’appetito di un vecchio veterano, e dall’oste che, tornato in cucina, stava preparando il cesto come gli era stato ordinato.

Un’ora dopo, Caramon portò i cavalli fuori dalla stalla: tre cavalli da monta e uno da soma, sovraccarico, con il fardello celato da una coperta e assicurato da robuste corde. Aiutò suo fratello e Dama Crysania a salire in groppa, e dopo essersi accertato che fossero entrambi saldamente in sella, montò a sua volta sul suo gigantesco destriero. Il locandiere era uscito fuori in mezzo alla pioggia, a capo scoperto, reggendo il cesto. Lo porse a Caramon, sogghignando e dondolando, mentre la pioggia gli inzuppava i vestiti.

Con un breve ringraziamento, e lanciando una moneta all’oste, che finì nel fango ai suoi piedi, Caramon afferrò le redini del cavallo da soma e si avviò. Crysania e Raistlin lo seguirono, pesantemente infagottati nei loro mantelli, per proteggersi dai rovesci.

L’oste, in apparenza ignorando la pioggia, raccolse la moneta e li osservò allontanarsi. Due figure emersero dai recinti delle stalle e lo raggiunsero.

Buttando in aria la moneta, l’oste li guardò. «Ditegli che hanno preso la strada per Solanthus.»

Caddero facilmente vittima dell’imboscata.

Cavalcando alla luce morente di quella giornata lugubre, sotto foltissimi alberi dai cui rami l’acqua sgocciolava monotona e le cui foglie cadute cancellavano del tutto il suolo sotto gli zoccoli dei loro cavalli, ognuno di loro era assorto nei suoi foschi pensieri. Nessuno udì il galoppare o lo sferragliare dell’acciaio lucente fino a quando non fu troppo tardi.

Prima che potessero accorgersi di ciò che stava accadendo, ombre scure si lasciarono cadere giù dagli alberi, come giganteschi e terrificanti uccelli, soffocandoli con le loro ali ammantate di nero.

Tutto venne fatto in silenzio e con grande abilità.

Uno di loro si arrampicò sulle spalle di Raistlin, stordendo il mago prima che potesse voltarsi. Un altro si lasciò cadere da un ramo accanto a Crysania, tappandole la bocca e puntandole la punta di un pugnale alla gola. Ma ci vollero tre di loro per trascinare giù Caramon dal suo cavallo, al suolo, e quando la lotta finalmente terminò, uno dei malfattori non si rialzò. Né, a quanto pareva, l’avrebbe mai più fatto. Giaceva immobile nel fango, con la testa piegata nella direzione sbagliata.

«Ha il collo spezzato,» riferì uno dei banditi a una figura che si avvicinava per esaminare il lavoro fatto, una volta che fu tutto finito.

«E anche un lavoro preciso,» commentò con freddezza il bandito, squadrando Caramon, che veniva immobilizzato dalla stretta di quattro uomini, con le enormi braccia legate da corde d’arco. Il sangue colava copioso da un profondo taglio sulla testa, la pioggia gli faceva scendere il sangue annacquato sul viso. Scuotendo la testa, cercando di schiarirsela, Caramon continuò a lottare.

Il capo, notando i muscoli rigonfi che tendevano fino al limite della loro resistenza le robuste corde d’arco impregnate d’acqua, riempiendo di apprensione parecchi dei suoi uomini, scosse la testa con ammirazione.

Caramon, riuscendo finalmente a liberarsi dallo stordimento e scuotendosi via il sangue e la pioggia dagli occhi, si guardò intorno. Almeno venti o trenta uomini, massicciamente armati, erano disposti in cerchio intorno a loro. Sollevando lo sguardo sul loro capo, Caramon borbottò un’imprecazione.

Quell’uomo era decisamente il più grosso umano che avesse mai visto!

I suoi pensieri ritornarono all’istante a Raag e all’arena dei gladiatori a Istar. «E in parte orco,» si disse, sputando un dente che gli era saltato via durante il combattimento. Ricordando vividamente il gigantesco orco che aveva aiutato Arack ad allenare i gladiatori per i Giochi, Caramon vide che, malgrado fosse ovviamente umano, quell’uomo esibiva una carnagione giallastra, e il caratteristico volto orchesco dal naso piatto. Inoltre, era molto più alto della maggior parte degli umani, torreggiando con la testa e le spalle perfino sopra di lui, e aveva braccia simili a tronchi d’albero.

Ma Caramon notò che camminava con una strana andatura e che indossava un lungo mantello, il quale si trascinava sul terreno, nascondendogli i piedi.

Nell’Arena, gli era stato insegnato a valutare un avversario e a cercarne tutti i punti deboli. Caramon osservò dunque l’uomo con molta attenzione. Quando il vento scostò il folto mantello di pelliccia che lo copriva, Caramon, con vivo stupore, vide che l’uomo aveva una gamba sola. L’altra era d’acciaio.

Notando l’occhiata di Caramon alla sua gamba d’acciaio, il mezz’orco esibì un ampio sogghigno e si avvicinò di un passo all’omone.

Allungando un’enorme mano, il bandito accarezzò affettuosamente Caramon sulla guancia.

«Ammiro un uomo che sa combattere bene,» disse con voce sommessa. Poi, con sorprendente velocità, serrò la mano a pugno, tirò indietro il braccio e colpì Caramon alla mascella. La forza del colpo fece cadere all’indietro il grosso guerriero, facendo quasi crollare a terra anche quelli che lo tenevano. «Ma pagherai per la morte del mio uomo.»

Raccogliendo intorno a sé il lungo mantello di pelliccia, il mezz’orco si avvicinò con passo pesante a Crysania, tenuta saldamente per le braccia da due dei furfanti. Il suo catturatore le teneva ancora tappata la bocca con la mano e, malgrado il suo volto fosse pallido, i suoi occhi erano cupi e colmi di collera.

«Proprio carina,» disse il mezz’orco con voce sommessa. «Non è ancora la Festa dei Doni e abbiamo già un regalo.» La sua risata rimbombò in mezzo agli alberi. Allungando una mano afferrò il mantello di Crysania e glielo strappò via dal collo. Il suo sguardo guizzò sulla sua figura curvilinea, ben rivelata dalla pioggia che le inzuppò all’istante le bianche vesti. Il suo sorriso si allargò e gli occhi scintillarono. Tese la sua enorme mano.

Crysania si ritrasse da lui, ma il mezz’orco l’agguantò con facilità, ridendo.

«Ma cos’è questo ciondolo che porti, dolcezza?» chiese, andando con lo sguardo al medaglione di Paladine che Crysania portava intorno al collo sottile. «Lo trovo... indecoroso. Puro platino, eh?»

Fece un fischio. «Meglio che lo tenga io per te, mia cara. Temo che nel godimento della nostra passione possa andar perduto...»

Ormai Caramon si era ripreso a sufficienza per vedere il mezz’orco che afferrava il medaglione con la mano. C’era un luccichio di truce divertimento negli occhi di Crysania, anche se rabbrividì visibilmente al tocco del bandito. Un lampo di purissima luce bianca crepitò in mezzo alla pioggia sferzante. Il mezz’orco tirò indietro di scatto la mano, con un grido di dolore, lasciando la presa su Crysania.

Un brontolio si levò dagli uomini che li attorniavano. L’uomo che tratteneva Crysania mollò a sua volta la presa, e lei si liberò con uno strattone guardandolo con furore e stringendosi di nuovo addosso il mantello.

Il mezz’orco sollevò la mano, la faccia contorta dalla rabbia. Caramon temette che avrebbe colpito Crysania quando, nel medesimo istante, uno degli uomini gridò.

«Lo stregone... si sta riavendo!»

Gli occhi del mezz’orco erano ancora puntati su Crysania, ma abbassò la mano. Poi, sorrise. «Bene, strega, adesso hai vinto tu, a quanto pare.» Guardò di nuovo Caramon. «Mi piacciono gli scontri, sia nel combattimento che nell’amore. Questa promette di essere una notte di divertimenti, in tutti i modi.»

Con un gesto ordinò all’uomo che aveva trattenuto Crysania di agguantarla un’altra volta, e l’uomo lo fece, anche se Caramon potè notare la sua estrema riluttanza. Il mezz’orco si avvicinò a Raistlin che giaceva al suolo gemendo per il dolore.

«Di tutti loro il più pericoloso è lo stregone. Legategli le mani dietro la schiena e imbavagliatelo,» ordinò il ladrone con voce raschiante. «Se si mette anche soltanto a gracidare, tagliategli la lingua. Questo gli farà passare una volta per tutte la voglia di lanciare incantesimi.»

«Perché non lo ammazziamo adesso, così non se ne parla più?» grugnì uno degli uomini.

«Fai pure, Brack,» disse il mezz’orco in tono ameno, voltandosi di scatto a fissare l’uomo che aveva parlato. «Prendi il tuo coltello e tagliagli la gola.»

«Non con le mie mani,» borbottò l’uomo, arretrando di un passo.»

«No? Preferiresti che fossi io a venir maledetto per aver assassinato una Veste Nera?» continuò il capo, sempre con lo stesso tono soave. «Ti piacerebbe vedere la mia mano, con cui impugno la spada, appassire e cadere al suolo?»

«Non... non intendevo questo, naturalmente, Piedacciaio. Non... non pensavo, è tutto.»

«Allora comincia a pensare. Adesso non può farci del male. Guardalo.» Piedacciaio indicò Raistlin con un gesto. Il mago giaceva supino, con le mani legate davanti a sé. Le mascelle gli erano state aperte a forza e un bavaglio gli era stato legato intorno alla bocca. Ma i suoi occhi luccicavano dalle ombre del cappuccio in una collera funesta, e le sue mani si stringevano con tale furore impotente che più d’uno di quegli uomini robusti intorno a lui si chiese inquieto se tali misure fossero adeguate.

Forse percependo lui stesso qualcosa, Piedacciaio si avvicinò zoppicando a Raistlin che lo fissava con odio amaro. Quando si fermò accanto al mago, un sorriso increspò la faccia giallastra del mezz’orco, il quale d’un tratto colpì col piede d’acciaio della sua gamba artificiale la tempia di Raistlin. Il mago si afflosciò. Crysania gridò allarmata, ma il suo catturatore la tenne stretta. Perfino Caramon fu sorpreso nell’avvertire una rapida, lancinante contrazione al cuore quando vide la forma di suo fratello giacere rannicchiata nel fango.

«Questo dovrebbe tenerlo tranquillo per un po’. Quando raggiungeremo il campo lo benderemo e lo porteremo a fare una passeggiata sulla Roccia. Se dovesse scivolare e cadere dal dirupo, be’, sono cose che capitano, non è vero, uomini? Il suo sangue non ricadrà sulle vostre mani.»

Vi fu qualche risata sparsa, ma Caramon vide più d’uno lanciarsi a vicenda occhiate inquiete, scuotendo la testa.

Piedacciaio voltò le spalle a Raistlin per esaminare con occhi lucidi il cavallo da soma stracarico.

«Abbiamo fatto un ricco bottino, oggi, uomini,» dichiarò soddisfatto. Tornando indietro con passo pesante, andò di nuovo accanto a Crysania, inchiodata fra le braccia del suo innervosito catturatore.

«Davvero un ricco bottino,» mormorò ancora Piedacciaio. Con la sua enorme mano afferrò bruscamente il mento di Crysania. Chinandosi, schiacciò le sue labbra contro quelle di lei in un bacio brutale. Intrappolata fra le braccia del suo catturatore, Crysania non potè far nulla. Non lottò, forse un sesto senso le diceva che era proprio questo che l’uomo voleva. Si tenne ritta, con il corpo rigido. Ma Caramon vide le sue mani che si serravano e, quando Piedacciaio la lasciò, non potè fare a meno di distogliere di scatto lo sguardo da lui, con i capelli scuri che le ricadevano sulla guancia.

«Conoscete la mia politica, uomini,» disse Piedacciaio, accarezzandole rozzamente i capelli.

«Dividere fra noi le spoglie, dopo che mi sono preso la mia parte, naturalmente.»

A quelle parole si levarono altre risate e, qua e là, qualche applauso. Caramon non aveva alcun dubbio sul significato delle parole dell’uomo e indovinò, dai pochi commenti che udì, che quella non sarebbe stata la prima volta che le «spoglie» erano state «divise».

Ma c’erano alcuni volti, tra i più giovani, che si accigliarono, guardandosi l’un l’altro con inquietudine e scuotendo la testa. E vennero perfino borbottati alcuni commenti come: «Non vorrei mai aver niente a che fare con una strega!» e «Piuttosto mi porto a letto lo stregone!»

Strega! Quel termine era stato usato di nuovo. Vaghi ricordi si agitarono nella mente di Caramon, ricordi dei giorni quando lui e Raistlin avevano viaggiato con Flint, il fabbro nano; nei giorni che avevano preceduto il ritorno dei veri dei. Caramon rabbrividì rammentando d’un tratto con vivida chiarezza il giorno in cui erano entrati in una città dove stavano per mandare al rogo una vecchia per stregoneria. Si sovvenne come suo fratello e Sturm, il cavaliere eternamente nobile, avessero rischiato la vita per salvare la vegliarda, la quale si era rivelata soltanto un’illusionista di mezza tacca.

Ma Caramon aveva dimenticato fino a quel momento come la gente a quell’epoca considerasse ogni forma di potere magico; i poteri di Crysania, in quei giorni in cui non c’erano veri chierici, sarebbero stati ancora più sospetti. Rabbrividì, poi si costrinse a pensare con fredda logica. Bruciare sul rogo era una morte sgradevole, ma era assai più veloce di...

«Portatemi la strega.» Piedacciaio attraversò zoppicando il sentiero fino al punto in cui uno degli uomini reggeva le redini del suo destriero. Montando in sella fece un gesto. «Poi portate gli altri.»

Crysania venne trascinata avanti dal suo catturatore. Abbassandosi, Piedacciaio l’afferrò sotto le braccia e la sollevò sul cavallo, facendola sedere davanti a sé. Afferrò le redini fra le mani, con le grosse braccia avvolte intorno a lei, inghiottendola completamente. Crysania sedeva tenendo lo sguardo fisso davanti a sé, il volto freddo e impassibile.

Lo sa? si chiese Caramon, osservando impotente Piedacciaio che gli passava davanti in sella al suo destriero con la faccia giallastra contorta da un sogghigno. Crysania è sempre vissuta nella bambagia, ben protetta da cose del genere. Forse non si rende conto di quali orrende azioni siano capaci questi uomini.

E poi Crysania guardò a sua volta Caramon. Il suo volto era tranquillo e pallido, ma c’era un’espressione di tale orrore nei suoi occhi, orrore e implorazione, che Caramon chinò la testa col cuore che gli doleva.

Lo sa... Che gli dei la aiutino. Lo sa...

Qualcuno spinse Caramon da dietro. Parecchi uomini lo afferrarono e lo gettarono con la testa in avanti sopra la sella del suo cavallo.

Disteso a testa in giù, con le forti braccia legate dalle corde d’arco che gli segavano la pelle, Caramon vide gli uomini sollevare il corpo floscio di suo fratello e buttarlo sopra la sella del suo cavallo. Poi i banditi montarono in groppa ai loro destrieri e condussero i loro prigionieri più addentro nelle profondità della foresta.

La pioggia cadeva a torrenti sulla testa nuda di Caramon, mentre il cavallo avanzava con passo pesante in mezzo al fango, scuotendolo rudemente. Il pomo della sella lo pungolava sul fianco; il sangue che gli affluiva alla testa gli faceva provare una sensazione di vertigine. Ma tutto quello che riuscì a vedere nella sua mente mentre cavalcavano erano quegli occhi scuri, pieni di terrore, che imploravano il suo aiuto.

E Caramon sapeva, con nauseante certezza, che non ci sarebbe stato nessun aiuto.

Capitolo decimo

Raistlin camminava attraverso un deserto ardente. Una fila di passi si stendeva davanti a lui sulla sabbia, e lui stava percorrendo quei passi. I passi continuavano a condurlo su e giù per le dune di un bianco brillante, avvampanti al sole. Aveva caldo, era stanco ed era tormentato da una sete terribile.

La testa gli dolorava, il petto gli faceva male, e lui voleva distendersi e riposarsi. In distanza c’era una pozza d’acqua, rinfrescata dall’ombra di alberi. Ma per quanto si sforzasse non riusciva a raggiungerla. I passi non andavano in quella direzione, e lui non riusciva, per quanto facesse, a far deviare i suoi piedi verso la pozza.

Continuò ad avanzare a fatica, con le vesti nere che gli pesavano addosso. E poi, quasi esausto, sollevò lo sguardo e rantolò per il terrore. I passi conducevano a un patibolo! Una figura incappucciata di nero era inginocchiata con la testa appoggiata sul ceppo. E malgrado non potesse vedere la faccia, seppe con terribile certezza che era lui stesso, l’uomo inginocchiato lassù, sul punto di morire. Il boia si ergeva sopra di lui, con un’ascia insanguinata in mano. Anche il boia indossava un cappuccio nero che gli copriva la faccia. Sollevò l’ascia e la tenne sospesa sopra il collo di Raistlin. E quando l’ascia si abbatté, Raistlin intravide nei suoi ultimi momenti la faccia del boia...

«Raist!» bisbigliò una voce.

Il mago scosse la testa dolorante. Con la voce, giunse la confortante constatazione che, in realtà, aveva sognato. Lottò per svegliarsi, divincolandosi dall’incubo.

«Raist!» sibilò la voce, con maggior urgenza.

Una sensazione di vero pericolo, non di un pericolo sognato, destò completamente il mago.

Svegliandosi del tutto, giacque immobile per qualche istante, tenendo gli occhi chiusi fino a quando non ebbe una più completa consapevolezza di ciò che stava accadendo.

Giaceva sul terreno bagnato, le mani legate davanti a sé, la bocca imbavagliata. Avvertiva un dolore pulsante alla testa e la voce di Caramon all’orecchio.

Tutt’intorno, poteva udire voci e risate, e l’odore dei fuochi accesi per cucinare. Ma nessuna delle voci pareva molto vicina, salvo quella di suo fratello. E poi ogni cosa gli ritornò alla memoria.

Ricordò l’attacco, ricordò un uomo dalla gamba d’acciaio... Con cautela, Raistlin aprì gli occhi.

Caramon giaceva accanto a lui nel fango, disteso sullo stomaco, le braccia saldamente legate con corde d’arco. C’era un familiare luccichio negli occhi castani del suo gemello, un luccichio che fece riaffiorare un’ondata di ricordi dei vecchi tempi, tempi molto remoti, quando avevano combattuto insieme, combinando l’acciaio con la magia.

E, malgrado il dolore e l’oscurità che li circondava, Raistlin provò una sensazione esilarante che non aveva avvertito da moltissimo tempo.

Rinsaldato dal pericolo, adesso il legame tra i due era forte, permettendo loro di comunicare sia con le parole che con il pensiero. Vedendo che suo fratello era del tutto consapevole della loro situazione, Caramon si divincolò, avvicinandosi quanto più potè e la sua voce era quasi un sussurro.

«Puoi liberarti le mani in qualche modo? Hai ancora con te il pugnale d’argento?»

Raistlin annuì con un rapido gesto del capo. Sin dall’inizio del tempo gli dei avevano proibito ai fruitori di magia di portare su di sé un qualunque tipo di arma o d’indossare una qualunque armatura. In apparenza il motivo era che dovevano dedicare tutto il loro tempo allo studio, e non a conseguire abilità nell’arte delle armi. Ma dopo che i fruitori di magia avevano aiutato Huma a sconfiggere la Regina delle Tenebre creando i magici Globi dei draghi, gli dei avevano accordato loro il diritto di portare pugnali sulla propria persona, in memoria della lancia di Huma.

Legato al suo polso da un astuto marchingegno costituito da una cinghia di cuoio che avrebbe permesso all’arma di scivolargli nella mano quando ce ne fosse stato bisogno, il pugnale d’argento era l’ultima risorsa che Raistlin aveva per difendersi, da usarsi soltanto quando tutti i suoi incantesimi fossero stati lanciati... oppure in un momento come quello.

«Sei abbastanza forte per usare la tua magia?» gli bisbigliò Caramon.

Per un attimo Raistlin chiuse stancamente gli occhi. Sì, era abbastanza forte. Ma ciò significava un ulteriore indebolimento... e che ci sarebbe voluto dell’altro tempo per affrontare i Guardiani del Portale. Però, se non fosse vissuto fino ad allora...

Naturalmente, doveva vivere! pensò con amarezza. Fistandantilus era vissuto! Non faceva altro che seguire le orme dei suoi passi sulla sabbia.

Rabbiosamente, Raistlin bandì quel pensiero. Aprendo gli occhi, annuì. Sono abbastanza forte, disse mentalmente a suo fratello, e Caramon dette in un sospiro di sollievo.

«Raist,» bisbigliò l’omone, il volto improvvisamente grave e serio, «puoi... puoi indovinare... quello che hanno in mente per Crysania.»

Raistlin ebbe un’improvvisa visione delle rozze mani di quel corpulento umano orchesco su Crysania, e avvertì una sensazione stupefacente: si sentì afferrare da una rabbia e da un furore quali aveva provato di rado. Il suo cuore si contrasse dolorosamente e per un istante si trovò accecato da una nebbia velata di sangue.

Vedendo Caramon che lo fissava con stupore, Raistlin si rese conto che le sue emozioni dovevano risultare fin troppo visibili sulla sua faccia. Si accigliò, e Caramon si affrettò a continuare: «Ho un’idea.»

Raistlin annuì irritato, già conscio di ciò che suo fratello aveva in mente.

Caramon bisbigliò: «Se dovessi fallire...»

... allora la ucciderò io con le mie mani, terminò Raistlin. Ma, naturalmente, non ce ne sarebbe stato bisogno. Lui era al sicuro, protetto...

Poi, sentendo degli uomini che si avvicinavano, il mago chiuse gli occhi, contento di poter fingere di essere di nuovo privo di sensi. Ciò gli dava il tempo di districare il groviglio delle sue emozioni, costringendolo a riprendere il controllo. Il pugnale d’argento era freddo contro il suo braccio. Flette i muscoli che avrebbero liberato la cinghia. E durante tutto quel tempo rifletté sulla strana reazione che aveva avuto per una donna di cui non gl’importava niente... salvo l’utilità che aveva per lui come chierico, ovviamente.

Due uomini sollevarono Caramon in piedi con uno strattone e lo spinsero avanti. Caramon ringraziò il cielo che, a parte una rapida occhiata per accertarsi che il mago fosse ancora privo di sensi, nessuno dei due uomini prestasse la minima attenzione al suo gemello. Incespicando sul terreno accidentato, stringendo i denti per resistere al dolore dei muscoli delle gambe irrigiditi e congelati, Caramon si ritrovò a pensare a quella strana espressione sul volto di suo fratello quando lui aveva fatto il nome di Dama Crysania. Caramon l’avrebbe definita l’espressione indignata di un amante, se l’avesse vista sulla faccia di qualunque altro uomo. Ma suo fratello Raistlin era capace di una simile emozione? Ad Istar Caramon aveva deciso che Raistlin non lo era, e che era stato completamente divorato dal male.

Ma adesso il suo gemello pareva diverso, assai più simile al vecchio Raistlin, il fratello al cui fianco aveva combattuto tante volte in passato, la vita dell’uno affidata all’altro. Ciò che Raistlin aveva detto a Caramon su Tas era sensato. Così, dopotutto, non aveva ucciso il kender. E malgrado talvolta si fosse mostrato irritabile, Raistlin era sempre stato immancabilmente gentile con Crysania.

Forse...

Una delle guardie gli tirò un colpo doloroso nelle costole, ricordando a Caramon quanto fosse disperata la loro situazione. Forse! sbuffò. Forse sarebbe finito tutto qui, adesso. Forse l’unica cosa che avrebbe potuto comperare con la sua vita sarebbe stata una morte rapida per gli altri due.

Mentre attraversavano l’accampamento, ripensando a tutto ciò che aveva visto e udito, Caramon rielaborò mentalmente il suo piano.

Il campo dei banditi era più simile a una piccola città che a un nascondiglio di ladri. Vivevano in rozze capanne di tronchi d’albero, tenendo i loro animali al riparo in una grande caverna. Era ovvio che si trovavano là da un po’ di tempo, e a quanto pareva non temevano la legge ma si affidavano alla forza e alla capacità di condottiero del mezz’orco, Piedacciaio.

Ma Caramon, avendo avuto più d’uno scontro con dei banditi ai suoi tempi, vide che molti di quegli uomini non erano rozzi furfanti. Aveva osservato che parecchi di loro avevano lanciato delle occhiate a Crysania, con ovvio disgusto per ciò che sarebbe seguito. Nonostante indossassero poco più di qualche straccio, molti di loro avevano armi raffinate, spade d’acciaio trasmesse da padre in figlio, e le maneggiavano con la cura dovuta a un cimelio di famiglia, non a qualcosa che era frutto d’un saccheggio. E, malgrado non potesse esserne certo alla scarsa luce di quella giornata tempestosa, a Caramon parve di aver notato su molte delle spade la rosa del Martin Pescatore, l’antico simbolo dei Cavalieri di Solamnia. Gli uomini erano sbarbati, senza i lunghi baffi che contraddistinguevano quei cavalieri, ma Caramon poteva intuire nei loro volti giovani e severi l’impronta del suo amico, Sturm Brightblade. E nel ricordare Sturm, Caramon ricordò anche quello che sapeva della storia della cavalleria dopo il Cataclisma.

Accusati dalla maggior parte dei vicini di aver causato quell’orrenda calamità, i cavalieri erano stati cacciati dalle loro case dalla folla inferocita. Molti erano stati assassinati, le loro famiglie uccise davanti ai loro occhi. I sopravvissuti si erano dati alla clandestinità, vagando in solitudine per il paese, oppure unendosi a bande di fuorilegge, come quella.

Lanciando un’occhiata in giro per il campo, agli uomini intenti a pulire le loro armi e a parlare a bassa voce, Caramon vide i segni delle azioni malvagie sui volti di molti, ma vide anche espressioni di rassegnazione e di disperazione. Anche lui aveva conosciuto tempi duri. Sapeva ciò che un uomo poteva essere indotto a fare.

Tutto questo gli fece sperare che il suo piano potesse aver successo. Un falò era stato acceso al centro dell’accampamento, non lontano dal punto in cui lui e Raistlin erano stati scaricati al suolo.

Guardando dietro di sé vide che suo fratello continuava a fingere di essere privo di sensi. Ma vide anche, sapendo cosa guardare, che, contorcendosi, il mago era riuscito a girare il proprio corpo in una posizione dalla quale poteva sia vedere che sentire con chiarezza.

Mentre Caramon veniva avanti alla luce del fuoco, la maggior parte degli uomini interruppe quello che stava facendo e lo seguì formando un semicerchio intorno a lui. Piedacciaio aveva preso posto su una grande sedia di legno accanto al fuoco, con una fiasca in mano. In piedi accanto a lui, che ridevano e scherzavano, c’erano parecchi uomini che Caramon riconobbe subito per i tipici leccapiedi che adoravano il loro capo. E non fu sorpreso di vedere ai margini della folla il volto sgraziato e sogghignante del loro locandiere.

Crysania era seduta accanto a Piedacciaio, su un’altra sedia. Il mantello le era stato tolto. Il corpetto del vestito era lacerato, poteva ben pensare per mano di chi. E Caramon vide con rabbia crescente che c’era una chiazza purpurea sulla sua guancia. Un angolo della bocca era gonfio.

Ma sedeva con rigida dignità, tenendo lo sguardo fisso davanti a sé e cercando d’ignorare le battute grossolane e le storie orripilanti che gli uomini si scambiavano. Caramon ebbe un cupo sorriso di ammirazione. Ricordando come Crysania fosse in preda al panico e ridotta a uno stadio di quasi follia negli ultimi giorni di Istar, e pensando alla sua precedente vita in mezzo agli agi e alle mollezze, protetta da ogni pericolo, si sentì compiaciuto, addirittura stupefatto, nel vederla reagire a quella pericolosa situazione con una freddezza che Tika avrebbe potuto invidiarle.

Tika... Caramon si accigliò. Non aveva avuto intenzione di pensare a Tika, specialmente in associazione con Dama Crysania! Costringendo i suoi pensieri al presente, distolse deliberatamente gli occhi dalla donna, volgendoli al suo nemico e concentrando la sua attenzione su di lui.

Nel vedere Caramon, Piedacciaio smise di conversare e con un ampio gesto fece segno al guerriero di avvicinarsi.

«È ora di morire, guerriero» disse Piedacciaio, sempre con lo stesso tono amabile nella voce. Lanciò una pigra occhiata a Crysania. «Sono certo, Dama, che non ti dispiacerà se il nostro incontro è rimandato di qualche momento, mentre mi occupo di questa faccenda. Lo considero un piccolo passatempo prima di coricarmi, mia cara.» Accarezzò la guancia di Crysania con la mano. Quando lei si scostò da lui e i suoi occhi scuri avvamparono di collera, lui cambiò la sua carezza in uno schiaffo, colpendola in pieno viso.

Crysania non gridò. Sollevando la testa fissò il suo tormentatore con uno sguardo pieno d’orgoglio.

Sapendo che non poteva lasciarsi distrarre dalla preoccupazione per lei, Caramon tenne il suo sguardo puntato sul capo, studiandolo con calma. Quest’uomo regna con la paura e la forza bruta, pensò fra sé. Fra quelli che lo seguono, molti lo fanno con riluttanza. Hanno tutti paura di lui; probabilmente è la sola legge in questa terra dimenticata da dio. Ma è ovvio che li ha tenuti ben nutriti e in vita, là dove altrimenti sarebbero morti. Perciò gli sono fedeli. Ma fino a che punto arriva la loro fedeltà?

Mantenendo la propria voce calma e ferma, Caramon si drizzò in tutta la sua altezza fissando il mezz’orco con un’espressione di disprezzo. «È così che mostri il tuo coraggio? Picchiando le donne?» gli disse schernendolo. «Slegami, dammi una spada, e vedremo che razza d’uomo sei veramente!»

Piedacciaio lo guardò con interesse e, Caramon lo notò preoccupato, con un’espressione d’intelligenza sul suo volto da bruto.

«Avevo sperato che, da te, guerriero, avrei avuto qualcosa di più originale,» dichiarò Piedacciaio con un sospiro che era parte scena, e parte no, mentre si alzava in piedi. «Forse non sarai poi una grande sfida per me, come avevo a tutta prima pensato. Comunque, stasera non ho niente di meglio da fare. Stasera sul presto, s’intende,» si corresse, rivolgendo a Crysania, che lo ignorò, un’occhiata lasciva e un inchino licenzioso.

Il mezz’orco buttò da parte l’ampio mantello di pelliccia che indossava e, voltandosi, ordinò a uno dei suoi uomini di portargli la spada. I leccapiedi si precipitarono a obbedirgli, mentre gli altri uomini si spostavano per circoscrivere uno spazio sgombro su un lato del falò: era ovvio che quello era uno sport che era stato goduto e apprezzato altre volte. Durante il trambusto, Caramon riuscì ad attirare lo sguardo di Crysania.

Chinando la testa, lanciò un’occhiata significativa in direzione del punto in cui Raistlin era disteso.

Crysania afferrò subito il significato di quell’occhiata. Guardando in direzione del mago, dette in un triste sorriso e annuì. La sua mano si chiuse intorno al medaglione di Paladine e le sue labbra gonfie si mossero.

Le guardie spinsero Caramon nel cerchio, e lui la perse di vista. «Ci vorrà molto di più che qualche preghiera a Paladine per tirarci fuori da questo pasticcio, Dama,» borbottò fra sé, chiedendosi, con una certa dose di divertimento, se suo fratello in quello stesso momento non fosse intento a pregare la Regina delle Tenebre.

Be’, lui non aveva nessuno da pregare, niente che potesse aiutarlo, se non i suoi stessi muscoli, ossa e tendini.

Tagliarono le corde che gli imprigionavano le braccia. Caramon sussultò per il dolore del sangue che gli riaffluiva nelle braccia e nelle gambe, ma flette i suoi muscoli irrigiditi, sfregandoli per aiutare la circolazione a scaldarsi. Poi si sfilò la camicia inzuppata di sudore e le brache, per combattere nudo. Gli indumenti avrebbero dato all’avversario la possibilità di afferrarsi a qualcosa, così gli aveva insegnato il suo vecchio istruttore, Arack il nano, nell’Arena dei Giochi di Istar.

Alla vista dello splendido fisico di Caramon si levò un mormorio di ammirazione dagli uomini che formavano il cerchio tutt’intorno. La pioggia scorreva sul corpo muscoloso e abbronzato, il riflesso del fuoco luccicava sul suo petto e sulle sue spalle forti, mettendo in rilievo anche le cicatrici di molte battaglie. Qualcuno porse a Caramon una spada, e il guerriero la fece roteare con esercitata scioltezza e ovvia abilità. Perfino Piedacciaio, nell’entrare dentro a quel cerchio d’uomini, parve un po’ sconcertato alla vista dell’ex gladiatore.

Ma se Piedacciaio era rimasto, momentaneamente, sorpreso dall’aspetto del suo avversario, Caramon era rimasto altrettanto sconcertato dall’aspetto di Piedacciaio. Mezzo orco e mezzo umano, Piedacciaio aveva ereditato le migliori caratteristiche di entrambe le razze. Aveva la corpulenza e i muscoli degli orchi, ma era svelto di piede e agile, mentre nei suoi occhi c’era la pericolosa intelligenza di un essere umano. Anche lui combatteva quasi nudo, poiché indossava soltanto un perizoma di cuoio. Ma ciò che fece uscire sibilante il respiro fra i denti a Caramon era l’arma che il mezz’orco impugnava, certamente la spada più bella che il guerriero avesse mai visto in vita sua.

Una lama enorme, che era stata concepita per essere usata con due mani. Invero, pensò Caramon, giudicandola con occhio esperto, ben pochi uomini, fra quanti lui ne conosceva, avrebbero potuto sollevarla, e ancor meno maneggiarla. Ma Piedacciaio non soltanto l’impugnava con facilità: la usava con una mano sola. E la usava bene, questo Caramon potè constatarlo facilmente dai fendenti ben sincronizzati ed esperti che il mezz’orco stava vibrando per prova. La lama d’acciaio colse la luce del fuoco mentre tagliava l’aria e produsse un acuto ronzio mentre falciava l’oscurità, lasciandosi dietro una scia di luce fiammeggiante.

Quando il suo avversario entrò zoppicando nel cerchio, con la gamba d’acciaio che brillava, Caramon si avvide, con disperazione, che non si trovava ad affrontare l’avversario stupido e brutale che si era aspettato, ma uno spadaccino esperto, un uomo intelligente, che aveva superato la sua menomazione, riuscendo a combattere con la maestria che un uomo con due gambe poteva ben invidiargli.

Non soltanto Piedacciaio aveva superato il suo handicap, come Caramon scoprì dopo il primo assalto, ma il mezz’orco ne faceva uso in maniera assolutamente micidiale.

I due si guatarono, facendo delle finte, ognuno prestando attenzione alla minima debolezza nella difesa dell’avversario. Poi, all’improvviso, tenendosi agilmente in equilibrio sulla gamba sana, Piedacciaio usò la gamba d’acciaio come se fosse un’altra arma. Girandosi di scatto, colpì Caramon con la gamba d’acciaio, con tale forza da far stramazzare al suolo l’omone al quale la spada schizzò via di mano.

Recuperando rapidamente l’equilibrio, Piedacciaio avanzò con la sua enorme spada, ovviamente con l’intenzione di por fine al combattimento e di procedere con altri sollazzi. Ma, nonostante fosse stato colto di sorpresa, Caramon aveva visto quel tipo di mossa nell’Arena. Giacendo al suolo, respirando affannosamente per riprendere fiato, fingendo che il colpo gli avesse fatto mancare il respiro, Caramon aspettò fino a quando il nemico non gli fu vicino. Poi, allungando una mano, afferrò la gamba buona di Piedacciaio e gliela fece mancare di sotto con uno strattone.

Gli uomini intorno lo acclamarono e lo applaudirono. A quelle grida e agli applausi, Caramon sentì il sangue pulsargli con violenza nelle vene, quando gli ritornarono vividi alla mente i ricordi dell’Arena di Istar. Ogni preoccupazione concernente il fratello dalle vesti nere o il chierico biancovestito svanì. E anche i pensieri di casa. Ogni sua incertezza scomparve. L’eccitazione del combattimento, l’intossicante droga del pericolo, gli tumultuarono nelle vene, riempiendolo di un’estasi molto simile a quella che provava suo fratello quando usava la magia.

Rialzandosi e vedendo che il suo nemico faceva altrettanto, Caramon fece un improvviso, disperato balzo verso la sua spada, che giaceva ad alcuni passi da lui. Ma Piedacciaio fu più veloce.

Raggiunta la spada di Caramon per primo, la colpì con un calcio facendola volare in aria.

Senza perdere d’occhio il suo avversario, Caramon guardò intorno a sé alla ricerca di un’altra arma e vide il falò, che avvampava all’estremità del cerchio degli spettatori.

Ma Piedacciaio colse l’occhiata di Caramon. Intuendo all’istante il suo obbiettivo, il mezz’orco si mosse per bloccarlo.

Caramon si lanciò di corsa. La lama saettante del mezz’orco gli incise la pelle dell’addome, lasciandosi dietro una scintillante scia di sangue. Tuffandosi in avanti, Caramon rotolò vicino ai ceppi, ne afferrò uno per un’estremità e fu di nuovo in piedi nell’istante in cui Piedacciaio conficcava la lama nel terreno, là dove la testa dell’omone si era trovata solo pochi istanti prima.

La spada descrisse un nuovo arco nell’aria. Caramon ne udì il sibilo e riuscì a stento a parare in tempo il colpo con il ceppo. Schegge e faville volarono in tutte le direzioni quando la spada morse il legno poiché Caramon aveva afferrato un ceppo che ardeva a un’estremità. La forza del colpo di Piedacciaio fu tremenda. Fece vibrare le mani di Caramon e l’orlo aguzzo del ceppo gli affondò dolorosamente nella carne. Ma tenne duro, usando la sua enorme forza per spingere indietro il mezz’orco mentre Piedacciaio lottava per recuperare l’equilibrio.

Il mezz’orco rimase saldo, piantando infine la sua gamba metallica nel terreno e spingendo indietro Caramon. Lentamente i due contendenti ripresero la loro posizione, mettendosi a girare in cerchio l’uno intorno all’altro. Poi l’aria si riempì della luce balenante dell’acciaio e delle braci ardenti.

Caramon non ebbe nessuna idea di quanto a lungo lottarono. Il tempo sprofondava in una nebbia di dolore pungente e paura e fatica. Respirava in rantoli irregolari. I polmoni gli bruciavano come l’estremità stessa del ceppo, le mani erano scorticate e sanguinanti. Ma non era ancora riuscito a conquistare nessun vantaggio. Mai in vita sua si era trovato ad affrontare un simile avversario.

Anche Piedacciaio, che aveva cominciato lo scontro con un sorriso di sprezzante fiducia, adesso affrontava il suo avversario con cupa determinazione. Adesso, tutt’intorno a loro, gli uomini erano silenziosi, affascinati da quella mortale contesa.

In effetti, gli unici suoni udibili erano il crepitio del fuoco, il respiro affannoso dei duellanti, e il tonfo di un corpo quando uno dei due cadeva nel fango, o il grugnito di dolore quando un colpo arrivava a segno.

Il cerchio degli astanti e la luce del falò cominciarono a farsi confusi alla vista di Caramon. Adesso, per il suo braccio dolorante il ceppo pareva più pesante di un intero albero. Respirare era una sofferenza. Caramon sapeva che il suo avversario era esausto quanto lui, poiché Piedacciaio aveva trascurato di dar seguito a un colpo vantaggioso, essendo stato costretto, semplicemente, a fermarsi per riprendere fiato. Il mezz’orco aveva un brutto livido purpureo che gli correva lungo il fianco, là dove il ceppo di Caramon l’aveva colpito. Tutti i presenti avevano udito lo schiocco delle costole e avevano visto la sua faccia giallastra contorcersi per il dolore.

Ma aveva risposto con una piattonata che aveva fatto barcollare all’indietro Caramon, costringendolo a flagellare l’aria con il ceppo nel frenetico tentativo di parare il colpo. Adesso i due si guatavano, senza sentire nulla, senza che nulla importasse se non l’avversario che stava di fronte.

Entrambi sapevano che il prossimo errore sarebbe stato fatale.

Poi Piedacciaio scivolò nel fango. Fu soltanto una piccola scivolata, che lo fece cadere sul ginocchio buono, bilanciandosi sulla gamba d’acciaio. All’inizio del combattimento si sarebbe rialzato nel giro di pochi istanti. Ma le forze cominciavano a venirgli meno e gli ci volle un momento di troppo per riuscire a farcela, e con fatica.

Quel momento era ciò che Caramon aveva atteso. Avanzando con passo barcollante, usando l’ultimo brandello d’energia che aveva in corpo, Caramon sollevò il ceppo e lo calò con quanta forza aveva sul ginocchio al quale la gamba d’acciaio era attaccata. Così come il martello colpisce un chiodo, il colpo di Caramon conficcò la gamba d’acciaio in profondità nel terreno zuppo.

Ringhiando per il furore e il dolore, il mezz’orco si girò e si contorse, cercando disperatamente di trascinar via la gamba d’acciaio per liberarla, tentando allo stesso tempo di tener lontano Caramon con i colpi sferzanti della sua spada. La sua forza era così tremenda che quasi ci riuscì. Perfino adesso, nel vedere il suo avversario intrappolato, Caramon dovette lottare contro la tentazione di consentire che il suo corpo ferito e dolorante si riposasse, lasciando perdere il suo antagonista.

Ma quella contesa poteva concludersi in un solo modo. Entrambi l’avevano saputo sin dall’inizio.

Avanzando con passo barcollante, roteando trucemente il ceppo, Caramon colpì la lama del mezz’orco facendogliela volar via di mano. Vedendo la morte negli occhi di Caramon, Piedacciaio lottò ancora con aria di sfida per liberarsi. Perfino all’ultimo momento, mentre il ceppo nelle mani dell’omone tagliava sibilando l’aria, le mani gigantesche del mezz’orco cercarono di ghermire Caramon per le braccia.

Il ceppo si abbatté sulla sua testa con un tonfo umido e zuppo e uno scricchiolio di ossa, scagliando all’indietro il mezz’orco. Il corpo si contorse per qualche istante, poi restò immobile. Piedacciaio giacque nel fango, con la gamba metallica che ancora lo inchiodava al suolo, la pioggia che ripuliva via il sangue e le cervella che colavano fuori dalle crepe del suo cranio.

Incespicando per la stanchezza e il dolore, Caramon cadde sulle ginocchia, appoggiandosi al ceppo intriso di pioggia e di sangue, cercando di riprender fiato. Le orecchie gli rombavano e le grida rabbiose degli uomini che si erano lanciati avanti per ucciderlo lo lasciarono indifferente. Non gliene importava. Non gli facevano né caldo né freddo. Che venissero pure.

Ma nessuno l’attaccò.

Confuso da questo fatto, Caramon sollevò lo sguardo su una figura vestita di nero che si era inginocchiata accanto a lui. Sentì l’esile braccio di suo fratello che lo cingeva protettivo, e vide dardi guizzanti di luce scaturire minacciosi dalle dita del mago. Chiudendo gli occhi, Caramon appoggiò la testa contro il fragile petto di suo fratello e tirò un profondo, tremulo respiro.

Poi sentì un paio di fresche mani toccargli la pelle e udì una morbida voce che mormorava una preghiera a Paladine. Caramon spalancò gli occhi di colpo. Spinse via Crysania che lo guardò stupita, ma era troppo tardi. La sua influenza guaritrice si diffuse in tutto il suo corpo. Udì gli uomini intorno a lui rantolare quando le ferite sanguinanti scomparvero, i lividi svanirono, e il colore riaffluì sul suo volto diventato d’un pallore mortale. Neppure i fuochi d’artificio dell’arcimago avevano creato quell’esplosione di grida d’allarme e di sconcerto causate dalla guarigione.

«Stregoneria! L’ha guarito! Bruciate la strega!»

«Bruciateli tutti e due, la strega e lo stregone!»

«Hanno asservito il guerriero. Li uccideremo e libereremo la sua anima!»

Lanciando un’occhiata a suo fratello, Caramon vide, dalla cupa espressione sul volto di Raistlin, che anche il mago stava rivivendo vecchi ricordi ed era consapevole del pericolo.

«Aspettate!» rantolò Caramon, alzandosi in piedi mentre la folla d’uomini mormoranti si faceva sempre più vicina. Sapeva che soltanto la paura della magia di Raistlin impediva a quegli uomini di scagliarsi su di loro e, udendo gli improvvisi e sussultanti colpi di tosse del fratello, Caramon temette che la forza di Raistlin potesse ben presto venir meno.

Afferrando Crysania che era in preda alla confusione, Caramon la spinse dietro di sé per proteggerla, mentre affrontava la folla di uomini spaventati e rabbiosi.

«Toccate questa donna, e morirete come è morto il vostro capo!» urlò, con voce alta e chiara sopra la pioggia sferzante.

«Perché dovremmo lasciar vivere una strega?» ringhiò uno di loro, e vi furono mormorii di consenso.

«Perché è la mia strega!» esclamò Caramon con severità, lanciando un’occhiata di sfida intorno a sé.

Sentì Crysania, alle sue spalle, che dava in un violento respiro, ma Raistlin le lanciò un’occhiata ammonitrice e, se era stata sul punto di parlare, la donna ebbe ora il buon senso di stare zitta. «Non mi tiene in schiavitù ma obbedisce ai miei ordini e a quelli dello stregone. Non vi farà alcun male, lo giuro.»

Fra gli uomini si levarono dei mormorii, ma i loro occhi, quando tornarono ad appuntarsi su Caramon, non erano più minacciosi. Anche prima c’era stata ammirazione, ma adesso potè vedere anche un riluttante rispetto e una disponibilità ad ascoltare.

«Mettiamoci in viaggio,» cominciò Raistlin con voce sommessa, «e poi...»

«Aspetta!» esclamò Caramon con voce raschiante. Stringendo il braccio di suo fratello, l’attirò accanto a sé e gli bisbigliò. «Mi è venuta un’idea. Bada a Crysania!»

Annuendo, Raistlin si spostò accanto a Crysania, la quale adesso se ne stava in silenzio con gli occhi sul gruppo silenzioso dei banditi. Caramon si avvicinò al corpo del mezz’orco che giaceva nel fango che si andava arrossando. Si chinò, liberò la grande spada dalla stretta di Piedacciaio, e la sollevò in alto sopra la testa. Il grosso guerriero era uno spettacolo magnifico, la luce del fuoco si rifletteva sulla sua pelle bronzea, i muscoli delle braccia gli s’increspavano mentre si ergeva in trionfo sopra il corpo del nemico che aveva abbattuto.

«Ho ucciso il vostro capo. Adesso rivendico il diritto di prendere il suo posto!» urlò Caramon, e la sua voce echeggiò fra gli alberi. «Vi chiedo soltanto una cosa, che lasciate questa vita di massacri, stupri e rapine. Andremo a sud...»

Questo causò una reazione inaspettata. «A sud! Vanno a sud!» gridarono parecchie voci e vi fu qualche applauso sparso. Caramon li fissò, colto di sorpresa, non riuscendo a capire. Raistlin si fece avanti e gli strinse il braccio.

«Cosa stai combinando?» volle sapere il mago, pallido in volto.

Caramon scrollò le spalle, girandosi intorno perplesso nel contemplare l’entusiasmo che aveva creato. «Mi era parsa una buona idea avere una scorta armata, Raistlin,» disse. «Le terre più a sud sono, stando a tutti i resoconti che abbiamo sentito, più selvagge di quelle che abbiamo attraversato finora. Pensavo che avremmo potuto portare con noi alcuni di questi uomini, è tutto. Non capisco...»

Un giovane di nobile portamento, che più d’ogni altro richiamava alla mente di Caramon la figura di Sturm, venne avanti. Facendo segno agli altri perché stessero zitti, chiese: «Andate a sud? Non cercherete per caso la favoleggiata ricchezza dei nani di Thorbardin?»

Raistlin si accigliò. «Hai capito, adesso?» ringhiò. Venne scosso da un attacco di tosse che quasi lo soffocò, lasciandolo debole e boccheggiante. Se non fosse stato per Crysania che si affrettò a sorreggerlo, avrebbe potuto cadere.

«Vedo che hai bisogno di riposarti,» rispose Caramon, con voce cupa. «Tutti noi ne abbiamo bisogno. E a meno che non troviamo una qualche scorta armata, non riusciremo mai ad avere una tranquilla notte di sonno. Cosa c’entrano i nani di Thorbardin? Cosa sta succedendo?»

Raistlin fissò il suolo. Il suo volto era nascosto dalle ombre del cappuccio. Infine, sospirando, dichiarò, gelido: «Digli di sì, digli che andiamo a sud. Che attaccheremo i nani.»

Caramon spalancò gli occhi. «Attaccare Thorbardin?»

«Ti spiegherò più tardi,» ringhiò Raistlin con voce sommessa. «Fai come ti ho detto.»

Caramon esitò.

Scrollando le esili spalle, Raistlin ebbe un sorriso sgradevole. «E l’unica strada che ti rimane per tornare a casa, fratello mio! E forse la sola che abbiamo per uscire vivi da qui.»

Caramon si guardò intorno. Gli uomini avevano ripreso a borbottare durante quella breve conversazione. Era ovvio che sospettavano delle loro intenzioni. Rendendosi conto che doveva affrettarsi a prendere una decisione, se non voleva perderli per sempre, e forse perfino affrontare un altro attacco, si girò, cercando di guadagnar tempo per pensarci sopra un po’ di più.

«Andremo a sud,» disse. «È vero. Ma per le nostre ragioni.»

«Cos’è che hai detto su questa ricchezza a Thorbardin?»

«Corre voce che i nani abbiano immagazzinato una grande ricchezza nel regno sotto le montagne,» rispose prontamente l’uomo. Altri intorno a lui annuirono.

«Ricchezze che hanno rubato agli umani,» aggiunse un altro.

«Già. Non soltanto denaro,» gridò un terzo, «ma grano, bestiame e pecore. Mangeranno come re quest’inverno, mentre noi saremo a pancia vuota!»

«Avevamo già parlato altre volte di andare a sud e prendere la nostra parte,» proseguì il giovane,

«ma Piedacciaio diceva che qui le cose andavano anche bene. Ma qualcuno di noi ha avuto dei ripensamenti.»

Caramon rifletté; avrebbe desiderato conoscere un po’ di più la storia. Aveva sentito parlare delle Grandi Guerre della Porta dei Nani, naturalmente. Il suo vecchio amico Flint parlava solo di quello.

Flint era un nano delle colline. Aveva riempito la testa di Caramon di storie sulla crudeltà dei nani delle montagne di Thorbardin, dicendo quasi le stesse cose che avevano detto quegli uomini. Ma, da come l’aveva raccontata Flint, i nani delle montagne avevano rubato tutte quelle ricchezze ai nani delle colline.

Se ciò era vero, allora Caramon poteva ben essere giustificato nel prendere quella decisione.

Naturalmente, avrebbe potuto fare come suo fratello gli ordinava. Ma a Istar qualcosa, dentro a Caramon, si era rotto. Anche se cominciava a pensare di aver giudicato male suo fratello, lo conosceva abbastanza bene per continuare a diffidare di lui. Mai più avrebbe ubbidito ciecamente a Raistlin.

Ma poi sentì gli occhi luccicanti di Raistlin su di lui, e la voce del fratello gli echeggiò nella mente.

E la sola strada che ti rimane per tornare a casa!

Caramon strinse il pugno, in preda a un’improvvisa collera, ma sapeva di non potersi in alcun modo ribellare a suo fratello. «Andremo a sud fino a Thorbardin,» disse aspro volgendo lo sguardo turbato sulla spada che stringeva in pugno. Poi sollevò la testa e guardò gli uomini che lo circondavano.

«Verrete con noi?»

Vi fu un attimo di esitazione. Parecchi uomini si fecero avanti per parlare al giovane nobile il quale adesso, a quanto pareva, era diventato il loro portavoce. Lui ascoltò, annuì, poi tornò a rivolgersi a Caramon.

«Ti seguiremmo senza esitazione, grande guerriero,» dichiarò il giovane, «ma cos’hai da spartire con questo stregone vestito di nero? Chi è, perché noi dobbiamo seguirlo?»

«Mi chiamo Raistlin,» rispose il mago. «Quest’uomo è la mia guardia del corpo.»

Non vi fu nessuna risposta, soltanto fronti che si corrugavano dubbiose e occhiate indecise.

«Sono la sua guardia del corpo, questo è vero,» confermò Caramon, con calma. «Ma il vero nome del mago è Fistandantilus.»

A quelle parole si udirono rauchi respiri fra gli uomini. I volti corrucciati divennero espressioni di rispetto, perfino di paura e sgomento.

«Mi chiamo Garic,» disse il giovane, rivolgendo un inchino all’arcimago con la cortesia di vecchio stampo dei Cavalieri di Solamnia. «Abbiamo sentito parlare di te, Grande mago. E malgrado le tue azioni siano tenebrose come le tue vesti, a quanto pare noi viviamo in un’epoca di azioni tenebrose. Seguiremo te e il grande guerriero che hai portato con te.»

Garic si fece avanti e depose la spada ai piedi di Caramon. Altri seguirono il suo esempio, qualcuno con entusiasmo, altri più guardinghi. Altri invece si ritrassero fra le ombre. Riconoscendo in loro quei furfanti codardi che erano, Caramon li lasciò andare.

Gli rimasero all’incirca trenta uomini, alcuni con lo stesso portamento nobile di Garic, ma la maggior parte di loro erano ladri e malandrini sporchi e cenciosi.

«Il mio esercito,» disse Caramon fra sé, quella sera, con un cupo sorriso, mentre stendeva il suo mantello nella capanna di Piedacciaio, che il mezz’orco aveva costruito per proprio uso. Poteva sentire Garic che, fuori della porta, stava parlando con l’altro uomo che Caramon aveva giudicato abbastanza degno di fiducia da metterlo di sentinella.

Caramon, con la stanchezza che si sentiva nelle ossa, aveva pensato che si sarebbe addormentato presto. Invece, si ritrovò disteso nel buio, sveglio, a pensare e a far progetti.

Come la maggior parte dei giovani soldati, Caramon aveva spesso sognato di diventare ufficiale.

Adesso, nella maniera più inaspettata, gli si presentava quella possibilità. Non era un gran comando, forse, ma pur sempre un inizio. Per la prima volta da quando erano arrivati in quel tempo dimenticato dagli dei, provava un barlume di piacere.

I progetti turbinavano l’uno sull’altro nella sua mente. L’addestramento, le strade migliori per il sud, gli approvvigionamenti, le scorte... Questi erano problemi nuovi e diversi per l’ex soldato mercenario. Perfino nella Guerra delle Lance, lui aveva quasi sempre seguito la guida di Tanis. Suo fratello non sapeva niente di quelle faccende; Raistlin aveva informato Caramon, con voce gelida, che avrebbe dovuto cavarsela da solo. Caramon la considerava una sfida e, stranamente, la trovava elettrizzante.

Quelli erano problemi concreti, da toccare con mano, che scacciavano dalla sua mente i problemi tenebrosi e ombrosi di suo fratello.

Riandando col pensiero al suo gemello, Caramon lanciò un’occhiata a Raistlin che giaceva rannicchiato accanto al fuoco che ancora avvampava nell’enorme camino di pietra. Nonostante l’intenso calore, era avvolto nel suo mantello e in tutte le coperte che Crysania era riuscita a trovare.

Caramon sentì il respiro che raschiava nei polmoni di suo fratello il quale, nel sonno, di tanto in tanto era scosso da un colpo di tosse.

Crysania dormiva sull’altro lato del fuoco. Malgrado fosse esausta, il suo sonno era tormentato e interrotto. Più di una volta gridò e balzò a sedere all’improvviso, pallida e tremante. Caramon sospirò. Gli sarebbe piaciuto confortarla, prenderla tra le braccia e cullarla fino a farla addormentare. In effetti, per la prima volta si rese conto di quanto gli sarebbe piaciuto farlo. Forse perché aveva detto agli uomini che lei era sua. Forse perché vedeva ancora le abominevoli mani del mezz’orco su di lei... Caramon rivisse lo stesso senso d’indignazione che aveva visto riflesso sulla faccia di suo fratello. Qualunque fosse la ragione, quella notte Caramon si sorprese a osservarla in maniera molto diversa da come l’aveva osservata prima, e nella mente gli vorticarono pensieri che gli fecero bruciare la pelle e accelerare il battito del polso.

Chiudendo gli occhi, s’impose di richiamare alla memoria immagini di Tika, sua moglie. Ma aveva bandito quei ricordi per così tanto tempo che li trovò insoddisfacenti. Tika era una figura nebulosa e sfocata ed era lontanissima. Crysania era in carne ed ossa e si trovava là! Era molto consapevole del suo respiro sommesso e costante...

Dannazione! Le donne! Irritato, Caramon si girò sullo stomaco, deciso, per così dire, a spazzare sotto il tappeto degli altri suoi problemi tutti i pensieri sulle femmine. Funzionò. Finalmente la stanchezza ebbe la meglio su di lui.

Mentre scivolava nel sonno una cosa lo turbava, ancora sospesa nei recessi della mente. Non erano problemi logistici o di guerriere dai capelli rossi, o anche di adorabili donne-chierico biancovestite.

Era soltanto un’occhiata, e nient’altro: la strana occhiata che Raistlin gli aveva scoccato quando aveva fatto il nome di «Fistandantilus».

Non era stata un’occhiata di rabbia o d’irritazione, come Caramon avrebbe potuto aspettarsi.

L’ultima cosa che Caramon vide prima che il sonno cancellasse il ricordo fu l’espressione di puro, abbietto terrore negli occhi di Raistlin.

Libro Secondo.

L’esercito di Fistandantilus.

Mentre la banda d’uomini agli ordini di Caramon viaggiava verso sud, verso il grande regno dei nani di Thorbardin, la loro fama crebbe e così il loro numero. La favoleggiata «ricchezza sotto le montagne» era da molto tempo divenuta leggenda fra le genti sventurate e semiaffamate di Solamnia. Quell’estate avevano visto appassire e morire la maggior parte delle messi nei campi.

Micidiali malattie infestavano il paese, più temute e mortifere perfino delle selvagge bande di goblin e di orchi che erano stati cacciati dalle loro antiche terre dalla fame.

Nonostante fosse ancora autunno, il gelo dell’imminente inverno gravava nell’aria della notte.

Davanti alla desolata prospettiva di vedere i loro bambini perire a causa delle carestie o del freddo o delle malattie che i chierici di questi nuovi dei non potevano guarire, gli uomini e le donne di Solamnia ritenevano di non aver nient’altro da perdere. Abbandonavano le loro case dopo aver infagottato i propri scarsi averi, e insieme alle loro famiglie si univano all’esercito in marcia verso sud.

Dopo essersi dovuto preoccupare di nutrire una trentina di uomini, Caramon si trovò all’improvviso responsabile di parecchie centinaia d’individui, oltre alle donne e ai bambini. E ogni giorno altri affluivano al campo. Alcuni erano cavalieri, addestrati all’uso della spada e della lancia; la nobiltà traspariva perfino attraverso i loro stracci. Altri erano contadini che impugnavano le spade, messe loro in mano da Caramon, come avrebbero potuto fare con le loro zappe. Ma anch’essi avevano una sorta di severa nobiltà. Dopo aver affrontato per anni la Carestia e l’Indigenza, prepararsi ad affrontare un nemico che poteva essere ucciso o conquistato era un pensiero stimolante.

Senza rendersi conto di come fosse accaduto, Caramon si ritrovò generale di quello che adesso veniva chiamato «l’Esercito di Fistandantilus».

All’inizio ebbe tutto quello che gli serviva per procurarsi il cibo sufficiente al grande numero di uomini e delle loro famiglie. Ma i ricordi dei giorni magri della sua vita di mercenario gli ritornarono alla memoria. Dopo aver scoperto quali fra i suoi uomini erano esperti cacciatori, li mandò subito in giro a cercare selvaggina. Le donne affumicavano la carne o la essiccavano, in modo che quella che non veniva consumata subito potesse essere immagazzinata.

Molti degli uomini che si erano uniti a lui avevano portato con sé il grano e la frutta che erano riusciti a raccogliere. Caramon fece mettere insieme tutte queste provviste, ordinando che il grano venisse trasformato in farina, per poi cuocerlo e farne delle gallette, dure come la roccia ma nutrienti, che permettevano ad un esercito in marcia di sopravvivere per mesi. Perfino i bambini avevano i loro compiti, mandati a intrappolare o a cacciare con l’arco la piccola selvaggina, a pescare, ad attingere l’acqua, a tagliare la legna.

Poi Caramon dovette intraprendere l’addestramento delle reclute, insegnando loro l’uso della lancia, della spada e dello scudo... E alla fine dovette anche trovare le lance, le spade e gli scudi.

E a mano a mano che l’esercito si spostava verso sud, la voce della loro venuta si andava diffondendo.

Capitolo primo

Pax Tharkas, un monumento alla pace. Adesso era diventata un simbolo di guerra. La storia della grande fortezza di pietra di Pax Tharkas ha le sue radici in un’improbabile leggenda, la storia di una razza perduta di nani chiamata kal-thax.

Così come gli umani prediligono l’acciaio, la forgiatura di armi scintillanti, il luccichio delle monete sfavillanti; così come gli elfi prediligono i loro boschi, far sbocciare e dare alimento alla vita; così i nani prediligono la pietra, la modellatura delle ossa del mondo.

Prima dell’Era dei Sogni c’era stata l’Era del Crepuscolo quando la storia del mondo era avvolta nelle nebbie della sua alba. A quel tempo dimorava nelle grandi sale di Thorbardin una razza di nani la cui abilità nel lavorare la pietra era così perfetta e così straordinaria che il dio Reorx, Forgiatore del Mondo, la contemplò e se ne meravigliò. Sapendo nella sua saggezza che una volta raggiunta dai mortali una simile perfezione, non ci sarebbe stato null’altro nella vita per cui lottare, Reorx prese l’intera razza dei kal-thax e la portò a vivere con sé vicino alla forgia del cielo.

Rimangono pochi esempi dell’antica maestria dei kal-thax. Questi sono conservati all’interno del regno dei nani di Thorbardin, e sono stimati al di sopra di qualsiasi altra cosa. Passata l’epoca dei kal-thax, ogni nano aveva sempre coltivato per tutta la vita l’ambizione di raggiungere una simile perfezione nel lavorare la pietra, così da venir anche lui assunto in cielo e vivere accanto a Reorx.

Però, a mano a mano che il tempo passava, questo degno scopo finì per essere pervertito e contorto fino a diventare un’ossessione. Pensando e sognando soltanto la pietra, le vite dei nani erano diventate inflessibili e immutabili come la stessa materia prima della loro arte. Si rintanarono nelle profondità delle antiche gallerie sotto le montagne, evitando il mondo esterno. E il mondo esterno evitò loro.

Il tempo passò, e portò la tragica guerra fra gli elfi e gli uomini. Questa terminò con la firma del Papiro di Swordsheath e con l’esilio volontario di Kith-Kanan e dei suoi seguaci dall’antica terra natia degli elfi di Silvanesti. Secondo i termini del Papiro, agli elfi di Qualinesti (che significava «nazione libera») vennero assegnate le terre a ovest di Thorbardin perché vi fondassero la loro nuova patria.

Ciò andava bene sia agli umani che agli elfi. Sfortunatamente, per queste decisioni nessuno si era preoccupato di consultare i nani. Vedendo in quell’afflusso di elfi una minaccia al loro modo di vita sotto la montagna, i nani attaccarono. Kith-Kanan scoprì, con rincrescimento, di aver lasciato una guerra per trovarsi inguaiato subito dopo in un’altra.

Dopo molti, lunghi anni, il saggio re degli elfi riuscì a convincere gli ostinati nani che gli elfi non avevano nessun interesse per le loro pietre. Bramavano soltanto la bellezza vivente della loro selva.

Malgrado questo amore per qualcosa di mutevole e selvaggio fosse del tutto incomprensibile per i nani, alla fine essi giunsero ad accettare l’idea. Gli elfi non furono più considerati una minaccia. Le due razze, finalmente, poterono diventare amiche.

Per onorare questo accordo venne costruita Pax Tharkas. Posta a sorveglianza del passo montano fra Qualinesti e Thorbardin, la fortezza era stata eretta come un monumento alle diversità: un simbolo dell’unità e della differenza.

Nell’epoca precedente al Cataclisma, gli elfi e i nani avevano difeso insieme gli spalti di quella poderosa fortezza. Ma adesso soltanto i nani erano di sentinella sulle due alte torri, poiché quell’epoca malvagia aveva causato nuovamente una divisione fra le due razze.

Ritiratisi nelle loro terre di Qualinesti coperte di foreste, curando le ferite che li avevano spinti a cercare la solitudine, gli elfi avevano lasciato Pax Tharkas. Al sicuro dentro le loro selve, avevano chiuso i confini a tutti. Gli intrusi, che fossero umani o goblin, nani od orchi, venivano uccisi all’istante e senza domande. Duncan, re di Thorbardin, rifletteva su tutto questo mentre osservava il sole tramontare dietro le montagne, cadendo dal cielo dentro a Qualinesti. Ebbe un’improvvisa, grottesca visione degli elfi che attaccavano lo stesso sole perché aveva osato penetrare nella loro terra, e se ne uscì in una sbuffata di scherno. Be’, hanno buone ragioni per essere paranoici, si disse.

Hanno buone ragioni per tenere fuori della porta il mondo. Cos’ha fatto il mondo per loro? È entrato nelle loro terre, ha violentato le loro donne, ha assassinato i loro bambini, ha bruciato le loro case e li ha depredati delle loro provviste. E sono stati forse i goblin o gli orchi la stirpe del male? No! Duncan ringhiò selvaggiamente in mezzo alla sua barba. Erano stati quelli di cui si erano fidati, quelli che avevano accolto come amici: gli umani.

E adesso è il nostro turno, pensò Duncan, prendendo a camminare su e giù per lo spalto, con un occhio al sole al tramonto che aveva inondato il cielo di sangue. Tocca a noi adesso sbarrare le nostre porte e dire al mondo: che liberazione! Andate nell’Abisso a modo vostro, che noi ci andremo a modo nostro!

Smarrito nei suoi pensieri, divenne solo gradualmente consapevole che un’altra persona si era avvicinata e stava camminando su e giù insieme a lui; dei passi ferrati tenevano il tempo con i suoi.

Il nuovo nano era di una testa e di una spalla più alto di Duncan e, con le sue lunghe gambe, avrebbe potuto far un solo passo, invece dei due del suo re. Ma aveva, per rispetto, scorciato i suoi passi per uguagliare quelli del suo sovrano.

Duncan corrugò la fronte, sentendosi a disagio. In qualunque altro momento avrebbe accolto con gioia la compagnia di quella persona. Adesso, gli si manifestava invece come un cattivo presagio.

Proiettava un’ombra sui suoi pensieri, così come il sole calante faceva allungare le gelide ombre delle vette montagnose a stendere le loro dita verso Pax Tharkas.

«Proteggeranno bene la nostra frontiera occidentale,» disse Duncan, aprendo la conversazione, con lo sguardo alla frontiera con Qualinesti.

«Già, thane,» rispose l’altro nano, e Duncan gli lanciò un’occhiata tagliente da sotto le folte sopracciglia grigie. Malgrado il nano più alto avesse pronunciato quelle parole mostrandosi in accordo con il suo re, c’era stata una riservatezza e una freddezza, nella sua voce, che indicava la sua disapprovazione.

Sbuffando per l’irritazione, Duncan si girò di scatto interrompendo il suo andirivieni, e puntando nell’opposta direzione ebbe la divertita soddisfazione di cogliere di sorpresa il nano che l’affiancava.

Ma il nano più alto, invece d’inciampare o di voltarsi e raggiungere il suo re, si limitò semplicemente a fermarsi e rimase là a guardare con tristezza da sopra gli spalti di Pax Tharkas le oltrestanti terre degli elfi adesso in ombra.

Irritato, Duncan prima prese in considerazione la possibilità, semplicemente, di proseguire senza il suo compagno, poi si fermò per concedere al nano più alto la possibilità di raggiungerlo. Ma il nano più alto non fece nessun movimento, quindi, alla fine, con un’espressione esasperata, Duncan si girò e tornò indietro pestando i piedi.

«Per la barba di Reorx, Kharas,» sbuffò rumorosamente, «cosa c’è?»

«Credo che dovresti incontrare Fireforge,» replicò Kharas, misurando le parole, gli occhi rivolti al cielo che adesso stava diventando d’un cupo purpureo. Molto in alto, una stella solitaria sfavillava nel buio.

«Non ho niente da dirgli,» dichiarò Duncan, secco.

«Il thane è saggio.» Kharas pronunciò le parole rituali con un inchino, ma l’accompagnò con un profondo sospiro, stringendo le mani dietro la schiena.

Duncan esplose. «Quello che vuoi dire è “Il thane è un somaro”!» Il re diede una gomitata nel braccio a Kharas. «Non è più vicino al segno?»

Kharas girò la testa, sorridendo, accarezzandosi le seriche trecce della lunga barba riccioluta che luccicava al bagliore delle torce appese alle pareti. Fece per rispondere, ma l’aria si riempì all’improvviso di rumori: tonfi di stivali, sbattere di piedi, un richiamo di voci, lo sferragliare delle asce contro l’acciaio. Il cambio della guardia. Capitani che urlavano ordini, uomini che lasciavano le loro posizioni, altri che prendevano il loro posto. Kharas, osservando tutto questo in silenzio, lo usò come un fondale significativo per la sua dichiarazione, quando alla fine parlò.

«Credo che dovresti ascoltare quello che deve dirti, thane Duncan,» disse Kharas in tutta semplicità.

«Corre voce che tu stia incitando i tuoi cugini alla guerra.»

«Io!» ruggì Duncan infuriato. «Io, incitarli alla guerra! Sono loro ad essersi messi in marcia: stanno sciamando fuori dalle loro colline come sorci! Sono stati loro a lasciare la montagna. Noi non gli abbiamo mai chiesto di lasciare la loro casa ancestrale! Ma no, nel loro orgoglio testardo...»

Continuò a bofonchiare, elencando una lunga storia di torti, sia veri sia immaginati. Kharas lo lasciò parlare, aspettando con pazienza fino a quando Duncan non ebbe sfogato la maggior parte della sua rabbia.

Poi il nano più alto disse con pazienza: «Non ti costerà niente ascoltare, thane, e col tempo potrebbe esserci di grande vantaggio. Altri occhi, diversi da quelli dei nostri cugini, ci stanno osservando, di questo puoi esser certo.»

Duncan ringhiò, ma rimase silenzioso, riflettendo. Contrariamente a ciò che aveva accusato Kharas di pensare, re Duncan non era un nano stupido. Né Kharas in verità lo giudicava tale. Al contrario.

Duncan era uno dei sette thane che regnavano sui sette clan del regno dei nani, ed era riuscito a far alleare gli altri thanati sotto la sua guida, dando ai nani di Thorbardin un re, per la prima volta dopo secoli. Perfino i Dewar avevano riconosciuto in Duncan il loro capo, seppure con riluttanza.

I Dewar, i cosiddetti «nani scuri», abitavano molto in profondità nel sottosuolo, in caverne fiocamente illuminate e fetide, nelle quali perfino i nani della montagna di Thorbardin, che passavano la maggior parte della loro vita sottoterra, esitavano ad entrare. Molto tempo addietro una traccia di follia si era manifestata in quel particolare clan, inducendo gli altri a tenersi lontani da loro. Adesso, dopo secoli di unioni fra consanguinei imposte loro dall’isolamento, la follia era più accentuata, e quei pochi giudicati sani costituivano un gruppo cupo e amareggiato.

Ma servivano anche loro. Facili alla rabbia, feroci uccisori che godevano nell’uccidere. Formavano una porzione preziosa dell’esercito del thane. Duncan li trattava bene proprio per questo motivo, e anche perché, in fondo, era un nano gentile e giusto. Ma era abbastanza intelligente da non voltar mai loro le spalle.

Allo stesso modo Duncan era abbastanza intelligente da saper apprezzare la saggezza delle parole di Kharas. «Altri occhi ci stanno osservando.» Questo era vero. Lanciò un’occhiata verso occidente.

Questa volta era un’occhiata piena di circospezione. Gli elfi non volevano nessun guaio, di questo si sentiva sicuro. Nondimeno, se gli elfi avessero pensato che i nani avevano in mente di provocare una guerra, avrebbero agito molto in fretta per proteggere la loro terra. Voltandosi, guardò verso nord. Correva voce che gli uomini delle pianure di Abanasinia stessero prendendo in considerazione un’alleanza con i nani delle colline, ai quali avevano permesso di accamparsi sulle loro terre. In effetti, per quello che Duncan ne sapeva, quell’alleanza poteva già essere stata conclusa. Se avesse parlato a questo nano delle colline, Fireforge, avrebbe quanto meno potuto scoprirlo.

E, per di più, c’erano voci ancora più tenebrose... voci di un esercito in marcia dalle terre devastate di Solamnia, un esercito condotto da un potente stregone vestito di nero...

«Molto bene!» Re Duncan ringhiò con malagrazia. «Hai vinto un’altra volta, Kharas. Di’ al nano delle colline che lo incontrerò nella Sala dei thane al prossimo turno di guardia. Vedi se riesci a pescare qualche rappresentante degli altri thane. Giocheremo a carte scoperte, come tu raccomandi di fare.»

Kharas s’inchinò sorridendo, la lunga barba quasi spazzò la punta dei suoi stivali. Duncan si girò con un cenno imbronciato del capo e scese di sotto con passo pesante, i tonfi dei suoi stivali sottolineavano la misura della sua scontentezza. Gli altri nani di sentinella lungo gli spalti s’inchinarono al passaggio del loro re ma tornarono quasi subito ai loro posti. I nani sono gente indipendente, fedeli per prima cosa al loro clan e poi a chiunque altro. Malgrado tutti rispettassero Duncan, non lo riverivano, e lui lo sapeva. Mantenere la sua posizione era una lotta quotidiana.

Le conversazioni, brevemente interrotte al passaggio del re, ripresero quasi subito. Quei nani sapevano che la guerra era imminente e in realtà erano impazienti di combatterla. Sentendo le loro voci profonde, ascoltando i loro discorsi di battaglie e di combattimenti, Kharas dette in un altro sospiro.

Voltandosi nella direzione opposta, si mosse per andare a cercare le delegazioni dei nani delle colline, con il cuore pesante quasi quanto l’enorme martello da guerra che portava con sé, un martello che pochissimi altri nani potevano anche soltanto sollevare. Anche Kharas sentiva che la guerra era imminente. Provava quello che aveva provato un tempo quando, da bambino, aveva viaggiato fino alla città di Tharsis e si era fermato sulla spiaggia a osservare con stupore le onde che si abbattevano sulla sponda. Che la guerra fosse imminente pareva inevitabile e inarrestabile come le onde medesime. Ma era deciso a fare quello che poteva per cercare d’impedirlo.

Kharas non faceva alcun segreto del suo odio per la guerra e sosteneva sempre con forza le ragioni della pace. Molti fra i nani trovavano la cosa molto strana, poiché Kharas era l’eroe riconosciuto della sua razza. Quand’era ancora un giovane nano, all’epoca che aveva preceduto il Cataclisma, era stato fra quelli che avevano combattuto le legioni dei goblin e degli orchi durante le Grandi Guerre dei Goblin fomentate dal Gran Sacerdote di Istar.

A quei tempi regnava ancora la fiducia reciproca fra le razze. I nani, alleati dei Cavalieri, erano andati in loro soccorso quando i goblin avevano invaso Solamnia. I nani e i Cavalieri avevano combattuto fianco a fianco, e il giovane Kharas era rimasto profondamente colpito dal Codice e dalla Misura cavallereschi. E i Cavalieri, a loro volta, erano rimasti colpiti dall’abilità di combattente del giovane nano.

Più alto e più forte di chiunque altro della sua razza, Kharas brandiva un enorme martello che si era fatto da sé (con l’aiuto del dio Reorx, diceva la leggenda) e innumerevoli volte aveva difeso da solo il campo di battaglia fino a quando i suoi non avevano potuto giungere in soccorso per cacciare gli invasori.

Per il suo valore i Cavalieri l’avevano premiato con il nome di «Kharas», che significava «cavaliere» nella loro lingua. Non c’era onore più grande che potessero conferire a un estraneo.

Quando Kharas era tornato a casa aveva scoperto che la sua fama si era diffusa. Avrebbe potuto diventare il capo militare dei nani; anzi, avrebbe potuto diventare anche il loro re, ma non aveva nessuna ambizione del genere. Era stato uno dei più energici sostenitori di Duncan, e molti infatti erano convinti che Duncan dovesse a Kharas la sua ascesa al potere nel suo clan. Ma, se era così, questo fatto non aveva avvelenato il loro rapporto. Il nano più anziano e l’eroe più giovane erano diventati amici intimi: il senso pratico di Duncan, duro come la pietra, aveva tenuto saldamente ancorato a terra l’idealismo di Kharas.

E poi c’era stato il Cataclisma. In quei primi, terribili anni che avevano seguito la frantumazione del paese, il coraggio di Kharas aveva brillato come esempio per il suo popolo sventurato. Era stato suo il discorso che aveva indotto i thane ad unirsi e ad eleggere re Duncan. I Dewar si fidavano di Kharas pur non fidandosi di nessun altro. Grazie a quell’unificazione, i nani erano sopravvissuti ed erano perfino riusciti a prosperare.

Adesso Kharas era nel fiore della vita. Era stato sposato una volta, ma la sua amata moglie era perita durante il Cataclisma, e i nani, quando si sposavano, lo facevano una volta per tutta la vita.

Non ci sarebbero stati figli che avrebbero portato il suo nome, per la qual cosa Kharas, contemplando il cupo futuro che prevedeva per il mondo, provava quasi gratitudine.

«Reghar Fireforge, dei nani delle colline, e il suo seguito.»

L’araldo pronunciò il nome picchiando l’estremità della sua lancia da cerimonia sul duro pavimento di granito. I nani delle colline entrarono avanzando con passo orgoglioso fino al trono su cui sedeva Duncan, in quella che adesso veniva chiamata la Sala dei thane nella fortezza di Pax Tharkas.

Dietro di lui, su scranni più bassi, che erano stati trascinati là dentro in fretta e furia per la circostanza, sedevano i sei rappresentanti degli altri clan in funzione di testimoni per i loro thane.

Sarebbero stati soltanto testimoni incaricati di riferire ai loro thane quello che era stato detto o fatto.

Dal momento che era tempo di guerra, tutta l’autorità era affidata a Duncan. (Per lo meno, quel tanto che poteva rivendicare.)

In realtà, i testimoni non erano nulla di più che capitani delle loro rispettive divisioni. Anche se avrebbe dovuto essere una singola unità costituita collettivamente da tutti i nani di ogni singolo clan, l’esercito era, nondimeno, un coacervo dei vari clan: ogni clan forniva le proprie unità con i propri capi; il contingente di ogni clan viveva separato e in disparte dagli altri. I combattimenti fra i clan non erano insoliti, c’erano faide che duravano ormai da parecchie generazioni. Duncan aveva fatto del suo meglio per tener tappati i coperchi di quei calderoni in ebollizione ma, di tanto in tanto, la pressione aumentava troppo e qualche coperchio saltava via.

Però adesso, dovendo affrontare un nemico comune, i clan erano uniti. Perfino il rappresentante dei Dewar, un capitano dalla faccia sporca e i vestiti stracciati chiamato Argat che portava la barba intrecciata e annodata alla maniera dei barbari, e che durante tutta la procedura si divertì a lanciare abilmente in aria il pugnale e ad agguantarlo quando cadeva giù, ascoltò quanto venne detto con qualcosa di meno della solita aria di beffardo disprezzo.

Inoltre c’era il capitano di uno squadrone di nani dei fossi. Conosciuto col nome di Grangug, era là soltanto per la cortesia di Duncan. Il termine «gug» significava «privato» nella lingua dei nani dei fossi, e quel nano perciò non era altro che un «gran privato», un rango considerato risibile nel resto dell’esercito. Ma fra i nani dei fossi era considerato un grande onore, e il Grangug era assai riverito dalla maggior parte delle sue truppe. Duncan, nella sua sagacia, era sempre stato immancabilmente cortese nei confronti del Grangug e si era perciò conquistato la sua eterna fedeltà. Anche se c’erano molti che lo consideravano più un ostacolo che un aiuto, Duncan rispondeva che non si poteva mai sapere quando elementi del genere potevano diventare utili.

E così anche il Grangug si trovava in quel consesso, pur se era visibile a pochi. Gli era stata assegnata una sedia in un angolo buio e gli era stato detto di starsene seduto immobile senza parlare, istruzioni che aveva seguito alla lettera. Infatti, due giorni dopo, quando qualcuno si ricordò di lui e venne a toglierlo da lì, era ancora seduto su quella sedia.

«I nani sono nani» era un detto diffuso tra il popolino dell’intero Krynn, quando qualcuno tentava di far differenza tra i nani delle colline e quelli delle montagne.

Ma c’erano differenze, enormi differenze secondo la mentalità dei nani, anche se queste potevano non risaltare all’occhio d’un osservatore esterno. Cosa strana, ma né gli elfi né i nani lo avrebbero mai ammesso, i nani delle colline avevano lasciato l’antico regno di Thorbardin per molte delle stesse ragioni che avevano indotto gli elfi di Qualinesti a lasciare la loro tradizionale terra di Silvanesti. I nani di Thorbardin conducevano una vita rigida, altamente organizzata. Tutti, sia maschi che femmine, conoscevano il proprio posto nell’ambito del proprio clan. Il matrimonio fra membri di clan diversi era qualcosa d’inaudito; la fedeltà al clan era la forza che legava la vita di ogni nano. I contatti con il mondo esterno venivano evitati: la peggiore punizione che si poteva infliggere a un nano era l’esilio; perfino la condanna a morte veniva giudicata più misericordiosa. Il concetto di vita idilliaca per un nano consisteva nel nascere, crescere e morire senza mai ficcare una volta il proprio naso fuori dalle porte di Thorbardin.

Sfortunatamente questo era, o lo era stato in passato, soltanto un sogno. Chiamati in continuazione alle guerre per difendere i loro averi, i nani erano stati costretti a mescolarsi con il mondo esterno.

E, se non c’erano guerre, c’era sempre chi richiedeva l’abilità dei nani nelle opere di costruzione ed era disposto a pagare enormi somme pur di ottenerla. La bellissima città di Palanthas era stata costruita con grande amore da un vero e proprio esercito di nani, come lo erano state molte altre città di Krynn. Così era venuta a crearsi una razza di nani liberi, indipendenti e cosmopoliti. Questi parlavano di matrimoni misti fra i clan, parlavano con disinvoltura di rapporti commerciali con gli umani e con gli elfi. Ed esprimevano addirittura il desiderio di vivere all’aria aperta. E, cosa più orrenda di tutte, esprimevano la convinzione che altre cose nella vita potevano avere più importanza della lavorazione della pietra.

Ciò, naturalmente, era visto dai nani più rigorosi come una diretta minaccia alla società stessa dei nani, così, inevitabilmente, c’era stata una scissione. I nani indipendenti avevano lasciato le loro case sotto la montagna di Thorbardin. Il commiato non era avvenuto pacificamente. C’erano state parole dure da entrambe le parti. Allora erano cominciate faide che sarebbero durate centinaia d’anni. Quelli che se n’erano andati si erano rifugiati fra le colline dove, anche se la vita non era tutto quello che avevano sperato, per lo meno era libera: potevano sposare chi volevano, andare e venire come volevano, guadagnare i propri soldi. I nani rimasti a Thorbardin si limitarono semplicemente a serrare i ranghi e a diventare ancora più rigorosi, sempre che fosse possibile.

Adesso, mentre si valutavano a vicenda, i due nani che si fronteggiavano stavano pensando proprio a questo. E inoltre, forse pensavano che quello era un momento storico, la prima volta dopo secoli che le due parti s’incontravano.

Reghar Fireforge era il più vecchio dei due, uno dei membri al vertice del più forte clan dei nani delle colline. Malgrado fosse prossimo al suo Duecentesimo Anno del Dono della Vita, il vecchio nano era ancora robusto e vigoroso. Proveniva da un clan di antichissima data. Ma lo stesso non si poteva dire dei suoi figli. La loro madre era morta a causa di un cuore debole e la stessa malattia pareva perseguitare la famiglia. Reghar si era trovato a dover seppellire il proprio figlio più anziano e già poteva vedere i sintomi di una morte prematura in un altro suo figlio, adesso il maggiore, un giovane di settantacinque anni, sposatosi da poco.

Vestito di pellicce e di altre pelli di animale, con lo stesso aspetto barbaro (anche se più pulito) del Dewar, Reghar si teneva eretto con i piedi ampiamente discosti e teneva fissi su Duncan i suoi occhi duri come la roccia che luccicavano da sotto un paio di sopracciglia così folte che erano in molti a chiedersi come il vecchio nano riuscisse ancora a vedere. I suoi capelli erano grigi come il ferro, e così la barba che portava intrecciata, pettinata e rimboccata dentro la cintura alla maniera dei nani delle colline. Fiancheggiato da una scorta dei nani delle colline, tutti vestiti pressoché alla stessa maniera, il vecchio nano faceva un notevole effetto.

Re Duncan replicò allo sguardo di Reghar senza titubare: quel duello di sguardi era un’antica pratica dei nani e, se i contendenti erano particolarmente cocciuti, poteva perfino accadere che entrambi i nani finissero per crollare a terra esausti a meno che un terzo partito neutrale non intervenisse a farli smettere.

Duncan, mentre fissava Reghar con espressione cupa, cominciò ad accarezzarsi la serica barba riccioluta che gli scorreva libera sull’ampio stomaco. Era un segno di disprezzo, e Reghar, accorgendosene senza ammettere di essersene accorto, s’imporporò per la collera.

I sei membri dei clan sedevano stoicamente sui loro scranni, pronti a una lunga seduta. Quelli della scorta di Reghar allargarono le gambe e appuntarono gli sguardi sul nulla. Il Dewar continuò a lanciare in aria il suo coltello, con fastidio di tutti. Il Grangug sedeva nel suo angolo, del tutto dimenticato se non per il suo fetore di nano dei fossi che pervadeva il gelo della stanza. Pareva probabile, a giudicare dalla situazione, che Pax Tharkas si sarebbe sbriciolata per l’età intorno a loro prima che qualcuno dicesse anche una sola parola. Alla fine, con un sospiro, Kharas venne avanti fermandosi fra Reghar e Duncan. Adesso che la loro linea visuale era stata interrotta, ognuno dei due contendenti poteva abbassare lo sguardo senza perdere la propria dignità.

Dopo aver rivolto un inchino al proprio re, Kharas si voltò e, con profondo rispetto, fece altrettanto con Reghar. Poi si ritirò. Adesso entrambe le parti erano libere di parlare da eguali, anche se ciascuna parte aveva, in privato, la propria idea su quella che era l’uguaglianza.

«Ti ho concesso udienza,» dichiarò Duncan, dando inizio al colloquio con quella formale cortesia che, fra i nani, non durava mai a lungo, «Reghar Fireforge, per ascoltare cosa abbia indotto i nostri affini a intraprendere un viaggio fino a un regno che hanno scelto di abbandonare tanto tempo fa.»

«Ed è stato un bel giorno quello in cui ci siamo tolti dai piedi la polvere di questa antica tomba ammuffita,» ringhiò Reghar, «per vivere all’aperto come persone oneste, invece di stare nascosti sotto la roccia come le lucertole.»

Reghar si accarezzò la barba intrecciata, Duncan fece altrettanto con la propria. Entrambi si fissarono incolleriti. Quelli della scorta di Reghar mossero la testa, pensando che il loro capo se l’era cavata meglio in quel primo scontro verbale.

«Allora perché mai degli uomini onesti sono tornati all’antica tomba ammuffita, se non per venirvi come ladri di tombe?» chiese Duncan in tono secco, lasciandosi andare contro lo schienale con aria compiaciuta.

Un mormorio di approvazione si levò dai sei nani delle montagne. Era chiaro che pensavano che il loro thane avesse segnato un punto a suo favore.

Reghar arrossì. «L’uomo che si riprende ciò che prima gli è stato rubato è forse un ladro?» volle sapere.

«Non riesco a capire il motivo della tua domanda,» replicò Duncan con calma, «dal momento che non avete nulla di prezioso che qualcuno possa volervi rubare. Corre voce che perfino i kender evitino la vostra terra.»

Una risata di apprezzamento si levò dai nani della montagna, mentre quelli delle colline fremettero letteralmente di rabbia poiché quello era stato un insulto mortale. Kharas sospirò.

«Ti dirò io cosa vuol dire rubare!» ringhiò Reghar, con la barba che gli tremava per il furore. «I contratti, ecco cosa avete rubato! Facendo prezzi inferiori ai nostri, lavorando in perdita per toglierci il pane di bocca! E ci sono state incursioni nelle nostre terre, per rubarci il grano e il bestiame! Abbiamo sentito le storie sulle ricchezze che avete ammassato e siamo venuti a rivendicare ciò che ci appartiene di diritto! Niente di più, niente di meno!»

«Menzogne!» gridò Duncan, balzando in piedi in preda al furore. «Tutte menzogne! Qualunque ricchezza si trovi sotto la montagna, abbiamo lavorato col nostro onesto sudore per guadagnarcela! E voi tornate qui come ragazzini spendaccioni, piagnucolando, dicendo che avete la pancia vuota dopo aver sprecato le vostre giornate a divertirvi quando avreste dovuto lavorare!» Fece un gesto insultante. «Avete perfino l’aspetto dei mendicanti!»

«Mendicanti, vero?» ruggì Reghar a sua volta, la sua faccia era diventata d’un purpureo ancora più scuro. «No, per la barba di Reorx! Se stessi morendo di fame e tu mi offrissi una crosta di pane, ti sputerei sulle scarpe! Prova a negare che state fortificando questo posto, praticamente sui nostri confini! Prova a negare che avete aizzato gli elfi contro di noi, inducendoli a interrompere i loro commerci! Mendicanti? No! Per la barba di Reorx, la sua forgia e il suo maglio, torneremo, ma quando lo faremo sarà da conquistatori! Avremo ciò che ci appartiene di diritto e vi daremo una bella lezione, per giunta!»

«Verrete, da quei codardi e frignoni che siete,» rispose Duncan, sarcastico, «nascondendovi dietro le sottane di uno stregone dalle Vesti Nere e agli scudi sfolgoranti dei guerrieri umani bramosi di bottino! Vi pugnaleranno alla schiena e poi spoglieranno i vostri cadaveri!»

«Dovresti intendertene più di chiunque altro, quando si tratta di spogliare i cadaveri!» urlò Reghar.

«Avete spogliato i nostri per anni!»

I sei membri dei clan balzarono fuori dalle loro sedie, e la scorta di Reghar scattò in avanti. La risata acuta del Dewar si levò al di sopra di quel tuonare di urla e di minacce. Il Grangug era rannicchiato nel suo angolo con la bocca spalancata.

La guerra avrebbe potuto cominciare in quello stesso istante se Kharas non si fosse precipitato fra le due parti, con la sua alta figura che torreggiava su tutti. A gomitate e a spintoni costrinse le due parti ad arretrare. Però, anche dopo che i due gruppi furono separati, continuarono a levarsi grida di derisione e qualche occasionale insulto. Ma, ad una severa occhiata di Kharas, questi cessarono e ben presto tutti piombarono in un silenzio scontroso e imbronciato.

Kharas parlò. La sua voce profonda suonò burbera e colma di tristezza. «Molto tempo addietro, ho pregato gli dei di concedermi la forza di combattere l’ingiustizia e il male che infestano il mondo. Reorx rispose alle mie preghiere concedendomi il permesso di usare la sua forgia e là, sulla forgia del dio medesimo, feci questo martello. Da allora, il mio martello ha sfolgorato in battaglia lottando contro le creature malvagie di questo mondo e proteggendo la mia patria, la patria della mia gente. Adesso, tu, mio re, mi chiedi di scendere in guerra contro i miei consanguinei? E voi, miei consanguinei, minaccereste di portare la guerra nella nostra terra? E a questo che vi stanno conducendo le vostre parole... che io debba usare questo martello contro il mio stesso sangue?»

Nessuna delle due parti parlò. I componenti di entrambe si guardarono con ferocia da sotto le sopracciglia cespugliose, e tutte e due le parti parvero vergognarsi un po’. Il sincero discorso di Kharas aveva toccato il cuore di molti. Soltanto due l’avevano ascoltato impassibili. Entrambi erano vecchi, entrambi avevano perduto da molto tempo ogni illusione, entrambi sapevano che quella spaccatura era diventata troppo ampia per venir colmata dalle parole. Ma il gesto era stato fatto.

«Ecco la mia offerta, Duncan, re di Thorbardin,» disse Reghar, respirando affannosamente. «Ritira i tuoi uomini da questa fortezza. Consegna a noi e ai nostri alleati umani Pax Tharkas e le terre che la circondano. Dà a noi metà del tesoro sotto la montagna, la metà che ci appartiene di diritto, e permetti a quelli di noi che dovessero scegliere di farlo di tornare alla sicurezza della montagna, se il male dovesse diffondersi in queste terre. Persuadi gli elfi a togliere le loro barriere commerciali, e dividi con noi al cinquanta per cento tutti i contratti per i lavori di costruzione.

«In cambio noi coltiveremo le terre intorno a Thorbardin e vi venderemo i nostri raccolti a una somma inferiore a quella che costa a voi coltivarli nel sottosuolo. Vi aiuteremo a proteggere i vostri confini e la montagna stessa se ce ne dovesse esser bisogno.»

Kharas rivolse al suo signore un’occhiata implorante, pregandolo di valutare la proposta, o per lo meno di negoziarla. Ma Duncan, lo mostrò subito, non era disposto ad ascoltar ragione.

«Fuori di qui!» ringhiò. «Tornatevene dal vostro stregone dalle vesti nere! Tornatevene dai vostri amici umani! Vediamo se il vostro stregone sarà abbastanza potente da abbattere le mura di questa fortezza, oppure da sradicare le pietre della nostra montagna. Vediamo per quanto tempo i vostri amici umani rimarranno amici quando i venti dell’inverno turbineranno intorno ai fuochi dei campi e il loro sangue gocciolerà nella neve!»

Reghar rivolse a Duncan un’ultima occhiata, colma di un’avversione e di un odio così intensi che avrebbe potuto esser benissimo un pugno. Poi, girando sui tacchi, fece segno ai suoi di seguirlo.

Uscirono a grandi passi dalla Sala dei thane e da Pax Tharkas.

La notizia si diffuse fulmineamente. Quando i nani delle colline furono pronti a partire, gli spalti si erano riempiti di nani della montagna che urlavano e fischiavano, beffeggiandoli. Reghar e il suo seguito si allontanarono in groppa ai loro destrieri, con i volti severi e truci, senza voltarsi una sola volta per guardare alle loro spalle.

Nel frattempo Kharas era rimasto nella Sala dei thane, solo con il suo re (e il dimenticato Grangug).

Tutti e sei i testimoni avevano fatto ritorno ai loro clan, per informarli. Quella notte vennero spillati barili di birra nonché della potente bevanda conosciuta come «spirito dei nani», per festeggiare. Già si potevano udire i canti e le rauche risate echeggiare attraverso tutto quel grande monumento di pietra eretto alla pace.

«Cosa ci sarebbe costato negoziare, thane?» chiese Kharas, con voce colma di dolore.

Duncan fissò il nano più alto di lui e scosse la testa. D’un tratto la sua rabbia improvvisa pareva essersi dileguata. La sua barba ingrigita gli sfregò le vesti da cerimonia. Rientrava nei suoi diritti rifiutarsi di rispondere a una domanda così impertinente. In verità nessuno, eccettuato Kharas, avrebbe avuto il coraggio di mettere anche soltanto in discussione la decisione di Duncan.

«Kharas,» rispose Duncan, appoggiando con affetto la mano sul braccio del suo amico, «dimmi, c’è un tesoro sotto la montagna? Abbiamo derubato i nostri consanguinei? Deprediamo le loro terre, o le terre degli umani, se è per questo? Le loro accuse sono giuste?»

«No!» esclamò Kharas, incontrando con fermezza lo sguardo del suo sovrano.

Duncan sospirò. «Hai visto i raccolti. Sai che quei pochi soldi che rimangono nel tesoro verranno spesi per fare tutte le provviste possibili per quest’inverno.»

«Dillo a loro!» esclamò Kharas con foga. «Di’ loro la verità, Non sono dei mostri. Sono nostri consanguinei. Capiranno...»

Duncan dette in un sorriso triste e stanco. «No, non sono dei mostri. Ma, quel che è peggio, è che sono diventati come tanti bambini.» Scrollò le spalle. «Oh, potremmo dirgli la verità, perfino fargliela vedere. Ma non crederebbero ai loro occhi. Perché? Perché vogliono credere altrimenti!»

Kharas si accigliò, ma Duncan continuò pazientemente: «Vogliono crederlo, amico mio. Anzi, di più, devono credere. È la loro sola speranza di sopravvivenza. Non hanno niente... niente, salvo quella sola speranza. E così sono disposti a combattere pur di difenderla. Li capisco.» Gli occhi del vecchio re si offuscarono per un momento, ma poi Kharas, fissandolo con stupore, si rese conto che la sua collera era stata tutta una finta, tutta una messinscena.

«Adesso possono tornare dalle loro mogli, dai loro figli affamati, e dire: “Combatteremo contro gli usurpatori! Quando vinceremo, avrete di nuovo la pancia piena.” E questo li aiuterà a dimenticare la loro fame, per un po’.»

La faccia di Kharas si contorse per l’angoscia. «Ma perché arrivare fino a tanto? Potremmo certamente dividere quel poco che...»

«Amico mio,» replicò Duncan con voce sommessa, «per il martello di Reorx, sono pronto a giurare una cosa... se accettassi i loro termini, periremmo tutti. La nostra razza cesserebbe di esistere.»

Kharas lo fissò. «Fino a questo punto?» chiese.

Duncan annuì. «Sì, fino a questo punto. Pochi lo sanno, i capi dei clan, e adesso tu. E mi devi giurare di mantenere il segreto. Il raccolto è stato disastroso. I nostri forzieri sono quasi vuoti, e adesso dobbiamo ammassare tutto quello che possiamo per pagare questa guerra. Quest’inverno saremo costretti a razionare il cibo perfino per la nostra gente. Abbiamo calcolato che, con quello che abbiamo, ce la faremo... ma a stento. Aggiungi centinaia di bocche in più...» Scosse la testa.

Kharas rifletté, poi si drizzò. I suoi occhi scuri lampeggiavano. «Se questo è vero, allora sia!» disse in tono severo. «Meglio che moriamo tutti di fame, piuttosto che morire combattendo fra noi!»

«Nobili parole, amico mio,» rispose Duncan. Il rullare dei tamburi fece vibrare la stanza e voci profonde si levarono in esaltanti canti guerreschi, più antichi delle pietre di Pax Tharkas, più antichi, forse, delle stesse ossa del mondo. «Però le nobili parole non sono commestibili, Kharas. Non le puoi bere, o avvolgere intorno ai tuoi piedi, o bruciare nel tuo focolare, o darle ai bambini che strillano perché hanno fame.»

«E i bambini che piangeranno perché i loro padri se ne andranno per non tornare mai più?» chiese Kharas, con durezza.

Duncan sollevò un sopracciglio. «Piangeranno per un mese,» disse semplicemente «poi mangeranno la sua porzione di cibo. E non era questo che lui avrebbe voluto?»

Dette queste parole, si voltò e lasciò la Sala dei thane per salire ancora una volta sugli spalti.

Mentre Duncan informava Kharas nella Sala dei thane, Reghar Fireforge e il suo gruppo stavano conducendo i loro pelosi pony delle colline, destrieri di bassa statura, fuori dalla fortezza di Pax Tharkas. Le risate e le grida di scherno dei loro consanguinei risuonavano ancora nelle loro orecchie.

Reghar non disse una sola parola per molte ore, fino a quando non furono ben lontani dalla vista delle colossali doppie torri della fortezza. Poi, quando raggiunsero un incrocio, il vecchio nano tirò le redini e fece fermare la sua cavalcatura.

Rivolgendosi al più giovane membro del gruppo, disse con voce risoluta, priva di emozioni:

«Prosegui verso nord, Darren Ironfist.» Il vecchio nano tirò fuori una logora borsa di cuoio. Vi affondò dentro la mano e tirò fuori il suo ultimo pezzo d’oro. Rimase lì a fissarlo per un lungo istante, poi lo schiacciò nelle mani dell’altro nano. «Ecco, pagati il passaggio attraverso il Mare Nuovo. Trova questo Fistandantilus e digli... e digli...»

Reghar fece una pausa, rendendosi conto dell’enormità della sua azione. Ma non aveva altra scelta.

Era già stato deciso prima della sua partenza. Accigliandosi, ringhiò: «Digli che, quando arriverà qui, troverà ad aspettarlo un esercito pronto a combattere per lui!»

Capitolo secondo.

La notte era fredda e scura sopra le terre di Solamnia. Le stelle scintillavano, in alto, in un bagliore di luci ammiccanti. Le costellazioni del Drago di Platino, Paladine e Takhisis, Regina delle Tenebre, ruotavano l’una intorno all’altra, interminabilmente, e intorno ai Piatti della Bilancia di Gilean. Ci sarebbero voluti duecento anni, o anche più, prima che queste stesse costellazioni sparissero dal cielo mentre gli dei e gli uomini guerreggiavano per Krynn.

Per ora, ognuna si accontentava di sorvegliare l’altra.

Se l’una o l’altra divinità avesse casualmente abbassato lo sguardo, lui o lei si sarebbero forse divertiti nel vedere quelli che sembravano i flebili tentativi dell’umanità di imitare la loro gloria celeste. Sulle pianure di Solamnia, fuori della città-fortezza montana di Garnet, i fuochi dei bivacchi punteggiavano la piatta prateria, rischiarando la notte sottostante, allo stesso modo in cui le stelle illuminavano quella sovrastante.

L’esercito di Fistandantilus.

Le fiamme dei bivacchi si riflettevano sugli scudi e sui pettorali, danzavano sulle lame delle spade e lampeggiavano sulle punte delle lance. Le fiamme traevano luccichii dai volti fulgidi di speranza e di ritrovato orgoglio, ardevano negli occhi scuri della gente al seguito e guizzavano alte illuminando i giochi giulivi dei bambini.

Intorno ai bivacchi c’erano gruppi di uomini in piedi o seduti, che parlavano e ridevano, mangiavano e bevevano, lustrando e controllando le proprie attrezzature. L’aria della notte era piena di battute e imprecazioni e storie stravaganti. Qua e là gli uomini si sfregavano spalle e braccia doloranti a causa degli inusitati allenamenti, dando in gemiti di dolore. Mani callose per aver maneggiato zappe e vanghe per una vita intera erano adesso coperte di vesciche dopo aver impugnato lance. Ma queste vesciche venivano accettate con una benevola scrollata di spalle.

Questi uomini potevano vedere i loro bambini giocare intorno ai fuochi dei bivacchi, sapendo che quella sera avevano mangiato, se non bene, per lo meno in quantità adeguata. Potevano guardare in faccia la propria moglie con orgoglio. Per la prima volta dopo molti anni, quegli uomini avevano una meta, uno scopo, nella loro vita.

Alcuni sapevano che quella meta avrebbe potuto benissimo essere la morte, ma quelli che lo sapevano, accettavano questo fatto e lo capivano, e decidevano comunque di continuare in quell’impresa.

«Dopotutto,» si disse Garic, quando il suo sostituto venne a dargli il cambio al posto di guardia, «la morte arriva per tutti. È meglio che un uomo la incontri alla sfolgorante luce del sole, con in pugno la spada balenante, piuttosto che lasciarsi sorprendere da essa durante la notte, oppure soffocare sotto la stretta delle sue mani immonde e malefiche.»

Il giovane - adesso era fuori servizio - tornò al suo bivacco e recuperò un folto mantello dal suo sacco a pelo. Dopo aver mandato giù in fretta e furia una scodella di stufato di coniglio s’incamminò in mezzo ai fuochi dei bivacchi.

Diretto alla periferia del campo, camminava con passo deciso, ignorando numerosi inviti ad unirsi agli amici intorno ai falò. Rifiutò con cortesia e proseguì per la sua strada.

Pochi ci fecero caso. Molti, infatti, evitavano i falò durante la notte. Le ombre erano riscaldate dai sospiri sommessi, dai mormorii e dalle dolci risate.

Garic aveva un appuntamento in mezzo alle ombre, ma non con un’amante, anche se parecchie giovani donne al campo sarebbero state più che felici di condividere la notte con quel giovane e aitante nobiluomo. Arrivato a un grosso macigno, lontano dal campo e da altre compagnie, Garic si avvolse nel mantello, si sedette e aspettò.

Non aspettò a lungo.

«Garic?» chiese una voce esitante.

«Michael!» gridò Garic, con calore, balzando in piedi. I due uomini si strinsero la mano e poi, sopraffatti dall’emozione, si abbracciarono con trasporto.

«Cugino, quest’oggi, quando ti ho visto entrare nell’accampamento in sella al tuo destriero, non riuscivo a credere ai miei occhi!» continuò Garic, stringendo energicamente la mano dell’altro giovane, timoroso che potesse svanire nel buio.

«Né io ai miei,» dichiarò Michael, senza liberarsi dalla stretta del consanguineo, e cercando di sgombrare la sua gola da un’improvvisa nota rauca. Tossendo, si sedette sul macigno e Garic fece altrettanto. Entrambi rimasero in silenzio per qualche istante, mentre si schiarivano la gola e si sforzavano di essere duri e militareschi.

«Ho quasi creduto che tu fossi un fantasma,» disse Michael, facendo un vano tentativo di ridere.

«Ci avevano detto che eri morto...» La sua voce si spense e tossì di nuovo. «Questo maledetto clima umido,» borbottò. «Ti entra in gola...»

«Sono riuscito a fuggire,» disse Garic con voce sommessa. «Ma mio padre, mia madre e mia sorella non hanno avuto altrettanta fortuna.»

«Anne?» mormorò Michael con voce addolorata.

«È morta in fretta,» spiegò Garic, quasi sussurrando, «come mia madre. Ci ha pensato mio padre, prima che la folla lo massacrasse. La cosa li ha fatti inferocire. Hanno mutilato il suo corpo...»

La voce di Garic soffocò. Michael gli strinse il braccio, partecipando al dolore del cugino. «Era un uomo di nobili sentimenti, tuo padre. E morto come un vero cavaliere, difendendo la sua casa. Una morte migliore di quella che altri dovranno affrontare,» aggiunse, cupo, inducendo Garic a scoccargli un’occhiata penetrante. «Ma qual è la tua storia? Come hai fatto a sfuggire alla plebaglia? Dove sei stato durante quest’ultimo anno?»

«Non sono fuggito,» dichiarò Garic con amarezza. «Sono arrivato quando ormai era tutto finito. Dove mi trovassi non ha importanza.» Il giovane arrossì. «Ma avrei dovuto essere con loro, per morire con loro!»

«No, tuo padre non l’avrebbe voluto.» Michael scosse la testa. «Tu sei vivo. Porterai avanti il nome.»

Garic corrugò la fronte. I suoi occhi scintillarono tenebrosi. «Forse. Anche se da allora non ho più giaciuto con nessuna donna...» Scosse la testa. «In questo caso ho potuto fare per loro soltanto quello che ho potuto. Ho incendiato il castello...»

Il respiro di Michael si fece rapido, ma Garic continuò, come se non l’avesse notato:

«In modo che la marmaglia non potesse occuparlo. Le ceneri della mia famiglia rimangono là fra le pietre annerite del maniero edificato dal mio trisavolo. Poi per un po’ ho vagato senza una meta, senza che nulla m’importasse di quello che poteva capitarmi. Alla fine ho incontrato un gruppo di uomini, molti come me, cacciati dalle loro case per varie ragioni.

«Non mi fecero nessuna domanda. Non gl’importava nulla di me, salvo il fatto che sapevo maneggiare una spada con destrezza. Mi unii a loro. E siamo vissuti di espedienti.»

«Banditi?» chiese Michael, cercando di celare una nota di sorpresa nella voce, ma a quanto pare senza riuscirci, poiché Garic gli lanciò un’occhiata tenebrosa.

«Sì, banditi,» replicò il giovane con freddezza. «La cosa ti sconvolge? Che un Cavaliere di Solamnia debba talmente dimenticarsi del Codice e della Misura al punto di unirsi a dei banditi? Ti chiedo una cosa, Michael: dov’erano il Codice e la Misura quando hanno assassinato mio padre, tuo zio? Dove sono mai, in questo disgraziato paese?»

«In nessun luogo, forse,» rispose Michael, con voce ferma, «salvo che nei nostri cuori.»

Garic rimase silenzioso. Poi cominciò a piangere, aspri singhiozzi che gli squassavano il corpo. Suo cugino lo prese tra le braccia, tenendolo stretto a sé. Garic dette in un sospiro tremante e si asciugò gli occhi col dorso della mano.

«Non ho pianto una sola volta da quando li ho incontrati,» disse con voce soffocata. «E hai ragione, cugino. Vivendo con dei furfanti, ero affondato in un baratro dal quale forse non sarei mai riuscito a fuggire, se non fosse stato per il generale...»

«Questo Caramon?»

Garic annuì. «Una notte abbiamo teso un’imboscata a lui e ai suoi. E questo mi ha aperto gli occhi.

Prima avevo sempre derubato la gente senza pensarci troppo e, talvolta, ne avevo addirittura tratto piacere. Mi dicevo che erano dei cani come quelli che avevano assassinato mio padre. Ma in quel gruppo c’erano una donna e un fruitore di magia. Lo stregone era malato. L’ho colpito e al mio tocco si è accasciato come una bambola spezzata. E la donna, sapevo cosa le avrebbero fatto e il pensiero mi disgustava. Ma avevo paura del capo, Piedacciaio lo chiamavano. Era una bestia! Un mezz’orco.

«Ma il generale lo ha sfidato. Quella notte ho visto la vera nobiltà: un uomo disposto a dare la sua vita per proteggere quella dei più deboli di lui. E ha vinto.» Garic divenne più calmo. Mentre parlava, i suoi occhi scintillavano per l’ammirazione. «Allora ho visto quello che la mia vita era diventata. Quando Caramon ci ha chiesto se volevamo seguirlo, io ho acconsentito, come ha fatto la maggior parte degli altri. Ma quello che avrebbero fatto loro non avrebbe avuto nessuna importanza, sarei andato con lui dovunque.»

«E adesso fai parte della sua guardia personale?» chiese Michael, sorridendo.

Garic annuì, arrossendo per il compiacimento. «Gli... gli ho detto che non ero meglio degli altri... che ero un bandito, un ladro. Ma lui si è limitato a guardarmi, come se potesse vedere dentro la mia anima, e ha sorriso... e ha detto che ogni uomo avrebbe dovuto attraversare una notte tenebrosa e senza stelle, in modo che quando fosse sorto il mattino, si sarebbe sentito colmo di sollievo.»

«Strano,» commentò Michael. «Chissà cos’ha voluto dire.»

«Credo di aver capito,» replicò Garic. Il suo sguardo andò al lato più lontano del campo, là dove si ergeva l’enorme tenda di Caramon; il fumo dei fuochi si arricciava intorno alla svolazzante bandiera di seta che era una striscia nera sullo sfondo delle stelle. «Talvolta mi chiedo se anche lui non stia attraversando la sua “notte tenebrosa”. Qualche volta ho visto un’espressione sulla sua faccia...»

Garic scosse la testa. «Sai,» disse all’improvviso, «che lui e lo stregone sono fratelli gemelli?»

Michael spalancò gli occhi. Garic glielo confermò con un cenno del capo. «È uno strano rapporto. Non c’è amore fra loro.»

«Una Veste Nera?» chiese Michael, sbuffando. «Immagino proprio di no! Già mi meraviglia che il mago viaggi con noi. Da quello che ho sentito dire, questi stregoni possono cavalcare i venti della notte ed evocare forze dalle tombe perché combattano per loro.»

«Questo, lui potrebbe farlo, non ne dubito,» rispose Garic, lanciando un’occhiata cupa a una tenda più piccola accanto a quella del generale. «Anche se l’ho visto praticare la sua magia soltanto una volta, quand’eravamo nell’accampamento dei banditi, so che è potente. Una sola sua occhiata, e mi sento raggrinzire lo stomaco, qui dentro, e il sangue mi diventa acqua. Ma, come ho detto, non stava bene quando li abbiamo incontrati la prima volta. Notte dopo notte, quando ancora dormiva nella tenda di suo fratello, l’ho sentito tossire al punto che pensavo che non sarebbe più riuscito a respirare. Più di una volta mi sono chiesto come sia possibile che un uomo possa vivere con un simile dolore.»

«Ma oggi, quando l’ho visto, pareva che stesse bene.»

«La sua salute è enormemente migliorata. Però non fa nulla per metterla a repentaglio. Rimane tutto il giorno nella sua tenda a studiare i libri degli incantesimi che porta con sé in quelle enormi casse. Ma anche lui sta attraversando la sua “notte tenebrosa”,» continuò Garic, «un’ombra grava su di lui, e più ci spostiamo a sud, più aumenta. È ossessionato da sogni terribili. L’ho sentito gridare nel sonno. Grida orrende, che sveglierebbero i morti.»

Michael rabbrividì, poi, sospirando, aguzzò lo sguardo in direzione della tenda di Caramon. «Avevo delle grandi perplessità a unirmi ad un esercito guidato, dicevano, da una Veste Nera. E fra tutti gli stregoni vissuti finora, si dice che questo Fistandantilus sia il più potente. Quest’oggi, quando sono arrivato, non mi ero ancora completamente impegnato ad arruolarmi. Volevo rifletterci su quanto bastava per controllare se era vero che andavano a sud ad aiutare il popolo oppresso di Abanasinia nella sua lotta contro i nani delle montagne.»

Sospirando di nuovo fece un gesto come per accarezzarsi un paio di lunghi baffi, ma la sua mano si fermò a mezz’aria. Era rasato, avendo rimosso quel secolare simbolo dei Cavalieri: un simbolo che, oggi, conduceva alla morte.

«Anche se mio padre vive ancora, Garic,» proseguì Michael «credo che sarebbe più che disposto a morire per ridare la vita a tuo padre. Il signore di Vingaard Keep ci diede una scelta: potevamo rimanere in città e morire, oppure andarcene e vivere. Mio padre avrebbe scelto di morire. E anch’io, se avessimo avuto soltanto noi stessi a cui pensare. Ma non potevamo permetterci il lusso dell’onore. Fu un giorno amaro quello in cui imballammo tutto quello che potevamo su un misero carretto, e lasciammo il maniero. Ho visto i miei congiunti sistemarsi in un orribile casolare a Throtyl. Saranno a posto, almeno per l’inverno. Mia madre è forte e fa il lavoro di un uomo. I miei fratelli più giovani sono buoni cacciatori...»

«E tuo padre?» chiese Garic con delicatezza, quando Michael smise di parlare.

«Quel giorno il suo cuore si è spezzato,» si limitò a dire Michael. «Se ne sta lì seduto con lo sguardo fisso fuori dalla finestra, con la spada sulle ginocchia. Non ha detto una parola a nessuno dal giorno che abbiamo abbandonato il maniero.»

D’un tratto Michael strinse i pugni. «Perché ti sto mentendo, Garic? Non m’importa un accidente della gente oppressa di Abanasinia! Sono venuto per cercare il tesoro... il tesoro sotto la montagna! E la gloria. La gloria per riportare la luce nei suoi occhi! Se vinceremo, i Cavalieri potranno risollevare la testa!»

Anche lui fissò la piccola tenda accanto a quella più grande, la piccola tenda che portava appeso il segno indicante la residenza di uno stregone, la piccola tenda che tutti, nel campo, evitavano se era possibile. «Ma cercare questa gloria guidati dall’uomo chiamato l’Oscuro... I Cavalieri di un tempo non avrebbero mai fatto una cosa del genere. Paladine...»

«Paladine si è dimenticato di noi,» dichiarò Garic, in tono amaro. «Siamo rimasti soli. Io non so niente di stregoni vestiti di nero, m’importa poco di quello. Rimango qui per un uomo soltanto, che sono pronto a seguire in capo al mondo: il generale. Se mi condurrà alla fortuna, tanto meglio. In caso contrario...» Garic emise un profondo sospiro. «Comunque, quell’uomo mi ha permesso di ritrovare la pace con me stesso. Potrei desiderare lo stesso per lui,» aggiunse sottovoce. Poi, alzandosi in piedi, si scrollò di dosso i tetri pensieri.

Anche Michael si alzò.

«Ora devo tornare al campo e dormire un po’. Domattina dovrò alzarmi presto,» disse Garic.

«Riprenderemo la nostra marcia entro la settimana, così ho sentito dire in giro. Bene, cugino, e tu? Rimarrai?»

Michael guardò Garic. Fissò per lunghi istanti la tenda di Caramon, la bandiera dai vivaci colori con la stella a nove punte che sbatteva nell’aria gelida. Fissò anche la piccola tenda dello stregone. Poi annuì. Garic lo gratificò di un ampio sorriso. I due si strinsero la mano con forza e fecero ritorno ai fuochi dei bivacchi, con le braccia dell’uno strette intorno a quelle dell’altro.

«Dimmi questo, però,» chiese Michael a Garic con voce sommessa mentre camminavano, «è vero che questo Caramon ha con sé una strega?»

Capitolo terzo.

«Dove stai andando?» chiese Caramon, con asprezza. Appena entrato nella sua tenda stava sbattendo le palpebre cercando di abituarsi alla penombra dopo il gelido bagliore del sole d’autunno.

«Sto andando via,» rispose Crysania, ripiegando con cura le sue bianche vesti chiericali e riponendole nella cassa che era stata sistemata sotto la sua branda. Adesso la cassa si trovava, aperta, sul pavimento accanto a lei.

«Ne avevamo già discusso,» ringhiò Caramon a bassa voce. Lanciando un’occhiata dietro di sé, verso le guardie appena fuori dell’ingresso, abbassò con cura la falda della tenda.

Per Caramon, quella tenda era motivo di orgoglio e di gioia. In origine era appartenuta ad un ricco Cavaliere di Solamnia, ed era stata portata in dono a Caramon da due giovani dal volto severo i quali, malgrado sostenessero di averla «trovata», avevano mostrato di trattarla con tanta amorevolezza e abilità che era ovvio che l’avevano trovata allo stesso modo in cui avevano «trovato» le loro braccia e le loro gambe.

Fatta di un tessuto che nessuno, più, riusciva oggi a identificare, era tessuta con tale perizia da bloccare l’ingresso del più sottile alito di vento, anche attraverso le giunture. La pioggia scorreva via senza bagnarla: Raistlin aveva affermato che era stata trattata con un olio speciale. Era grande abbastanza da contenere la branda di Caramon, parecchie grandi casse che contenevano le mappe, il denaro e i gioielli che avevano portato con sé dalla Torre della Grande Stregoneria, indumenti e armature; oltre a una branda per Crysania e una cassa per i suoi indumenti. Ma anche così, la tenda non sembrava colma, neppure quando Caramon riceveva i visitatori.

Raistlin dormiva e studiava in una tenda più piccola, di uguale modello e fatta dello stesso tessuto, piantata accanto a quella del fratello. Malgrado Caramon gli avesse offerto di condividere la tenda più grande, il mago aveva insistito per avere un ambiente tutto suo. Sapendo quanto il suo gemello avesse bisogno di solitudine e tranquillità, e non provando comunque nessun particolare piacere a trovarsi gomito a gomito con suo fratello, Caramon non aveva insistito.

Crysania, però, si era apertamente ribellata quando le era stato detto che doveva rimanere nella tenda di Caramon.

Caramon aveva ragionato invano che là dentro sarebbe stata più al sicuro. Le storie della sua «stregoneria», lo strano medaglione di un dio disprezzato che portava al collo, e il fatto stesso di aver guarito il grosso guerriero, erano tutte notizie che si erano ben presto diffuse in tutto l’accampamento, e venivano bisbigliate con foga ad ogni nuovo venuto. Tutte le volte che il chierico lasciava la sua tenda, la sua persona diventava il bersaglio di cupe occhiate. Le donne stringevano al seno i figlioletti quando Crysania si avvicinava. I bambini fuggivano alla sua vista in preda a una paura che era per metà vera e per metà derisione.

«Sono ben consapevole delle tue argomentazioni,» osservò Crysania, continuando a piegare i propri indumenti e a metterli nella cassa senza sollevare lo sguardo sull’omone. «E non li ammetto. Oh,» si affrettò a fermarlo quando lui tirò un respiro per parlare, «ho sentito le tue storie sulle streghe mandate al rogo. E più di una volta! Non dubito della loro validità, ma sono cose accadute in un’epoca e in un tempo molto lontani da questo.»

«In che tenda andrai?» chiese Caramon, arrossendo. «In quella di mio fratello?»

Crysania smise di ripiegare gli indumenti, tenendoli per lunghi istanti sul braccio e fissando l’aria davanti a sé. Il suo volto non cambiò colore. Impallidì, se era possibile, di un’altra sfumatura.

Strinse con forza le labbra. Quando rispose, la sua voce era fredda e calma come una giornata d’inverno.

«C’è un’altra piccola tenda simile alla sua. Andrò a vivere in quella. Puoi mettere una sentinella, se lo giudichi necessario.» «Crysania, mi dispiace,» disse Caramon, andando verso di lei. Crysania continuò a non guardarlo. Protendendo le mani, le afferrò delicatamente le braccia e la fece girare, costringendola a guardarlo in viso. «Non... non intendevo dire questo. Per favore, perdonami. E, sì, penso sia necessario mettere qualcuno di sentinella! Ma non c’è nessuno di cui io mi fidi, Crysania, se non di me stesso. Ma anche in questo caso...» Il suo respiro divenne più rapido, le mani sulle sue braccia si strinsero quasi impercettibilmente. «Ti amo, Crysania,» disse con voce sommessa. «Non sei come nessuna delle altre donne che ho conosciuto! Non intendevo... Non so come sia successo. Non... non mi piacevi neppure tanto, la prima volta che ti ho incontrato. Pensavo che tu fossi fredda e indifferente, tutta imbottita di quella tua religione. Ma quando ti ho visto negli artigli di quel mezz’orco, e ho conosciuto il tuo coraggio, e quando ho pensato a quello... a quello che avrebbe potuto farti...»

La sentì fremere involontariamente; quella notte le causava ancora degli incubi. Crysania cercò di replicare, ma Caramon approfittò della sua reazione per affrettarsi a proseguire:

«Ti ho visto con mio fratello. Mi ricorda com’ero ai vecchi tempi,» la sua voce divenne nostalgica,

«tu ti curi di lui con tanta tenerezza, con tanta pazienza...»

Crysania non si liberò dalla sua stretta. Rimase là, sollevando su di lui i limpidi occhi grigi, tenendo la veste bianca ripiegata stretta al petto. «Anche questa è una ragione, Caramon,» replicò con tristezza. «Ho sentito il tuo crescente affetto per me...» adesso arrossì lievemente, «... e, pur conoscendoti troppo bene per credere che tu voglia impormi delle attenzioni che io considererei sgradite, non mi sento a mio agio a dover dormire nella stessa tenda insieme a te.»

«Crysania!» cominciò a dire Caramon, il volto angosciato, le mani che gli tremavano mentre la stringeva.

«Quello che provi per me non è amore, Caramon,» replicò Crysania con voce sommessa. «Sei solo, senti la mancanza di tua moglie. E lei che ami. Lo so, ho visto la tenerezza nei tuoi occhi quando parli di Tika.»

Il volto di Caramon si rabbuiò al suono del nome di Tika.

«Cosa ne sai tu dell’amore?» le chiese d’un tratto, mollando la stretta e guardando altrove. «Amo Tika, certo. Ho amato molte donne. Anche Tika ha amato la sua parte di uomini, scommetto.» Tirò un respiro rabbioso. Non era vero, e lo sapeva. Ma alleviava il suo senso di colpa, un senso di colpa con cui aveva lottato per mesi. «Tika è umana!» proseguì imbronciato. «È carne e sangue, non un pilastro di ghiaccio!»

«Cosa io so dell’amore?» ripetè Crysania, la calma le venne meno, i suoi occhi grigi s’incupirono di collera. «Ti dirò cosa so dell’amore. Io...»

«Non dirlo!» gridò Caramon, rauco, perdendo completamente il controllo di sé e stringendola fra le braccia. «Non dire che ami Raistlin! Lui non merita il tuo amore! Ti usa proprio come ha usato me! E ti butterà via quando avrà finito!»

«Lasciami andare!» gli intimò Crysania, le guance imporporate, gli occhi d’un grigio cupo.

«Non riesci a capire?» gridò ancora Caramon, quasi scuotendola, tanta era la sua frustrazione. «Sei cieca?»

«Scusatemi se v’interrompo,» disse una voce sommessa, «ma ci sono notizie urgenti.»

Al suono di quella voce, il volto di Crysania si sbiancò, poi divenne scarlatto. Anche Caramon dette in un sobbalzo a quel suono e le sue mani lasciarono la presa. Crysania si ritrasse da lui e nella fretta inciampò sulla cassa, cadendo sui ginocchi. Il volto ben nascosto dai lunghi e morbidi capelli neri, rimase genuflessa accanto alla cassa, fingendo di mettere ordine fra le sue cose con le mani che le tremavano.

Accigliato, il volto ugualmente tinto d’un rosso acceso, Caramon si voltò per fronteggiare suo fratello.

Raistlin squadrò freddamente Caramon con gli occhi simili a specchi. Il suo volto era privo d’espressione, come non c’era stata nessuna espressione nella sua voce quando aveva parlato, nel momento in cui era entrato. Ma Caramon aveva visto, per una frazione di secondo, i suoi occhi che si crepavano. La gelosia tenebrosa e ardente che aveva visto dentro di essi lo sgomentò, colpendolo quasi come un pugno che gli fosse stato sferrato fisicamente. Ma quell’espressione era scomparsa nel medesimo istante, facendo dubitare a Caramon di averla vista veramente. Soltanto la sensazione di soffocamento e la contorsione alla bocca dello stomaco e un improvviso sapore amaro in bocca lo convinsero che c’era stata.

«Quali notizie?» ringhiò, schiarendosi la gola.

«Sono arrivati dei messaggeri dal sud,» annunciò Raistlin.

«Sì?» lo sollecitò Caramon, quando suo fratello fece una pausa.

Raistlin si fece avanti, buttando indietro il cappuccio, il suo sguardo rimase fisso su quello di suo fratello, vincolandolo a sé, rendendo più stretta la somiglianza fra loro. Per un istante la maschera del mago svanì.

«I nani di Thorbardin si stanno preparando alla guerra!» sibilò Raistlin, serrando a pugno la mano sottile. Aveva parlato con tanta, intensa passione che Caramon ammiccò più volte per lo stupore e Crysania sollevò la testa, fissandolo preoccupata.

Confuso e a disagio, Caramon si svincolò dallo sguardo febbrile di suo fratello e si voltò, fingendo di sfogliare alcune mappe sul tavolo. Infine scrollò le spalle. «Non so che altro ti aspettavi,» dichiarò con freddezza. «Dopotutto l’idea è stata tua. Parlare di una ricchezza nascosta. Non abbiamo certo tenuto segreto che è là che stiamo andando. In effetti, è diventato il nostro motto ufficiale per reclutare gente! “Unitevi a Fistandantilus e razziate la montagna!”»

Caramon l’aveva buttata là senza pensarci, ma il suo effetto fu sorprendente. Raistlin divenne livido.

Parve che stesse cercando di parlare, ma nessun suono comprensibile gli uscì dalle labbra, soltanto una schiuma chiazzata di sangue. I suoi occhi infossati balenarono come una luna su un lago ghiacciato. Sempre serrando il pugno, fece un passo verso suo fratello.

Crysania balzò in piedi. Caramon, in preda a un vivo allarme, fece un passo indietro chiudendo la mano sopra l’elsa della spada. Ma lentamente, e con visibile sforzo, Raistlin recuperò il controllo di sé. Con un ringhio feroce, si girò e uscì dalla tenda... ma la sua intensa rabbia era ancora così evidente che le sentinelle rabbrividirono quando passò accanto a loro.

Caramon rimase immobile, smarrito nella confusione e nella paura, incapace di comprendere perché suo fratello avesse reagito a quel modo. Anche Crysania seguì l’uscita di Raistlin con sguardo perplesso, fino a quando le grida fuori della tenda li ridestarono entrambi dai loro pensieri.

Scuotendo la testa, Caramon si avvicinò all’ingresso. Una volta là, fece un mezzo giro su se stesso, ma non guardò Crysania mentre parlava.

«Se ci stiamo davvero preparando alla guerra,» disse con freddezza, «non posso impegnare il mio tempo a preoccuparmi di te. Come ho già detto prima, non sarai sicura, tutta sola in una tenda. Perciò, continuerai a dormire qui. Non t’importunerò in alcun modo, puoi essere sicura. Hai la mia parola d’onore.»

Detto questo, uscì dalla tenda e cominciò a conferire con le sentinelle.

Arrossendo dalla vergogna, ma arrabbiata al punto da non riuscire a parlare, Crysania rimase per qualche istante là nella tenda, per recuperare la propria compostezza. Poi anche lei uscì. Un’occhiata ai volti delle sentinelle le fu sufficiente per rendersi conto che, malgrado lei e Caramon avessero tenuto bassa la voce, parte della loro conversazione era stata udita.

Ignorando le loro occhiate curiose e divertite, si guardò rapidamente intorno e vide uno sventolio di vesti nere scomparire nella foresta. Tornata dentro la tenda, raccolse il suo mantello, e buttandoselo rapidamente sulle spalle uscì e puntò nella stessa direzione.

Caramon vide Crysania entrare nel bosco nel punto in cui era più vicino al campo. Non aveva visto Raistlin, ma ebbe ugualmente un’idea abbastanza precisa del perché Crysania andasse in quella direzione. Fece per chiamarla. Malgrado non gli risultasse che qualche vero pericolo si annidasse nella folta foresta di pini che si stendeva alla base dei monti Garnet, visti i tempi incerti era meglio non correre rischi.

Ma, proprio mentre stava per aprire la bocca e chiamarla, vide due dei suoi uomini scambiarsi occhiate d’intesa. Caramon ebbe un’improvvisa, vivida immagine di se stesso che chiamava il chierico come un ragazzino innamorato, e strinse di colpo le mascelle. Inoltre, vide che Garic stava arrivando, seguito da un nano dall’aria affaticata e da un giovane alto dalla pelle scura, abbigliato con le pellicce e le piume di un barbaro.

Caramon capì che erano i messaggeri. Avrebbe dovuto incontrarli. Ma il suo sguardo andò ancora una volta alla foresta. Crysania era scomparsa. Caramon fu colto da una premonizione di pericolo.

Era così intensa che fu quasi sul punto di lanciarsi senza esitare al suo inseguimento attraverso gli alberi. Ogni suo istinto di guerriero gli diceva di farlo. Non poteva dare un nome alla sua paura, ma questa era là, ed era reale.

Eppure, non poteva correr via, abbandonare quegli emissari per precipitarsi all’inseguimento di una ragazza. I suoi uomini non l’avrebbero mai più rispettato. Avrebbe potuto mandare uno dei suoi uomini armati, ma ciò lo avrebbe fatto apparire altrettanto sciocco. Non c’era niente che potesse fare. Che Paladine si occupasse di lei, se era questo che lei voleva. Serrando i denti, Caramon si girò per accogliere i messaggeri e condurli nella sua tenda.

Una volta là, una volta che li avesse fatti accomodare e avesse scambiato con loro cortesie formali e senza senso, una volta che il cibo fosse stato portato e le bevande versate, si sarebbe scusato e sarebbe sgusciato via da dietro...

Orme di passi sulla sabbia che mi guidano...

Sollevando lo sguardo vedo il patibolo, la figura incappucciata con la testa sul ceppo, la figura incappucciata del boia, la lama affilata dell’ascia che luccica al sole ardente.

L’ascia cade, la testa recisa della vittima rotola sulla piattaforma di legno, il cappuccio vola via...

«La mia testa!» bisbigliò Raistlin con voce febbricitante, torcendosi le mani sottili in preda all’angoscia.

Il boia, ridendo, si toglie il cappuccio, rivelando...

«La mia faccia!» mormorò Raistlin mentre la paura gli si diffondeva per tutto il corpo come un tumore maligno, facendolo sudare e rabbrividire alternativamente. Stringendosi la testa, cercò di bandire le visioni maligne che infestavano continuamente i suoi sogni, notte dopo notte, e si attardavano turbando anche le sue ore di veglia, trasformando in cenere nella sua bocca tutto ciò che mangiava o beveva.

Ma non volevano andarsene. «Maestro del Passato e del Presente!» Raistlin scoppiò in una vuota risata: una risata amara, beffarda. «Non sono maestro di nulla! Tutta questa potenza, e sono in trappola. In trappola! Condannato a seguire le sue orme, sapendo che ogni istante che passa è già passato prima! Vedo gente che non ho mai visto, eppure la conosco! Sento l’eco delle mie parole prima ancora di pronunciarle! Questa faccia!» Si premette le guance con le mani. «Questa faccia! La sua faccia! Non la mia! Non la mia! Chi sono io? Sono il mio stesso boia!»

La sua voce divenne un lungo urlo stridulo. Colto dal parossismo, senza rendersi conto di ciò che stava facendo, Raistlin cominciò ad artigliarsi la pelle con le unghie come se la sua faccia fosse una maschera, e gli fosse possibile strapparsela dalle ossa.

«Smettila, Raistlin! Cosa stai facendo? Smettila, per favore!»

Riusciva appena a sentire la voce. Mani gentili ma ferme gli afferrarono i polsi, ma lui le respinse lottando. E, poi, la follia cessò. Le acque buie e spaventose nelle quali stava affogando retrocessero, lasciandolo calmo e prosciugato. Ancora una volta poteva vedere, sentire e ascoltare. Il volto gli bruciava. Abbassando lo sguardo, vide sangue sulle proprie unghie.

«Raistlin!» Era la voce di Crysania. Sollevò lo sguardo e la vide dritta davanti a lui che gli teneva le mani scostate dal viso. Lo fissava con occhi sgranati, pieni di preoccupazione.

«Sto bene,» disse Raistlin, in tono gelido. «Lasciami solo!» Ma, proprio mentre parlava, sospirò e tornò ad abbassare la testa, rabbrividendo quando l’orrore del sogno lo investì. Tirò fuori un fazzoletto pulito dalla tasca e cominciò a detergersi le ferite sul viso.

«No, non è vero,» mormorò Crysania, togliendogli il fazzoletto dalla mano tremante e toccandogli con delicatezza quei tagli sanguinanti. «Per favore, lasciamelo fare,» disse, mentre Raistlin ringhiava qualcosa d’inintelligibile. «So che non mi permetterai di guarirti, ma qui vicino c’è un limpido ruscello. Vieni, e bevi un po’ d’acqua, riposati e lascia che ti lavi io le ferite.»

Parole amare e taglienti erano sulle labbra di Raistlin. Sollevò una mano per respingerla. Ma poi si rese conto di non volere che lei se ne andasse. Quando Crysania era con lui, la tenebra del sogno si allontanava. Il tocco della calda pelle umana era confortante dopo le dita gelide della morte.

E così annuì con uno stanco sospiro.

Pallida in volto per l’angoscia e la preoccupazione, Crysania gli mise un braccio intorno alla vita per sostenere i suoi passi esitanti, e Raistlin si lasciò condurre attraverso la foresta, acutamente conscio del calore e del movimento del suo corpo.

Raggiunta la sponda del ruscello, l’arcimago si sedette su una grande roccia piatta, riscaldata dal sole d’autunno. Crysania intinse il fazzoletto nell’acqua e, inginocchiatasi accanto a lui, gli pulì le ferite sul viso. Le foglie morenti cadevano tutt’intorno a loro, ovattando i suoni; quelle che cadevano nel ruscello venivano trascinate via dall’acqua.

Raistlin non parlò. Il suo sguardo seguiva il percorso delle foglie, notando come ciascuna di esse, in alto, si tenesse aggrappata al ramo con le sue ultime, deboli forze, finché il vento spietato non le strappava dal loro appiglio, facendole poi turbinare nell’aria, e quindi nell’acqua: le seguiva mentre venivano portate via nell’oblio dal torrente che scorreva veloce. Guardando nell’acqua, tra le foglie vide ondeggiare il riflesso del suo viso. Vide due lunghi segni sanguinanti che gli scendevano lungo ogni guancia, vide i suoi occhi, non più simili a specchi, ma scuri e ossessionati. Vide la paura, e si osservò, beffardo, ridendo di se stesso.

«Dimmi,» disse Crysania, con voce esitante, cessando per un momento le sue cure e appoggiandogli una mano sulle sue, «dimmi cosa c’è che non va. Non riesco a capire. Sei imbronciato da quando abbiamo lasciato la Torre. Ha qualcosa a che fare con la sparizione del Portale? Con quello che Astinus ti ha detto a Palanthas?»

Raistlin non rispose. Neppure la guardò. Il sole era caldo sulle sue vesti nere, il tocco di lei era più caldo del sole. Ma, da qualche parte, una porzione della sua mente valutava, calcolava con freddezza: dirglielo? Cosa posso guadagnarci? Più che se rimarrò zitto?

Sì... attirala più vicino, avvolgila, avvinghiala, abituala alla tenebra...

«So,» disse alla fine, dando l’impressione di parlare con riluttanza, eppure, per qualche ragione, continuando a non guardarla mentre parlava, ma fissando l’acqua, «che il Portale si trova in un luogo vicino a Thorbardin, nella fortezza chiamata Zhaman. Questo ho scoperto tramite Astinus.

«La leggenda ci dice che Fistandantilus intraprese quelle che qualcuno chiama le Guerre della Porta del Nano, così da poter rivendicare come proprio il regno della montagna di Thorbardin. Astinus riferisce praticamente la stessa cosa nelle sue Cronache,» la voce di Raistlin suonò amareggiata,

«praticamente la stessa cosa! Ma leggi fra le righe, leggi con attenzione, come io avrei dovuto leggere ma, nella mia leggerezza, non ho fatto, e leggerai la verità.»

Strinse i pugni. Crysania sedeva davanti a lui, ascoltando incantata, dimentica del panno umido, chiazzato di sangue, che stringeva ancora in mano con forza.

«Fistandantilus è venuto qui per fare la stessa medesima cosa che sono venuto a fare io!» Le parole di Raistlin sibilarono con una strana, sinistra passione. «Non gl’importava niente di Thorbardin! Era tutto un imbroglio, un espediente! Voleva soltanto una cosa: raggiungere il Portale! I nani glielo impedirono, così come lo impediscono a me. Allora controllavano la fortezza, controllavano il paese per molte miglia intorno ad essa. Il solo modo che lui aveva per raggiungerlo era quello d’iniziare una guerra così da arrivare abbastanza vicino ad esso da riuscire ad accedervi! E così la storia si ripete.

«Poiché io devo fare quello che ha fatto lui... lo sto facendo!»

Con espressione amareggiata fissò in silenzio l’acqua.

«Da quello che ho letto nelle Cronache di Astinus,» cominciò Crysania, parlando con esitazione, «la guerra ci sarebbe stata lo stesso. Da molto tempo c’era cattivo sangue fra i nani delle colline e i loro cugini. Non puoi biasimarti...»

Raistlin sbottò con impazienza. «Non m’importa niente dei nani! Possono sprofondare nel Sirrion, per quello che me ne importa!» Adesso la fissò con freddezza, l’occhio fermo. «Hai detto di aver letto quella parte dell’opera di Astinus che riguarda questo periodo. Se è così, pensaci! Cos’è che ha causato la fine delle Guerre dei Nani?»

Gli occhi di Crysania divennero sfocati mentre esplorava i recessi della propria mente, cercando di ricordare. Poi il suo volto impallidì. «L’esplosione, disse con voce sommessa. L’esplosione che distrusse le Pianure di Dergoth. Morirono a migliaia, e anche...»

«Anche Fistandantilus!» esclamò Raistlin, con cupa enfasi.

Per lunghi momenti Crysania riuscì solamente a fissarlo, in silenzio. Poi si rese conto di ciò che aveva voluto dire. «Oh, ma sicuramente non può essere!» gridò, lasciando cadere il fazzoletto chiazzato di sangue e stringendo le mani di Raistlin fra le sue. «Tu non sei la stessa persona! Le circostanze sono diverse... devono esserlo! Hai commesso un errore!»

Raistlin scosse la testa sorridendo cinicamente. Liberando con delicatezza le sue mani da quelle di lei, tese un braccio e le sfiorò il mento, sollevandole la testa in modo che lei lo guardasse direttamente negli occhi. «No, le circostanze non sono diverse. Non ho commesso nessun errore. Sono rimasto invischiato nel tempo, e sto precipitando verso la mia fine.»

«Come lo sai? Come puoi esserne certo?»

«Lo so perché... un altro è perito con Fistandantilus, quel giorno.»

«Chi?» chiese Crysania, ma ancora prima che lui glielo dicesse, sentì un tenebroso manto di paura posarsi sulle sue spalle, ricadendole intorno con un sussurro sommesso come di foglie morenti.

«Un tuo vecchio amico.» Il sorriso di Raistlin si contorse. «Denubis!»

«Denubis!» ripetè lei, senza emettere un suono.

«Sì,» rispose Raistlin, lasciando che le sue dita seguissero inconsciamente il profilo della mascella di lei e prendendole il mento nella coppa della mano. «Questo l’ho appreso da Astinus. Se ricorderai, il tuo amico chierico era già stato attirato da Fistandantilus, anche se rifiutava di ammetterlo a se stesso. Nutriva dubbi sulla chiesa, proprio come te. Posso soltanto supporre che durante quegli ultimi orrendi giorni a Istar, Fistandantilus l’abbia convinto a venire...»

«Non hai convinto me,» lo interruppe Crysania con fermezza. «Ho scelto io di venire! La decisione è stata mia.»

«Naturalmente,» annuì Raistlin con voce suadente, scostando le mani da lei. Non si era reso conto che le stava accarezzando la morbida pelle. Adesso, senza che lui lo volesse, sentì il proprio sangue che si agitava. Sentì che il suo sguardo andava alle sue labbra ricurve, al suo bianco collo. Ebbe un’improvvisa, vivida immagine di lei fra le braccia di suo fratello. Ricordò l’impetuoso impulso di gelosia che aveva provato.

«Questo non deve accadere!» si rimproverò. «Interferirà con i miei piani...» Fece per alzarsi, ma Crysania gli afferrò una mano con entrambe le sue e appoggiò la guancia sul suo palmo.

«No,» disse Crysania con voce sommessa, levando su di lui gli occhi grigi, risplendenti alla vivida luce del sole che filtrava attraverso le foglie, trattenendolo con il suo sguardo fermo. «Altereremo il tempo, tu ed io! Tu sei più potente di Fistandantilus. Nella mia fede io sono più forte di Denubis! Ho sentito ciò che il Gran Sacerdote esigeva dagli dei. Conosco il suo errore! Paladine risponderà alle mie preghiere come ha fatto in passato. Insieme, cambieremo il finale... tu ed io...»

Infervorati dalla passione delle sue stesse parole, gli occhi di Crysania s’incupirono diventando azzurri, la sua pelle, fresca sulla mano di Raistlin, s’imporporò diventando di un rosa delicato. Sotto le sue dita, Raistlin poteva sentire il sangue di Crysania pulsarle nel collo. Sentì la sua tenerezza, la sua dolcezza... e d’un tratto si ritrovò in ginocchio accanto a lei. Lei era fra le sue braccia. La bocca di Raistlin cercò le sue labbra, le sfiorò gli occhi, il collo. Le sue dita s’intrecciarono con i lunghi capelli scuri. La sua fragranza gli riempì le narici, e il soave aroma del desiderio gli riempì il corpo.

Crysania cedette al suo fuoco, come aveva ceduto alla sua magia, baciandolo con foga. Raistlin affondò nel cedevole tappeto di foglie morenti. Stendendosi, attirò Crysania su di sé, stringendola ancora più forte. La vivida luce del sole, nell’azzurro cielo autunnale, lo accecò. Il sole stesso picchiava sulle sue vesti nere con un calore insopportabile, quasi altrettanto insopportabile del dolore dentro il suo corpo.

La pelle di Crysania era fresca al suo tocco febbricitante, le sue labbra come acqua vivicatrice per un uomo che stesse morendo di sete. Si arrese alla luce, chiudendo gli occhi per proteggersi. E poi, l’ombra d’una faccia comparve nella sua mente, una dea: con i capelli scuri, gli occhi scuri, esultante, vittoriosa, che rideva...

***

«No!» gridò Raistlin. «No!» urlò con voce semistrozzata mentre scostava da sé Crysania con violenza. Tremante e stordito, si alzò in piedi barcollando. Alla luce del sole gli occhi gli bruciavano. Il calore sulle sue vesti era soffocante, e si sentì rantolare nel tentativo di respirare.

Riabbassandosi il cappuccio nero sulla testa, rimase là in piedi, tremante, cercando di recuperare la sua compostezza, il suo controllo.

«Raistlin!» gridò Crysania, aggrappandosi alla sua mano. La sua voce era calda di passione. Il nuovo contatto con lei peggiorò il dolore, proprio mentre prometteva di alleviarlo. La sua risolutezza cominciò a frantumarsi, il dolore lo lacerava...

Furioso, Raistlin liberò la mano con uno scatto. Poi, il volto cupo, allungò il braccio e afferrò il fragile tessuto bianco delle sue vesti. Con uno strattone glielo lacerò, strappandolo via dalle spalle, mentre con l’altra mano spingeva giù il suo corpo seminudo tra le foglie.

«È questo che vuoi?» chiese, con voce tesa per la rabbia. «Se è così, rimani qui ad aspettare mio fratello. Dovrebbe arrivare presto!»

S’interruppe, lottando per respirare.

Giacendo sulle foglie, vedendo la sua nudità riflessa in quegli occhi simili a specchi, Crysania si strinse al petto il tessuto strappato e lo fissò muta.

«È per ottenere questo che siamo venuti?» continuò Raistlin, spietato. «Pensavo che il tuo scopo fosse più elevato, Reverenda Figlia! Ti vanti di Paladine, ti vanti dei tuoi poteri. Pensavi che potesse essere questa la risposta alle tue preghiere? Che io sarei caduto vittima del tuo fascino?»

Quella frecciata colpì il segno. La vide sussultare, vide il suo sguardo esitare. Crysania chiuse gli occhi, e si gettò dall’altra parte, singhiozzando per l’angoscia, stringendo la veste stracciata al proprio corpo. I capelli neri le ricaddero sulle spalle nude, la pelle della sua schiena era bianca, morbida e liscia...

Raistlin si voltò di scatto e si allontanò. Camminò con passo veloce, e mentre camminava sentì tornargli la calma. Il dolore della passione si attenuò, consentendogli ancora una volta di pensare con chiarezza.

I suoi occhi intravidero un movimento, il lampeggiare di un’armatura. Il suo sorriso si contorse in una risata beffarda. Come aveva previsto, Caramon stava arrivando, lanciato alla ricerca di Crysania. Be’, erano ambedue i benvenuti a questo loro incontro. A lui, cosa importava?

Raggiunta la tenda, Raistlin entrò nei suoi bui, tenebrosi confini. La risata beffarda gli arricciava ancora le labbra ma, ricordando la sua debolezza, ricordando come avesse sfiorato il fallimento, ricordando - contro la sua volontà - le labbra calde e morbide di lei, si dissolse.

Tremando crollò su una sedia e affondò la testa tra le mani.

Ma il sorriso gli tornò mezz’ora più tardi, quando Caramon irruppe nella sua tenda. Il volto dell’omone era imporporato, gli occhi dilatati, la mano sull’elsa della spada.

«Dovrei ammazzarti, dannato bastardo!» ringhiò, con voce soffocata.

«E per cosa mai, questa volta, fratello mio?» chiese Raistlin con voce irritata, continuando a leggere il libro degli incantesimi che stava studiando. «Ho assassinato un altro dei tuoi beneamati kender?»

«Tu sai maledettamente bene per che cosa,» ruggì Caramon, con un’imprecazione. Avanzò a passi barcollanti, afferrò il libro degli incantesimi e lo chiuse con un tonfo. Le dita gli bruciarono quando toccò la sua rilegatura color azzurro notte, ma non sentì neppure il dolore. «Ho trovato Dama Crysania nel bosco, con la veste stracciata, che piangeva in modo straziante. Quei segni sul suo viso...»

«Sono stati fatti dalle mie mani. Non ti ha detto cos’è successo?» lo interruppe Raistlin.

«Sì, ma...»

«Non ti ha detto che si è offerta a me?»

«Non credo...»

«E che io l’ho respinta?» continuò Raistlin, gelido, incontrando lo sguardo di suo fratello senza batter ciglio.

«Arrogante figlio di una...»

«E adesso, è probabile che sieda piangente nella sua tenda, ringraziando gli dei perché l’amano tanto da apprezzare la sua virtù.» Raistlin se ne uscì in una risata amara e beffarda che trafisse Caramon come un pugnale avvelenato.

«Non ti credo,» replicò Caramon con voce sommessa. Ghermì suo fratello per le vesti, e lo strappò dalla sedia. «E neppure credo a lei! Direbbe qualsiasi cosa pur di proteggere il tuo miserabile...»

«Toglimi le mani di dosso, fratello!» disse Raistlin con un sussurro sommesso e deciso.

«Ti rivedrò nell’Abisso!»

«Ti ho detto, toglimi le mani di dosso!» Vi fu un lampo di luce azzurra, un crepitio ed uno sfrigolio, e Caramon urlò per il dolore, lasciando la presa quando una scossa traumatizzante si diffuse impetuosa in tutto il suo corpo.

«Ti avevo avvertito.» Raistlin si ravviò le vesti e riprese il suo posto.

«Per gli dei, questa volta ti ucciderò!» esclamò Caramon a denti stretti, sfoderando la spada con mano tremante.

«Allora fallo,» gli intimò Raistlin, alzando lo sguardo dal libro degli incantesimi che aveva riaperto.

«E che sia finita una volta per tutte. Questa costante minaccia comincia ad annoiarmi!»

C’era uno strano luccichio negli occhi del mago, quasi un desiderio, o addirittura un invito...

«Provaci!» bisbigliò, fissando suo fratello. «Prova ad ammazzarmi! Non tornerai mai più a casa...»

«Questo non ha importanza!» Smarrito nella sua sete di sangue, sopraffatto dalla gelosia e dall’odio, Caramon fece un passo verso suo fratello che sedeva, aspettando, con quella strana espressione bramosa sul volto sottile.

«Provaci!» gli ordinò di nuovo Raistlin. Caramon alzò la spada.

«Generale Caramon!» All’esterno echeggiarono voci allarmate, si udì un rumore di passi in corsa.

Con una imprecazione, Caramon frenò il suo fendente ed esitò, semiaccecato da lacrime di rabbia, fissando trucemente suo fratello.

«Generale... dove sei?» Le voci risuonarono più vicine, e c’erano altre voci in risposta dalle sue sentinelle, che indirizzavano alla tenda di Raistlin.

«Qui!» urlò Raistlin, alla fine. Voltando le spalle a suo fratello, Caramon rinfoderò la spada e aprì la falda della tenda. «Cosa c’è?»

«La strega, signore. Se n’è andata!»

«Andata?» ripetè Caramon, allarmato. Lanciando a suo fratello un’occhiata cattiva, l’omone si precipitò di corsa fuori della tenda. Raistlin sentì la sua voce tonante che chiedeva spiegazioni e gli uomini che gliele davano.

Raistlin non ascoltò. Chiuse gli occhi con un sospiro: a Caramon non era stato permesso di ucciderlo.

Davanti a lui, stendendosi lungo una linea dritta e sottile, le orme proseguivano inesorabili.

Capitolo quarto.

Una volta, Caramon le aveva fatto i complimenti per la sua abilità di cavallerizza. Prima di lasciare Palanthas insieme a Tanis Mezzelfo per cavalcare verso sud alla ricerca della magica Foresta di Wayreth, Crysania non si era mai avvicinata ad un cavallo se non seduta all’interno di una delle eleganti carrozze di suo padre. Le donne di Palanthas non cavalcavano, neppure per diletto, come invece facevano le altre donne solamniche.

Ma tutto questo accadeva nell’altra sua vita. Crysania sorrise cupamente fra sé mentre si piegava sul collo del suo destriero e piantava i talloni nei suoi fianchi, incitandolo a procedere al trotto. Quanto le pareva remota, di tanto tempo fa, e lontana.

Frenò un sospiro e abbassò la testa per evitare alcuni rami bassi. Non guardò dietro di sé. Sperava che l’inseguimento non sarebbe stato così rapido. C’erano i messaggeri, per prima cosa Caramon avrebbe dovuto trattare con loro, e non avrebbe osato mandar fuori nessuna delle sue guardie senza di lui. Non all’inseguimento della strega!

D’un tratto Crysania scoppiò a ridere. Se qualcuno è mai assomigliato a una strega, quella sono io!

Non si era preoccupata di cambiare le sue vesti lacerate. Quando Caramon l’aveva trovata nel bosco, le aveva in qualche modo rassettate con dei fermagli del suo mantello. Già da molto tempo le sue vesti avevano cessato di avere il candore della neve; a forza di viaggiare, di lavarle nei torrenti, e per il naturale logorio, erano diventate d’un opaco grigio-piccione. Adesso, strappate e schizzate di fango, svolazzavano intorno a lei come tante piume inzaccherate.

Il mantello le sbatteva intorno alle spalle mentre cavalcava. I suoi capelli neri erano una massa aggrovigliata. Riusciva a veder qualcosa a stento, attraverso quel groviglio.

Cavalcò fuori dal bosco. Davanti a lei si stendeva la prateria, e per un momento Crysania tirò le redini per fermare il cavallo e studiare il territorio che si apriva davanti a lei. L’animale, abituato al passo pesante dei ranghi di un esercito che avanzava lentamente e con metodo, era eccitato da quell’insolito esercizio. Scosse la testa e si mise a caracollare di lato per qualche passo, fissando con desiderio quella liscia distesa erbosa, implorando una corsa. Crysania gli accarezzò il collo.

«Su, ragazzo,» lo incitò, lanciandolo a briglia sciolta.

Dilatando le narici, il cavallo drizzò all’indietro le orecchie e balzò in avanti, galoppando attraverso l’aperta prateria, elettrizzato da quella ritrovata libertà. Aggrappandosi al collo del destriero, Crysania si abbandonò al piacere della sua ritrovata libertà. Il caldo sole del pomeriggio faceva da gradevole contrasto con il vento pungente e tagliente che le investiva il viso. Il ritmo del galoppo dell’animale, l’eccitazione della cavalcata, e la debole punta di paura che provava sempre quand’era in sella le intorpidirono la mente, alleviando il dolore che aveva nel cuore.

Mentre cavalcava, i suoi piani le si cristallizzarono nella mente, diventando più limpidi e più nitidi.

Davanti a lei, il paesaggio si oscurò a causa delle ombre d’una foresta di pini; sopra di lei, alla sua destra, i picchi innevati dei monti Garnet risplendevano alla smagliante luce del sole. Dando alle redini un brusco strattone per ricordare all’animale che era lei al comando, Crysania fece rallentare il folle galoppo del cavallo, e lo guidò verso il lontano bosco.

Crysania aveva lasciato il campo da quasi un’ora, prima che Caramon riuscisse a organizzare le cose a sufficienza per lanciarsi all’inseguimento. Come Crysania aveva previsto, era stato costretto a spiegare l’emergenza ai messaggeri, assicurandosi che non si sentissero offesi, prima di partire.

Ciò richiese un po’ di tempo, poiché gli uomini delle pianure parlavano assai poco il comune, e niente del tutto il nanesco e, anche se il nano parlava molto bene il comune (e proprio per questo era stato scelto come messaggero), non riusciva a capire lo strano accento di Caramon, costringendo continuamente l’omone a ripetere le sue parole.

Caramon aveva cominciato cercando di spiegare chi fosse Crysania e in quale rapporto si trovasse con lui, ma questo era risultato impossibile da capire sia per il nano che per l’uomo delle pianure.

Alla fine Caramon aveva rinunciato e aveva detto loro, esplicitamente, quello che comunque avrebbero sentito dire nell’accampamento: che era la sua donna, ed era scappata.

L’uomo delle pianure aveva annuito, mostrando di aver capito. Le donne della sua tribù, notoriamente selvagge, si mettevano occasionalmente in testa di fare la stessa cosa. Suggerì che, quando Caramon l’avesse presa, le facesse tagliare tutti i capelli, il segno d’una moglie disobbediente. Il nano era un po’ stupito. Il suo stupore derivava dal fatto che, per una nana, scappare di casa o dal marito sarebbe equivalso a tagliarsi i ciuffi di pelo che aveva sul mento. Ma ricordò, imbronciato, che si trovava fra gli umani, per cui, che altro poteva aspettarsi?

Entrambi augurarono a Caramon un inseguimento rapido e coronato da successo, e si prepararono a trarre il massimo godimento dalle riserve di birra del campo. Tirando un sospiro di sollievo, Caramon si affrettò a lasciare la sua tenda per scoprire che Garic aveva sellato il cavallo e lo teneva pronto per lui.

«Abbiamo trovato la sua pista, generale,» lo informò il giovane, indicandogliela. «È andata a nord seguendo uno stretto sentiero tracciato dagli animali in mezzo ai boschi. È in sella a un cavallo veloce...» Garic scosse brevemente la testa per l’ammirazione. «Ha rubato uno dei migliori, posso dir questo a suo favore, signore. Ma non credo che arriverà molto lontana.»

Caramon montò in sella. «Grazie, Garic,» cominciò, poi s’interruppe quando vide un altro cavallo che veniva condotto fuori. «E quello cos’è?» ringhiò. «Ho detto che sarei andato da solo...»

«Vengo anch’io, fratello mio,» disse una voce dalle ombre.

Caramon si guardò intorno. L’arcimago uscì dalla sua tenda, abbigliato con il mantello da viaggio e gli stivali neri. Caramon si accigliò, ma Garic stava già rispettosamente aiutando Raistlin a salire in sella al magro e nervoso cavallo nero che l’arcimago preferiva. Caramon non osò replicare nulla davanti agli uomini, e suo fratello mostrò d’averlo capito con un luccichio divertito negli occhi, quando alzò la testa e la luce del sole si riflesse sulla loro superficie a specchio.

«Partiamo, allora,» borbottò Caramon, cercando di nascondere la sua rabbia. «Garic, prenderai tu il comando mentre sarò via. Non mi aspetto che la mia assenza duri a lungo. Assicurati che i nostri ospiti siano rifocillati e fai tornare quel mucchio di contadini là fuori sul campo. Voglio vederli, al mio ritorno, capaci d’infilare quei manichini di paglia, e non che s’infilzino ancora fra loro!»

«Sissignore,» rispose Garic con voce grave, rivolgendo a Caramon il saluto del cavaliere. Un vivido ricordo di Sturm Brightblade riaffiorò nella mente di Caramon, e con esso i giorni della sua giovinezza, i giorni quando lui e suo fratello avevano viaggiato insieme ai loro amici: Tanis, il nano Flint, il fabbro, Sturm... Scuotendo la testa, cercò di bandire i ricordi mentre guidava il suo cavallo fuori dal campo.

Ma questi gli tornarono con impeto ancora maggiore quando raggiunse il sentiero che s’inoltrava nel bosco e intravide suo fratello che cavalcava al suo fianco. Come al solito, il mago teneva il cavallo un po’ indietro rispetto al suo. Anche se cavalcare non gli piaceva particolarmente, Raistlin cavalcava bene, così come faceva bene qualunque cosa in cui s’impegnasse. Non parlava né guardava suo fratello, teneva il cappuccio abbassato sulla testa, smarrito nei propri pensieri. Questo non era insolito, talvolta i gemelli avevano viaggiato per giorni e giorni praticamente in un ininterrotto silenzio.

Ma, nonostante questo, c’era un legame fra loro, un legame di sangue, d’ossa e d’anima. Caramon si sentì scivolare nel vecchio, ben più facile anche se raro, rapporto cameratesco. La sua rabbia cominciò a sciogliersi, comunque era stata rivolta in parte contro se stesso. Si girò a metà e parlò sopra la propria spalla:

«Mi... mi spiace per... per quello che è successo là, Raist,» disse burbero mentre s’inoltravano sempre più nella foresta, seguendo la chiara pista lasciata da Crysania. «Quello che hai detto era vero, lei mi ha detto che... che lei...» Caramon cominciò a balbettare, arrossendo. Si girò del tutto sulla sella. «... che lei... Dannazione, Raist! Perché sei stato così brusco con lei?»

Raistlin sollevò la testa incappucciata e adesso Caramon potè vedere la sua faccia. «Dovevo esser brusco,» replicò, con voce sommessa. «Dovevo farle vedere il baratro che si apriva ai suoi piedi, un baratro che, se vi fossimo precipitati dentro, ci avrebbe distrutti tutti!»

Caramon fissò meravigliato suo fratello gemello. «Non sei umano!»

Con suo stupore ancora maggiore, Raistlin dette in un sospiro. Gli occhi aspri e luccicanti del mago si ammorbidirono per un attimo. «Sono più umano di quanto tu possa immaginare, fratello mio,» rispose con un tono nostalgico che andò direttamente al cuore di Caramon.

«Allora amala, uomo!» esclamò Caramon, rallentando per portarsi al fianco di suo fratello.

«Dimentica queste sciocchezze su baratri, voragini o qualunque altra cosa! Tu potrai anche essere un mago potente e lei potrà anche essere un santo chierico, ma, sotto quelle vesti, sei allo stesso tempo carne e sangue! Prendila fra le braccia e... e...»

Caramon si era talmente lasciato prendere dalla foga che frenò il suo cavallo, fermandosi nel mezzo del sentiero, il volto illuminato dalla passione e dall’entusiasmo. Anche Raistlin bloccò il suo cavallo. Sporgendosi in avanti, appoggiò una mano sul braccio del fratello, le sue dita ardenti vi lasciarono il segno. La sua espressione era dura, i suoi occhi ancora corruschi e gelidi come il ghiaccio.

«Ascoltami, Caramon, e cerca di capire,» disse Raistlin, con un tono di voce talmente privo d’espressione che fece rabbrividire il suo gemello, «Io sono incapace di amare. Non te ne sei ancora reso conto? Oh, sì, hai ragione... sotto queste vesti sono carne e sangue, più che ascetismo e pietà. Come qualunque altro uomo sono capace di voluttà. Sì, tutto quello che è... voluttà.»

Scrollò le spalle. «Per me avrebbe poca importanza se vi cedessi, forse m’indebolirebbe temporaneamente, niente di più. Certamente non influenzerebbe la mia magia. Ma...» il suo sguardo trapassò Caramon come una scheggia di ghiaccio, «... distruggerebbe Crysania quando dovesse scoprirlo. E lo scoprirebbe!»

«Brutto bastardo dal cuore di tenebra!» disse Caramon a denti stretti.

Raistlin sollevò un sopracciglio. «Lo sono davvero?» chiese semplicemente. «Se lo fossi, non mi prenderei il mio piacere quando l’avessi trovato? A differenza di altri, sono capace di capire e controllare me stesso.»

Caramon sbatté le palpebre. Spronando il cavallo, riprese ad avanzare lungo il sentiero, smarrito nella confusione. In qualche modo suo fratello era riuscito, ancora una volta, a rovesciare le cose.

D’un tratto lui, Caramon, si sentiva consumato dalla colpa, preda d’istinti animaleschi, e non era abbastanza uomo da riuscire a controllarli, mentre suo fratello, ammettendo d’essere incapace di amare, appariva nobile e pronto a sacrificarsi. Caramon scosse la testa.

I due seguirono la pista di Crysania addentrandosi sempre più in profondità nel bosco. Era un tragitto facile, Crysania aveva seguito la pista senza mai deviare, senza mai preoccuparsi, neppure una volta, di coprire le proprie tracce.

«Donne!» bofonchiò Caramon dopo un po’. «Se aveva intenzione di tenere il broncio, perché non l’ha fatto nella maniera più semplice, camminando? Perché doveva mettersi in sella a un maledetto cavallo e inoltrarsi tanto in profondità nel territorio?»

«Tu non la capisci, fratello mio,» disse Raistlin, con lo sguardo sulla pista. «Non è questa la sua intenzione. Questa sua cavalcata ha uno scopo, credimi.»

«Bah!» sbuffò Caramon. «Questo, da parte dell’esperto delle donne! Io sono stato sposato, e lo so! E scappata via perché si è offesa, sapendo che l’avremmo inseguita. La troveremo da qualche parte lungo questo sentiero, con tutta probabilità col cavallo azzoppato. Avrà freddo, e ci squadrerà altezzosa. Noi ci scuseremo e... e lasceremo che abbia la sua maledetta tenda personale, se proprio la vuole! E... guarda là! Cosa ti dicevo?» Fece fermare il cavallo e indicò la prateria. «Ecco una pista che potrebbe seguire anche un nano dei fossi, e cieco per giunta! Su, andiamo.»

Raistlin non rispose, ma c’era un’espressione pensierosa sul suo volto sottile, mentre galoppava dietro a suo fratello. I due seguirono la pista di Crysania attraverso la prateria. Trovarono il punto in cui era nuovamente entrata nel bosco, giunsero a un ruscello e l’attraversarono. Ma là, sulla sponda, Caramon fece fermare il suo cavallo.

«Cosa dia...» Guardò a destra e a sinistra, facendo girare in cerchio il suo animale. Raistlin si fermò, sospirando, e si appoggiò al pomo della sella.

«Te l’avevo detto,» dichiarò, severo. «Ha uno scopo. È intelligente, fratello mio. Tanto intelligente da conoscere la tua mente e come funziona... quando funziona.»

Caramon lanciò un’occhiata furiosa al fratello, ma non disse niente.

La pista di Crysania era scomparsa.

Come Raistlin aveva detto, Crysania aveva uno scopo. Era scaltra e intelligente, aveva intuito ciò che Caramon avrebbe pensato, e l’aveva fuorviato di proposito. Malgrado non fosse certamente esperta di cose dei boschi, da molti mesi ormai era insieme a chi lo era. Spesso sola (pochi rivolgevano parola alla «strega») e spesso lasciata a se stessa anche da Caramon, il quale aveva problemi relativi al suo comando da risolvere, e da Raistlin che era immerso nei suoi studi, Crysania aveva avuto ben poco da fare se non cavalcare da sola, ascoltare le storie raccontate da quelli che la circondavano, e imparare da loro.

Così le era stato semplice ripercorrere la propria pista, conducendo il cavallo lungo il centro del ruscello senza lasciare tracce che fosse possibile identificare. Arrivata a un punto roccioso della sponda, dove, ancora una volta, il suo cavallo non avrebbe lasciato nessuna traccia, era uscita dal ruscello. Entrata nel bosco, aveva evitato il sentiero principale, cercando invece una delle molte piste più piccole lasciate dagli animali diretti al ruscello. Una volta là, aveva coperto le proprie tracce meglio che poteva. Malgrado l’avesse fatto in modo rozzo e maldestro, era sicura che Caramon non le avrebbe attribuito neppure la capacità di fare quel poco, perciò non aveva nessun timore che sarebbe riuscito a seguirla.

Se Crysania avesse saputo che Raistlin stava cavalcando con suo fratello, avrebbe potuto avere dei dubbi, poiché il mago pareva conoscere la sua mente meglio di quanto la conosceva lei stessa. Ma non lo sapeva, perciò aveva proseguito con passo tranquillo facendo riposare il cavallo e concedendosi un po’ di tempo per rivedere i suoi piani.

Nelle borse della sella aveva una mappa, rubata dalla tenda di Caramon. Sulla mappa era segnato un piccolo villaggio annidato fra le montagne. Era così piccolo che non aveva neppure un nome, per lo meno un nome che fosse segnato sulla mappa. Ma proprio quel villaggio era la sua destinazione.

Qui, lei aveva in mente di realizzare un duplice scopo: avrebbe alterato il tempo, e avrebbe dimostrato (a Caramon, a suo fratello, e a se stessa) di essere qualcosa di più d’un po’ di bagaglio inutile, o perfino pericoloso. Avrebbe dimostrato il proprio valore.

Là, in quel villaggio, Crysania intendeva far rivivere la venerazione per gli antichi dei.

Questa non era un’idea nuova, per lei. Era qualcosa che aveva sempre avuto intenzione di tentare, ma che non aveva mai messo in atto per una molteplicità di ragioni. La prima era che sia Caramon che Raistlin le avevano tassativamente proibito di usare qualsivoglia potere chiericale mende si trovava al campo. Entrambi temevano per la sua vita, essendo stati personalmente testimoni, quand’erano più giovani, di roghi di streghe. (Lo stesso Raistlin avrebbe finito per esserne vittima, se non fosse stato salvato da Caramon e da Sturm.)

Crysania stessa aveva abbastanza buon senso da sapere che nessuno degli uomini o delle loro famiglie che viaggiavano con l’esercito l’avrebbe ascoltata, convinti fermamente com’erano tutti che lei fosse una strega. La sua mente era stata attraversata dal pensiero che avrebbe potuto far effetto su gente che non sapeva niente di lei, raccontando loro la sua storia, trasmettendo loro il messaggio che gli dei non avevano abbandonato l’uomo, bensì era stato l’uomo ad abbandonare gli dei... poi loro l’avrebbero seguita, come avrebbero seguito Goldmoon duecento anni più tardi. Ma soltanto quand’era stata punta dalle aspre parole di Raistlin aveva trovato finalmente il coraggio di agire.

Perfino adesso, mentre conduceva il cavallo al passo attraverso la tranquilla foresta alla luce del crepuscolo, poteva ancora udire la sua voce e vedere i suoi occhi lampeggianti mentre la rampognava.

Me lo sono meritato, ammise a se stessa. Avevo abbandonato la mia fede. Stavo usando il mio «fascino» per cercare di portarlo a me, invece dei mio esempio per portare lui a Paladine.

Sospirando, si passò con aria assente le dita tra i capelli aggrovigliati. Se non fosse stato per la sua forza di volontà, sarei caduta.

La sua ammirazione, già intensa, per il giovane arcimago si accentuò ancora di più, proprio come Raistlin aveva previsto. Decise di ripristinare la fede che lui aveva in lei e di dimostrarsi, ancora una volta, degna della sua fiducia e del suo rispetto, poiché temeva... e a questo punto arrossì... che adesso Raistlin avesse un’opinione molto bassa di lei. Tornando al campo con un corpo di seguaci, di veri credenti, non soltanto intendeva dimostrare che lui si sbagliava, che il tempo poteva venir alterato introducendo dei chierici in un mondo in cui, prima, non ce n’era neppure uno, ma anche sperava di diffondere i suoi insegnamenti nello stesso esercito.

Pensando a tutto questo, formulando i suoi piani, Crysania si sentiva più in pace con se stessa, più di quanto si fosse sentita durante tutti i mesi trascorsi da quando erano giunti in quel periodo di tempo. Almeno per una volta, stava facendo qualcosa da sola. Non seguiva la scia di Raistlin, né si faceva comandare da Caramon. Il suo morale si alzò. Stando ai suoi calcoli avrebbe dovuto raggiungere il villaggio appena prima che facesse buio.

La pista che stava seguendo si era costantemente inerpicata lungo il fianco della montagna. Adesso superò un’altura e cominciò a scendere dentro una piccola valle. Crysania fece fermare il cavallo. Là, annidato in fondo alla valle, potè finalmente vedere il villaggio che era la sua destinazione.

Il villaggio aveva qualcosa di strano, ma Crysania non era ancora un viaggiatore abbastanza esperto da aver imparato a fidarsi dei propri istinti, in casi del genere. Sapendo soltanto che voleva raggiungere il villaggio prima del calar delle tenebre, e ansiosa di dar subito corso al suo piano, Crysania salì ancora una volta in sella al destriero e scese lungo il sentiero, stringendo nella mano il medaglione di Paladine che portava appeso al collo.

«Be’, cosa facciamo adesso?» chiese Caramon, in groppa al cavallo, scrutando il corso d’acqua nelle due direzioni.

«Sei tu l’esperto di donne,» lo rimbeccò Raistlin.

«D’accordo, ho commesso un errore,» borbottò Caramon. «Questo, comunque, non ci aiuta. Fra poco farà buio, e allora non ritroveremo mai la sua pista. Non ti ho sentito tirar fuori nessun suggerimento utile,» grugnì, lanciando un’occhiata funesta a suo fratello. «Non puoi fare qualche magia?»

«Avrei “fatto una magia” al tuo cervello tanto tempo fa, se avessi potuto,» sbottò Raistlin, con un moto d’irritazione. «Cosa vuoi da me, che la faccia apparire dal nulla oppure che la cerchi nella sfera di cristallo? No, non intendo sprecare le mie forze. Inoltre, non è necessario. Hai con te una mappa, oppure non sei riuscito ad essere così previdente?»

«Ho una mappa,» replicò Caramon, cupo, tirandola fuori dalla cintura e porgendola a suo fratello.

«Tanto vale che abbeveri i cavalli e li faccia riposare,» disse Raistlin, scivolando giù dalla sua cavalcatura. Anche Caramon smontò e condusse i cavalli fino al ruscello mentre Raistlin studiava la mappa.

Quando Caramon ebbe impastoiato i cavalli a un arbusto e fu tornato da suo fratello, il sole stava calando del tutto. Raistlin teneva la mappa vicinissima al naso cercando di leggere alla luce sempre più scarsa. Caramon lo sentì tossire e lo vide ingobbirsi dentro il suo mantello da viaggio.

«Non dovresti esser fuori nell’aria della notte,» osservò Caramon, burbero.

Tossendo un’altra volta, Raistlin gli scoccò un’occhiata piena di amarezza. «Starò bene.»

Scrollando le spalle, Caramon sbirciò la mappa da sopra la spalla di suo fratello. Raistlin indicò con un dito sottile un minuscolo punto a metà strada su per la montagna.

«Là,» disse.

«E perché? Perché mai dovrebbe andare in un posto fuori dal mondo come quello?» chiese Caramon perplesso, corrugando la fronte. «Non ha alcun senso.»

«Perché non hai ancora capito il suo scopo!» replicò Raistlin. Pensierosamente arrotolò la mappa, con gli occhi fissi sulla luce morente. Una linea scura comparve fra le sue sopracciglia.

«Allora?» lo sollecitò Caramon, in tono scettico. «Cos’è questo grande scopo di cui continui a parlare? Di cosa si tratta?»

«Si è esposta a un grave pericolo,» esclamò Raistlin all’improvviso, la sua voce fredda si era tinta di rabbia. Caramon lo fissò allarmato.

«Cosa? Come fai a saperlo? Vedi...»

«No, io non posso vedere, grosso idiota che non sei altro!» ringhiò Raistlin senza voltarsi, mentre s’incamminava rapidamente verso il suo cavallo. «Io penso! Io uso il cervello. Crysania sta andando in quel villaggio per rifondare l’antica religione. Va lassù per parlar loro dei vecchi dei!»

«Per l’Abisso!» imprecò Caramon, spalancando gli occhi. «Hai ragione, Raist,» aggiunse, dopo aver riflettuto un momento. «L’ho sentita dire che voleva tentare, adesso che ci penso. Ma non ho mai creduto che parlasse seriamente.»

Poi, vedendo che suo fratello slegava il cavallo e si preparava a montare in sella, lo raggiunse di corsa e appoggiò una mano sulle briglie. «Un momento, Raist! Adesso non c’è niente che possiamo fare. Dovremo aspettare fino a domani.» Indicò con un gesto le montagne. «Sai bene quanto me che non possiamo avventurarci a cavalcare lungo quegli impervi sentieri dopo il tramonto. C’è il rischio che i cavalli incespichino in una buca e si rompano una gamba. Per non parlare di ciò che vive in quei boschi abbandonati dagli dei.»

«Ho il mio bastone per fare luce,» replicò Raistlin, indicando il Bastone di Magius, al sicuro nella custodia di cuoio sul fianco della sella. Cominciò a salire in groppa al cavallo, ma un accesso di tosse lo costrinse a fermarsi, ad aggrapparsi alla sella e ad ansimare penosamente per riuscire a respirare.

Caramon aspettò fino a quando gli spasimi non si calmarono. «Ascolta, Raist,» disse in tono più pacato, «sono preoccupato per lei almeno quanto te, ma penso che la tua reazione sia eccessiva. Non è come se stesse andando a cacciarsi in una tana di goblin! Quella luce magica attirerà su di noi tutto ciò che è in agguato là fuori nella notte, come la fiamma d’una candela fa con le falene. I cavalli hanno il fiato corto. Tu sei troppo stanco per proseguire, e ancora di più per combattere, se ci trovassimo costretti a farlo. Ci accamperemo qui per la notte. Ti riposerai un po’, e domattina, quando saremo freschi e rilassati, ci rimetteremo in viaggio.»

Raistlin ristette, con le mani sulla sella, fissando suo fratello. Parve sul punto di mettersi a discutere, ma fu colto da un altro accesso di tosse. Le mani gli scivolarono lungo il corpo, e appoggiò la testa sul fianco del cavallo, come se fosse troppo esausto per muoversi.

«Hai ragione, fratello mio,» mormorò, quando infine fu in grado di parlare.

Sorpreso da quell’insolita arrendevolezza, Caramon fu quasi sul punto di andare ad aiutare il suo gemello, ma si frenò in tempo. Mostrarsi preoccupato avrebbe causato soltanto un rimprovero ancora più amaro. Comportandosi come se niente fosse, cominciò a slegare il sacco a pelo di suo fratello, continuando a chiacchierare senza badar molto a ciò che stava dicendo.

«Adesso ti stendo questo, poi riposerai. È probabile che possiamo rischiare un piccolo fuoco, così potrai scaldare quella tua pozione per alleviare la tosse. Ho qui un po’ di carne e degli ortaggi che Garic ha messo insieme per me,» Caramon continuò a parlare, senza neppure rendersi conto di quello che stava dicendo. «Preparerò uno stufato. Sarà come ai vecchi tempi.

«Per gli dei!» Tacque per qualche istante, sogghignando. «Anche se non sapevamo mai da dove sarebbe arrivato il nostro prossimo pezzo d’acciaio, mangiavamo sempre bene a quei tempi! Te ne ricordi? Avevi una certa spezia... la buttavi nella pentola, ricordi? Com’era?» Fissò l’aria scura, come se potesse scostare le nebbie del tempo dagli occhi e rivedere quei giorni lontani. «Non la ricordi? La usi anche oggi, per lanciare i tuoi incantesimi. Ma serviva anche a fare uno stufato dannatamente squisito! Il nome... era simile al nostro, majere, maggior...? Ah!» Caramon scoppiò a ridere. «Non dimenticherò mai quella volta, quando il tuo vecchio maestro ci ha sorpresi a cucinare con gli ingredienti del suo incantesimo! Ho pensato che ti avrebbe rivoltato come un guanto!»

Sospirando, Caramon si rimise al lavoro, tirando i nodi. «Sai, Raist,» riprese un attimo dopo con voce sommessa, «dopo quei giorni ho mangiato cibi meravigliosi in posti meravigliosi, palazzi, boschi degli elfi, e altri luoghi ancora. Ma niente ha mai potuto uguagliare quello stufato. Mi piacerebbe provarci di nuovo, per vedere se è come lo ricordo. Sarebbe come ai vecchi tempi...»

Vi fu un sommesso frusciare d’indumenti. Caramon si fermò, conscio che suo fratello aveva voltato la testa incappucciata e lo stava fissando intensamente. Deglutendo, Caramon tenne fìssi gli occhi sui nodi che stava cercando di slegare. Non aveva avuto l’intenzione di rendersi invulnerabile e adesso aspettò incupito il rimbrotto di Raistlin, la frecciatina sarcastica.

Vi fu un altro fruscio sommesso d’indumenti, e poi Caramon sentì qualcosa di morbido che gli veniva premuto fra le mani: una minuscola borsa.

«Maggiorana,» disse Raistlin, in un sussurro. «Il nome della spezia è maggiorana...»

Capitolo quinto.

Soltanto quando s’inoltrò fra le prime case del villaggio Crysania si rese conto che qualcosa non andava. Naturalmente, Caramon se ne sarebbe accorto non appena avesse guardato giù in direzione del villaggio dalla cima della collina. Avrebbe notato l’assenza del fumo dai comignoli. Avrebbe notato l’innaturale silenzio: niente voci di madri che chiamavano i bambini, nessun massiccio trepestio del bestiame che tornava dai campi, nessun allegro saluto scambiato fra vicini dopo una lunga giornata di lavoro. Avrebbe visto che non si levava neppure un filo di fumo dalla forgia del fabbro, e si sarebbe chiesto, inquieto, come mai la luce delle candele non rischiarasse le finestre.

Sollevando lo sguardo avrebbe visto, allarmato, un gran numero di avvoltoi, che giravano in cerchio nel cielo...

Tutto questo sarebbe stato notato da Caramon o da Tanis Mezzelfo o da Raistlin... da chiunque di loro e, se fossero stati costretti a proseguire, si sarebbero avvicinati al villaggio con la mano sull’elsa della spada o con un incantesimo difensivo sulle labbra.

Ma Crysania provò i primi barlumi d’inquietudine soltanto dopo essere entrata al piccolo galoppo nel villaggio e, guardandosi intorno, cominciò a chiedersi dove fossero tutti. Allora, divenne conscia della presenza degli avvoltoi, quando le loro grida e i richiami striduli suscitati dal suo arrivo s’insinuarono nei suoi pensieri. Lentamente, gli avvoltoi volarono via nell’oscurità che si andava addensando, oppure si appollaiarono imbronciati sugli alberi, fondendosi con le ombre sempre più fitte.

Smontando da cavallo davanti a un edifìcio la cui insegna oscillante lo qualificava per una locanda, Crysania legò il cavallo a un palo e si avvicinò alla porta d’ingresso. Se era una locanda, era molto piccola ma ben costruita e ordinata con le tendine arricciate alle finestre e un’atmosfera di allegro benvenuto che pareva, in qualche modo, sinistra, in quell’arcano silenzio. Nessuna luce filtrava dalle finestre. L’oscurità stava inghiottendo rapidamente il villaggio. Crysania, dopo aver aperto la porta con una spinta, riuscì a malapena a vedere all’interno...

«Ehi!» chiamò, esitante. Al suono della sua voce, gli uccelli all’esterno stridettero rauchi, facendola rabbrividire. «C’è nessuno qui? Vorrei una stanza...»

Ma la sua voce si spense. Seppe senza alcun dubbio che quel posto era vuoto, deserto. Forse tutti se n’erano andati per unirsi all’esercito? Sapeva d’interi villaggi che l’avevano fatto. Ma guardandosi intorno si rese conto che in questo caso ciò non poteva esser vero. Lì non sarebbe rimasto nulla, salvo i mobili; la gente avrebbe portato con sé i propri averi.

Qui le tavole erano apparecchiate per la cena...

Facendo qualche altro passo dentro la stanza, i suoi occhi si abituarono alla penombra. Potè vedere i bicchieri ancora pieni di vino, le bottiglie aperte al centro dei tavoli. Non c’era cibo. Alcuni piatti erano stati rovesciati e giacevano rotti sul pavimento, accanto a qualche osso rosicchiato. Due cani e un gatto che si aggiravano furtivi là intorno con aria semiaffamata le dettero un’idea di cosa poteva essere successo.

Una scala saliva al secondo piano. Crysania pensò di salire, ma il coraggio le venne meno. Prima, avrebbe dato un’occhiata in giro per il villaggio. Certamente, là fuori avrebbe trovato qualcuno... qualcuno che avrebbe potuto dirle quello che stava accadendo.

Prese una lampada e l’accese servendosi della pietra focaia e dell’acciarino che aveva nello zaino, quindi uscì di nuovo in strada, dove ormai era notte fatta. Cos’era successo? Dov’erano tutti? Non sembrava che il villaggio fosse stato attaccato. Non c’erano segni di lotta, nessun mobile rotto, niente sangue, nessuna arma sparsa in giro. Niente cadaveri.

La sua inquietudine crebbe quando uscì dalla porta della locanda. Nel vederla, il suo cavallo nitrì.

Crysania represse un incontrollabile desiderio di saltargli in sella e scappare quanto più velocemente possibile. Ma l’animale era stanco, non avrebbe potuto andare oltre senza riposare.

Aveva bisogno di cibo. Pensando a questo Crysania lo slegò e lo condusse nella stalla dietro alla locanda. Era vuota. Non era insolito, al giorno d’oggi i cavalli erano un lusso. Ma era piena di paglia e c’era acqua, così, almeno, la locanda era preparata a ricevere dei viaggiatori. Infilando la sua lampada in un supporto, Crysania tolse la sella al suo animale esausto e lo strigliò. Sapeva di farlo in maniera rozza e impacciata, non avendolo mai fatto prima.

Ma il cavallo parve soddisfatto quel che bastava e, quando lei se ne andò, stava masticando rumorosamente l’avena che aveva trovato in un truogolo.

Riprendendo la lampada, Crysania tornò nelle strade vuote e deserte. Sbirciò dentro le case buie, aguzzò lo sguardo dentro le botteghe senza luce. Niente. Nessuno. Poi, continuando a camminare, udì un rumore. Per un istante il suo cuore smise di battere, la luce della lampada ondeggiò nella sua mano tremante. Si fermò, tendendo l’orecchio, dicendosi che doveva trattarsi di un uccello o di qualche altro animale.

No, eccolo di nuovo. E di nuovo. Era uno strano suono, una specie di sibilo seguito da un lieve tonfo. Poi di nuovo un sibilo, seguito da un altro tonfo. Certamente non c’era niente di sinistro o di minaccioso in quel suono. Ma Crysania continuò a restar ferma là, al centro della strada, restia a muoversi in direzione del suono per indagare.

«Che sciocchezze!» si disse con severità. Arrabbiata con se stessa, delusa dall’apparente insuccesso dei suoi piani, e decisa a scoprire ciò che stava accadendo, Crysania avanzò spavalda. Ma la sua mano, osservò innervosita, pareva protendersi di propria iniziativa, verso il medaglione del suo dio.

Il suono si fece più forte. La fila di case e di piccoli negozi terminò. Voltando un angolo, camminando con passo leggero, Crysania si rese conto d’un tratto che avrebbe dovuto spegnere la sua lampada. Ma il pensiero arrivò troppo tardi. Alla vista della luce, la figura che aveva prodotto quei suoni singolari si girò, sollevando di scatto le braccia per schermarsi gli occhi, e la fissò.

«Chi sei?» gridò l’uomo. «Cosa vuoi?» Non pareva spaventato, solo disperatamente stanco, come se la presenza di Crysania fosse un grande fardello in più. Ma, invece di rispondere, Crysania si avvicinò di più, poiché adesso aveva capito cos’era quel suono. L’uomo stava spalando. Stringeva un badile fra le mani. Non aveva nessuna lampada con sé. Era evidente che aveva lavorato così duramente da non rendersi neppure conto che era scesa la notte.

Sollevando la lampada per permettere alla luce d’illuminarli entrambi, Crysania studiò l’uomo con curiosità. Era giovane, più giovane di lei, probabilmente aveva venti o ventun anni. Era umano, con un volto serio e pallido, e indossava vesti che, salvo per qualche strano e irriconoscibile simbolo ricamato sopra, Crysania avrebbe preso per un abbigliamento chiericale. Quando si avvicinò di più, Crysania vide barcollare il giovane. Se il badile non fosse stato piantato nel terreno, sarebbe caduto. Invece, vi si appoggiò, come se fosse stato così esausto da essere ormai al di là di qualsivoglia resistenza.

Dimenticate tutte le sue paure, Crysania corse a dargli aiuto. Ma con suo vivo stupore, il giovane la fermò con un gesto della mano.

«Stai lontana!» le gridò.

«Cosa?» esclamò Crysania, stupita.

«Stai lontana!» ripetè il giovane con maggiore urgenza. Ma il badile non fu più in grado di sorreggerlo. Cadde sulle ginocchia stringendosi lo stomaco, come in preda a un intenso dolore.

«Non farò niente del genere,» dichiarò Crysania con fermezza, rendendosi conto che il giovane era malato o ferito. Correndo avanti, fece per mettergli un braccio intorno alla vita per aiutarlo a rialzarsi, quando il suo sguardo cadde su ciò che il giovane stava facendo.

Si fermò, con lo sguardo pietrificato per l’orrore.

Il giovane stava riempiendo una tomba... una tomba comune.

Guardando giù dentro l’enorme fossa, Crysania vide i corpi: uomini, donne, bambini. Non c’erano segni su di loro, nessuna traccia di sangue. Eppure erano tutti morti; si rese conto, in preda a un indicibile torpore, che si trattava dell’intero villaggio.

E poi, voltandosi, vide il volto del giovane, vide il sudore colargli da ogni poro, vide gli occhi vitrei e febbricitanti. E allora capì.

«Ho cercato di avvertirti,» disse il giovane con stanchezza, soffocando. «La febbre che brucia!»

«Vieni,» disse Crysania con voce tremante per il dolore che stava provando. Voltando con decisione la schiena all’orrendo spettacolo, mise le braccia intorno al giovane. Questi lottò debolmente.

«No! Non farlo!» l’implorò. «La prenderai anche tu! Morirai... nel giro di poche ore...»

«Sei malato. Hai bisogno di riposo,» lei replicò. Ignorando le sue proteste lo condusse via.

«Ma la tomba...» bisbigliò lui e il suo sguardo inorridito andò al cielo buio dove giravano gli avvoltoi. «Non possiamo lasciare i corpi...»

«Le loro anime sono con Paladine,» disse Crysania, respingendo la propria nausea al pensiero del macabro festino che sarebbe ben presto cominciato. Già poteva udire i loro gracidii trionfanti. «Là giacciono soltanto i loro gusci. Essi capiscono che i vivi hanno la precedenza.»

Sospirando, troppo debole per mettersi a discutere, il giovane chinò la testa e mise le braccia intorno al collo di Crysania. Lei notò che era incredibilmente magro, sentì a malapena il suo peso quando le si appoggiò addosso. Si chiese quanto tempo fosse passato da quando aveva fatto l’ultimo buon pasto.

Camminando lentamente si allontanarono dalla fossa comune. «La mia casa è laggiù,» disse il giovane, indicando con un debole gesto una piccola capanna ai margini del villaggio.

Crysania annuì. «Raccontami cos’è successo,» gli disse, per tener lontani i pensieri di lui e i propri dal battito delle ali degli uccelli alle loro spalle.

«Non c’è molto da dire,» disse il giovane, in preda ai brividi. «Colpisce fulmineamente, senza preavviso. Ieri i bambini stavano giocando nei giardini. Ieri notte stavano morendo nelle braccia delle loro madri. Le tavole erano state apparecchiate per una cena che nessuno ha potuto consumare. Stamattina, quelli ancora in grado di muoversi hanno scavato la grande fossa, la loro tomba, come ormai sapevamo tutti...» La voce gli venne meno e fu colto da uno spasimo di dolore.

«Adesso ti rimetterai,» disse Crysania. «Ti metterò a letto. Acqua fredda e sonno. Pregherò...»

«Preghiere!» Il giovane ebbe una risata amara. «Sono io il loro chierico!» Indicò con un cenno della mano la fossa alle loro spalle. «Hai visto a cosa sono servite le preghiere!»

«Zitto. Risparmia le tue forze,» gli impose Crysania quando arrivarono alla piccola casa. Dopo averlo aiutato a distendersi sul letto, chiuse la porta e, vedendo la legna pronta ad essere accesa nel caminetto, vi appiccò il fuoco con la fiamma della propria lampada. Ben presto il fuoco avvampò.

Crysania accese delle candele, poi tornò al letto del suo paziente. Gli occhi febbricitanti del giovane avevano seguito ogni sua mossa.

Tirando una sedia accanto al letto, Crysania versò dell’acqua in una scodella, vi affondò un panno, poi si sedette accanto al giovane, stendendogli il panno fresco sulla fronte bruciante.

«Anch’io sono un chierico,» gli disse, sfiorando con le dita il medaglione che aveva al collo, «e pregherò il mio dio di guarirti.»

Deposta la scodella dell’acqua su un tavolino accanto al letto, Crysania protese le braccia verso il giovane e gli appoggiò le mani sulle spalle. Poi cominciò a pregare: «Paladine...»

«Cosa?» la interruppe il giovane, stringendola con una mano calda di febbre. «Cosa stai facendo?»

«Ti guarirò,» disse Crysania, sorridendogli gentilmente, con pazienza. «Sono un chierico di Paladine.»

«Paladine!» Il giovane fece una smorfia di dolore poi, riprendendo fiato, sollevò, incredulo, lo sguardo su di lei. «Allora ho sentito bene. Come puoi essere uno dei suoi chierici? Sono scomparsi, così mi è stato detto, appena prima del Cataclisma.»

«È una lunga storia,» rispose Crysania, tirando le lenzuola sopra il corpo tremante del giovane, «che ti racconterò più tardi. Ma per ora credimi, sono davvero un chierico di questo grande Dio, e ti guarirò!»

«No!» gridò il giovane. Strinse la mano intorno a quella di Crysania con tanta forza da farle male.

«Anch’io sono un chierico degli Dei Cercatori. Ho cercato di guarire il mio popolo...» La sua voce si spezzò. «Ma... ma non c’è stato niente che potessi fare. Sono morti!» I suoi occhi si chiusero per la sofferenza. «Ho pregato! Gli dei... non mi hanno risposto.»

«Perché questi dei che hai invocato sono falsi,» dichiarò Crysania con foga, allungando una mano per lisciare i capelli intrisi di sudore del giovane. Lui aprì gli occhi e la fissò con intensità. Crysania vide che era bello, in una maniera seria, austera. Gli occhi erano azzurri, i capelli dorati.

«Acqua,» mormorò attraverso le labbra secche. Crysania lo aiutò a rizzarsi a sedere. Bevve avidamente dalla scodella, poi Crysania tornò ad adagiarlo sul letto. Sempre fissandola, lui scosse la testa, poi chiuse gli occhi stremato.

«Tu sai di Paladine e degli antichi dei?» chiese Crysania con voce sommessa.

Gli occhi del giovane si aprirono, in essi c’era un barlume di luce. «Sì,» disse in tono amaro. «So di loro. So che hanno distrutto il paese. So che ci hanno portato tempeste e pestilenze. So che ogni sorta di malvagità è stata scatenata in questa terra... E poi se ne sono andati. Nell’ora del bisogno ci hanno abbandonato!»

Adesso toccò a Crysania fissarlo. Si era aspettata dinieghi, incredulità, o perfino una totale ignoranza dell’esistenza degli dei. Questo era qualcosa che avrebbe potuto risolvere. Ma quella rabbia amara? Non era quello il confronto che era preparata ad affrontare. Aspettandosi una plebaglia superstiziosa, aveva trovato invece una fossa comune e un giovane chierico morente.

«Gli dei non ci hanno abbandonato,» ribatté, la voce le tremò per la foga. «Sono qui, e aspettano soltanto il suono d’una preghiera. È stato l’uomo a trascinarsi addosso il male che si è abbattuto su Krynn, a causa del suo orgoglio e della sua testarda ignoranza.»

La storia di Goldmoon che guariva il morente Elistan convertendolo così all’antica fede balenò vivida nella mente di Crysania, colmandola di esultanza. Avrebbe guarito quel giovane chierico, l’avrebbe convertito...

«Ti aiuterò,» disse. «Poi ci sarà tempo per parlare, e tu avrai tempo per capire.»

Inginocchiandosi ancora una volta accanto al letto, serrò nella mano il medaglione che portava al collo e ricominciò: «Paladine... »

Una mano l’afferrò bruscamente, facendole male e interrompendo la sua stretta sul medaglione.

Sorpresa, sollevò lo sguardo. Era il giovane chierico che, mezzo seduto, debole, tremante per la paura, la stava ancora fissando con uno sguardo che era intenso, ma calmo.

«No,» disse il giovane con voce ferma, «sei tu che devi capire. Non c’è bisogno che tu cerchi di convincermi. Ti credo!» Alzò lo sguardo sulle ombre sopra la sua testa con un sorriso tetro e amaro.

«Sì, Paladine è con te. Posso percepire la sua grande presenza. Forse i miei occhi si sono aperti, adesso che mi avvicino alla morte.»

«E meraviglioso!» gridò Crysania in estasi. «Posso...» «Aspetta!» Il chierico ansimò per riuscire a respirare, sempre stringendo la sua mano. «Ascolta! Poiché credo, mi rifiuto... di permettere che tu mi guarisca.»

«Cosa?» Crysania lo fissò, incapace di comprendere. Poi: «Stai male, deliri,» disse con fermezza.

«Non sai quello che stai dicendo.» «Lo so, invece,» lui rispose. «Guardami. Sono razionale? Sì?»

Crysania lo studiò, e dovette annuire.

«Sì, devi ammetterlo. Non sto... delirando. Sono perfettamente lucido, capisco quello che sto facendo.» «Allora, perché...»

«Perché,» disse lui con voce sommessa, era ovvio che ogni respiro gli costava una fitta dolorosa,

«se Paladine è qui, e io credo che ci sia, adesso, allora perché permette che accada questo? Perché ha consentito che il mio popolo morisse? Perché permette queste sofferenze? Perché mai le ha causate? Rispondimi!» La strinse con rabbia. «Rispondimi!»

Le sue stesse domande! Le domande di Raistlin! Crysania sentì la propria mente incespicare in una confusa oscurità. Come poteva rispondergli, quando lei stessa cercava tanto disperatamente quelle risposte?

Attraverso le labbra intorpidite ripetè le parole di Elistan: «Dobbiamo avere fede. Non possiamo conoscere le vie degli dei, non possiamo vedere...»

Riadagiandosi, il giovane scosse la testa, stanco, e anche Crysania tacque, sentendosi del tutto impotente davanti a una rabbia così violenta e intensa. Lo guarirò lo stesso, decise. E debole nella mente e nel corpo. Non ci si può aspettare che capisca...

Poi sospirò. No. In altre circostanze Paladine avrebbe anche potuto permetterlo. Il dio non esaudirà la mia preghiera. In preda alla disperazione Crysania lo capì. Nella sua divina saggezza accoglierà a sé il giovane e poi tutto gli diverrà chiaro.

Ma adesso non poteva essere così.

D’un tratto Crysania si rese conto, desolata, che il tempo non poteva venir alterato, per lo meno non in quel modo, non da lei.

Goldmoon avrebbe ripristinato la fede dell’uomo negli antichi dei in un’epoca in cui una rabbia terribile come quella sarebbe stata ormai estinta, quando l’uomo sarebbe stato pronto ad ascoltare e ad accettare e a credere. Non prima.

Il suo insuccesso la sopraffece. Sempre inginocchiata accanto al letto, chinò la testa fra le mani e chiese di essere perdonata per non essere stata disposta ad accettare e a credere.

Sentendo una mano che le toccava i capelli, alzò lo sguardo. Il giovane le stava rivolgendo un pallido sorriso.

«Mi spiace,» disse il giovane con gentilezza, le sue labbra inaridite dalla febbre si contrassero. «Mi spiace di averti... deluso.»

«Capisco,» replicò Crysania con calma, «e rispetterò i tuoi desideri.»

«Grazie,» lui rispose. Rimase silenzioso. Per lunghi istanti l’unico rumore udibile fu il suo respiro affannoso. Crysania fece per alzarsi, ma sentì la mano calda del giovane chiudersi sulla sua. «Fai una cosa per me,» le sussurrò.

«Qualunque cosa,» lei disse, sforzandosi di sorridere, anche se riusciva appena a vederlo attraverso le lacrime.

«Rimani con me stanotte... mentre muoio...»

Capitolo sesto.

Salgo i gradini che conducono al patibolo. La testa china. Le mani legate dietro la schiena. Lotto per liberarmi, mentre salgo i gradini, anche se so che tutto è inutile. Ho passato giorni, intere settimane, a lottare nel tentativo di liberarmi, inutilmente.

Le vesti nere mi fanno inciampare. Incespico. Qualcuno prontamente mi afferra e m’impedisce di cadere, ma nondimeno mi trascina in avanti. Ho raggiunto la cima. Il ceppo, scuro per le macchie di sangue che l’incrostano, è davanti a me. Adesso cerco freneticamente di liberarmi le mani! Se soltanto riuscissi a scioglierle! Potrei usare la mia magia! Fuggire! Fuggire!

«Non c’è scampo!» ride il mio boia, e so che sono io stesso a parlare! È la mia risata! La mia voce!

«Inginocchiati, patetico stregone! Poggia la tua testa sul cuscino freddo e insanguinato!»

No! Urlo per il terrore e la rabbia e lotto disperatamente, ma delle mani mi afferrano da dietro. Con cattiveria mi costringono a inginocchiarmi. La mia pelle si ritrae al contatto con il blocco freddo e viscido! Continuo a divincolarmi, a contorcermi e ad urlare, e loro mi costringono a piegarmi.

Un cappuccio nero mi viene calato sulla testa... ma sento il boia che si avvicina, il frusciare delle vesti nere intorno alle sue caviglie, posso sentire la lama che viene sollevata... sollevata...

«Raist! Raistlin! Svegliati!»

Gli occhi di Raistlin si aprirono. Con lo sguardo fisso sopra di sé, stordito e impazzito per il terrore, per qualche istante non ebbe nessuna idea di dove si trovava o di chi lo avesse svegliato.

«Raistlin, cosa c’è?» ripetè la voce.

Un paio di mani robuste lo stringevano saldamente, una voce familiare, fremente di preoccupazione, che cancellò l’urlio sibilante dell’ascia del boia che stava calando...

«Caramon!» gridò Raistlin, aggrappandosi a suo fratello. «Aiutami! Fermali! Non permettere che mi assassinino! Fermali! Fermali!»

«Sst, non lascerò che ti torcano un solo capello, Raist,» mormorò Caramon, tenendo stretto suo fratello, accarezzandogli i morbidi capelli castani. «Sst. Tutto è a posto. Sono qui... sono qui.»

Appoggiando la testa sul petto di Caramon, sentendo il battito lento e costante del cuore del suo gemello, Raistlin emise un lungo e tremulo sospiro. Poi chiuse gli occhi per proteggersi dall’oscurità e si mise a singhiozzare come un bambino.

«Ironico, vero?» borbottò Raistlin in tono amaro qualche tempo dopo, mentre suo fratello attizzava il fuoco e metteva a bollire una pentola di ferro piena d’acqua. «Il mago più potente che sia vissuto ridotto da un sogno a strillare come un bambino!»

«Allora sei umano,» grugnì Caramon, chinandosi sopra la pentola e osservandola da vicino con l’attenzione rapita che tutti prestano all’acqua per farla bollire più rapidamente. Scrollò le spalle.

«L’hai detto tu stesso.»

«Sì... umano!» ripetè Raistlin con ferocia, rannicchiato tutto tremante nelle sue vesti nere e nel mantello da viaggio.

A quelle parole Caramon si voltò a fissarlo, inquieto, ricordando ciò che Par-sallian e gli altri maghi gli avevano detto al conclave tenuto nella Torre della Grande Stregoneria. Tuo fratello intende sfidare gli dei! Cerca di diventare lui stesso un dio!

Ma proprio mentre Caramon stava fissando suo fratello, Raistlin accostò le ginocchia al proprio corpo, vi appoggiò sopra le mani, e stancamente adagiò la testa sopra le mani. Avvertendo una strana sensazione soffocante alla gola, ricordando vividamente la meravigliosa sensazione di calore che aveva provato quando suo fratello si era proteso verso di lui per cercare conforto, Caramon riportò la sua attenzione sull’acqua.

All’improvviso, Raistlin sollevò la testa.

«Cos’è stato?» chiese nel medesimo istante in cui Caramon, avendo udito anche lui il rumore, balzava in piedi.

«Non lo so,» rispose Caramon con voce sommessa, tendendo l’orecchio. Muovendosi con passo felpato, l’omone raggiunse con sorprendente rapidità il suo sacco a pelo, afferrò la spada e l’estrasse dal fodero.

Agendo nel medesimo istante, la mano di Raistlin si serrò sul Bastone di Magius che giaceva accanto a lui. Torcendosi come un gatto per alzarsi in piedi, spense il fuoco rovesciandovi sopra l’acqua della pentola. L’oscurità li avvolse con un lieve sibilo, mentre le braci sfrigolavano e morivano.

Dando ai loro occhi il tempo di abituarsi all’improvviso cambiamento, entrambi i fratelli rimasero immobili, concentrandosi sul loro udito.

Il ruscello accanto al quale erano accampati gorgogliava e sciabordava tra le rocce, i rami scricchiolarono e le foglie sbatterono al levarsi d’una brezza vivace che sferzava la notte autunnale.

Ma quello che avevano sentito non era né il vento tra gli alberi né il rumore dell’acqua.

«Eccolo,» disse Raistlin con un sussurro quando suo fratello si fermò accanto a lui. «Nel bosco, sull’altra parte dell’acqua.»

Era un rumore raschiante, come qualcuno che tentasse senza successo di strisciare attraverso un territorio che non gli era familiare. Durò pochi istanti ancora, poi cessò, quindi riprese. Qualcuno o qualcosa, che non conosceva il terreno e per di più aveva l’impaccio di grossi stivali.

«Goblin!» sibilò Caramon.

Stringendo la spada, lui e suo fratello si scambiarono un’occhiata. Gli anni bui di estraniamento fra loro, la gelosia, l’odio... in quell’istante tutto scomparve. Reagendo al comune pericolo, erano diventati un tutt’uno, come lo erano stati nel ventre della loro madre.

Muovendosi con cautela Caramon mise un piede nel ruscello. La luna rossa, Lunitari, mandava il suo chiarore a filtrare tra le fronde. Ma quella notte era nuova, e appariva come il lucignolo d’una candela appena spenta, irradiando pochissima luce. Temendo d’inciampare su una pietra, Caramon saggiava il fondo del ruscello ad ogni passo, prima di appoggiarvi sopra il proprio peso. Raistlin lo seguiva, stringendo in una mano il Bastone oscurato, e tenendo l’altra mano appoggiata sulla spalla di suo fratello per non perdere l’equilibrio.

Attraversarono il ruscello silenziosi più del vento che sussurrava sull’acqua e raggiunsero la sponda opposta. Udivano sempre quel rumore. Comunque, non c’era nessun dubbio che fosse prodotto da qualcosa di vivente. Perfino quando il vento cessò continuarono a udire il fruscio.

«Retroguardia... una spedizione di razziatori,» bisbigliò Caramon, girandosi a metà in modo che suo fratello potesse sentire.

Raistlin annuì. Di solito quando i goblin organizzavano una razzia, mandavano degli esploratori a sorvegliare il sentiero, quando arrivavano sui loro cavalli per depredare un villaggio. Poiché questo era un lavoro noioso e significava che i goblin prescelti non avrebbero partecipato alle uccisioni né diviso il bottino, toccava di solito a quelli di rango più infimo, i membri della spedizione meno esperti e più sacrificabili.

La mano di Raistlin si chiuse all’improvviso sul braccio di Caramon, facendolo fermare un momento.

«Crysania!» bisbigliò il mago. «Il villaggio! Dobbiamo sapere dove si trova la spedizione di razziatori!»

Caramon corrugò la fronte. «Lo prenderò vivo!» E fece il gesto di avvolgere una mano enorme intorno al collo d’un immaginario goblin.

Raistlin ebbe un truce sorriso, mostrando di aver capito. «E io lo interrogherò,» sibilò, facendo un gesto eloquente.

Insieme, i gemelli strisciarono lungo il sentiero, facendo attenzione a mantenersi nell’ombra in modo che neppure il più debole luccichio della luna si riflettesse sulle fibbie o sulla spada. Potevano ancora udire quel suono raschiante. Anche se di tanto in tanto cessava, subito ricominciava, sempre nello stesso punto. Qualunque cosa fosse, non aveva nessuna idea del loro avvicinarsi. Si mossero nella sua direzione, tenendosi sui bordi del sentiero, finché, da quanto poterono giudicare, non giunsero alla sua altezza.

Adesso, potevano valutare che il suono proveniva dall’interno del bosco, circa una ventina di piedi fuori del sentiero, sul lato opposto al loro. Lanciando una rapida occhiata all’intorno, gli occhi acuti di Raistlin individuarono una pista quasi impercettibile. Appena visibile alla pallida luce della luna e delle stelle, si ramificava dal sentiero principale... una pista tracciata dagli animali che probabilmente conduceva giù fino al ruscello. Un buon posto per degli esploratori che volessero nascondersi, dando loro accesso al sentiero principale se avessero deciso di attaccare, una facile via di fuga se gli avversari si fossero dimostrati troppo formidabili.

«Aspetta qui!» gli fece cenno Caramon.

La risposta di Raistlin fu un fruscio del suo cappuccio nero. Allungando una mano per scostare un basso ramo sporgente, Caramon entrò nella foresta, muovendosi lentamente e con passo furtivo a circa due piedi di distanza dalla pista degli animali appena accennata che s’inoltrava dentro di essa.

Raistlin si fermò accanto a un albero, le sue dita sottili affondarono in una delle sue molte tasche segrete, impastando rapidamente un pizzico di zolfo in una sferetta di guano di pipistrello. Le parole dell’incantesimo erano nella sua mente. Le ripetè fra sé. Mentre lo faceva, però, divenne acutamente conscio del rumore causato dai movimenti di suo fratello.

Malgrado Caramon si sforzasse di avanzare in silenzio, Raistlin poteva sentire lo scricchiolio dell’armatura di cuoio dell’omone, il tintinnio delle fibbie metalliche, il crepitare dei ramoscelli sotto i suoi piedi mentre si allontanava dal suo gemello in attesa. Per fortuna, la loro preda continuava a produrre così tanto rumore che con tutta probabilità il guerriero avrebbe potuto procedere sempre nell’identico modo senza essere sentito...

Un urlo terribile echeggiò nella notte, seguito da un grido di spavento e da un suono lacerante, come se cento uomini stessero avanzando attraverso la selva abbattendo tutto quello che avevano intorno.

Raistlin trasalì.

Poi una voce urlò: «Raist, aiuto, Ahiii!»

Un altro fracasso stridente, un rumore di rami spezzati, una serie di tonfi...

Raccogliendo le vesti intorno a sé, Raistlin si precipitò fuori sulla pista degli animali. Non era più il momento della segretezza, dell’occultamento. Continuava a udire le grida di suo fratello. Il suono era ovattato, ma chiaro, non soffocato come se stesse soffrendo.

Correndo attraverso il bosco, Parcimago ignorò i rami che gli schiaffeggiavano il volto e i rovi che s’impigliavano nelle sue vesti. Erompendo all’improvviso e inaspettatamente in una radura, si arrestò, rannicchiandosi accanto a un albero. Vide, davanti a sé, un movimento, una gigantesca ombra nera che pareva librarsi nell’aria, fluttuando sopra il terreno. Avvinghiato a quella creatura d’ombra, urlando e imprecando orribilmente, c’era, a giudicare dal fracasso, Caramon!

«Ast kiranann Soth-aran/Suh kal Jalaran.» Raistlin salmodiò le parole e lanciò in alto la pallina con lo zolfo, in mezzo alle fronde degli alberi. Un’esplosione istantanea di luce fra i rami venne accompagnata da uno scoppio sordo e tonante. Le cime degli alberi esplosero in fiamme illuminando la scena sottostante.

Raistlin si lanciò in avanti, con le parole di un incantesimo sulle labbra; il fuoco magico crepitava dalle punte delle sue dita.

Si fermò, fissando stupito la scena.

Davanti a lui, appeso a testa in giù per una gamba ad una corda legata al ramo di un albero, c’era Caramon. Sospeso accanto a lui, dimenandosi freneticamente per la paura delle fiamme, c’era un coniglio.

Come pietrificato, Raistlin fissò suo fratello. Urlando chiedeva aiuto e ruotava lentamente al vento mentre foglie infuocate cadevano tutt’intorno.

«Raistlin!» continuava a urlare. «Tirami... oh...»

La successiva rivoluzione permise a Caramon di vedere il suo stupefatto fratello. Arrossendo, con il sangue che gli scendeva alla testa, Caramon esibì un sorriso impacciato. «Trappola per lupi,» spiegò.

La foresta era illuminata dalla vivida luce arancione. Il fuoco si rifletteva sulla spada dell’omone, che giaceva al suolo là dove l’aveva lasciata cadere. Scintillava sull’armatura splendente di Caramon, mentre il guerriero continuava a ruotare lentamente su se stesso. Luccicava negli occhi colmi d’un folle terrore del coniglio.

Raistlin ridacchiò.

Adesso toccò a Caramon fissare con offeso stupore suo fratello. Continuando a ruotare fino a quando non se lo trovò un’altra volta di fronte, Caramon torse la testa così da poter fissare suo fratello per dritto, gli rivolse un’occhiata pietosa e implorante.

«Su, Raist! Tirami giù!»

Raistlin cominciò a ridere in silenzio, con le spalle che gli sussultavano.

«Dannazione, Raist! Non è divertente!» esplose Caramon, agitando le braccia. Naturalmente, questo gesto fece sì che il guerriero smettesse di ruotare e cominciasse a oscillare da un lato all’altro.

All’altra estremità della trappola anche il coniglio cominciò a dondolare, annaspando con le zampe in aria ancora più freneticamente. Ben presto i due si trovarono a molare in opposte direzioni, girando l’uno intorno all’altro, aggrovigliando le corde che li imprigionavano.

«Tirami giù!» ruggì Caramon. Il coniglio squittì per il terrore.

Questo era troppo. I ricordi della loro giovinezza tornarono vividi alla mente dell’arcimago, cacciando via la tenebra e l’orrore che avevano stretto la sua anima in una morsa per quelli che sembravano anni interminabili. Ancora una volta era giovane, speranzoso, pieno di sogni. Ancora una volta si trovava con suo fratello, il fratello che gli era vicino più di quanto lo fosse mai stata qualunque altra persona. Il fratello pasticcione, testone e tanto amato... Raistlin si piegò in due.

Rantolando per riuscire a respirare, il mago crollò sull’erba e rise a crepapelle con le lacrime che gli scorrevano sulle guance.

Caramon lo fissò furioso, ma quell’occhiata funesta da parte di un uomo appeso per un piede a testa in giù non fece altro che aumentare l’allegria di suo fratello. Raistlin rise fino al punto di pensare di aver danneggiato qualcosa dentro di sé. La risata gli faceva un buon effetto. Per un po’ bandì l’oscurità. Giacendo sul terreno umido della radura illuminata dalla luce degli alberi in fiamme, Raistlin rise ancora di più, sentendo l’allegria sfavillargli attraverso il corpo come il buon vino. E poi Caramon si unì a lui e il tuono della sua voce rimbombò nella foresta.

Soltanto i frammenti d’albero in fiamme che cadevano al suolo accanto a lui fecero tornare in sé Raistlin. Asciugandosi gli occhi lacrimanti, talmente indebolito dalle risate da riuscire a stento a reggersi in piedi, il mago si alzò barcollando. Con un guizzo della mano fece saltar fuori il piccolo pugnale d’argento che portava nascosto al polso.

Alzò la mano e, drizzandosi in tutta la sua statura, il mago tagliò la corda avvolta intorno alla caviglia di suo fratello. Caramon piombò al suolo con uno schianto e un’imprecazione.

Ancora ridacchiando fra sé, il mago tagliò la corda che qualche cacciatore aveva legato intorno a una delle zampe posteriori del coniglio, e prese l’animale fra le braccia. La creatura era mezza impazzita per il terrore, ma Raistlin accarezzò con delicatezza la testa del coniglio mormorando parole sommesse. A poco a poco l’animale si calmò, dando l’impressione di essere quasi in trance.

«Oh, insomma, l’abbiamo preso vivo,» commentò Raistlin, torcendo le labbra. Sollevò il coniglio.

«Però, non credo che riusciremo a ottenere molte informazioni da lui.»

Talmente rosso in faccia da dar l’impressione di essere caduto dentro una vasca di pittura, Caramon si rizzò a sedere e cominciò a sfregarsi la spalla ammaccata.

«Molto divertente,» borbottò, sollevando lo sguardo sull’animale con un sorriso vergognoso. Le fiamme fra le cime degli alberi si stavano spegnendo, anche se l’aria era piena di fumo e, qua e là, l’erba bruciava. Per fortuna era stato un autunno umido e piovoso, per cui quei fuochi si spensero in fretta.

«Bell’incantesimo,» commentò Caramon, sollevando lo sguardo verso i resti ardenti delle cime degli alberi circostanti mentre, imprecando e gemendo, si rialzava in piedi. «Mi è sempre piaciuto,» replicò Raistlin, ironico. «Me l’ha insegnato Fizban. Ti ricordi?» Sorrise, fissando gli alberi fumanti.

«Credo che quel vecchio l’avrebbe apprezzato.»

Cullando il coniglio fra le braccia, accarezzando i morbidi, serici orecchi, Raistlin uscì fuori dal bosco pieno di fumo. Il coniglio, tra le dita carezzevoli del mago e le sue parole ipnotiche, finì per chiudere gli occhi. Caramon recuperò la spada dal cespuglio in cui l’aveva lasciata cadere e lo seguì zoppicando leggermente.

«Quella dannata trappola mi ha bloccato la circolazione.» Scosse il piede cercando di far muovere il sangue.

Nuvole tempestose avevano coperto il cielo, cancellando le stelle e cancellando del tutto il debole chiarore di Lunitari. Mentre le fiamme tra gli alberi morivano, il bosco sprofondò in un’oscurità così fitta che nessuno dei due fratelli poteva più vedere il sentiero.

«Suppongo che adesso non ci sia più nessuna necessità di segretezza,» mormorò Raistlin. «Shirak.»

Il cristallo in cima al Bastone di Magius cominciò ad ardere di un vivido fulgore magico.

I gemelli fecero ritorno in silenzio al loro campo, un silenzio confortevole, cameratesco, un silenzio quale non condividevano da anni. Gli unici suoni nella notte erano l’incessante agitarsi dei loro cavalli, lo scricchiolio e il tintinnio dell’armatura di Caramon, e il sommesso frusciare dei le vesti nere del mago mentre camminava. Una volta, alle loro spalle, udirono uno schianto: la caduta di un ramo carbonizzato.

Raggiunto il campo, Caramon rimescolò mestamente i resti del loro fuoco, poi sollevò lo sguardo sul coniglio fra le braccia di Raistlin.

«Non credo che vorrai prenderlo in considerazione come prima colazione.»

«Non mangio la carne dei goblin,» rispose Raistlin con un sorriso, mettendo giù la creatura sulla pista. Nel sentire il freddo terreno sotto le sue zampe, il coniglio sussultò, i suoi occhi si spalancarono di colpo. Guardandosi intorno, dopo un istante impiegato ad orientarsi, schizzò via d’un tratto verso il riparo del bosco.

Caramon sospirò poi, ridacchiando fra sé, si sedette pesantemente al suolo accanto al suo sacco a pelo. Sfilandosi lo stivale, si sfregò la caviglia ammaccata.

«Dulac,» bisbigliò Raistlin, e il Bastone si spense. Lo appoggiò accanto al suo sacco a pelo, poi si sdraiò, tirandosi sopra le coperte.

Col ritorno della tenebra, il sogno era là, in attesa.

Kaistlin rabbrividì, d’un tratto il suo corpo cadde in preda alle convulsioni a causa dei brividi di gelo. Il sudore gli copriva la fronte. Non puleva, non osava chiudere gli occhi, Eppure, era così stanco... talmente esausto. Quante notti erano trascorse da quando aveva dormito?

«Caramon,» disse con voce sommessa.

«Sì,» rispose Caramon dal buio.

«Caramon,» ripetè Raistlin, dopo un attimo di silenzio, «ti... ti ricordi che, quand’eravamo bambini, avevo quei... quei terribili sogni?» La voce gli venne meno per un momento. Tossì.

Nessun suono arrivò dal suo gemello.

Raistlin si schiarì la gola, poi bisbigliò, «... e tu proteggevi il mio sonno, fratello mio. Li tenevi lontani...»

«Sì... ricordo,» giunse una voce rauca e smorzata.

«Caramon,» cominciò a dire Raistlin, ma non riuscì a finire. Il dolore e la stanchezza furono troppo.

L’oscurità parve rinchiudersi su di lui, il sogno strisciò fuori dal suo nascondiglio.

E poi ci fu il tintinnare di un’armatura. Una grossa ombra corpulenta comparve accanto a lui. Con uno scricchiolare di cuoio, Caramon si sedette accanto a suo fratello, appoggiando l’ampia schiena contro il tronco di un albero e la spada sguainata sulle ginocchia.

«Dormi pure, Raist,» disse Caramon, con voce gentile. Il mago sentì una mano ruvida accarezzargli goffamente la spalla. «Resterò a fare la guardia...»

Avvolgendosi nelle coperte, Raistlin chiuse gli occhi. Un sonno dolce e ristoratore s’impadronì di lui. L’ultima cosa che ricordò fu un’impressione fugace del sogno che si avvicinava, allungando le proprie mani spettrali per ghermirlo, ma il vivido riflesso della spada di Caramon lo respinse.

Capitolo Settimo.

Il cavallo s’innervosì scrollando la testa quando Caramon si sporse dalla sella spingendo lo sguardo verso il villaggio dentro alla valle. Aggrottando cupo le sopracciglia lanciò un’occhiata a suo fratello. Il volto di Raistlin era nascosto dentro il cappuccio nero. Una pioggia costante aveva cominciato a cadere allo spuntar dell’alba e adesso sgocciolava noiosa e monotona tutt’intorno a loro. Dense nubi grigie incombevano sopra le loro teste e sembravano quasi sorrette dai torreggianti alberi scuri. A parte lo stillicidio dell’acqua dalle foglie, non c’era nessun altro suono.

Raistlin scosse la testa. Poi, parlando con gentilezza al cavallo, avanzò. Caramon lo seguì, affrettandosi a raggiungerlo, e si udì il rumore dell’acciaio che scivolava fuori dal fodero.

«Non avrai bisogno della tua spada, fratello mio,» disse Raistlin, senza voltarsi.

Lo scalpitio degli zoccoli dei cavalli risuonava in mezzo al fango della strada, rimbombando nell’aria densa inzuppata di pioggia. Malgrado le parole di Raistlin, Caramon continuò a tenere la mano sull’elsa della sua spada, fino a quando non s’inoltrarono nella periferia del piccolo villaggio.

Smontando, porse le redini del cavallo a suo fratello poi, con cautela, si avvicinò alla stessa piccola locanda che Crysania aveva visto al suo arrivo.

Sbirciando dentro vide le tavole imbandite per la cena, il vasellame rotto sul pavimento. Un cane si precipitò verso di lui, speranzoso, leccandogli la mano e uggiolando. Dei gatti strisciarono via da sotto le sedie dileguandosi in mezzo alle ombre con aria colpevole e furtiva. Accarezzando il cane con aria distratta, Caramon stava per entrare quando Raistlin lo chiamò.

«Ho sentito un cavallo, laggiù.»

Con la spada sguainata Caramon girò l’angolo dell’edificio. Dopo qualche momento tornò, l’arma rinfoderata, la fronte corrugata.

«È il suo cavallo, » riferì. «Senza sella, nutrito e abbeverato.»

Annuendo con la testa incappucciata, come se si fosse aspettato quell’informazione, Raistlin si strinse ancora di più il mantello al corpo.

Caramon lanciò un’occhiata inquieta al villaggio. L’acqua gocciolava dalle grondaie, la porta della locanda girava sui cardini arrugginiti producendo un suono stridente. Nessuna luce filtrava dalle case, non si udivano i suoni della presenza umana, le risate dei bambini o le donne che si chiamavano fra loro o gli uomini che si lamentavano del tempo mentre si avviavano al lavoro.

«Cos’è, Raist?»

«La peste,» rispose suo fratello.

Caramon soffocò e si coprì subito il naso e la bocca col mantello. Dall’ombra del suo cappuccio, la bocca di Raistlin si piegò in un sorriso ironico.

«Non temere, fratello mio,» disse scendendo dal suo cavallo. Prese le redini, Caramon legò entrambi gli animali a un palo, poi raggiunse suo fratello. «Abbiamo un vero chierico con noi, te ne sei dimenticato?»

«Allora, dov’è?» ringhiò Caramon, con voce ovattata, sempre tenendosi coperto il viso.

Il mago girò la testa, fissando le file di case vuote e silenziose. «Là, immagino,» osservò alla fine.

Caramon seguì il suo sguardo e vide una luce isolata tremolare alla finestra d’una casetta all’estremità opposta del villaggio.

«Preferirei inoltrarmi in un campo di orchi,» bofonchiò Caramon, mentre insieme a suo fratello arrancava lungo le strade fangose e deserte. La sua voce era resa burbera da una paura che non riusciva a nascondere. Poteva guardare in faccia con serenità la prospettiva di morire con sei pollici di gelido acciaio nel ventre. Ma il pensiero di morire inerme, devastato da qualcosa che non poteva venir combattuto, che galleggiava invisibile nell’aria, colmava l’omone di orrore.

Raistlin non rispose. Il suo volto rimase nascosto. Suo fratello non riuscì a indovinare quali potessero essere i suoi pensieri. I due raggiunsero l’estremità della fila di case, la pioggia picchiettava tutt’intorno a loro con lievi tonfi. Si stavano avvicinando alla luce, quando a Caramon capitò di gettare un’occhiata alla sua sinistra.

«In nome degli dei...» mormorò, fermandosi di colpo e afferrando il fratello per il braccio.

Indicò la fossa comune.

Nessuno dei due parlò. Al loro avvicinarsi gli avvoltoi si levarono in aria con gracidii di rabbia, sbattendo le ali nere. Caramon si sentì soffocare. Pallido in volto, si voltò e si affrettò ad allontanarsi. Raistlin continuò a fissare quello spettacolo per qualche istante. Le sue labbra sottili si strinsero diventando una linea dritta.

«Vieni, fratello mio,» disse con voce gelida, tornando a incamminarsi verso la piccola casa.

Guardando dentro attraverso la finestra, con la mano sull’elsa della spada, Caramon sospirò e, annuendo, fece un segnale a suo fratello. Raistlin spinse leggermente la porta, e questa si aprì al suo tocco.

Un giovane giaceva sopra un letto disfatto. I suoi occhi erano chiusi, le mani congiunte sul petto.

C’era un’espressione di profonda serenità sul volto immobile e cinereo, malgrado gli occhi chiusi fossero infossati nelle guance scheletriche e le labbra fossero azzurre per il gelo della morte. Un chierico abbigliato con delle vesti che un tempo avrebbero dovuto essere state bianche era inginocchiato sul pavimento accanto al giovane, la testa china sulle mani congiunte. Caramon fece per dire qualcosa, ma Raistlin lo fermò, appoggiandogli una mano sul braccio, scuotendo la testa incappucciata, riluttante a interrompere la preghiera.

In completo silenzio, i gemelli rimasero immobili tutti e due, là sulla soglia, con la pioggia che continuava a sgocciolare intorno a loro.

Crysania era con il suo dio. Intenta alle sue preghiere, non si accorse dell’ingresso dei due gemelli fino a quando il tintinnio e lo scricchiolio dell’armatura di Caramon non la riportarono alla realtà.

Sollevò la testa, con i capelli scuri e arruffati che le ricadevano sulle spalle, e li guardò senza mostrare nessuna sorpresa.

La sua faccia, nonostante fosse pallida per la stanchezza e il dolore, era composta. Malgrado non avesse pregato Paladine di mandarli, sapeva che il dio rispondeva alle preghiere del cuore oltre a quelle manifestate a parole. Chinò la testa ancora una volta, ringraziando, e sospirò, poi si alzò In piedi e si voltò verso di loro.

I suoi occhi incontrarono quelli di Raistlin. La luce del fuoco morente li fece splendere perfino nelle profondità del suo cappuccio. Quando Crysania parlò, la sua voce parve fondersi con il continuo mormorio della pioggia.

«Ho fallito,» disse.

Raistlin parve imperturbato. Lanciò un’occhiata al corpo del giovane. «Non ha voluto credere?»

«Oh, credeva.» Anche lei abbassò lo sguardo sul cadavere. «Si è rifiutato di permettere che lo guarissi. La sua collera era... molto grande.» Allungando la mano tirò il lenzuolo a coprire la forma immobile. «Paladine l’ha preso con sé. Adesso capisce, ne sono certa.»

«Lui capisce,» osservò Raistlin. «Ma tu?»

Crysania chinò la testa, i capelli scuri le ricaddero intorno al viso. Rimase talmente immobile e per così tanto tempo che Caramon, non riuscendo a capire, si schiarì la gola e, a disagio, spostò il proprio peso da un piede all’altro.

«Uh, Raist...» cominciò a dire con voce sommessa.

«Sst!» gl’intimo Raistlin.

Crysania sollevò la testa. Non aveva neppure udito Caramon. Adesso i suoi occhi erano d’un grigio cupo, così scuro che parevano riflettere le Vesti Nere dell’arcimago. «Capisco,» disse con voce ferma. «Per la prima volta mi è del tutto chiaro quello che devo fare. A Istar ho visto andare smarrita la fede negli dei. Paladine ha esaudito la mia preghiera e mi ha mostrato la fatale debolezza del Gran Sacerdote: l’orgoglio. Il dio mi ha concesso di sapere come fare ad evitare quell’errore. Mi ha fatto sapere che, se l’avessi chiesto, mi avrebbe risposto.

«Ma Paladine mi ha mostrato, a Istar, quanto ero debole. Quando ho lasciato quella sventurata città e sono venuta qui con te, ero poco più d’una bambina spaventata, che si teneva aggrappata a te in quella terribile notte. Adesso ho recuperato le mie forze. La visione di quel tragico spettacolo si è impressa a fuoco nella mia anima.»

Mentre Crysania parlava, si avvicinò di più a Raistlin. Lui la stava fissando senza batter ciglio. Vide se stessa riflessa sulla superficie dei suoi occhi. Il medaglione di Paladine che portava al collo risplendeva d’una fredda luce bianca. La sua voce s’infervorò, le sue mani si serrarono con forza.

«Quello spettacolo sarà davanti ai miei occhi,» proseguì con voce sommessa, fermandosi davanti all’arcimago, «quando varcherò insieme a te il Portale, armata della mia fede, forte della mia convinzione che tu ed io bandiremo per sempre la tenebra dal mondo!»

Tendendo le braccia, Raistlin le prese le mani. Erano intorpidite dal freddo. Le chiuse tra le proprie mani sottili, riscaldandole con il proprio tocco bruciante.

«Non abbiamo nessun bisogno di alterare il tempo!» disse ancora Crysania. «Fistandantilus era un uomo malvagio. Quello che faceva, era soltanto per la sua gloria. Ma tu ed io ci preoccupiamo. Questo, da solo, sarà sufficiente a cambiare la fine. Io lo so, il mio dio mi ha parlato!»

Lentamente, sorridendo impercettibilmente, Raistlin portò le mani di Crysania alle labbra e le baciò, senza mai distogliere gli occhi da lei.

Crysania sentì che le guance le si imporporavano, poi trattenne il respiro. Con un suono soffocato, semi strozzato, Caramon si girò di scatto e uscì dalla porta.

Immobile nel silenzio opprimente, con la pioggia che picchiava sulla sua testa, Caramon sentì una voce rimbombargli nel cervello con lo stesso tono monotono e pigro delle gocce che si spiaccicavano intorno a lui.

Cerca di diventare un dio... di diventare un dio,

Nauseato e timoroso, Caramon scosse la testa in preda all’angoscia. Il suo interesse per l’esercito, il fascino che provava per essersi ritrovato «generale», la sua attrazione per Crysania, e tutte le preoccupazioni avevano allontanato dalla sua mente la vera ragione per cui era tornato. Adesso, le parole di Crysania gliel’avevano fatta tornare alla memoria, colpendolo come un’onda gelida del mare.

Oppure, riusciva ancora a pensare a Raistlin, com’era la sera prima. Quanto tempo era passato da quando aveva sentito suo fratello ridere in quel modo? Quanto tempo era passato da quando avevano condiviso quel calore, quell’intimità? Ricordò vividamente di aver osservato la faccia di Raistlin mentre sorvegliava il sonno del suo gemello. Vide lisciarsi e ammorbidirsi le linee dure dell’astuzia, svanire le pieghe amare intorno alla sua bocca. L’arcimago pareva di nuovo quasi giovane, e Caramon ricordò l’infanzia e l’adolescenza che avevano passato insieme, quei giorni che erano stati i più felici della sua vita.

Ma poi si affacciò, spontaneo, un ricordo orrendo, come se la sua anima si prendesse un perverso piacere nel torturarlo e nel confonderlo. Vide se stesso ancora una volta, in quella oscura cella a Istar, afferrando con chiarezza, per la prima volta, l’immensa capacità di suo fratello per il male.

Ricordava la salda decisione che aveva preso di uccidere suo fratello. Pensò a Tasslehoff.

Ma Raistlin gli aveva spiegato tutto questo! Gli aveva spiegato ogni cosa, a Istar. Ancora una volta Caramon sentì franare ogni certezza.

E se Par-Salian si fosse sbagliato? Se tutti si fossero sbagliati? Se Raistlin e Crysania avessero potuto salvare il mondo da orrori e sofferenze come quella?

«Sono soltanto uno sciocco geloso e pasticcione,» borbottò Caramon, asciugandosi la pioggia sulla faccia con mano tremante. «Forse quei vecchi stregoni sono tutti come me, tutti gelosi di lui.»

L’oscurità gli s’infittì tutt’intorno, le nubi sopra la sua testa diventarono più dense, cambiando dal grigio al nero. La pioggia cominciò a martellare con più forza.

Raistlin uscì dalla porta insieme a Crysania, la mano di lei sul suo braccio. Crysania si era avvolta nel suo pesante mantello, col cappuccio bianco-grigiastro calato sulla testa. Caramon si schiarì la gola.

«Vado a portarlo fuori e a metterlo insieme agli altri,» disse, burbero, dirigendosi a sua volta verso la porta. «Poi colmerò la fossa...»

«No, fratello mio,» lo fermò Raistlin. «NO, questa vista non deve venir nascosta nel terreno.» Buttò indietro il cappuccio lasciando che la pioggia gli scorresse sul viso mentre levava lo sguardo alle nubi. «Questa vista avvamperà negli occhi degli dei! Il fumo della loro distruzione salirà fino al cielo! Il suono echeggerà nelle loro orecchie!»

Caramon, sorpreso da quell’inusitato sfogo, si girò a guardare suo fratello. Il volto sottile di Raistlin appariva quasi scarno, e pallido quanto il corpo all’interno della piccola casa. La sua voce era tesa per la collera.

«Vieni con me,» disse all’improvviso, liberandosi dalla stretta di Crysania e incamminandosi a grandi passi verso il centro del piccolo villaggio. Crysania lo seguì, tenendo stretto il cappuccio, per impedire che il vento e la pioggia sferzanti lo soffiassero via. Caramon li seguì, più lentamente.

Raistlin si fermò nel mezzo della strada infangata, inzuppata di pioggia, e si voltò verso Crysania e suo fratello quando gli furono vicini.

«Vai a prendere i cavalli, Caramon, i nostri e quello di Crysania. Portali in quel bosco fuori del villaggio,» il mago glielo indicò, «bendali, e poi torna da me.»

Caramon lo fissò titubante.

«Fallo!» gl’intimo Raistlin, con voce raschiante.

Caramon fece come gli era stato detto, e condusse via i cavalli.

«Adesso, mettiti là,» continuò Raistlin quando il suo gemello tornò. «Non muoverti da quel punto. Non avvicinarti a me, fratello mio, non importa quello che accadrà.» Il suo sguardo andò a Crysania, che era in piedi accanto a lui, e poi di nuovo a suo fratello. «Hai capito, Caramon?»

Caramon annuì senza dire una parola e, tendendo un braccio, prese con delicatezza la mano di Crysania.

«Cosa c’è?» chiese lei, tirandosi indietro.

«La sua magia,» disse Caramon.

Si azzittì quando Raistlin gli lanciò un’occhiata brusca e imperiosa. Allarmata dalla strana, feroce e fervida espressione sulla faccia di Raistlin, Crysania, all’improvviso, si strinse addosso a Caramon, tremando. L’omone, con gli occhi fissi sul suo fragile gemello, la cinse con il braccio. Immobili, là in mezzo alla pioggia battente, quasi non osando respirare per timore di disturbarlo, fissarono l’arcimago. Gli occhi di Raistlin si chiusero. Sollevò il volto al cielo, alzò le braccia con i palmi delle mani rivolti verso l’esterno, verso il cielo rabbuiato. Le sue labbra si mossero ma, per un momento, Caramon e Crysania non riuscirono a udirlo. Poi, malgrado non avesse dato l’impressione di aver alzato la voce, ognuno dei due cominciò a distinguere le parole: l’arcana lingua della magia.

Raistlin ripetè le stesse parole più e più volte, la sua voce si alzava e si abbassava fluida come in un canto. Le parole non cambiavano mai, ma il modo di pronunciarle, l’inflessione di ciascuna, variavano tutte le volte che ripeteva la frase.

Il silenzio calò sulla valle. Perfino il crepitio della pioggia che continuava a cadere si spense negli orecchi di Caramon. Tutto quello che riusciva a sentire era quel sommesso salmodiare, la musica strana e arcana della voce di suo fratello. Crysania si strinse ancora di più a lui, i suoi occhi scuri si spalancarono sempre di più, e Caramon le batté la mano sulla schiena per rassicurarla.

A mano a mano che il canto continuava, una sensazione di reverenziale timore s’impadronì di Caramon. Provò la chiara impressione di trovarsi irresistibilmente attirato verso Raistlin e che ogni cosa, lì nel mondo, venisse attirata verso l’arcimago anche se, guardandosi timorosamente intorno, Caramon vide che non si era mosso dal punto in cui si trovava. Ma nel voltarsi per fissare di nuovo suo fratello provò di nuovo quella sensazione, e ancora più intensa di prima.

Raistlin era al centro del mondo, con le mani tese, e tutti i suoni, tutte le luci, perfino l’aria stessa, parevano precipitarsi con impazienza dentro la sua stretta. Il terreno sotto i piedi di Caramon cominciò a pulsare in ondate che scorrevano verso l’arcimago.

Raistlin sollevò le mani ancora più in alto, la sua voce divenne impercettibilmente più forte. Fece una pausa, poi prese a sillabare con fermezza ogni parola del canto. I venti si levarono, il terreno sussultò. Caramon ebbe la pazzesca impressione che il mondo si precipitasse su suo fratello, e piantò saldamente i piedi per terra, timoroso di venire risucchiato anche lui nel vortice scuro di Raistlin.

***

Le dita di Raistlin si puntarono verso il cielo grigio e ribollente. L’energia che aveva estratto dal suolo e dall’aria sgorgò impetuosamente attraverso il suo corpo. Lampi argentei balenarono dalle sue dita, colpendo le nubi. In risposta, una vivida luce frastagliata schizzò verso il suolo, toccando la piccola casa dove si trovava il corpo del giovane chierico. Con un’esplosione squassante, una palla di fuoco biancoazzurro avvolse l’edificio.

Raistlin parlò ancora una volta, e ancora una volta i lampi argentei schizzarono fuori dalle sue dita.

Ancora una volta una saetta giunse in risposta, colpendo il mago. Questa volta fu Raistlin ad essere avvolto nella fiamma rosso-verde.

Crysania urlò. Lottando nella stretta di Caramon, tentò di liberarsi. Ma, ricordando le parole di suo fratello, Caramon la tenne stretta, impedendole di precipitarsi al fianco di Raistlin.

«Guarda!» bisbigliò con voce rauca, stringendola con forza. «Le fiamme non lo toccano!»

In piedi in mezzo alla vampa, Raistlin sollevò ancora più in alto le braccia sottili, e le vesti nere gli sbatterono intorno come se fossero al centro d’un violento uragano. Parlò di nuovo. Dita di fuoco guizzanti si diffusero su di lui, illuminando la tenebra, sfrecciando in mezzo all’erba umida, danzando sulla superficie dell’acqua come se fosse coperta d’olio. Raistlin si trovava al centro, il mozzo d’una grande ruota di fiamma.

Crysania non poteva muoversi. Terrore e sgomento quali non aveva mai provato prima la paralizzavano. Si strinse a Caramon, ma lui non le offriva nessun conforto. I due si stringevano l’uno all’altra come bambini spaventati mentre le fiamme si levavano intorno a loro. Propagandosi lungo le vie, le fiamme raggiunsero gli edifici, incendiandoli, causando un’esplosione dopo l’altra.

Il fuoco avvampò verso l’alto, purpureo, rosso, azzurro e verde, illuminando il cielo, prendendo il posto del sole oscurato dalle nubi. Gli avvoltoi volteggiarono impauriti quando gli alberi sui quali si erano appollaiati divennero torce infuocate.

Raistlin parlò ancora, un’ultima volta. Con un’esplosione di pura luce bianca, il fuoco eruttò giù dal cielo, consumando i corpi nella fossa comune.

Il vento generato dalle fiamme sibilava a raffiche intorno a Crysania, soffiandole via il cappuccio dalla testa. Il calore era intenso e le sferzava il volto. Il fumo la soffocava, impedendole di respirare.

Una pioggia di scintille cadeva intorno a lei, le fiamme guizzarono ai suoi piedi fino a quando parve che anche lei finisse per far parte della conflagrazione. Ma niente la toccava. Lei e Caramon si trovavano al sicuro al centro dell’incendio. E poi Crysania divenne conscia dello sguardo di Raistlin puntato su di lei.

Dall’inferno di fuoco nel quale si trovava, il mago fece un cenno nella sua direzione.

Crysania rantolò, stringendosi ancora di più addosso a Caramon.

Raistlin fece un altro gesto, le vesti nere sbattevano intorno al suo corpo, increspandosi al vento generato dalla tempesta di fuoco che aveva creato. In piedi, al centro delle fiamme, tese le mani in direzione di Crysania.

«No!» gridò Caramon, stringendola a sé. Ma Crysania, senza mai togliere gli occhi da Raistlin, si liberò delicatamente dalla stretta e prese ad avanzare verso di lui.

«Vieni da me, Reverenda Figlia!» La morbida voce di Raistlin la toccò in mezzo al caos, e seppe che l’udiva nel suo cuore. «Vieni a me attraverso le fiamme. Vieni ad assaporare il potere degli dei...»

Il calore del fuoco avvampante che avvolgeva l’arcimago pareva inaridire, ardere l’anima di Crysania, e la sua pelle sembrava sul punto di annerirsi e accartocciarsi. Sentì crepitare i propri capelli. Il respiro le venne risucchiato dai polmoni, prosciugandoli dolorosamente. Ma il vivido bagliore del fuoco l’ammalliava, le fiamme danzanti l’attraevano, mentre la sommessa voce di Raistlin continuava a sollecitarla a muoversi verso di lui.

«No!» Crysania udì gridare Caramon alle sue spalle... ma Caramon non era niente per lei, meno del battito del proprio cuore. Raggiunse la cortina di fiamme. Raistlin tese la mano ma, per un istante, titubò, esitò.

La mano gli bruciava! Crysania la vide accartocciarsi, la pelle annerirsi e carbonizzarsi.

«Vieni da me, Crysania...» bisbigliò la sua voce.

Crysania allungò la propria mano, tremando, e la immerse in mezzo alla fiamma. Per un istante vi fu un dolore bruciante, che quasi le fermò il cuore. Gridò per il dolore e l’angoscia, poi la mano di Raistlin si chiuse sopra la sua, attirandola attraverso la cortina fiammeggiante. Involontariamente Crysania chiuse gli occhi.

Un vento fresco la calmò. Poteva respirare in un’aria dolce. L’unico calore che sentiva era quello intenso e familiare del corpo del mago. Aprì gli occhi e vide che si trovava vicino a lui. Alzò la testa e lo guardò in viso... e avvertì una fulminea, tagliente fitta al cuore.

Il volto sottile di Raistlin luccicava di sudore, i suoi occhi riflettevano la fiamma bianca e pura dei corpi che ardevano, il suo respiro era corto e veloce. Pareva smarrito, inconsapevole di dove si trovasse. E c’era un’espressione estatica sulla sua faccia, un’espressione di esultanza e di trionfo.

«Capisco,» si disse Crysania, aggrappandosi alle sue mani. «Capisco. E per questo che non mi può amare. Ha un solo amore nella sua vita, la sua magia. A questo amore darà qualsiasi cosa, per questo amore rischierà qualsiasi cosa!»

Il pensiero era doloroso, malinconico e tuttavia quasi piacevole.

«Ancora una volta,» disse di nuovo fra sé, e i suoi occhi si velarono di lacrime, «egli è il mio esempio. Per troppo tempo ho lasciato che la mia mente vagasse tra le cose insignificanti di questo mondo, di me stessa. Ha ragione. Adesso assaporo il potere degli dei. Devo essere degna... di loro e di lui!»

Raistlin chiuse gli occhi; Crysania, reggendosi a lui, sentì la magia scorrer via dal suo essere, come se il suo sangue colasse fuori da una ferita. Le braccia gli ricaddero lungo i fianchi. La sfera di fuoco che li aveva avvolti tremolò e si spense.

Con un sospiro che era poco più di un sussurro, Raistlin cadde in ginocchio sul terreno riarso. La pioggia riprese. Crysania la sentì sibilare quando colpì i resti carbonizzati del villaggio ancora fumante. Il vapore si levò nell’aria, aleggiando fra gli scheletri degli edifici, vagando lungo la strada come gli spettri dei suoi defunti abitanti.

Inginocchiata accanto al’arcimago, Crysania gli lisciò i capelli castani con la mano. Raistlin aprì gli occhi, guardandola senza riconoscerla. E in essi vide un dolore profondo e imperituro, l’espressione di qualcuno a cui è stato concesso di entrare in un reame di bellezza perigliosa e micidiale e che poi si trovi, ancora una volta, ricacciato nel mondo grigio spazzato dalla pioggia.

Il mago si accasciò in avanti, la testa china, le braccia penzoloni. Crysania sollevò lo sguardo su Caramon, quando l’omone arrivò di corsa.

«Stai bene?» le chiese.

«Sto bene,» lei lo rassicurò. «Ma lui?»

Insieme, aiutarono Raistlin ad alzarsi in piedi. Pareva del tutto inconsapevole della loro esistenza.

Barcollando per lo sforzo, si afflosciò contro suo fratello.

«Si rimetterà. Gli succede sempre.» La voce di Caramon si spense, poi ripetè, borbottando:

«Succede sempre? Ma cosa sto dicendo? Non ho mai visto niente del genere in vita mia! In nome degli dei,» fissò il suo gemello in preda allo sgomento. «Non ho mai visto un potere del genere! Non lo sapevo! Non lo sapevo...»

Sorretto dal forte braccio di Caramon, Raistlin si appoggiò al suo gemello. Cominciò a tossire, ansimando per respirare, soffocando, fino a quando non riuscì a malapena a reggersi in piedi.

Caramon lo tenne stretto. La nebbia e il fumo turbinavano intorno ai loro piedi, la pioggia ticchettava intorno a loro. Qua e là si sentiva lo schianto della legna che, bruciando, si crepava, lo sfrigolio dell’acqua sul fuoco. Quando l’accesso di tosse passò, Raistlin sollevò la testa, la vita e la coscienza riemersero nei suoi occhi.

«Crysania,» disse con voce sommessa, «ti ho chiesto di farlo perché devi avere una fede implicita in me e nel mio potere. Se avremo successo nella nostra Cerca, Reverenda Figlia, allora varcheremo il Portale e ci addentreremo nell’Abisso ad occhi aperti: un luogo di orrori inimmaginabili.»

Crysania cominciò a tremare incontrollabilmente, là, immobile, davanti a lui, ipnotizzata dai suoi occhi lucidi.

«Devi essere forte, Reverenda Figlia,» lui riprese, scandendo le parole. «Ed è questa la ragione per la quale ti ho condotta con me in questo viaggio. Io ho superato le mie prove. Tu devi superare le tue. A Istar hai affrontato le prove del vento e dell’acqua. Hai vinto la prova della tenebra all’interno della Torre, e adesso dovevi sopportare la prova del fuoco. Ma un’altra prova ti aspetta, Crysania! Un’altra ancora, e devi prepararti, come dobbiamo farlo tutti noi.»

I suoi occhi si chiusero stancamente. Barcollò. Caramon, il volto cupo e all’improvviso smunto, sorresse il suo gemello e, sollevandolo di peso, lo trasportò fino al punto in cui i cavalli erano in attesa.

Crysania si affrettò a seguirli, accelerando il passo, guardando Raistlin preoccupata. Malgrado la sua debolezza, c’era un’espressione di pace sublime e di esultanza sul suo volto.

«Cosa c’è che non va?» chiese Crysania.

«Sta dormendo,» disse Caramon con voce profonda e burbera, nascondendo qualche emozione che lei non riusciva a indovinare.

Raggiunti che ebbero i cavalli, Crysania si fermò un momento, voltandosi per guardare dietro di sé.

Il fumo si levava dalle rovine carbonizzate del villaggio. Gli scheletri degli edifici erano crollati formando mucchi di cenere d’un bianco puro, gli alberi erano ridotti a volute di fumo che si levavano verso il cielo.

Mentre Crysania guardava, la pioggia si abbatté sulla cenere trasformandola in fango e trascinandola via. La nebbia si sfilacciò, il fumo venne spazzato via e disperso dai venti della tempesta.

Il villaggio era scomparso come se non ci fosse mai stato.

Crysania fu scossa da un brivido e, stringendosi nel mantello, si voltò verso Caramon, il quale stava mettendo Raistlin in sella, scrollandolo, costringendolo a svegliarsi quel tanto che bastava per cavalcare.

«Caramon,» disse Crysania, quando il guerriero si avvicinò per aiutarla, «cos’ha voluto dire Raistlin con... “un’altra prova”? Ho visto l’espressione del tuo viso quando l’ha detto. Tu lo sai, vero? Tu capisci.»

Caramon lasciò passare qualche istante prima di rispondere. Accanto a loro, Raistlin ondeggiava, ancora stordito, sulla sella. Alla fine, la testa china, il mago sprofondò una volta ancora nel sonno.

Dopo aver aiutato Crysania, Caramon si avvicinò al proprio cavallo, e vi montò in arcione. Poi, allungando un braccio, prese le redini dalle mani flaccide del fratello addormentato. Risalirono il pendio della montagna in mezzo alla pioggia, senza che Caramon si voltasse una sola volta a guardare ciò che restava del villaggio, alle sue spalle.

In silenzio, il guerriero condusse i cavalli su per il sentiero. Accanto a lui, Raistlin si era accasciato sul collo della sua cavalcatura. Caramon teneva in sella suo fratello con mano ferma ma delicata.

«Caramon,» fece Crysania con voce sommessa, quando raggiunsero la sommità della montagna.

Il guerriero si voltò verso Crysania. Quindi, con un profondo sospiro, il suo sguardo volse verso sud dove, lontano da loro, si trovava Thorbardin. Le nubi tempestose si stavano ammassando dense e cupe sul remoto orizzonte.

«Secondo un’antica leggenda, prima di affrontare la Regina delle Tenebre, Huma venne messo alla prova dagli dei. Superò le prove del vento, del fuoco, dell’acqua. E la sua ultima prova,» concluse Caramon con calma, «fu quella del sangue.».

Libro Terzo.

Orme sulla sabbia.

L’esercito di Fistandantilus avanzò verso sud come un’onda di piena raggiungendo Caergoth proprio mentre il vento staccava le ultime foglie dai rami degli alberi e la gelida mano dell’inverno serrava nella sua morsa il paese.

Le sponde del Nuovo Mare fecero arrestare l’esercito. Ma Caramon, sapendo che comunque dovevano attraversarlo, aveva già da molto tempo fatto i preparativi. Affidato il comando del grosso del suo esercito a suo fratello e al più fedele dei suoi subordinati, Caramon guidò un gruppo dei suoi uomini meglio addestrati fino alle sponde del Nuovo Mare. Inoltre, con lui c’erano tutti i fabbri, i falegnami e i carpentieri che si erano uniti all’esercito.

Caramon stabilì il suo quartier generale nella città di Caergoth. Aveva sentito parlare di quella famosa città portuale da quando era nato (nella sua vita precedente). Trecento anni dopo il Cataclisma sarebbe stata, appunto, un’attiva e prosperosa città portuale. Ma adesso, solo a cent’anni dal giorno in cui la montagna di fuoco si era abbattuta su Krynn, Caergoth era una città in preda alla confusione. Un tempo piccola comunità agricola nel mezzo della Pianura Solamnica, Caergoth era ancora sconvolta a causa dell’improvvisa comparsa di un mare alle sue porte.

Guardando giù dal suo quartier generale, dove all’improvviso le strade della città s’interrompevano in un precario precipizio lungo i ripidi dirupi fino alle spiagge sottostanti, Caramon pensò, incongruamente, a Tharsis. Il Cataclisma aveva derubato quella città del suo mare, lasciando le sue imbarcazioni arenate sui banchi di sabbia come morenti uccelli marini, mentre qui a Caergoth il Nuovo Mare lambiva quello che era stato terreno arato.

Caramon ripensò con nostalgia a quelle navi arenate a Tharsis. Qui a Caergoth c’era qualche imbarcazione, ma non in numero sufficiente per le sue necessità. Mandò i suoi uomini ad esplorare la costa in entrambe le direzioni per centinaia di miglia, con l’ordine di acquistare, o sequestrare, vascelli di ogni tipo, se possibile insieme ai loro equipaggi. Con questi, le navi salparono fino a Caergoth, dove i fabbri e i carpentieri le ristrutturarono per consentire il trasporto del maggior carico possibile per il breve viaggio attraverso i bassi fondali di Shallsea, fino all’Abanasinia.

Ogni giorno, Caramon riceveva puntualmente rapporti sulla consistenza dell’esercito dei nani; su come Pax Tharkas veniva fortificata; su come i nani avevano importato schiavi (nani dei fossi) per far funzionare miniere e fucine per forgiare l’acciaio giorno e notte, sfornando armi e armature; su come queste erano trasportate su carri fino a Thorbardin e trasferite dentro la montagna. Aveva ricevuto rapporti anche da emissari dei nani delle colline e degli uomini delle pianure. Aveva avuto notizia del grande raduno delle tribù in Abanasinia, le quali avevano accantonato le proprie faide decidendo di combattere unite per la sopravvivenza. Aveva sentito parlare dei preparativi fatti dai nani delle colline, i quali stavano anch’essi forgiando armi, usando gli stessi schiavi impiegati dai loro cugini, i nani delle montagne.

Con discrezione, Caramon aveva perfino fatto delle proposte agli elfi di Qualinesti. Questo gli aveva creato una strana sensazione, poiché colui al quale aveva inviato il messaggio altri non era che Solostaran, il Rappresentante dei Soli, il quale, soltanto poche settimane prima, era morto, nel suo vero tempo. Raistlin aveva esibito un sorriso di scherno nell’udire di quel tentativo d’indurre gli elfi a entrare in guerra, sapendo molto bene quale sarebbe stata la loro risposta. Ma l’arcimago stava covando la segreta speranza, nutrita nelle ore tenebrose della notte, che questa volta le circostanze avrebbero potuto dimostrarsi diverse.

Non fu così.

Gli uomini di Caramon non ebbero una sola possibilità di parlare a Solostaran. Prima ancora che potessero smontare dai loro cavalli, un nugolo di frecce sibilò attraverso l’aria conficcandosi al suolo con un tonfo, formando un cerchio mortale intorno a ciascuno di essi. Aguzzando gli occhi nel bosco di tremoli, poterono vedere, letteralmente, centinaia di arcieri ognuno con la sua freccia incoccata, pronta ad essere scagliata.

Non venne pronunciata una sola parola. I messaggeri se ne andarono, portando a Caramon una freccia elfica in risposta.

In realtà, la guerra stessa cominciava a causare a Caramon una bizzarra sensazione. Mettendo insieme quello che aveva sentito delle discussioni fra Raistlin e Crysania, Caramon si era reso conto d’un tratto che tutto quello che stava facendo era già stato fatto in precedenza. Quel pensiero era un incubo per lui quasi quanto lo era per suo fratello, anche se per ragioni enormemente diverse.

«Ho l’impressione che quell’anello di ferro che portavo intorno al collo a Istar mi sia stato imbullonato di nuovo,» borbottò fra sé Caramon una notte, mentre sedeva nella locanda a Caergoth, che aveva requisito facendone il suo quartier generale. «Sono di nuovo uno schiavo come lo ero allora. Soltanto, questa volta è peggio perché, perfino quando ero uno schiavo, avevo per lo meno la libertà di scegliere se tirare o no un respiro, quel giorno. Voglio dire, se avessi voluto morire, avrei potuto cadere sulla mia spada e morire! Ma adesso, a quanto pare, non mi è concessa neppure questa scelta.»

Per Caramon era un concetto strano e orripilante, sul quale si attardava e rimuginava notte dopo notte, un concetto che sapeva di non essere in grado di capire. Gli sarebbe piaciuto parlarne con suo fratello, ma Raistlin era tornato all’accampamento nell’entroterra dove stazionava il resto dell’esercito, e anche se fossero stati insieme, Caramon era certo che il suo gemello si sarebbe rifiutato di discuterne.

Durante quel periodo, Raistlin aveva continuato quasi ogni giorno a riacquistare vigore. Dopo aver impiegato gli incantesimi che avevano consumato il villaggio morto come tra le fiamme di una pira, per due giorni l’arcimago era rimasto in deliquio, anche lui praticamente morto per il resto del mondo. Quando infine si era svegliato dal suo sonno febbrile, aveva annunciato di aver fame. Nei pochi giorni che erano seguiti, aveva trangugiato più cibo solido di quanto era stato capace di tollerare nei mesi addietro. La tosse era scomparsa. Aveva ben presto riguadagnato le forze e si era rimesso in carne.

Ma era sempre tormentato da incubi, che neppure le più potenti pozioni di sonnifero riuscivano a scacciare.

Giorno e notte Raistlin rifletteva sul suo problema. Se soltanto fosse riuscito a sapere qual era stato l’errore fatale di Fistandantilus, avrebbe potuto rimediarvi.

Progetti inverosimili gli balzarono alla mente. L’arcimago si baloccò perfino con l’idea di viaggiare avanti nel proprio tempo per compiere delle ricerche, ma abbandonò quasi subito l’idea. Se consumare tra le fiamme il villaggio l’aveva reso esausto per due giorni, l’incantesimo del viaggio nel tempo si sarebbe dimostrato ancora più faticoso. E anche se nel presente fosse trascorso soltanto un giorno, o due, mentre recuperava le forze, nel passato sarebbero volati via interi eoni.

E infine, se anche fosse riuscito a tornare, non avrebbe avuto forze sufficienti per combattere la Regina delle Tenebre.

E poi, proprio quando aveva quasi rinunciato per la disperazione, la risposta gli balenò nella mente...

Capitolo primo

Raistlin sollevò la falda della tenda ed uscì fuori, La sentinella di turno trasalì e mosse i piedi a disagio. L’aspetto dell’arcimago era sempre snervante, perfino per gli uomini della sua guardia personale. Pareva sempre materializzarsi dal nulla. La prima indicazione della sua presenza era il tocco delle sue dita brucianti su un braccio nudo, oppure una serie di parole bisbigliate, o il frusciare delle sue vesti nere.

La tenda dello stregone veniva guardata con meraviglia e sgomento, anche se nessuno aveva mai visto niente di strano emanare da essa. Naturalmente erano in molti ad osservarla, specialmente i bambini, i quali speravano di vedere un mostro orribile sfuggire al controllo dell’arcimago e scatenarsi come un tuono attraverso il campo, divorando tutti quelli che gli si fossero parati davanti fino a che loro non fossero stati in grado di placarlo con un pezzettino di pan di zenzero.

Ma non accadeva mai niente del genere. L’arcimago conservava e tutelava le proprie forze con grande cautela. Stanotte sarà diverso, rifletté Raistlin con un sospiro e un aggrottare della fronte. Ma non poteva far niente.

«Guardia,» chiese, con un filo di voce.

«Mi... mio signore?» balbettò la guardia in preda a una certa confusione. Ben di rado l’arcimago parlava con qualcuno, e per di più non con una semplice guardia.

«Dov’è Dama Crysania?»

La guardia non riuscì a reprimere un contorcersi delle labbra quando rispose che la «strega» era, così almeno credeva, nella tenda del generale Caramon, essendosi ritirata per la sera.

«Devo mandare qualcuno a chiamarla, mio signore?» chiese a Raistlin, con una riluttanza talmente ovvia che il mago non potè fare a meno di sorridere, nonostante il suo volto fosse celato fra le ombre del cappuccio grigio.

«No,» rispose, compiaciuto, come se si ritenesse soddisfatto da questa informazione. «E avete notizie di mio fratello? Quando dovrebbe tornare?»

«Il generale Caramon ha fatto sapere che arriverà domani, mio signore,» proseguì la guardia, sconcertata, convinta com’era che il mago lo sapesse già. «Dobbiamo aspettare qui il suo arrivo e nello stesso tempo lasciare che il convoglio dei rifornimenti ci raggiunga. I primi carri sono già arrivati questo pomeriggio, mio signore.» La guardia fu colta da un pensiero improvviso. «Se... se hai intenzione di cambiare questi ordini, mio signore, dovrei chiamare il capitano di turno...»

«No, no, niente del genere,» rispose Raistlin in tono conciliante. «Volevo soltanto assicurarmi che non sarei stato disturbato questa notte, per nessuna ragione e da nessuno. È chiaro... uhm, qual è il tuo nome?»

«M...Michael, Vossignoria, signore,» rispose la guardia. «Certamente, mio signore. Se questi sono i tuoi ordini, li eseguirò.»

«Bene,» annuì Raistlin. L’arcimago rimase silenzioso per un momento, fissando la notte che era fredda ma rischiarata dalla luce di Lunitari e dalle stelle. Solinari, al tramonto, era soltanto un graffio argenteo sul cielo. Cosa più importante per Raistlin, era la luna che lui soltanto poteva vedere. Nuitari, la Luna Nera, era piena e rotonda, un buco di tenebra fra le stelle.

Raistlin si avvicinò di un altro passo alla sentinella. Scostando leggermente il cappuccio dal viso, lasciò che la luce della luna rossa colpisse i suoi occhi. La sentinella, sorpresa, fece involontariamente un passo indietro, ma il suo severo addestramento come Cavaliere di Solamnia l’indusse a fermarsi.

Raistlin sentì che il corpo dell’uomo s’irrigidiva. Vide la reazione e sorrise di nuovo. Alzando una mano sottile l’appoggiò sulla corazza che copriva il petto della guardia.

«Nessuno deve entrare nella mia tenda per qualsivoglia ragione,» ribadì l’arcimago con quel sussurro sommesso e sibilante che sapeva usare con tanta efficacia. «Non importa quello che accadrà! Nessuno... non Dama Crysania, o mio fratello, tu stesso... nessuno!»

«Ca... capisco, mio signore,» balbettò Michael.

«Questa notte potresti vedere o sentire strane cose,» continuò Raistlin, fissando la guardia con il suo sguardo ammaliatore. «Ignorale. Chiunque entri in questa tenda lo farà a rischio della sua vita... e della mia!»

«S... sì, signore!» disse Michael, deglutendo a fatica. Un rivolo di sudore gli scorse lungo il viso, anche se l’aria della notte era eccessivamente fresca per l’autunno.

«Tu sei... o eri... un Cavaliere di Solamnia?» gli chiese Raistlin d’un tratto.

Michael parve a disagio, il suo sguardo vagò qua e là. Apri la bocca, ma Raistlin scosse la testa.

«Non importa. Non sei obbligato a dirmelo. Anche se ti sei rasato i baffi, lo capisco dal tuo viso. Conoscevo un cavaliere, un tempo, capisci. Perciò giurami, sul Codice e la Misura, che farai come ti ho chiesto.»

«Lo giuro, sul Codice e... la Misura...» bisbigliò Michael.

Il mago annuì, in apparenza soddisfatto, e si voltò per entrare nella sua tenda. Michael, non più prigioniero di quegli occhi nei quali aveva visto solamente se stesso riflesso, tornò al suo posto, rabbrividendo sotto il suo pesante mantello di lana. All’ultimo momento, però, Raistlin si fermò. Le vesti gli frusciarono sommessamente intorno. «Sir Cavaliere,» bisbigliò.

Michael si voltò.

«Se qualcuno dovesse entrare in questa tenda,» disse il mago, in tono gentile e piacevole, «e dovesse disturbare il mio incantesimo... e io dovessi sopravvivere, mi aspetto di trovare soltanto il tuo cadavere sul terreno. Questa è l’unica giustificazione che accetterò per il tuo insuccesso.»

«Sì, signore,» replicò Michael con maggior fermezza, anche se a bassa voce. «Est Sularas oth Mithas. Il mio onore è la mia vita.»

«Sì.» Raistlin scrollò le spalle. «Di solito è così che finisce.»

L’arcimago entrò infine nella sua tenda, lasciando Michael al buio in attesa che... soltanto-i-nuovi-dei-sapevano-cosa... accadesse nella tenda alle sue spalle.

Michael desiderò che suo cugino, Garic, fosse lì con lui a condividere quello strano e sinistro compito. Ma Garic era con Caramon. Michael infossò ancora di più le spalle nel mantello e guardò con nostalgia l’accampamento. C’erano i fuochi dei bivacchi, il caldo vino speziato, una buona compagnia, l’echeggiare delle risate. Qui, invece, tutto era avvolto in una fitta oscurità, tinta di rosso, illuminata dalla luce delle stelle. L’unico rumore che Michael poteva udire era quello della sua armatura, che prese a tintinnare quando lui cominciò a tremare incontrollabilmente.

Raistlin attraversò la tenda da un lato all’altro e arrivò a una grande cassa di legno che si trovava sul pavimento accanto al letto. La cassa, scolpita con rune magiche, era l’unica proprietà di Raistlin, oltre al Bastone di Magius, che il mago non permetteva a nessuno di toccare, al di fuori di lui stesso.

Non che qualcuno volesse provarci. Non più, dopo quanto aveva riferito una delle guardie che per sbaglio aveva tentato di sollevarla. Raistlin non aveva detto una parola, si era semplicemente limitato ad osservare la guardia che la lasciava cadere con un gemito.

Al tocco, la cassa si era rivelata d’un gelo pungente, aveva riferito la guardia con voce ancora scossa ai suoi amici intorno al fuoco, quella notte. Ma non soltanto questo... era anche stato sopraffatto da una sensazione d’orrore così intensa che c’era da meravigliarsi che non fosse impazzito.

Da quel giorno, soltanto Raistlin l’aveva spostata, anche se nessuno sapeva dire come. Era sempre lì, nella sua tenda, ma nessuno riusciva a ricordare di averla mai vista su qualcuno dei cavalli da soma.

Sollevando il coperchio della cassa, Raistlin ne studiò con calma il contenuto: i libri degli incantesimi rilegati in azzurro-notte, i vasetti e le bottiglie e le borse con i componenti degli incantesimi, i suoi libri personali degli incantesimi rilegati in nero, un assortimento di pergamene, e parecchie vesti nere ripiegate sul fondo. Non c’erano anelli o ciondoli magici, come quelli che si sarebbero potuti trovare in possesso di maghi di rango inferiore. Questi erano oggetti che Raistlin disprezzava, ritenendoli adatti soltanto ai deboli.

Il suo sguardo scorse rapidamente su tutti gli oggetti contenuti nella cassa, compreso un libro sottile e assai consunto che avrebbe potuto indurre l’osservatore casuale a soffermarsi a fissarlo, chiedendosi come un articolo così mondano fosse tenuto insieme ad oggetti di valore arcano. Il titolo, scritto con caratteri fiammeggianti per attirare l’attenzione del compratore, era: Tecniche di Prestidigitazione Concepite per Stupire e Deliziare! Sotto queste parole stava scritto il sottotitolo:

Sbalordite i vostri amici, ingannate i creduloni! Poteva esserci stato dell’altro, ma il resto era stato consumato ormai da molto tempo da mani giovani, avide e amorevoli.

Quel libro perfino adesso fece increspare in un sorriso le labbra sottili del mago, sull’onda dei ricordi, mentre vi faceva scivolare sopra le mani, le quali passarono però oltre, affondando tra le sue vesti. Qui trovarono una scatoletta e la tirarono fuori. Anche questa era coperta da rune scolpite sulla sua superficie. Mormorando parole magiche per annullare il loro effetto, il mago aprì la scatoletta con reverenza. Dentro c’era soltanto un oggetto: un supporto d’argento decorato. Raistlin tolse con cautela il supporto dalla scatola e, alzatosi in piedi, lo portò fino al tavolo che aveva sistemato al centro della tenda.

Preso posto su una sedia, il mago infilò la mano in una delle sue tasche segrete e ne estrasse un piccolo oggetto di cristallo. Vorticante di colori, a prima vista non assomigliava a niente di più sinistro d’una biglia di vetro per bambini. Però, guardando l’oggetto più da vicino, ci si accorgeva che i colori intrappolati nel suo interno erano vivi. Essi davanti agli occhi si muovevano e cambiavano in continuazione, come se cercassero di fuggire.

Raistlin appoggiò la pallina sul supporto. Appollaiata là sopra appariva ridicola, fin troppo minuscola. E poi, come sempre all’improvviso, fu perfetta. Era cresciuta, il supporto era rimpicciolito... forse lo stesso Raistlin era rimpicciolito, poiché adesso era il mago che aveva la sensazione di apparire ridicolo.

Era una sensazione ben nota, ormai, e c’era abituato, sapendo che il Globo dei draghi - poiché tale era quel lucido globo di cristallo dai colori turbinanti - cercava sempre di mettere il suo fruitore in posizione di svantaggio. Ma, molto tempo prima (no, in un tempo futuro) Raistlin aveva dominato il Globo dei draghi. Aveva imparato a dominare l’essenza della specie di drago che l’abitava.

Rilassando il proprio corpo, Raistlin chiuse gli occhi e si abbandonò alla sua magia. Protese le mani, appoggiò le dita sul freddo cristallo del Globo dei draghi, e pronunciò le antiche parole: «Ast bilak moiparalan / Suh akvlar tantangusar.»

Il gelo del globo cominciò a diffondersi attraverso le sue dita facendogli dolere perfino le ossa.

Serrando i denti, Raistlin ripetè le parole.

«Ast bilak moiparalan / Suh akvlar tantangusar.»

I colori turbinanti all’interno del globo cessarono i loro vacui vagabondaggi e cominciarono a roteare follemente. Raistlin fissò l’interno di quell’abbacinante vortice, combattendo lo stordimento che l’aveva assalito, tenendo le mani appoggiate con fermezza sopra il globo. Lentamente, bisbigliò una volta ancora le parole.

I colori cessarono di turbinare e una luce arse al loro centro. Raistlin sbatté le palpebre, poi si accigliò. La luce non avrebbe dovuto essere né nera né bianca, di tutti i colori ma di nessuno, simboleggiando così la mescolanza del bene e del male e della neutralità che saldava l’esistenza dei draghi all’interno del globo. Così era sempre stato, sin dalla prima volta che aveva guardato dentro il globo e aveva lottato per controllarlo.

Ma la luce che vedeva in quel momento, nonostante fosse molto simile a quella che aveva visto prima, pareva inanellata da ombre scure. La fissò attento, con freddezza, bandendo ogni fantasioso volo dell’immaginazione. La sua fronte si corrugò ancora di più. C’erano ombre che si libravano ai bordi... ombre di... ah! Dalla luce sbucarono due mani. Raistlin le afferrò e... rantolò.

Le mani lo tirarono con forza tale che, colto del tutto di sorpresa, Raistlin perse quasi il controllo.

Fu solo quando si sentì attirare dalle mani dentro il globo, all’interno di quella luce d’ombra, che esercitò la propria forza di volontà e diede uno strattone alle mani, tirandole verso di sé.

«Cosa significa questo?» chiese Raistlin con voce severa. «Perché mi sfidi? Già molto tempo fa sono diventato il tuo padrone.»

Lei chiama... Lei chiama e noi dobbiamo ubbidire.

«Chi chiama, al punto di essere più importante di me?» chiese Raistlin con un sorriso beffardo, anche se all’improvviso sentì il suo sangue scorrergli più freddo della sensazione di gelo che gli trasmetteva il globo.

La nostra Regina! Sentiamo la sua voce, che si muove nei nostri sogni, disturbando il nostro sonno.

Vieni, padrone, ti prenderemo! Affrettati a venire!

La Regina! Raistlin involontariamente tremò, incapace di trattenersi. Le mani, sentendo che s’indeboliva, ripresero ancora una volta a tirarlo. Rabbiosamente, Raistlin moltiplicò la stretta su di esse e ristette, nel tentativo di dipanare i suoi pensieri che turbinavano follemente tanto quanto i colori all’interno del globo.

La Regina! Naturalmente, avrebbe dovuto prevederlo. Era entrata nel mondo, parzialmente, e adesso si aggirava in mezzo ai draghi del male. Banditi da Krynn molto tempo prima dal sacrificio del Cavaliere Solamnico, Huma, i draghi, sia quelli del bene sia del male, dormivano in luoghi profondi e segreti.

Lasciando che i draghi del bene continuassero a dormire indisturbati, la Regina delle Tenebre, Takhisis, il Drago dalle Cinque Teste, stava risvegliando i draghi del male facendoli passare alla sua causa, mentre combatteva per il controllo del mondo.

Il Globo dei draghi, malgrado fosse costituito dalle essenze di tutti i draghi (buoni, malvagi e neutrali) avrebbe, naturalmente, reagito con forza ai comandi della Regina, specialmente adesso che il lato malvagio era predominante, enfatizzato dalla natura del suo padrone.

Quelle ombre che vedo sono le ali dei draghi, oppure le ombre della mia anima? si chiese Raistlin, fissando il globo.

Tuttavia non ebbe agio di riflettere. Tutti quei pensieri gli sfrecciarono attraverso la mente con tanta rapidità che tra un inspirare e il successivo espirare l’arcimago vide il grave pericolo che gli si parava davanti. Bastava che perdesse il controllo anche per un solo istante, e Takhisis l’avrebbe rivendicato a sé.

«No, mia Regina,» mormorò, serrando con forza le mani all’interno del globo. «Non sarà così facile.»

Parlò al globo con voce sommessa, ma ferma: «Sono ancora il tuo padrone. Sono colui che ti ha salvato da Silvanesti e da Lorac, il folle re degli Elfi. Sono colui che ti ha portato a salvamento attraverso il Mare di Sangue di Istar. Io sono Rai...» esitò, deglutì all’improvviso sapore di amaro che aveva in bocca, poi disse a denti stretti: «Io sono... Fistandantilus, Maestro del Passato e del Presente, e ti ordino di obbedirmi!»

La luce del globo si affievolì. Raistlin sentì le mani che stringevano le sue tremare e cominciare a sgusciar via. La rabbia e la paura saettarono attraverso il suo corpo, ma nel medesimo istante represse queste emozioni, e continuò a stringere saldamente nella sua morsa quelle mani. Il tremito cessò, le mani si rilassarono.

Obbediamo, padrone.

Raistlin non osò tirare un sospiro di sollievo. «Molto bene,» dichiarò, mantenendo severa la voce... un genitore che parlava a un bambino da lui castigato. (Ma che bambino pericoloso! pensò). E freddamente continuò: «Devo mettermi in contatto con il mio apprendista nella Torre della Grande Stregoneria a Palanthas. Ascoltate dunque il mio ordine e obbedite. Portate la mia voce attraverso i flussi eterei del tempo. Portate le mie precise parole a Dalamar.»

Pronuncia le parole, padrone. Le sentirà, allo stesso modo in cui sente il battito del proprio cuore, e così tu sentirai la sua risposta.

Raistlin annuì...

Capitolo secondo.

Dalamar chiuse il libro degli incantesimi stringendo il pugno per la frustrazione. Era certo di star facendo ogni cosa nella maniera giusta, pronunciando le parole con l’esatta inflessione, ripetendo il canto il numero prescritto di volte. I componenti erano quelli richiesti. Aveva visto Raistlin lanciare quell’incantesimo un centinaio di volte. Eppure, lui non riusciva a lanciarlo.

Prendendosi stancamente la testa fra le mani, chiuse gli occhi e richiamò alla mente i ricordi del suo Shalafi, sentendo la voce sommessa di Raistlin, cercando di ricordare il tono e il ritmo esatti, sforzandosi di pensare a qualsiasi cosa che gli potesse capitare di eseguire nel modo sbagliato.

Non servì. Ogni cosa pareva la stessa! Be’, pensò Dalamar con un sospiro di stanchezza, devo semplicemente aspettare fino a quando non sarà tornato.

Alzandosi in piedi, l’elfo scuro pronunciò una parola magica e l’incantesimo della luce continua che aveva lanciato sul globo di cristallo che si trovava sulla scrivania della biblioteca di Raistlin si spense. Nessun fuoco ardeva nel caminetto. A Palanthas la notte della calda primavera era dolce e serena. Dalamar aveva perfino osato socchiudere la finestra.

Anche nei momenti migliori la salute di Raistlin era fragile. Aborriva l’aria fresca, preferendo restar seduto nel suo studio avvolto nel calore e nei sentori delle rose, delle spezie e della putredine. Di solito a Dalamar ciò non importava. Ma c’erano momenti di nostalgia, particolarmente in primavera, quando la sua anima di elfo bramava la patria dei boschi che aveva lasciato per sempre. In piedi accanto alla finestra, odorando il profumo della nuova vita al quale neppure gli orrori del Bosco di Shoikan potevano impedire di raggiungere la Torre, Dalamar si permise di pensare, solo per un momento, a Silvanesti.

Un elfo scuro è qualcuno che viene allontanato dalla luce. Questo era Dalamar per il suo popolo.

Quando l’avevano sorpreso a indossare le Vesti Nere che nessun elfo poteva anche soltanto guardare senza sussultare, intento a praticare arti arcane, proibite a qualcuno di rango e posizione sociale bassi come i suoi, i signori degli elfi avevano legato Dalamar mani e piedi, gli avevano imbavagliato la bocca e bendati gli occhi. Poi era stato buttato in un carro e trasportato fino ai confini della sua terra.

Privato della vista, gli ultimi ricordi che Dalamar aveva avuto di Silvanesti erano stati l’odore dei tremoli, dei fiori in boccio, delle distese di muschio. Ricordava che anche allora era primavera.

Sarebbe tornato indietro se avesse potuto? Avrebbe rinunciato a tutto questo, pur di tornare?

Provava qualche dispiacere, qualche rincrescimento? Senza volerlo, Dalamar si portò la mano al petto. Sotto le vesti nere poteva sentire le ferite sul suo torace. Malgrado fosse passata una settimana da quando la mano di Raistlin l’aveva toccato, bruciando la sua pelle e lasciandovi cinque fori, le ferite non si erano rimarginate. Né si sarebbero mai più rimarginate. Dalamar lo sapeva con amara certezza. Sempre, per tutto il resto della sua vita, avrebbe sentito il loro dolore. Tutte le volte che si fosse trovato nudo, le avrebbe viste, cicatrici purulente che la pelle non avrebbe mai più ricoperto. Quella era la punizione che aveva pagato per aver tradito il suo Shalafi.

Come aveva detto al grande Par-sallian, Capo dell’Ordine, Maestro della Torre della Grande Stregoneria a Wayreth, e anche maestro di Dalamar, in un certo senso, poiché l’elfo scuro era stato in realtà una spia dell’Ordine dei Maghi, che temevano Raistlin e diffidavano di lui come di nessun altro mortale nella loro storia: «Niente di più di quello che mi meritavo».

Avrebbe lasciato quel luogo pericoloso? Sarebbe tornato a casa, a Silvanesti?

Dalamar guardò fuori della finestra con un sorriso torvo e contorto, che ricordava quello di Raistlin, il suo Shalafi. Quasi involontariamente lo sguardo di Dalamar andò dal pacifico cielo notturno rischiarato dalla luce delle stelle all’interno della stanza sulle file e file di libri d’incantesimi rilegati in color azzurro-notte che tappezzavano le pareti della biblioteca. Con la sua memoria vide gli spettacoli meravigliosi, orribili, bellissimi e terrificanti ai quali aveva avuto il privilegio di assistere come apprendista di Raistlin.

Sentì l’agitarsi del potere dentro la sua anima, un piacere che ultracompensava il dolore.

No, non sarebbe mai tornato. Non se ne sarebbe mai andato da qui...

Le riflessioni di Dalamar vennero interrotte dal suono d’una campana d’argento. Fu un unico rintocco, basso e dolce. Ma per i vivi (e i morti; all’interno della Torre ebbe l’effetto d’un colpo di gong che avesse squassato l’aria. Qualcuno stava tentando di entrare! Qualcuno che era riuscito a superare i pericoli del Bosco di Shoikan e si trovava alla porta della Torre medesima!

Avendo già evocato con la mente i ricordi di Par-sallian, Dalamar ebbe improvvise, sgradite visioni di potenti stregoni dalle vesti bianche sulla soglia della sua dimora... Poteva inoltre sentire, nella sua mente, riecheggiare ciò che aveva detto al Consiglio soltanto poche notti prima: «Se qualcuno di voi dovesse venire, e cercasse di entrare nella Torre mentre Lui è via, io vi ucciderei.»

Dalamar pronunciò le parole di un incantesimo: scomparve dalle biblioteca per ricomparire, nel tempo necessario a tirare un sospiro all’ingresso della Torre.

Ma non si trovò ad affrontare un conclave di stregoni dagli occhi fiammeggianti. Si trattava soltanto di una figura rivestita- di un’armatura azzurra di scaglie di drago che ostentava l’orrenda maschera cornuta d un Signore dei Draghi. Dalamar vide che nella mano guantata la figura stringeva un gioiello nero, un gioiello della notte, e potè percepire dietro alla figura, anche se non poteva vederla, la presenza di un essere dallo spaventoso potere: un cavaliere della morte.

Il Signore dei Draghi si serviva del gioiello per tenere a bada parecchi guardiani della Torre. I loro pallidi volti erano visibili alla luce scura del gioiello della notte, assetati di sangue vivo. Anche se Dalamar non poteva vedere il volto del Signore dei Draghi, sotto l’elmo, era in grado di percepire il calore della sua collera.

«Signora Kitiara!» disse Dalamar con voce grave, inchinandosi «Perdona questa brusca accoglienza. Se soltanto ci avessi fatto sapere che saresti venuta...» Strappandosi di dosso l’elmo, Kitiara fissò Dalamar coi i gelidi occhi castani che ricordavano, quasi come una sferzata, ; Dalamar, la di lei stretta parentela con lo Shalafi.

«Avresti progettato per me un’accoglienza ancora più interessante senza dubbio!» ringhiò Kitiara, buttando indietro rabbiosamente i capelli scuri e riccioluti. «Io vado e vengo dove mi pare e piace, specialmente per far visita a mio fratello!» La sua voce letteralmente tremava per la collera. «Mi sono fatta strada, là fuori, in mezzo a quei vostri alberi maledetti... poi vengo attaccata alla porta d’ingresso!» La sua mano sfoderò la spada. Fece un passo avanti. «Per gli dei, dovrei darti una lezione, feccia di un elfo...»

«Ripeto le mie scuse,» replicò Dalamar con calma, ma c’era un luccichio nei suoi occhi obliqui che indusse Kit a esitare nel suo atto inconsulto. Come la maggior parte dei guerrieri, Kitiara tendeva a considerare i fruitori di magia dei deboli che passavano il tempo a leggere libri e che avrebbero potuto essere utilizzati assai meglio facendogli impugnare il freddo acciaio. Oh, potevano produrre dei risultati sfolgoranti, non c’era dubbio, ma quando fosse stata messa alla prova lei preferiva assai più affidarsi alla propria abilità nel maneggiare la spada piuttosto che alle parole arcane e allo sterco di pipistrello.

Così, nella sua mente, immaginava Raistlin, il suo fratellastro, ed era così che immaginava anche il suo apprendista, con il marchio, per di più, che Dalamar era soltanto un elfo, una razza nota per la sua debolezza.

Ma Kitiara era, sotto un altro aspetto, diversa dalla maggior parte dei guerrieri, ed era questa la ragione principale che le aveva consentito di sopravvivere a tutti coloro che si erano opposti a lei.

Era molto abile nel valutare i suoi avversari. Un’occhiata alla compostezza e agli occhi gelidi di Dalamar davanti alla sua collera, e Kitiara si chiese, in quel mentre, se non avesse incontrato un avversario degno di lei.

Non lo comprendeva, non ancora, in nessun modo. Ma vedeva e riconosceva il pericolo in quell’uomo e, mentre si prendeva un appunto mentale di stare in guardia, cercando comunque di trarne il maggior vantaggio possibile, scoprì di essere attratta da lui. Il fatto che fosse in realtà così aitante (adesso che ci pensava, non aveva affatto l’aspetto tipico di un elfo) e avesse un corpo così robusto e muscoloso (la cui struttura riempiva in modo mirabile le sue vesti nere), le fece capire all’improvviso che avrebbe potuto ottenere di più, da lui, mostrandosi amichevole piuttosto che minacciosa e insolente. Di certo, pensò, attardandosi con lo sguardo sul petto dell’elfo, là dove le vesti nere si erano leggermente scostate ed era possibile intravedere la sottostante pelle bronzea, la cosa avrebbe potuto rivelarsi assai più divertente.

Rinfoderando la spada, Kitiara continuò ad avanzare, soltanto, adesso, la luce che prima lampeggiava sulla sua spada, scintillava nei suoi occhi.

«Perdonami, Dalamar... è questo il tuo nome, vero?» Il suo cipiglio si fuse nel sorriso ammaliante che aveva fatto tante conquiste. «Quel maledetto Bosco mi dà sui nervi. Hai ragione, avrei dovuto avvertire mio fratello che sarei arrivata, ma ho agito d’impulso.» Adesso era vicina a Dalamar, molto vicina. Levando lo sguardo sul suo volto nascosto com’era dalle ombre del cappuccio, aggiunse: «Spesso... io agisco d’impulso.»

Con un gesto, Dalamar congedò i Guardiani. Poi il giovane elfo fissò la donna che gli stava davanti con un sorriso affascinante che rivaleggiava con quello di lei.

Vedendo il suo sorriso, Kitiara gli porse la mano guantata. «Perdonata?»

Il sorriso di Dalamar diventò più intenso, ma l’elfo si limitò a rispondere: «Togliti il guanto, Signora.»

Kitiara trasalì, e per un attimo i suoi occhi castani si dilatarono pericolosamente. Ma Dalamar continuò a sorriderle. Scrollando le spalle, Kitiara tirò ad una ad una le dita del suo guanto di cuoio, denudando la mano.

«Ecco,» disse infine, con una punta di dispetto nella voce, «come vedi, non nascondevo nessuna arma.»

«Oh, questo già lo sapevo,» rispose Dalamar, prendendole adesso la mano nella sua. I suoi occhi ancora fissavano quelli di lei; l’elfo scuro si portò la mano di Kitiara alle labbra, e la baciò, attardandovisi. «Mi avresti voluto negare questo piacere?»

Le sue labbra erano calde, le sue mani robuste, e Kitiara sentì al suo tocco il sangue montarle dentro il corpo. Ma vide negli occhi di Dalamar che lui conosceva il suo gioco, e vide anche che era un gioco che lui stesso giocava. Il suo rispetto crebbe al pari della sua cautela. Era davvero un avversario degno di tutta la sua attenzione, della sua totale attenzione.

Facendo sgusciar via la mano dalla sua stretta, Kitiara se la mise dietro la schiena in un giocoso gesto tutto femminile che contrastava curiosamente con la sua armatura e il suo portamento mascolino di guerriero. Era un gesto concepito per attirare e confondere, e vide, nei lineamenti imporporati dell’elfo, che aveva avuto successo.

«Forse ho delle armi nascoste sotto la mia armatura, che una volta o l’altra dovresti cercare,» gli disse con un ghignetto beffardo.

«Al contrario,» replicò Dalamar, incrociando le mani dentro le vesti nere, «le tue armi mi sembrano chiaramente visibili. Se dovessi perquisirti, Signora, cercherei quella che l’armatura protegge e che, malgrado molti uomini possano averla penetrata, nessuno ha ancora toccato.» Gli occhi elfici risero.

Kitiara trattenne il respiro. Ammalliata dalle sue parole, ricordando ancora la sensazione di quelle calde labbra sulla sua pelle, fece un altro passo avanti, piegando il volto verso quello dell’uomo.

Freddamente, senza dare l’impressione di essere consapevole della sua azione, Dalamar fece un grazioso movimento sul fianco, girando le spalle a Kitiara. Aspettandosi di venire accolta fra le braccia dell’elfo, Kit invece perse l’equilibrio. Goffamente, inciampò.

Recuperato l’equilibrio con agilità felina, si girò di scatto per fronteggiarlo, il volto imporporato dall’imbarazzo e dal furore. Kitiara aveva ucciso uomini i quali avevano fatto assai meno che prendersi gioco di lei in quel modo. Ma restò sconcertata nel vedere che, in apparenza, era del tutto inconscio di ciò che aveva appena fatto. Oppure no? Il suo volto era accuratamente vuoto d’una qualsiasi espressione. Ora stava parlando di suo fratello... No, no, l’aveva fatto di proposito.

L’avrebbe pagata...

Adesso Kit conosceva il suo avversario, ammetteva la sua capacità. Com’era sua caratteristica, non avrebbe perduto tempo a denigrarsi per il suo errore. Aveva mostrato il fianco, aveva ricevuto una ferita. Adesso era preparata.

«... mi rincresce profondamente che lo Shalafi non sia qui,» stava dicendo Dalamar. «Sono certo che a tuo fratello dispiacerà di apprendere di non averti potuto accogliere.»

«Non è qui?» chiese Kit, facendosi di colpo attenta. «Come mai? Dove si trova? Dove può essere andato?»

«Sono certo che te l’ha detto,» replicò Dalamar con finta sorpresa. «È tornato al passato per cercare la saggezza di Fistandantilus e scoprire così il Portale attraverso il quale...»

«Vuoi dire... che è partito? Senza il chierico?» D’un tratto Kit ricordò che nessuno avrebbe dovuto sapere che era stata lei a mandare Lord Soth a uccidere Crysania per impedire a suo fratello di attuare la folle idea di sfidare la Regina Tenebrosa. Mordendosi il labbro lanciò un’occhiata alle proprie spalle in direzione del cavaliere della morte.

Dalamar seguì il suo sguardo sorridendo, cogliendo ogni pensiero sotto quegli adorabili capelli riccioluti. «Oh, tu sapevi dell’aggressione a Dama Crysania?» chiese con aria innocente.

Kit si accigliò. «Tu sai dannatamente bene che sapevo dell’aggressione! E lo sa anche mio fratello. Non è un idiota, anche se è un pazzo.»

Si girò di scatto: «Mi avevi detto che la donna era morta!»

«Lo era,» intonò Lord Soth. Il cavaliere della morte si materializzò davanti a lei dall’ombra, i suoi occhi arancione lampeggiavano nelle occhiaie invisibili. «Nessun umano può sopravvivere a una mia aggressione.»

Gli occhi arancione rivolsero lo sguardo immortale sull’elfo scuro. «E il tuo padrone non avrebbe potuto salvarla.»

«No,» ammise Dalamar, «ma il suo padrone poteva, e l’ha fatto. Paladine ha lanciato un controincantesimo sul suo chierico, traendo a sé la sua anima, pur lasciando alle spalle il guscio del suo corpo. Il gemello dello Shalafi, il tuo fratellastro Caramon, Signora,» Dalamar rivolse un inchino alla furente Kitiara, «ha portato la donna nella Torre della Grande Stregoneria dove i maghi l’hanno mandata indietro nel tempo, dal solo chierico abbastanza potente da salvarla, il Gran Sacerdote di Istar!»

«Imbecilli!» ringhiò Kitiara, facendosi livida in volto. «L’hanno mandata da lui! Era proprio quello che Raistlin voleva!»

«Lo sapevano,» disse Dalamar con voce sommessa. «Gliel’ho detto...»

«Glielo hai detto?» ansimò Kitiara.

«Ci sono delle faccende che dovrei spiegarti,» disse Dalamar. «Potrebbe volerci un po’ di tempo. Per lo meno, mettiamoci comodi. Vuoi venire nelle mie stanze?»

Le porse il braccio. Kitiara esitò, poi appoggiò la mano sul suo avambraccio. Prendendola intorno alla vita, lui l’attirò a sé. Colta di sorpresa, Kitiara cercò di sottrarglisi, ma non ci mise molto impegno. Dalamar la trattenne con una stretta salda ed energica.

«Acciocché l’incantesimo ci possa trasportare,» le disse con freddezza, «devi rimanere quanto più possibile vicina a me.»

«Sono capacissima di camminare,» ribatté Kitiara. «La magia mi serve assai poco!»

Ma nel dire queste parole lo guardò negli occhi, e premette con forza il proprio corpo contro quello compatto e muscoloso di lui, con sensuale abbandono.

«Molto bene.» Dalamar scrollò le spalle e all’improvviso scomparve.

Guardandosi intorno, sorpresa, Kitiara udì la sua voce: «Su per la scala a chiocciola, Signora. Dopo cinquecentotrentanove gradini, gira a sinistra.»

«Perciò capisci,» disse Dalamar, «per me la posta in gioco è grande quanto la tua. Sono stato mandato dal Conclave di tutti e tre gli Ordini, il Nero, il Bianco e il Rosso, per impedire che accada questa cosa spaventevole.»

Dalamar e Kitiara si stavano rilassando negli alloggi privati, sontuosamente arredati, dell’elfo scuro, all’interno della Torre. I resti d’un pasto raffinato erano stati fatti sparire con un grazioso gesto della mano dell’elfo.

Adesso sedevano davanti a un fuoco che era stato acceso più per far luce che per il calore, in quella notte di primavera. Le fiamme danzanti inducevano maggiormente alla conversazione...

«Allora, perché non l’avete fermato?» volle sapere Kit con rabbia, mettendo giù il suo calice dorato con un secco colpo tintinnante. «Cosa c’era mai di tanto difficile?» Facendo un gesto con la mano, aggiunse delle parole per illustrare il suo movimento: «Un coltello nella schiena, veloce, semplice.»

Rivolgendo a Dalamar un’occhiata sprezzante, esibì un sorriso beffardo. «Oppure voi maghi siete al di sopra di queste cose?»

«Non al di sopra,» replicò Dalamar, gratificando Kitiara d’una intensa occhiata. «Ci sono mezzi più sottili che generalmente noi Vesti Nere usiamo per sbarazzarci dei nostri nemici. Ma non contro di Lui, Signora. Non contro tuo fratello.»

Dalamar fu attraversato da un leggero brivido e bevve il suo vino con insolita fretta.

«Bah!» sbuffò Kitiara.

«No, ascoltami e cerca di capire, Kitiara,» disse Dalamar con voce sommessa. «Tu non conosci tuo fratello. Non lo conosci e, ciò che è peggio, non lo temi! Questo ti condurrà alla tua distruzione.»

«Temerlo? Quel rudere mingherlino, quel mago da quattro soldi? Non parlerai seriamente...» cominciò Kitiara, scoppiando a ridere. Ma la sua risata si spense. Si sporse in avanti. «Ma tu parli seriamente. Posso vederlo nei tuoi occhi!»

Dalamar sorrise torvo. «Lo temo quanto non temo null’altro al mondo, compresa la morte.»

Sollevando le mani, l’elfo scuro afferrò le sue vesti nere e le aprì con uno strappo, lacerando le cuciture, rivelando le ferite sul suo petto.

Kitiara, sconcertata, guardò le ferite, poi sollevò lo sguardo sul pallido volto dell’elfo scuro. «Quale arma ha causato questi segni? Non ricono...»

«La sua mano,» disse Dalamar, con voce priva d’emozione. «Il marchio delle sue cinque dita. Era questo il suo messaggio per Par-sallian e il Conclave, quando mi ha ordinato di porger loro i suoi saluti.»

Kit aveva visto molti spettacoli terribili: uomini sbudellati davanti ai suoi occhi, teste troncate, sedute di tortura sotto le montagne conosciute come i Signori del Giudizio. Ma vedendo quelle piaghe suppuranti e, nella sua mente, le dita sottili di suo fratello che bruciavano la pelle dell’elfo scuro, non potè fare a meno di reprimere un brivido.

Tornando ad adagiarsi sulla sua sedia, Kit riesaminò con attenzione nella sua mente tutto ciò che Dalamar le aveva detto, e cominciò a pensare che, forse, lei aveva sottovalutato Raistlin. Grave in volto, si mise a sorseggiare il vino.

«E così ha in mente di varcare il Portale,» disse a Dalamar, scandendo le parole e cercando di riadattare il suo pensiero lungo queste nuove e sorprendenti linee. «Varcherà il Portale insieme al chierico. Si troverà nell’Abisso. E poi? Sa di sicuro di non poter combattere contro la Regina delle Tenebre sul suo piano d’esistenza!»

«Certo che lo sa,» replicò Dalamar. «È forte, ma là la Regina è più forte. E così intende attirarla fuori, costringerla ad entrare in questo mondo. Qui, ritiene di poterla distruggere.»

«Pazzo!» bisbigliò Kitiara con il respiro appena sufficiente ad alitare la parola. «È pazzo!» Si affrettò a metter giù il calice di vino, quando vide il liquido traboccare sulla sua mano tremante.

«L’ha vista su questo piano d’esistenza quand’era soltanto un’ombra, quando le era stato impedito di entrare completamente. Non può immaginare come potrà essere!...»

Kit si alzò in piedi e percorse nervosamente il folto tappeto decorato con le immagini mute di alberi e di fiori tanto amate dagli elfi. Avvertendo un gelo improvviso si fermò davanti al fuoco. Dalamar si fermò accanto a lei con un frusciare di vesti nere. Già mentre parlava, assorta nei propri pensieri e nelle proprie paure, Kit era consapevole del caldo corpo dell’elfo accanto al suo. «Voi che ne pensate?»

Dalamar scrollò le spalle e, avvicinandosi di un altro passo, mise le mani sul collo sottile di Kitiara.

Le sue dita accarezzarono delicatamente la pelle liscia. La sensazione era deliziosa. Kitiara chiuse gli occhi, tirando un profondo, tremante sospiro.

«I maghi non lo sanno,» disse Dalamar con voce sommessa, chinandosi a baciare Kitiara sotto l’orecchio. Stirandosi come un gatto, inarcò il corpo all’indietro, contro il suo.

«Qui, lui sarà nel suo elemento,» continuò Dalamar. «La Regina si troverà indebolita. Ma non sarà certo facile sconfiggerla. Qualcuno pensa che la battaglia magica fra i due potrebbe benissimo distruggere il mondo.»

Kitiara sollevò la mano e la fece scorrere attraverso i serici, folti capelli dell’elfo, attirando le sue labbra bramose alla propria gola. «Ma... ha una possibilità?» insistè, con un rauco bisbiglio.

Dalamar ristette, poi si ritrasse da lei. Con le mani ancora sulle sue spalle, fece girare Kitiara, in modo che lo guardasse in viso. E nei suoi occhi lesse ciò che lei stava pensando.

«Naturalmente, c’è sempre una possibilità.»

«E cosa farai, se riuscirà a varcare il Portale?» Le mani di Kitiara si appoggiavano leggere sul petto di Dalamar, là dove suo fratello aveva lasciato il terribile marchio. I suoi occhi, guardando dentro a quelli dell’elfo, erano illuminati da una passione che quasi nascondeva, ma non del tutto, la sua mente calcolatrice.

«Io devo impedirgli di tornare a questo mondo,» disse Dalamar. «Devo bloccare il Portale in modo che non possa riattraversarlo.» La mano seguì la curva beffarda delle sue labbra.

«Quale sarà la tua ricompensa per una missione cosi pericolosa?» Kitiara premette ancor più il corpo contro quello di lui, mordendogli giocosamente la punta delle dita.

«Allora sarò Maestro della Torre,» lui rispose. «E il prossimo capo dell’Ordine delle Vesti Nere. Perché?»

«Potrei aiutarti,» disse Kitiara con un sospiro, muovendo le dita sul petto di Dalamar, salendogli fin sopra le spalle, impastando le sue carni con mani simili alle zampe di un gatto. Le mani di Dalamar si strinsero quasi convulsamente intorno a lei, attirandola ancora più vicina.

«Potrei aiutarti,» Kitiara ripetè con un feroce sussurro. «Non puoi combatterlo da solo.»

«Ah, mia cara,» Dalamar la guardò con un sorriso sardonico e beffardo, «chi aiuteresti, me o lui?»

«Questo,» replicò Kitiara, facendo scivolare le mani sotto la lacerazione nel tessuto delle vesti nere dell’elfo scuro, «dipenderà completamente da chi starà vincendo!»

Il sorriso di Dalamar si allargò, le sue labbra sfiorarono il mento di lei. Le bisbigliò all’orecchio:

«Così, noi ci capiamo, Signora.»

«Oh, sì, ci capiamo,» annuì Kitiara, sospirando di piacere. «E adesso basta con mio fratello. C’è qualcosa che vorrei chiedere. Qualcosa che m’incuriosisce da molto tempo. Cosa indossano sotto le loro vesti i fruitori di magia, elfo scuro?»

«Molto poco,» mormorò Dalamar. «E cosa indossano sotto le loro armature le donne guerriere?»

«Niente.»

Kitiara se n’era andata.

Dalamar giaceva sul suo letto, mezzo sveglio e mezzo addormentato. Poteva ancora sentire la fragranza dei suoi capelli sul cuscino, profumo e acciaio, una mistura intossicante non dissimile da Kitiara medesima.

L’elfo scuro si allungò voluttuosamente, sogghignando. Kitiara lo avrebbe tradito, non aveva nessun dubbio in proposito. E lei sapeva che lui l’avrebbe uccisa nel giro d’un istante se fosse stato necessario, per riuscire nel suo scopo. Nessuno dei due trovava amara quella consapevolezza. In realtà, aggiungeva uno strano sapore piccante alle loro gesta amorose. Chiudendo gli occhi, lasciandosi cogliere dal sonno, Dalamar sentì attraverso la finestra aperta un rumore di ali d’acciaio che si allargavano per prendere il volo. La immaginò, seduta sul suo drago azzurro, con l’elmo in forma di drago che luccicava al chiarore della luna...

Dalamar!

L’elfo scuro trasalì e si rizzò a sedere. Era completamente sveglio. La paura gli percorse tutto il corpo. Tremando al suono di quella voce familiare, lanciò un’occhiata intorno a sé.

«Shalafi?» pronunciò la parola con esitazione. Non c’era nessuno. Dalamar si portò la mano alla testa. «Un sogno...» mormorò.

Dalamar!

Di nuovo la voce, questa volta inequivocabile.

Dalamar si guardò intorno, impotente. La sua paura crebbe. Fare scherzi non era affatto da Raistlin.

L’arcimago aveva lanciato l’incantesimo del viaggio nel tempo. Era già partito da una settimana e non ci si aspettava che tornasse per molte settimane ancora. Però Dalamar conosceva quella voce come conosceva il battito del proprio cuore!

«Shalafi, ti sento,» disse, cercando di mantenere fermo il tono della sua voce. «Eppure non posso vederti. Dove...»

Mi trovo, come hai supposto, nel passato, apprendista. Ti parlo attraverso il Globo dei draghi. Ho un compito da affidarti. Ascoltami con attenzione e segui esattamente le mie istruzioni. Agisci subito. Non bisogna perdere tempo. Ogni istante è prezioso...

Chiudendo gli occhi, così da potersi concentrare, Dalamar sentì con chiarezza la voce, però sentì anche uno scroscio di risate entrare dalla finestra aperta: una festa di qualche tipo, indetta per onorare la primavera, stava per iniziare. Fuori dalle porte della Città Vecchia ardevano i fuochi dei bivacchi, i giovani si scambiavano fiori alla loro luce, e si baciavano nel buio. L’aria era dolce di letizia e di amore e del profumo delle rose di primavera in boccio.

Ma poi Raistlin cominciò a parlare, e Dalamar non prestò più la minima attenzione a tutto questo.

Si dimenticò di Kitiara. Si dimenticò dell’amore. Si dimenticò della primavera. Ascoltando, interrogando, comprendendo, tutto il suo corpo vibrava della voce del suo Shalafi.

Capitolo terzo

Bertrem percorse con passo felpato le sale della Grande Biblioteca di Palanthas. Le sue vesti di estetico gli sussurravano intorno alle caviglie, il loro fruscio s’intonava al motivo che Bertrem stava canticchiando mentre camminava. Aveva contemplato i festeggiamenti della primavera dalle finestre della Grande Biblioteca e adesso stava per tornare al suo lavoro fra le migliaia e migliaia di libri e di pergamene ospitati all’interno della biblioteca; la melodia di una delle canzoni udite si attardava nella sua mente.

«Ta-tum, ta-tum,» cantava Bertrem con la sua voce sottile e stonata, tenuta bassa così da non risvegliare gli echi delle ampie sale a volta della Grande Biblioteca.

Gli echi erano tutto ciò che poteva venir disturbato dal canto di Bertrem, poiché la Biblioteca era chiusa a chiave per la notte. La maggior parte degli altri estetici (membri dell’Ordine di coloro che passavano la vita dedicandosi allo studio e alla manutenzione dell’immensa raccolta di sapere della Grande Biblioteca che era stata accumulata fin dall’inizio del tempo di Krynn) dormiva, oppure era assorta nei lavori.

«Ta-tum, ta-tum. Gli occhi della mia innamorata son come quelli d’una cerbiatta. Ta-tum, ta-tum. E io sono il cacciatore che si avvicina...» Bertrem giunse perfino a improvvisare un passo di danza.

«Ta-tum, ta-tum. Sollevo il mio arco e prendo una freccia...» Bertrem girò un angolo. «Scaglio il dardo. Vola al cuore del mio amore e... ehilà, chi sei?»

Bertrem si sentì balzare il cuore in gola, quasi soffocando, quando si trovò davanti all’improvviso un’alta figura, abbigliata di nero e incappucciata, immobile al centro della sala di marmo fiocamente illuminata.

La figura non rispose. Si limitò a fissarlo in silenzio.

Facendosi animo e raccogliendo il coraggio e le vesti intorno a sé, Bertrem fissò l’intruso. «Cosa fai qui? La Biblioteca è chiusa! Sì, perfino alle Vesti Nere.» L’estetico corrugò la fronte e agitò una mano grassoccia. «Vattene. Torna domattina, e usa la porta d’ingresso come chiunque altro.»

«Ah, ma io non sono chiunque altro,» disse la figura, e Bertrem sussultò, poiché aveva riconosciuto un accento elfico anche se le parole erano state solamniche. «In quanto alle porte, esse servono a coloro che non hanno il potere di attraversare i muri. Io ho quel potere, come ho il potere di fare altre cose, molte non così piacevoli.»

Bertrem rabbrividì. Quella fredda, pacata voce elfica, non stava pronunciando minacce oziose. «Sei un elfo scuro,» disse Bertrem, in tono di accusa, mentre il suo cervello annaspava, cercando di pensare a ciò che avrebbe dovuto fare. Doveva dare l’allarme? Urlare per chiedere aiuto?

«Sì.» La figura si sfilò il cappuccio nero, in modo che la magica luce imprigionata nei globi che pendevano dal soffitto, un dono fatto ad Astinus dai fruitori di magia durante l’Era dei Sogni, si proiettò sui suoi lineamenti elfici. «Mi chiamo Dalamar. Servo...»

«Raistlin Majere!» rantolò Bertrem. Si guardò intorno incerto, aspettandosi che l’arcimago dalle vesti nere gli balzasse addosso da un momento all’altro. Dalamar sorrise. I suoi lineamenti da elfo erano insieme delicati e decisi. Ma mostravano una gelida e univoca determinazione che raggelò Bertrem. Ogni intenzione di chiamare aiuto svanì dalla mente dell’estetico.

«Co... cosa vuoi?» balbettò.

«E quello che vuole il mio padrone,» lo corresse Dalamar. «Non aver paura. Sono qui per cercare conoscenze, niente di più. Se mi aiuterai, me ne andrò presto e in silenzio, così come sono venuto.»

Se non lo aiuterò... Bertrem tremò dalla testa ai piedi. «Farò quello che potrò, mago.» L’estetico esitò. «Ma in realtà dovresti parlare a...»

«A me.» Una voce uscì dalle ombre.

Bertrem quasi cadde in deliquio per il sollievo.

«Astinus!» farfugliò, indicando Dalamar. «Questi è... non l’ho lasciato... Raistlin Majere...»

«Sì, Bertrem,» lo interruppe Astinus in tono conciliante. Venne avanti, batté la mano sul braccio dell’estetico. «Sono a conoscenza di tutto quello che è successo.»

Dalamar non si era mosso, non aveva neppure mostrato d’esser conscio della presenza di Astinus. «Ritorna ai tuoi studi, Bertrem,» continuò Astinus, la sua profonda voce baritonale echeggiò nel profondo silenzio di quelle ampie sale. «Mi occuperò io di questa faccenda.»

«Sì, Maestro!» Bertram, arretrando, si allontanò con gratitudine lungo il corridoio, con le vesti che gli svolazzavano intorno, lo sguardo sempre puntato sull’elfo scuro, il quale non si era né mosso né aveva parlato. Raggiunto l’angolo più vicino, Bertrem scomparve precipitosamente dietro di esso, e Astinus potè udire dal rapido trepestio dei suoi sandali che stava correndo lungo il corridoio.

Il capo della Grande Biblioteca di Palanthas sorrise, ma soltanto nell’intimo. Agli occhi dell’elfo scuro che lo stava osservando la faccia tranquilla e senza tempo di quell’uomo rifletteva le stesse emozioni del marmo delle pareti che li circondavano.

«Vieni con me, giovane mago,» disse Astinus, girandosi di scatto e incamminandosi lungo il corridoio con un passo rapido e pieno d’energia che smentiva il suo aspetto di uomo di mezza età.

Colto di sorpresa, Dalamar esitò, poi, vedendo che veniva lasciato indietro, si affrettò a raggiungerlo.

«Come fai a sapere quello che sto cercando?» volle sapere l’elfo scuro.

«Sono un cronista della storia,» rispose Astinus, imperturbabile. «Già mentre noi qui parliamo e camminiamo, gli eventi accadono intorno a noi, ed io sono consapevole di essi. Odo ogni parola che viene pronunciata, vedo ogni azione che viene svolta, non importa quanto sia mondana, buona o cattiva. Così ho osservato durante tutto il corso della storia. Come fui il primo, così sarò l’ultimo. Adesso, da questa parte.»

Astinus svoltò all’improvviso a sinistra, nel farlo sollevò un globo di luce ardente dal suo supporto e lo portò con sé, reggendolo fra le mani. A quella luce Dalamar potè vedere lunghe file di libri disposti su scaffali di legno. Riconobbe, dalle lisce rilegature di cuoio, che erano antichi. Ma erano in eccellenti condizioni. Gli estetici li mantenevano spolverati e, quand’era necessario, dotavano d’una nuova rilegatura quelli particolarmente consunti.

«Ecco quello che tu vuoi.» Astinus fece un gesto. «Le Guerre della Porta dei Nani.»

Dalamar fissò gli scaffali. «Tutti questi volumi?» Stava contemplando una serie in apparenza interminabile di rilegature. Un senso di disperazione cominciò a impadronirsi di lui.

«Sì,» rispose Astinus, freddamente, «e anche la fila successiva.»

«Io... io...» Dalamar era del tutto smarrito. Certamente Raistlin non aveva immaginato l’enormità del suo compito. E ugualmente non poteva aspettarsi che lui divorasse il contenuto di quelle centinaia di volumi entro il limite di tempo specificato. Mai prima d’ora, nella sua vita, Dalamar si era sentito così impotente e incapace. Arrossendo per la collera, sentì lo sguardo di Astinus piantato su di lui come uno stiletto di ghiaccio.

«Forse posso aiutarti,» disse lo storico, con voce imperturbata. Alzando un braccio, senza neppure leggere la scritta sul dorso, Astinus prelevò un libro dallo scaffale. Lo aprì, sfogliò rapidamente le pagine sottili e fragili, scorrendo con lo sguardo una fila dopo l’altra di parole tracciate da una mano ferma e precisa, con inchiostro nero.

«Ah, ecco qui.» Tirando fuori un segnalibro d’avorio da una tasca delle sue vesti, Astinus l’appoggiò di piatto su una pagina del libro, lo chiuse con cautela, poi lo porse a Dalamar. «Prendilo con te. Dagli l’informazione che cerca. E digli questo: “Il vento soffia, le orme sulla sabbia verranno cancellate, ma soltanto dopo che lui le avrà calpestate”.»

Con espressione grave lo storico rivolse un inchino all’elfo scuro, poi gli passò davanti proseguendo lungo la fila dei libri per raggiungere di nuovo il corridoio. Una volta là, si fermò e tornò a girarsi verso Dalamar, il quale era rimasto immobile a fissarlo, stringendo a sé il libro che Astinus gli aveva messo in mano.

«Oh, giovane mago, non c’è bisogno che tu torni qui. Il libro tornerà da solo una volta che avrai finito. Non posso permettere che tu mi spaventi gli estetici. Senza dubbio il povero Bertrem si sarà rifugiato nel suo letto. Porgi al tuo Shalafi i miei saluti.»

Astinus eseguì un altro inchino e scomparve in mezzo alle ombre. Dalamar rimase fermo dov’era, a riflettere, ascoltando i passi lenti e fermi dello storico che si andavano allontanando in fondo al corridoio. Scrollando le spalle, l’elfo scuro pronunciò una parola magica e fece ritorno alla Torre della Grande Stregoneria.

«Quello che Astinus mi ha dato sono i suoi stessi commentari sulle Guerre della Porta dei Nani, Shalafi. Sono tratti dagli antichi testi che lui ha scritto...»

Astinus sa ciò che mi serve. Procedi.

«Sì, Shalafi. Così comincia il passo segnato... “E il grande arcimago, Fistandantilus, usò il Globo dei draghi per chiamare avanti nel tempo il suo apprendista, dandogli istruzioni perché si recasse nella Grande Biblioteca di Palanthas e leggesse nei libri di storia per vedere se il risultato della sua grande impresa avrebbe avuto successo.”» La voce di Dalamar esitò, mentre leggeva queste parole, e alla fine si spense del tutto, davanti a questa sorprendente dichiarazione.

Continua, gli arrivò la voce del suo Shalafi, e malgrado echeggiasse più nella sua mente che nelle sue orecchie, a Dalamar non sfuggì l’amara nota di rabbia. Affrettandosi a distogliere lo sguardo da quel paragrafo, scritto centinaia di anni prima, che però rifletteva accuratamente la missione che aveva appena intrapresa, Dalamar continuò.

«“Qui è importante notare questo: le Cronache come esistevano in quel punto del tempo, indicano...” Qui è sottolineato, Shalafi.» Dalamar s’interruppe.

Quale parte?

«Le parole “in quel punto del tempo” sono sottolineate.»

Raistlin non rispose, e Dalamar, che per un attimo aveva perso il segno, lo ritrovò e si affrettò a proseguire.

«... indicano che l’impresa avrebbe avuto successo. Fistandantilus, insieme al chierico Denubis, avrebbe dovuto essere stato in grado, sulla base di tutte le indicazioni viste dal grande arcimago, di varcare sano e salvò il Portale. Naturalmente, ciò che avrebbe potuto succedere nell’Abisso è ignoto, dal momento che i veri eventi storici si sono svolti in maniera diversa.

«“Così, credendo fermamente che lo scopo finale che si prefiggeva, varcare il Portale e sfidare la Regina delle Tenebre, fosse alla sua portata, Fistandantilus condusse le Guerre della Porta dei Nani con rinnovato vigore. Pax Tharkas cadde in preda agli eserciti dei nani delle colline e degli uomini delle pianure. (Vedi Cronache, volume 126, libro 6, pagine 589-700.) Condotto dal grande generale di Fistandantilus, Pheragas, l’ex schiavo dell’Ergoth del Nord che lo stregone aveva acquistato e addestrato come gladiatore per i Giochi a Istar, l’esercito di Fistandantilus ricacciò le forze di re Duncan, costringendo i nani a ritirarsi nella roccaforte della montagna di Thorbardin.

« “Di quella guerra importava assai poco a Fistandantilus. Gli serviva soltanto a portare avanti i propri fini. Trovato il Portale sotto la torreggiante fortezza montana conosciuta come Zhaman, insediò colà il suo quartier generale e cominciò i preparativi finali che gli avrebbero dato il potere di varcare la porta proibita, lasciando che il suo generale continuasse a combattere la guerra.

«“Neppure io posso riferire con accuratezza cosa sia accaduto a questo punto, poiché le forze della magia che quivi operavano erano talmente potenti da oscurare la mia visione.

«“Il generale Pheragas venne ucciso mentre combatteva contro i Dewar, i nani scuri di Thorbardin.

Alla sua morte, l’esercito di Fistandantilus si sfasciò. I nani delle montagne sciamarono fuori da Thorbardin verso la fortezza di Zhaman.

«“Durante il combattimento, consapevole che la battaglia era perduta e che restava loro assai poco tempo, Fistandantilus con Denubis si affrettò a raggiungere il Portale. Qui il grande mago cominciò a lanciare il suo incantesimo.

«“Nel medesimo istante, uno gnomo tenuto prigioniero dai nani di Thorbardin attivò un congegno per i viaggi nel tempo che aveva fabbricato per tentar di sfuggire alla sua cattività. Contrariamente ad ogni altro caso mai registrato nella storia di Krynn, questo marchingegno gnomico funzionò davvero. Anzi, funzionò perfettamente.

«“Da questo punto in avanti, posso fare soltanto delle congetture, ma appare probabile che il congegno dello gnomo abbia interagito in qualche modo con i delicati e potenti incantesimi magici intessuti da Fistandantilus. Il risultato lo conosciamo fin troppo chiaramente.

«“Avvenne un’esplosione di tali dimensioni che le Pianure di Dergoth vennero completamente distrutte. Entrambi gli eserciti vennero interamente spazzati via. La torreggiante fortezza montana di Zhaman andò in frantumi e crollò su se stessa, creando il rilievo oggi conosciuto come Skullcap.

«“Lo sfortunato Denubis morì nell’esplosione. Anche Fistandantilus avrebbe dovuto morire, ma la sua magia era talmente grande che riuscì ad aggrapparsi ad una qualche porzione della vita, malgrado il suo spirito fosse costretto a esistere su un altro piano fino a quando non trovò il corpo di un giovane fruitore di magia chiamato Raistlin Majere...”»

Basta!

«Sì, Shalafi,» mormorò Dalamar.

E poi la voce di Raistlin cessò.

Dalamar, seduto nello studio, seppe di essere solo. Fu colto da un forte brivido: ciò che aveva appena letto l’aveva riempito di stupore e sgomento. Cercando di trame qualche significato, l’elfo scuro non si mosse da dietro la scrivania... la scrivania di Raistlin... smarrito nei suoi pensieri fino a quando le ombre della notte non si ritirarono e l’alba grigia schiarì il cielo.

Una febbrile eccitazione fece fremere il corpo magro di Raistlin. I suoi pensieri erano confusi. Gli sarebbe stato indispensabile un periodo di studi e di riflessioni a freddo per essere assolutamente certo di ciò che aveva scoperto. Una frase risplendeva nella sua mente con sorprendente fulgore: l’impresa avrebbe avuto successo!

L’impresa avrebbe avuto successo!

Raistlin risucchiò il proprio respiro con un rantolo, rendendosi conto solamente a quel punto di aver cessato di respirare. Le sue mani, appoggiate sulla fredda superficie del Globo dei draghi, tremavano. L’esultanza lo travolse. Esibì quel suo strano e raro sorriso, poiché le orme che vedeva nel suo sogno non conducevano più ad un patibolo, ma ad una porta di platino, decorata con i simboli del Drago a Cinque Teste. Ad un suo ordine, si sarebbe aperta. Doveva semplicemente trovare e uccidere quello gnomo...

Raistlin sentì qualcosa che gli tirava con forza le mani.

«Fermo!» ordinò, maledicendosi per aver perso il controllo. Ma il globo non ubbidì al suo ordine.

Raistlin si rese conto, troppo tardi, di venir tirato dentro. Vide che le mani, mentre lo tiravano sempre più vicino, avevano subito un cambiamento. Prima erano state irriconoscibili, né umane né elfiche, né giovani né vecchie. Ma adesso erano le mani di una femmina, morbide e sottili, la pelle bianca e liscia... e la morsa della morte.

Sudando, lottando contro l’onda calda di panico che minacciava di ucciderlo, Raistlin fece appello a tutte le proprie forze, sia fisiche sia mentali, e combatté contro la volontà in azione dietro quelle mani.

Lo attirarono vicino, sempre più vicino. Adesso poteva vedere il volto, un volto di donna, bello, con gli occhi scuri; pronunciava parole di seduzione alle quali il suo corpo reagiva con passione, mentre allo stesso tempo la sua anima si ritraeva con odio.

Sempre più vicino, più vicino...

Disperato, Raistlin lottò per sottrarvisi, per spezzare la stretta che pareva così delicata eppure era più forte dei vincoli della sua stessa forza vitale. Scavò in profondità dentro la propria anima, esplorando le parti nascoste... ma per che cosa? Ne sapeva poco o niente. Da qualche parte esisteva una porzione di lui che l’avrebbe salvato...

Emerse l’immagine di un adorabile chierico vestito di bianco, che portava il medaglione di Paladine. Il bianco chierico sfolgorò nella tenebra e, per un momento, la stretta delle mani si allentò... ma soltanto per un momento. Raistlin sentì una calda risata di donna. La visione andò in frantumi.

«Fratello mio!» chiamò Raistlin attraverso le labbra incartapecorite, e un’immagine di Caramon comparve alla sua vista. Vestito di un’armatura dorata, la spada che gli balenava fra le mani, si erse di fronte a suo fratello, proteggendolo. Ma il guerriero non ebbe il tempo di fare un solo passo che venne abbattuto... da dietro.

Più vicino, sempre più vicino...

La testa di Raistlin cadde in avanti, stava perdendo rapidamente forze e conoscenza. E poi, senza che lui la chiamasse, dai recessi più remoti della sua anima sbucò una figura solitaria. Non era vestita di bianco, non impugnava nessuna spada luccicante. Era piccola e sudicia, e il suo volto era rigato di lacrime. Nella mano stringeva un ratto... un ratto molto... morto.

Caramon tornò al campo proprio mentre le prime luci dell’alba si stavano diffondendo nel cielo.

Aveva cavalcato tutta la notte ed era irrigidito, affaticato e incredibilmente affamato.

I piacevoli pensieri della sua colazione e del suo letto l’avevano confortato durante l’ultima ora, e il suo volto si illuminò di un sorriso quando l’accampamento comparve alla sua vista. Stava per piantare gli speroni nei fianchi del suo cavallo affaticato quando, lanciata un’occhiata in avanti, in direzione del campo, l’omone tirò le redini del suo cavallo e alzò la mano, facendo fermare la sua scorta.

«Cosa sta succedendo?» chiese allarmato. Tutti i pensieri del cibo imminente scomparvero dalla sua mente. Garic lo raggiunse in sella al suo cavallo e scosse la testa sconcertato.

Là dove avrebbero dovuto esserci fili di fumo che si levavano dai fuochi mattutini delle cucine e i grugniti seccati degli uomini che venivano destati dal sonno notturno, c’era l’accampamento che assomigliava invece a un alveare dopo il banchetto di un orso.

Nessun fuoco delle cucine era acceso, la gente se ne andava in giro in apparenza senza una meta, oppure gli uomini formavano crocchi che fremevano di eccitazione.

Poi qualcuno vide Caramon e lanciò un urlo. La folla si radunò e venne avanti come un’onda di marea.

Garic nel medesimo istante gridò e, subito, lui e i suoi uomini avanzarono al galoppo, formando intorno al loro generale un compatto scudo protettivo di uomini rivestiti di corazze.

Era la prima volta che Caramon vedeva un simile spiegamento di fedeltà e di affetto da parte dei suoi uomini e, per un momento, fu talmente sopraffatto dall’emozione da non riuscire a parlare. Poi, schiarendosi burberamente la gola, ordinò loro di scostarsi.

«Non è un ammutinamento,» sbottò, venendo avanti in sella al suo destriero mentre i suoi uomini si scostavano con riluttanza per lasciarlo passare. «Guardate! Nessuno è armato. Metà di loro sono donne e bambini. Ma...» li guardò sogghignando, «grazie per il pensiero.»

Il suo sguardo andò in modo particolare al giovane cavaliere, Garic, il quale era arrossito di piacere mentre teneva la mano stretta sull’elsa della spada.

A questo punto le frange esterne della folla avevano raggiunto Caramon. Delle mani afferrarono le sue briglie, facendo trasalire il suo cavallo il quale, convinto di trovarsi in battaglia, drizzò pericolosamente le orecchie, pronto a sferrare colpi di zoccoli come gli era stato insegnato a fare.

«State indietro!» ruggì Caramon, riuscendo a stento a controllare l’animale. «State indietro! Siete tutti impazziti? Date proprio l’impressione di essere quello che siete: un branco di contadini! State indietro. Ehi, dico! Vi sono scappati tutti i polli? Che significa questo? Dove sono i miei ufficiali?»

«Qui, signore,» gli giunse la voce di uno dei capitani. Rosso in faccia, imbarazzato, e arrabbiato, l’uomo si aprì la strada in mezzo alla folla. Addolorati per il rimprovero del loro comandante, gli uomini si calmarono e le grida si spensero, riducendosi a pochi mormorii quando un gruppo di guardie, arrivando con il capitano, tentò in qualche modo di disperdere la folla.

«Chiedo il perdono del generale per tutto questo, signore,» disse il capitano mentre Caramon smontava di sella e accarezzava il collo del cavallo per calmarlo. L’animale rimase immobile sotto il tocco di Caramon, pur continuando a roteare gli occhi e a drizzare le orecchie.

Il capitano era un uomo anziano, non un cavaliere ma un mercenario con trent’anni di esperienza. Il suo viso era solcato dalle cicatrici, gli mancava parte della mano sinistra a causa di un fendente, e zoppicava in maniera accentuata. Adesso, di primo mattino, quel volto coperto di cicatrici era rosso di vergogna mentre affrontava lo sguardo severo del suo giovane generale.

«Gli esploratori hanno portato la notizia del tuo arrivo, signore, ma prima che io potessi arrivare da te, questo branco di cani idrofobi...» lanciò un’occhiata furente agli uomini che si stavano ritirando,

«... si è scaldato come se tu fossi stato una cagna in calore. Chiedo il perdono del generale,» borbottò un’altra volta, «e senza nessuna intenzione di mancarti di rispetto.»

Caramon fece attenzione a mantenere il volto serio. «Cos’è successo?» chiese, conducendo il cavallo esausto all’interno dell’accampamento, al passo dell’ambio. Il capitano non rispose subito ma lanciò un’occhiata significativa alla scorta di Caramon.

Caramon comprese. «Andate pure avanti, uomini,» disse, agitando la mano. «Garic, ci vediamo nel mio alloggio.»

Quando si trovò infine solo con il capitano... quanto più solo possibile nel campo affollato dove tutti li stavano fissando con bramosa curiosità, Caramon si voltò a interrogare l’uomo con una semplice occhiata.

Il vecchio mercenario disse soltanto due parole: «Lo stregone. »

Raggiungendo la tenda di Raistlin, Caramon vide con un tonfo al cuore la cerchia di guardie che la circondava, tenendo indietro i curiosi. Alla vista di Caramon, si levarono, chiaramente udibili, dei sospiri di sollievo e molte considerazioni come «Adesso c’è il generale. Ci penserà lui,» un grande annuire e qualche applauso qua e là.

Incoraggiata da qualche imprecazione del capitano, la folla si aprì lasciando un passaggio attraverso il quale Caramon potè procedere. Le guardie armate si fecero da parte mentre passava, poi si affrettarono a serrare un’altra volta i ranghi.

Spingendo e sgomitando, la folla sbirciava da sopra la testa delle guardie, sforzandosi di vedere.

Poiché il capitano si rifiutava di dirgli ciò che stava accadendo, Caramon non si sarebbe sorpreso di trovarsi davanti a qualsiasi cosa, da un drago seduto sopra la tenda di suo fratello all’intero alloggiamento circondato da fiamme verdi e purpuree.

Invece, vide un giovane di guardia e Dama Crysania che camminava avanti e indietro davanti alla falda chiusa della tenda. Caramon fissò il giovane con curiosità. Gli parve di conoscerlo.

«Il cugino di Garic?» fece, esitando, cercando di ricordare il nome. «Michael, vero?»

«Sì, generale,» rispose il giovane cavaliere. Fece per drizzarsi, tentando un saluto. Ma fu un ben debole tentativo. Il volto del giovane era pallido e smunto, gli occhi cerchiati di rosso. Era chiaro che si trovava sul punto di crollare per la fatica, ma teneva la lancia puntata davanti a sé, sbarrando risolutamente l’ingresso alla tenda.

Sentendo la voce di Caramon, Crysania sollevò lo sguardo.

«Paladine sia ringraziato!» esclamò con fervore.

Bastò un’occhiata al suo volto pallido ed ai suoi occhi grigi e infossati, e Caramon rabbrividì alla vivida luce del sole mattutino.

«Sbarazzati di loro!» ordinò al capitano, che subito cominciò a impartire ordini ai suoi uomini. Ben presto, con molte imprecazioni e brontolii, la folla cominciò a disperdersi. Comunque, la maggior parte dei presenti riteneva che ormai la parte più eccitante si fosse conclusa.

«Caramon, ascoltami!» Crysania gli appoggiò la mano sul braccio. «Questo...»

Ma Caramon si scrollò di dosso la mano di Crysania. Ignorando i suoi tentativi di parlare, fece per oltrepassare Michael. Il giovane cavaliere sollevò di scatto la lancia, bloccandogli la strada.

«Togliti di mezzo!» gli ordinò Caramon, sbalordito.

«Mi spiace, signore,» disse Michael, con voce ferma, anche se le labbra gli tremavano, «ma Fistandantilus mi ha detto che nessuno doveva passare.»

«Hai visto?» esclamò Crysania, esasperata, mentre Caramon arretrava di un passo, fissando Michael, perplesso e incollerito. «Ho cercato di dirtelo, se soltanto tu avessi voluto ascoltarmi! È andata avanti così tutta la notte, e io so che là dentro sta accadendo qualcosa di orrendo! Ma Raistlin lo ha fatto giurare... sul Codice e le Regole o qualcosa del genere...»

«La Misura,» borbottò Caramon scuotendo la testa. «Il Codice e la Misura.» Corrugò la fronte, riandando col pensiero a Sturm. «Un codice che nessun cavaliere violerà, sotto pena di morte.»

«Ma questa è follia!» gridò Crysania, adesso con voce rotta. Si coprì il volto con una mano per un attimo. Esitando, temendo un rimbrotto, Caramon la cinse con un braccio, ma lei si appoggiò a lui con gratitudine.

«Oh, Caramon, avevo tanta paura!» mormorò. «Era orribile. Mi sono svegliata da un sonno profondo, sentendo Raistlin che urlava il mio nome. Sono corsa qui... Lampi di luce sprizzavano all’interno della tenda. Urlava parole incoerenti, poi l’ho udito invocare il tuo nome... e poi ha cominciato a gemere in preda alla disperazione. Ho cercato di entrare, ma...» indicò con un gesto stanco Michael, il quale se ne stava immobile, con lo sguardo fisso davanti a sé. «E poi la sua voce ha cominciato a... a dissolversi! Era orribile, come se in qualche modo venisse risucchiato via!»

«Poi, cos’è successo?»

Crysania tacque per qualche istante, quindi, con voce esitante: «Ha... ha detto qualcos’altro. Sono riuscita a sentirlo a malapena. Le luci si sono spente. C’è stato un secco crepitio, e... ogni cosa era immobile, orribilmente immobile!» Chiuse gli occhi, rabbrividendo.

«Cos’ha detto? Sei riuscita a capire?»

«È questa la parte strana.» Crysania sollevò la testa, guardandolo confusa. «Pareva... Bupu.»

«Bupu!» ripetè Caramon con stupore. «Ne sei sicura?»

Crysania annuì.

«Perché avrebbe dovuto invocare una nana dei fossi?» volle sapere Caramon.

«Non ne ho la più pallida idea.» Crysania sospirò stancamente, scostandosi i capelli dagli occhi.

«Mi sono chiesta la stessa cosa. Soltanto che... non è quella nana dei fossi che ha detto a Par-sallian quanto era stato gentile Raistlin con lei?»

Caramon scosse la testa. Si sarebbe preoccupato più tardi dei nani dei fossi. Il suo problema immediato era Michael. Vividi ricordi di Sturm gli tornarono alla memoria. Quante volte aveva visto quell’espressione sul volto del cavaliere? Un giuramento sul Codice e sulla Misura...

Maledetto Raistlin!

Adesso Michael sarebbe rimasto al suo posto fino a quando non fosse stramazzato al suolo e poi, quando si fosse svegliato scoprendo di aver fallito, si sarebbe ucciso. Doveva esserci un modo per aggirare l’ostacolo, per aggirare Michael! Caramon lanciò un’occhiata a Crysania. Poteva usare i suoi poteri di chierico per ammaliare il giovane...

Caramon scosse la testa. Ciò avrebbe significato avere l’intero campo pronto a metterla al rogo, Dannato Raistlin! Dannati chierici! Dannati Cavalieri di Solamnia e dannati il loro Codice e la loro Misura!

Tirando un sospiro si avvicinò a Michael. Il giovane sollevò minacciosamente la lancia, ma Caramon si limitò a sollevare in alto le mani per mostrare che erano vuote. Si schiarì la gola, sapendo quello che voleva dire ma allo stesso tempo incerto su come cominciare. E poi, mentre pensava a Sturm, d’un tratto potè rivedere il volto del cavaliere... con tanta chiarezza da esserne stupefatto. Ma non era come l’aveva visto in vita: severo, nobile, gelido. E poi Caramon seppe: vedeva il volto di Sturm nella morte! I segni di una sofferenza e di un dolore terribili avevano spianato gli aspri lineamenti dell’orgoglio e dell’inflessibilità. C’erano pietà e comprensione in quegli occhi scuri e ossessionati, e a Caramon parve che il cavaliere gli sorridesse, triste.

Per un momento Caramon rimase talmente sorpreso da quella visione da non riuscire a dir nulla, soltanto a fissarla. Ma l’immagine scomparve lasciando al suo posto soltanto la faccia del giovane Cavaliere, cupa, spaventata, esausta... decisa.

«Michael,» cominciò Caramon, continuando a tenere sollevate le mani, «io avevo un amico una volta, un Cavaliere di Solamnia. Adesso... è morto. E morto in una guerra lontana da qui, quando... Ma questo non ha importanza. Stur... il mio amico era come te, credeva nel Codice e... e nella Misura. Era pronto a dare la sua vita per essi. Ma, alla fine, scoprì che c’era qualcosa di più importante del Codice e della Misura, qualcosa che il Codice e la Misura avevano dimenticato.»

Michael s’indurì in viso e strinse con forza ancora maggiore la lancia.

«La vita stessa,» disse Caramon con voce sommessa.

Vide un guizzo negli occhi cerchiati di rosso del Cavaliere, un guizzo affogato in un tremolare di lacrime. Rabbiosamente, Michael sbatté le palpebre per ricacciarle, l’espressione risoluta era riaffiorata anche se, così parve a Caramon, adesso vi si stava facendo strada la disperazione.

Caramon si aggrappò a quella disperazione, mettendo a segno le sue parole come se fossero la punta di una spada che cercava il cuore del suo nemico. «La vita, Michael. È tutto quello che c’è. E tutto quello che abbiamo. Non soltanto la nostra vita, ma la vita di chiunque altro a questo mondo. E ciò che il Codice e la Misura sono stati concepiti per proteggere, ma in qualche punto lungo il percorso tutto questo è stato contorto e il Codice e la Misura sono diventati più importanti della Vita.»

Mantenendo le mani alzate, fece lentamente un altro passo verso il giovane.

«Non ti chiedo di lasciare il tuo posto per qualche ragione traditrice. E tu ed io sappiamo che non lo lascerai per viltà.» Caramon scosse la testa. «Gli dei sanno quello che devi aver visto e udito questa notte. Ti chiedo di lasciare il tuo posto per pietà. Mio fratello è là dentro, forse sta morendo, forse è morto. Quando ti ha fatto pronunciare quel giuramento, non poteva aver previsto che sarebbe accaduto questo. Devo andare da lui. Fammi passare, Michael. Non c’è niente di disonorevole in questo.»

Michael rimase rigido, con lo sguardo fisso davanti a sé, e poi il suo volto parve raggrinzirsi. Le spalle gli si afflosciarono, e la lancia gli cadde dalle mani snervate. Tendendo le braccia, Caramon prese il giovane e lo tenne stretto a sé. Un singhiozzo squassante lacerò il corpo di Michael.

Caramon, impacciato, gli batté una mano sulla spalla.

«Ehi, uno di voi...» si guardò intorno. «Trovatemi Garic... Ah, eccoti qui,» disse, sollevato, quando il giovane cavaliere arrivò di corsa. «Riconduci tuo cugino accanto al fuoco. Mettigli in pancia del cibo caldo, poi assicurati che dorma. Tu, là...» indicò un’altra guardia, «prendi il suo posto.»

Mentre Garic conduceva via suo cugino, Crysania fece per entrare nella tenda, ma Caramon la fermò.

«Meglio che tu mi lasci entrare per primo, Dama,» le disse. Si era aspettato una discussione, e fu sorpreso quando vide che Crysania si faceva docilmente da parte. Caramon aveva già appoggiato la mano sulla falda della tenda, quando sentì la mano di lei sul suo braccio. Sorpreso, si girò.

«Sei saggio quanto Elistan, Caramon,» gli disse Crysania, fissandolo con intensità. «Avrei potuto dire io quelle parole al giovane. Perché non l’ho fatto?»

Caramon arrossì. «Io... io l’ho capito. E tutto,» borbottò.

«Io non volevo capirlo.» Crysania, pallida in volto, si morse il labbro. «Volevo soltanto che mi obbedisse.»

«Ascolta, Dama,» disse Caramon cupo, «potrai esaminare le profondità della tua anima più tardi. In questo momento ho bisogno del tuo aiuto!»

«Sì, naturalmente.» L’espressione ferma e fiduciosa ritornò sul volto di Crysania. Senza esitazione seguì Caramon nella tenda di Raistlin.

Ricordandosi della guardia all’esterno, e degli altri occhi curiosi, Caramon si affrettò a chiudere la falda della tenda. Dentro, regnavano immobilità e silenzio, e un’oscurità così profonda che a tutta prima nessuno dei due riuscì a distinguere niente. Immobile accanto all’ingresso, aspettando fino a quando i suoi occhi non si furono abituati al buio, d’un tratto Crysania si aggrappò a Caramon.

«Lo sento respirare!» disse sollevata.

Caramon annuì e lentamente si fece avanti. Il crescente chiarore del giorno all’esterno stava scacciando la notte dentro la tenda, e ad ogni nuovo passo, riuscì a vedere con sempre maggior chiarezza.

«Là,» disse. Scostò in fretta con un calcio uno sgabello da campo che gli bloccava la strada.

«Raist!» chiamò con voce sommessa, mentre s’inginocchiava.

L’arcimago era disteso sul pavimento. Il suo volto era cinereo, le sottili labbra azzurre. Il respiro era corto e irregolare, ma stava pur sempre respirando. Sollevato con cautela il proprio gemello, Caramon lo trasportò fino al suo letto. Alla debole luce potè vedere un sorriso appena accennato sulle labbra di Raistlin, come se il suo gemello fosse smarrito in un sogno piacevole.

«Credo che adesso stia dormendo,» disse Caramon alquanto sconcertato a Crysania, intenta a distendere sul corpo di Raistlin una coperta.

«Ma è accaduto qualcosa, è ovvio.» Girò lo sguardo qua e là per la tenda, il cui interno si precisava sempre meglio al crescere della luce. «Mi chiedo... In nome degli dei!»

Crysania alzò lo sguardo di scatto. Si avvide allora che i pali della tenda erano bruciacchiati e anneriti, lo stesso materiale di cui la tenda era fatta era carbonizzato, e in alcuni punti sembrava essersi fuso. Pareva che il fuoco l’avesse investito, eppure, in maniera incongrua, la tenda era rimasta in piedi e non pareva, in realtà, aver subito seri danni. Tuttavia, fu l’oggetto sul tavolo a sbalordire ancora di più Caramon.

«Il Globo dei draghi!» bisbigliò, con reverenziale timore.

Creato dai maghi di tutte e tre le Vesti molto tempo prima, colmato dell’essenza dei draghi del bene, dei draghi del male e di quelli neutrali, tanto potente da abbracciare le sponde del tempo, il globo di cristallo si trovava ancora sul tavolo, appoggiato sul supporto d’argento che Raistlin aveva creato all’uopo.

Un tempo era stato un oggetto di luce magica, incantatrice. Adesso era una cosa d’oscurità, inanimata, una crepa l’attraversava al centro.

Adesso...

«È rotto,» disse Caramon sempre bisbigliando.

Capitolo quarto.

L’esercito di Fistandantilus salpò attraverso gli Stretti di Schallsea su una flotta improvvisata formata da molti pescherecci, barche a remi, zattere costruite alla meno peggio, e imbarcazioni da diporto sfarzosamente decorate. Malgrado la distanza da percorrere non fosse grande, ci volle più d’una settimana per trasportare tutta la gente, gli animali e i rifornimenti.

Quando Caramon fu pronto a compiere la traversata, l’esercito si era talmente accresciuto che non c’erano abbastanza imbarcazioni per traghettare tutti contemporaneamente. Molte imbarcazioni dovettero compiere parecchi viaggi avanti e indietro. I vascelli più grandi vennero usati per trasportare il bestiame. Convertiti in granai galleggianti, avevano stalle per i cavalli e le mandrie scheletrite, e porcili per i maiali.

Le cose andarono lisce nella maggior parte dei casi, anche se Caramon riuscì all’incirca a dormire solo tre ore ogni notte, talmente si trovò indaffarato con problemi che tutti erano sicuri che soltanto lui fosse capace di risolvere: dal bestiame che soffriva di mal di mare a una cassa di spade che accidentalmente era stata fatta cadere fuori bordo e aveva richiesto complicate manovre per venir recuperata. Poi, proprio quando la meta fu in vista e quasi tutti avevano compiuto la traversata, scoppiò una tempesta. Sferzando il mare e riempiendolo di cavalloni schiumeggianti affondò due barche strappandole agli ormeggi, e per due giorni impedì a chiunque di passare sull’altra sponda.

Ma alla fine tutti ce la fecero, cavandosela relativamente bene, con soltanto pochi casi di mal di mare, un bambino caduto fuori bordo (salvato) e un cavallo (ucciso e macellato) che, colto dal panico, si era rotto una zampa abbattendo a calci il suo box.

Quando l’esercito infine fu approdato alle spiagge di Abanasinia, il capo degli uomini delle pianure (le tribù di barbari che abitavano le pianure settentrionali di Abanasinia e che erano bramose d’impadronirsi del favoleggiato oro di Thorbardin), oltre ai rappresentanti dei nani delle colline, venne loro incontro. Quando si trovò davanti i nani delle colline, Caramon provò un trauma profondo che lo scosse per molti giorni.

«Reghar Fireforge e il suo seguito,» annunciò Garic dall’ingresso della tenda. Facendosi da parte il cavaliere permise a un gruppo di tre nani di entrare.

Con quel nome che gli echeggiava nelle orecchie, Caramon fissò incredulo il primo nano. Le dita sottili di Raistlin si strinsero dolorosamente sul suo braccio.

«Non una parola!» alitò l’arcimago.

«Ma... ma assomiglia... e il nome!» balbettò Caramon a bassa voce.

«Naturalmente,» disse Raistlin, come se fosse tutto ovvio. «Questo è il nonno di Flint.»

Il nonno di Flint! Flint Fireforge, il suo vecchio amico. Il vecchio nano che era morto fra le braccia di Tanis a Godshome, il vecchio nano così burbero e irascibile, eppure così tenero di cuore... il nano che era parso antico a Caramon. E qui, non era ancora nato! Quello era suo nonno.

D’un tratto, la pienezza dello scopo di ciò che stava facendo e di dove si trovava investì Caramon come un colpo fisico. Prima di quel momento, avrebbe potuto benissimo trovarsi coinvolto in un’avventura nel proprio tempo. In quell’istante seppe che, in verità, non aveva preso seriamente niente di tutto questo. Perfino Raistlin che lo «mandava a casa» gli era parsa una cosa semplice come se l’arcimago non avesse dovuto fare altro che metterlo su una barca e salutarlo. Aveva escluso dalla sua mente il discorso di «alterare» il tempo. La cosa lo confondeva, gli sembrava che girasse intorno in un cerchio chiuso e interminabile.

Caramon avvertì una sensazione di caldo, poi di freddo. Flint non era ancora nato. Tanis non esisteva, Tika non esisteva. Lui stesso, non esisteva! No! Non era affatto plausibile! Non poteva essere!

La tenda s’inclinò davanti agli occhi di Caramon. Ebbe più d’una mezza paura di sentirsi male. Per fortuna, Raistlin vide il pallore sul volto di suo fratello. Intuendo quello che il cervello di suo fratello gemello stava cercando di assimilare, il mago si alzò in piedi e, muovendosi affabile al posto di suo fratello momentaneamente confuso, pronunciò adeguate parole di benvenuto ai nani.

Ma, mentre faceva questo, lanciò un’occhiata cupa e penetrante a Caramon, ricordandogli severamente il suo dovere.

Recuperando il controllo di sé, Caramon riuscì a scacciare dalla sua mente quegli inquietanti e sconcertanti pensieri, dicendosi che li avrebbe affrontati più tardi in pace e in lucidità.

Sfortunatamente, la pace e la lucidità parevano non doversi concretizzare mai...

Alzandosi in piedi, Caramon riuscì perfino a stringere, con calma, la mano al robusto nano dalla barba grigia.

«Mai avrei creduto,» dichiarò Reghar con franchezza, prendendo posto sulla sedia che gli veniva offerta, «che avrei trattato con umani e stregoni, specialmente contro quelli della mia stessa carne e del mio stesso sangue.» Fissò accigliato il boccale vuoto. Con un gesto Caramon indicò al ragazzo che serviva di riempirlo. Reghar, sempre con lo stesso sguardo aggrottato, aspettò che la schiuma di depositasse. Poi, sospirando, sollevò il boccale verso Caramon, che era tornato al suo scranno.

«Durth Zamish och Durth Tabor. Strani tempi fanno strani fratelli.»

«Puoi ben dirlo,» borbottò Caramon, lanciando un’occhiata a Raistlin. Il generale sollevò il suo bicchier d’acqua e bevve. Raistlin, per cortesia, s’inumidì le labbra con un bicchiere di vino, che subito mise giù.

«Ci riuniremo domattina per discutere i nostri piani,» disse Caramon. «Allora sarà qui anche il capo degli uomini delle pianure.» Reghar si accigliò ancora di più, e Caramon sospirò dentro di sé, prevedendo guai. Ma continuò con voce cordiale e allegra: «Ceniamo insieme stasera, per suggellare la nostra alleanza.»

A queste parole, Reghar si alzò in piedi. «Forse dovrò combattere insieme ai barbari,» ringhiò. «Ma per la barba di Reorx, non devo mangiare con loro... o con te!»

Caramon si alzò di nuovo in piedi. Vestito con la sua migliore armatura da cerimonia (altro regalo dei Cavalieri) costituiva uno spettacolo imponente. Il nano lanciò un’occhiata obliqua al guerriero.

«Sei grosso, non è vero?» disse. Sbuffando, scosse la testa, dubbioso. «Sospetto che ci siano più muscoli che cervello nel tuo cranio.»

Caramon non potè fare a meno di sorridere, anche se il cuore gli fece male. Assomigliava talmente al modo di parlare di Flint!

Ma Raistlin non sorrise.

«Mio fratello ha una mente eccellente per le questioni militari,» dichiarò il mago con un inatteso tono gelido. «Quando abbiamo lasciato Palanthas eravamo soltanto in tre. È grazie all’abilità e alla rapidità di pensiero del generale Caramon che siamo stati in grado di condurre questo poderoso esercito fino alle vostre sponde. Credo che faresti bene ad accettare la sua guida.»

Reghar sbuffò di nuovo, scrutando Raistlin con occhio penetrante da sotto le sporgenti sopracciglia grigie e cespugliose. Con la pesante armatura che gli tintinnava e gli sferragliava intorno, il nano si voltò e fece per uscire dalla tenda, pestando i piedi, quando si fermò.

«Tre di voi da Palanthas? E adesso... questo?»

I suoi occhi scuri e penetranti si appuntarono su Caramon, la sua mano fece un ampio gesto, inglobandovi la tenda, i cavalieri dalla risplendente armatura che facevano la guardia fuori della porta, le centinaia di uomini che aveva visto lavorare insieme a scaricare i rifornimenti dalle navi, gli altri uomini che si esercitavano nelle tecniche di combattimento, le file e file di fuochi dei bivacchi...

Sopraffatto e sbalordito dalle insolite lodi di suo fratello, Caramon non riuscì a rispondere. Ma riuscì ad annuire.

Il nano sbuffò di nuovo, ma c’era una punta di forzata ammirazione nei suoi occhi, mentre usciva tintinnando e sferragliando dalla tenda.

D’un tratto Reghar rifece capolino nella tenda. «Sarò presente alla tua cena,» concesse di malagrazia, poi si allontanò definitivamente sbattendo i piedi.

«Anch’io devo andarmene, fratello mio,» annunciò Raistlin con fare assente, alzandosi in piedi e avviandosi verso l’ingresso della tenda. Con le mani ripiegate nelle vesti nere, era smarrito nei suoi pensieri, quando sentì un tocco sul braccio. Irritato da quell’interferenza, lanciò un’occhiata a suo fratello. «Cosa c’è?»

«Volevo... volevo soltanto dirti grazie.» Caramon deglutì, poi continuò con voce rauca: «Per quello che hai detto. Non hai... non avevi mai detto niente di simile su di me... prima d’oggi.»

Raistlin sorrise. Non c’era luce nei suoi occhi, in quel suo sorriso impercettibile, ma Caramon era troppo infervorato e contento per accorgersene.

«È soltanto la semplice verità, fratello mio,» rispose Raistlin, scrollando le spalle. «E ha contribuito a concretizzare il nostro obbiettivo, dal momento che abbiamo bisogno di questi nani come nostri alleati. Ti ho detto spesso che hai delle risorse nascoste... se soltanto ti prendessi il tempo e il fastidio di svilupparle; siamo gemelli, dopotutto,» aggiunse il mago, sardonico. «Non ho mai pensato che fossimo talmente dissimili, come tu hai finito per convincerti.»

Il mago fece di nuovo per andarsene, ma ancora una volta sentì la mano di suo fratello sul braccio.

Frenando un sospiro d’impazienza, Raistlin si girò.

«Laggiù a Istar volevo ucciderti, Raistlin...» Caramon fece una pausa, leccandosi le labbra, «... e credo di averne avuto motivo. Per lo meno, da quello che sapevo allora. Adesso, non ne sono così sicuro.»

Sospirò, abbassando lo sguardo sui piedi, poi sollevando il volto infervorato. «Mi... mi piace pensare che hai fatto questo... che hai posto i maghi in una posizione tale da costringerli a spedirmi indietro nel tempo... per aiutarmi a imparare questa lezione. Potrebbe non essere questa la ragione,» si affrettò ad aggiungere Caramon, vedendo le labbra di suo fratello restringersi e gli occhi gelidi diventare ancora più gelidi, «e sono sicuro che non lo è, per lo meno non tutta. Lo fai per te stesso, lo so. Ma credo che, quale sia non so, a una parte di te importi, sia pure un briciolo. Qualche parte di te ha visto che ero nei guai, e ha voluto aiutarmi.»

Raistlin guardò suo fratello con espressione divertita. Poi tornò a scrollare le spalle. «Molto bene, Caramon. Se questo tuo romantico concetto ti aiuterà a combattere meglio, se ti aiuterà a pianificare meglio le tue strategie, se faciliterà i tuoi pensieri e, soprattutto, se mi permetterà di uscire da questa tenda e di tornare al mio lavoro, allora, stringitelo pure al petto! A me importa assai poco.»

Ritirato il braccio dalla morsa di suo fratello, il mago raggiunse a grandi passi l’ingresso della tenda. Qui, esitò. Girando a metà la testa incappucciata, parlò a bassa voce, le sue parole erano esasperate, eppure velate d’una certa tristezza:

«Tu non mi hai mai capito, Caramon.»

Poi se ne andò, con le vesti nere che gli frusciavano intorno alle caviglie mentre camminava.

Quella sera il banchetto fu tenuto all’aperto. I suoi inizi furono meno che propizi.

Il cibo era disposto su lunghi tavoli di legno, messi insieme in fretta e furia con le assi delle zattere che erano state impiegate per attraversare gli stretti. Reghar arrivò con una cospicua scorta di circa una quarantina di nani. Darknight, capo degli uomini delle pianure, che, con il suo volto cupo, l’alta statura e il portamento orgoglioso costrinse Caramon a ricordare Riverwind, portò con sé quaranta guerrieri. A sua volta Caramon scelse quaranta dei suoi uomini, dei quali sapeva (o quanto meno sperava) di potersi fidare, e che (anche questo lo sperava) non si sarebbero ubriacati.

Caramon aveva calcolato che quando i gruppi fossero arrivati, i nani si sarebbero seduti formando un gruppo a sé, e lo stesso avrebbero fatto gli uomini delle pianure... Nessun discorso, nessuna blandizie, li avrebbe convinti a mescolarsi tra di loro. E infatti, dopo che ciascun gruppo fu arrivato, tutti rimasero a fissarsi, in tetro silenzio, i nani raccolti intorno al proprio capo, gli uomini delle pianure intorno al loro, mentre gli uomini di Caramon fissavano la scena, incerti.

Caramon arrivò e si fermò davanti a loro. Si era abbigliato con cura, rivestendosi dell’armatura e dell’elmo dei giochi gladiatori, più altri accessori che si accompagnavano a questi, fatti per lui su misura. Con la sua pelle bronzea, il suo fisico incomparabile, il suo volto forte e deciso, era una presenza dominante, e perfino i nani imbronciati non poterono fare a meno di scambiarsi occhiate di riluttante approvazione.

Caramon sollevò le mani.

«Saluti, miei ospiti!» intonò con la sua voce baritonale. «Benvenuti. Questa è una cena fra camerati, per segnare l’alleanza e la ritrovata amicizia fra le nostre razze...»

Queste parole furono accolte da borbottii, espressioni sprezzanti e sbuffi di derisione. Uno dei nani giunse a sputare per terra, inducendo parecchi uomini delle pianure ad afferrare le loro archi ed a fare un passo avanti, poiché questo era considerato un terribile insulto fra le genti delle pianure. Il loro capo li fermò e, ignorando impassibile l’interruzione, Caramon proseguì:

«Combatteremo insieme, forse moriremo insieme. Perciò cominciamo il nostro incontro, questa prima notte, sedendo insieme e dividendo il pane e le bevande come fratelli. So che siete riluttanti a separarvi dai vostri parenti e dai vostri amici, ma voglio che vi facciate dei nuovi amici. E così, per aiutarci a conoscerci, ho deciso che dovremo fare un nuovo gioco.»

A queste parole, gli occhi dei nani si spalancarono, le barbe ondeggiarono, e borbottii si levarono nell’aria come tuoni. Nessun nano adulto partecipava mai a dei giochi! (Certe attività ricreative come «Colpisci la Pietra» e il «Lancio del Martello» venivano considerate competizioni, non giochi.) Al contrario, Darknight ed i suoi uomini s’illuminarono: gli uomini delle pianure vivevano per i giochi e le contese, poiché erano giudicati divertenti come guerreggiare contro le tribù vicine.

Agitando un braccio, Caramon indicò la nuova, grande tenda conica che si trovava dietro alle tavole e che era stata oggetto di molte occhiate curiose e sospettose sia da parte dei nani sia degli uomini delle pianure. Alta più di venti piedi, era sormontata dallo stendardo di Caramon. La bandiera di seta con la stella a nove punte sbatteva al vento della sera, illuminata dal grande falò che ardeva lì vicino.

Mentre tutti fissavano la tenda, Caramon allungò un braccio e, con uno strattone della sua mano robusta, tirò una corda. All’istante, i teli che formavano i lati della tenda caddero al suolo e, a un segnale di Caramon, vennero trascinati via da parecchi giovanetti sogghignanti.

«Che sciocchezza è mai questa?» ringhiò Reghar, accarezzando l’ascia con le dita.

Un unico palo massiccio si ergeva su un mare di fango nero e viscido. La superficie del palo era stata piallata e lucidata, e rifletteva il bagliore delle fiamme. Quasi all’estremità del palo vi era una piattaforma rotonda, fatta di legno massiccio, nella quale erano stati praticati numerosi fori.

Ma non fu la vista del palo o della piattaforma o del fango a suscitare esclamazioni eccitate o meravigliate sia da parte dei nani sia degli umani. Fu la vista di ciò che era incassato nel legno proprio in cima al palo. Risplendendo alla luce del fuoco, con l’elsa e il manico che balenavano incrociati, c’erano una spada e un’ascia da combattimento. Ma quelle non erano le rozze armi da guerra che molti portavano. Modellate nel miglior acciaio, la loro squisita lavorazione era ben visibile a quelli che si trovavano venti piedi più sotto e le stavano fissando.

«Per la barba di Reorx!» Reghar tirò un sospiro lungo e tremolante. «Quell’ascia lassù vale il prezzo del nostro villaggio! Darei cinquanta anni della mia vita per un’arma come quella!»

Darknight, fissando la spada, sbatté rapidamente le palpebre mentre improvvise lacrime di desiderio facevano sì che l’immagine dell’arma si offuscasse alla sua vista.

Caramon sorrise. «Queste armi sono vostre!» annunciò. Sia Darknight sia Reghar lo fissarono, i volti contratti in uno stupore inespresso. «Se...» proseguì Caramon, «riuscirete a tirarle giù.» Un intenso brusio eruppe sia dai nani sia dagli uomini. Subito tutti si lanciarono verso la fossa, costringendo Caramon a urlare per dominare il frastuono: «Reghar e Darknight, ognuno di voi potrà scegliere nove guerrieri come aiuto! I premi saranno del primo che li raggiungerà.»

A Darknight non servì nessun ulteriore stimolo. Senza preoccuparsi di ottenere aiuto, balzò in mezzo al fango e cominciò ad avanzare a guado verso il palo. Ma ad ogni passo affondava sempre più, col fango che diventava sempre più profondo mentre si avvicinava al suo obbiettivo.

Quand’ebbe raggiunto il palo era ormai sprofondato oltre le ginocchia in quella sostanza appiccicosa.

Reghar, più cauto, prese tempo per osservare il suo avversario. Chiamando a sé nove tra i nani più forti perché lo aiutassero, il capo dei nani e i suoi uomini avanzarono in mezzo al fango. L’intero contingente subito scomparve, le loro pesanti armature li fecero affondare quasi immediatamente. I loro compagni li aiutarono a trascinarsi fuori. L’ultimo a emergere fu Reghar.

Maledicendo ogni dio che gli venne in mente, il nano si strizzò il fango dalla barba poi, accigliandosi, procedette a spogliarsi della sua armatura. Tenendo l’ascia alta sopra la testa, tornò a guadare il fango senza neppure aspettare la sua scorta.

Darknight aveva raggiunto il palo. Lì, accanto alla base, il fango non era così profondo, sotto di esso c’era il terreno solido. Serrando il palo tra le braccia, il capo degli uomini delle pianure si tirò su, fuori dal fango, e avvolse le gambe intorno ad esso. Si arrampicò per circa tre piedi, rivolgendo un ampio sogghigno a quelli della sua tribù che l’incitavano. Poi, d’un tratto, cominciò a scivolare verso il basso. Digrignando i denti, lottò disperatamente per tenersi aggrappato, ma fu tutto inutile.

Alla fine, il grande capo scivolò lentamente giù fino alla base, fra gli ululati di derisione dei nani.

Seduto nel fango, fissò torvo il palo. Era stato unto di grasso d’animale.

Più nuotando che camminando, Reghar raggiunse finalmente la base del palo. A quel punto era affondato nel fango fino alla cintura, ma grazie alla sua grande forza il nano riusciva ancora ad andare avanti.

«Fatti da parte, » ingiunse al frustrato uomo delle pianure. «Usa il cervello! Se non riesci a salire, faremo scendere il premio fino a noi!»

Con un ghigno di trionfo sulla faccia barbuta schizzata di fango, Reghar roteò all’indietro l’ascia e sferrò un colpo poderoso al palo.

Caramon sorrise fra sé, fremendo per l’aspettativa.

Vi fu un tremendo rimbombo. L’ascia del nano rimbalzò dal palo come se avesse colpito il fianco d’una montagna: il palo era stato tagliato dallo spesso tronco di un ironwood. Mentre l’ascia, rimbalzando, volava via dalle mani escoriate del nano, la violenza del colpo fece finire Reghar lungo disteso sulla schiena in mezzo al fango. Adesso toccò agli uomini delle pianure scoppiare a ridere, nessuno più forte del loro capo coperto di fango.

Il nano e l’umano si fissarono in silenzio, la tensione crebbe rapidamente fra i due. Le risate si spensero, sostituite da rabbiosi borbottii. Caramon trattenne il respiro. Poi gli occhi di Reghar andarono alla sua ascia scheggiata che stava lentamente affondando nella melma, e da essa all’altra bellissima ascia in cima al palo, al lucido acciaio che scintillava alla luce dei fuochi. Con un ringhio, si voltò per fronteggiare i suoi uomini.

La scorta di Reghar, adesso spogliata delle proprie armature, lo aveva già raggiunto a guado.

Urlando e gesticolando, Reghar fece loro cenno di allinearsi alla base del palo viscido. Poi i nani cominciarono a formare una piramide. Tre si misero in fondo, altri tre salirono sulle loro spalle, quindi altri due montarono su questi, e un altro salì su questi due. La fila più bassa dei nani affondò nel fango oltre la cintola, ma, alla fine, trovato il terreno solido sul fondo, rimase salda e immobile.

Darknight osservò per qualche istante la scena, in cupo silenzio, poi chiamò nove dei suoi guerrieri.

Nel giro di pochi istanti, gli umani stavano formando la loro piramide. Essendo più bassi di statura, i nani erano stati obbligati a dare una base più stretta alla loro piramide, per poi ridurla in larghezza fino a un solo nano per avvicinarsi alla cima. Reghar adesso fece l’ultima ascesa. Barcollando all’apice del pinnacolo, mentre gli altri nani ondeggiavano e gemevano sotto di lui, tese disperatamente le braccia per raggiungere la piattaforma, ma non era alto abbastanza.

Darknight, arrampicandosi sopra le schiene dei suoi uomini, raggiunse facilmente la superficie inferiore della piattaforma.

Poi, scoppiando a ridere nel vedere l’accigliarsi del volto coperto di fango di Reghar, il capo degli uomini delle pianure tentò di tirarsi su attraverso una di quelle aperture dalla strana forma.

Non ci riuscì. Spremersi, imprecare, trattenere il fiato, non gli fu d’aiuto. Neppure spingendo con tutte le sue forze l’uomo delle pianure riuscì a costringere il suo corpo magro ma robusto a passare oltre il foro. Nel medesimo istante, Reghar fece un balzo verso la piattaforma...

E la mancò.

Il nano precipitò attraverso l’aria e atterrò con un tonfo nel fango sottostante, mentre la violenta spinta data per saltare faceva crollare l’intera piramide, proiettando i nani in tutte le direzioni.

Questa volta, però, gli uomini non risero. Fissando Reghar sotto di lui, all’improvviso Darknight saltò di propria iniziativa giù nel fango. Atterrò vicino al capo dei nani, lo afferrò e lo trascinò fino alla superficie della melma.

A questo punto entrambi erano quasi indistinguibili, ricoperti dalla testa ai piedi da quel limo nero.

Rimasero là a fissarsi.

«Tu sai,» disse Reghar, pulendosi via il fango dagli occhi, «che io sono il solo che può passare attraverso quel buco.»

«E tu sai,» replicò Darknight a denti stretti, «che io sono il solo che possa farti arrivare lassù.»

Il nano afferrò la mano dell’uomo delle pianure. I due si affrettarono a raggiungere la piramide umana. Darknight salì per primo, fornendo l’ultimo gradino per arrivare alla cima.

Tutti applaudirono quando Reghar salì sulle spalle umane e senza nessuna difficoltà attraversò il foro.

Arrampicatosi sulla piattaforma, il nano afferrò l’elsa della spada e il manico dell’ascia e, trionfante, li sollevò sopra la testa. La folla si azzittì. Ancora una volta gli uomini e i nani si squadrarono sospettosi.

Ci siamo! pensò Caramon. Quanto di Flint ho visto in te, Reghar? Quanto di Riverwind in te, Darknight? Tantissimo, quasi troppo, dipende da questo!

Reghar abbassò lo sguardo attraverso il foro, verso il volto severo dell’uomo delle pianure. «Il possesso di quest’ascia, che dev’essere stata forgiata dallo stesso Reorx, lo devo a te, uomo delle pianure. Sarò onorato di combattere al tuo fianco. E se combatterai con me, ti servirà un’arma decente!»

Fra gli evviva dell’intero campo, porse la grande spada scintillante a Darknight attraverso il foro.

Capitolo quinto.

Il banchetto si prolungò fino a notte inoltrata. Nell’accampamento risuonavano le risate, le urla e le imprecazioni piene di cordialità lanciate in lingua nanesca e tribale, oltre che in solamnico e in comune.

Fu facile per Raistlin sgusciar via. Nell’eccitazione generale nessuno sentì la mancanza di quell’arcimago silenzioso e cinico.

Nel tornare alla propria tenda, che Caramon aveva rimesso a nuovo per lui, Raistlin si tenne fra le ombre. Nelle sue vesti nere non era niente di più d’un movimento sfuggente visto con la coda dell’occhio.

Evitò la tenda di Crysania. Lei era in piedi sulla soglia, intenta ad osservare quel divertimento con un’espressione nostalgica. Non osava unirsi a loro, sapendo che la presenza della «strega» avrebbe danneggiato immensamente Caramon. Com’è ironico, pensò Raistlin, che in quest’epoca sia tollerato uno stregone dalle Vesti Nere, mentre un chierico di Paladine viene disprezzato e svilito.

Attraversando con i passi felpati dei suoi stivali di cuoio l’accampamento in cui l’esercito bivaccava, lasciando a malapena delle impronte sull’erba umida, Raistlin trovò in questo una cupa forma di divertimento. Lanciò un’occhiata alle costellazioni in cielo sopra di lui, contemplando sia il Drago di Platino sia il Drago a Cinque Teste, l’uno opposto all’altro, con un lieve sorriso beffardo.

La consapevolezza che Fistandantilus avrebbe potuto avere successo se non fosse stato per l’intervento d’uno sciagurato gnomo aveva arrecato una gioia tenebrosa all’essere di Raistlin. Stando a tutti i suoi calcoli, lo gnomo era il fattore-chiave. A quanto pareva, lo gnomo aveva alterato il tempo, anche se non era chiaro come ci fosse riuscito. Comunque, Raistlin aveva calcolato che tutto ciò che lui doveva fare era arrivare alla fortezza montana di Zhaman; poi, di là, sarebbe stato davvero semplice farsi strada fin nel cuore di Thorbardin, trovare quello gnomo e renderlo innocuo.

Il tempo, che era stato alterato in precedenza, avrebbe ripreso il suo giusto corso. Là dove Fistandantilus aveva fallito, lui avrebbe avuto successo.

Perciò, proprio come Fistandantilus aveva fatto prima di lui, Raistlin concentrava adesso sullo sforzo bellico il suo interesse e la sua completa attenzione per essere sicuro che sarebbe riuscito a raggiungere Zhaman. Lui e Caramon avevano passato lunghe ore a consultare antiche mappe, studiando le fortificazioni, mettendo a confronto ciò che ricordavano dei loro viaggi in quelle terre in un tempo che era di là da venire, e cercando d’indovinare quali cambiamenti potevano essere intervenuti. La chiave per vincere la battaglia era la presa di Pax Tharkas.

E questo, Caramon l’aveva detto più di una volta con un pesante sospiro, pareva praticamente impossibile.

«Duncan l’avrà massicciamente difesa,» aveva argomentato Caramon, con il dito appoggiato sul punto della mappa che indicava la grande fortezza. «Ricordi com’è, Raist? Com’è costruita, fra quelle due alte vette! Quei maledetti nani possono tenerla per anni! Basta chiudere le porte, far cadere le rocce con quel congegno, e saremo incastrati. Ci sono voluti dei draghi d’argento per sollevare quelle rocce, a quanto ricordo,» aveva aggiunto l’omone, malinconico.

«Aggirala,» aveva suggerito Raistlin,

Caramon aveva scosso la testa. «E da dove?»

Il suo dito si era spostato verso occidente. «Su un lato c’è Qualinesti. Gli elfi ci ridurrebbero a lembi di carne e ci appenderebbero a seccare.» Mosse il dito verso est. «Su questo lato, ci sono il mare o la montagna. Non abbiamo abbastanza imbarcazioni per andar per mare e, guarda,» spostò il dito verso il basso, «se approdassimo a sud, in quel deserto, finiremmo incastrati in mezzo, con entrambi i fianchi esposti, Pax Tharkas a nord, Thorbardin a sud.»

L’omone si era messo a camminare, fermandosi di tanto in tanto per fissare la mappa, irritato.

Raistlin aveva sbadigliato, alzandosi poi in piedi, appoggiando leggermente la mano sul braccio di Caramon. «Ricordati questo, fratello mio,» aveva detto con voce sommessa. «Pax Tharkas è caduta!»

Il volto di Caramon si era oscurato. «Sì,» aveva borbottato, arrabbiato perché gli era stato ricordato che quello che a lui sembrava una titanica, eroica impresa era soltanto una specie d’immenso gioco.

«Suppongo che non ti ricordi come?»

«No.» Raistlin aveva scosso la testa. «Ma cadrà...» Aveva fatto una pausa, poi aveva ripetuto con calma: «Cadrà!»

Tre tozze e scure figure strisciarono fuori dalla foresta, tenendosi lontane dai fuochi degli alloggiamenti e dei bivacchi, e perfino dal chiarore della luna e delle stelle. Giunte ai margini del campo esitarono, come se fossero incerte sulla loro destinazione. Alla fine, una delle tre figure indicò qualcosa borbottando. Le altre due annuirono e, muovendosi adesso in fretta, proseguirono veloci in mezzo alla tenebra.

Veloci, sì, ma non in silenzio. Nessun nano riusciva mai a muoversi in silenzio, e questi sembravano più rumorosi del solito. Crepitavano e tintinnavano e calpestavano ogni singolo fragile ramoscello, borbottando imprecazioni mentre avanzavano senza alcun riguardo.

Raistlin, che li stava aspettando nell’oscurità della sua tenda, sentì che stavano arrivando quand’erano ancora lontani e scosse la testa. Ma nell’elaborare i suoi piani, aveva messo in conto anche questo, così aveva organizzato l’incontro quando il frastuono e l’ilarità del banchetto gli avrebbero fornito una copertura adeguata.

«Entrate,» li sollecitò infine, quando il tramestio e lo scalpiccio dei piedi ferrati si fermarono appena fuori della falda della tenda.

Vi fu una pausa, accompagnata da un respiro affannoso e da un’esclamazione borbottata, nessuno voleva essere il primo a toccare la tenda. Un’imprecazione giunse in risposta. La falda della tenda venne aperta con uno strappo così violento che il robusto tessuto quasi si lacerò, e un nano entrò. In apparenza era il capo poiché avanzava con un dondolio strafottente mentre gli altri due che lo seguivano erano nervosi e timorosi.

Il nano in testa al piccolo gruppo avanzò verso il tavolo al centro della tenda, muovendosi rapidamente in mezzo all’oscurità nera come la pece. Dopo essere vissuti per anni sottoterra, i Dewar avevano sviluppato un’eccellente vista notturna. Correva perfino voce che alcuni di loro avessero il dono della vista elfica, la quale permetteva loro di vedere il chiarore degli esseri viventi nel buio.

Ma per quanto buoni fossero gli occhi del nano, non riuscì a distinguere nulla della figura abbigliata di nero che sedeva davanti a lui sull’altro lato della scrivania. Era come se, guardando nella notte più profonda, vedesse qualcosa di ancora più buio, come un enorme baratro che si spalancasse improvvisamente ai suoi piedi. Quel Dewar era forte e temerario, perfino spericolato; suo padre era morto in preda a una follia delirante. Ma il nano scuro scoprì di non poter reprimere un leggero brivido che gli partì dalla nuca e gli si propagò giù per tutta la lunghezza della colonna vertebrale.

Si sedette. «Voi due,» disse in nanesco agli altri che erano con lui, «sorvegliate l’ingresso.»

Annuirono e si affrettarono a ritirarsi, fin troppo lieti di lasciare le vicinanze della figura abbigliata di nero; si rannicchiarono accanto all’ingresso, sbirciando fuori in mezzo alle ombre. Ma un improvviso lampo di luce li fece trasalire, allarmati. Il loro capo sollevò di scatto il braccio, con un’imprecazione, coprendosi gli occhi.

«No luce... no luce!» gridò in un approssimativo comune. Poi la lingua gli si appiccicò al palato, e per qualche istante tutto ciò che riuscì a produrre furono dei suoni ingarbugliati, poiché la luce non proveniva né da una torcia né da una candela, bensì da una fiamma che bruciava nel palmo della mano chiusa a coppa del mago.

Tutti i nani sono per natura sospettosi e diffidenti nei confronti della magia. Privi di cultura, soggiacenti alla superstizione, i Dewar ne avevano terrore e così perfino quel semplice trucco in cui quasi ogni illusionista da strada era in grado di esibirsi indusse il nano a risucchiare il proprio respiro in preda alla paura.

«Io guardo quelli con cui tratto,» disse Raistlin, sussurrando in tono rassicurante. «Non temere, questa luce non verrà individuata dall’esterno o, se lo sarà, chiunque passerà di qui penserà che io stia studiando.»

Il Dewar abbassò lentamente il braccio, sbattendo le palpebre per il dolore causatogli dall’accecante intensità di quella luce. I due suoi compagni tornarono a sedersi, questa volta ancora più vicino all’ingresso. Quel capo Dewar era lo stesso che aveva partecipato alla riunione del consiglio di Duncan. Malgrado sul suo volto fosse impressa la tipica crudeltà quasi folle e calcolatrice che contrassegnava la maggior parte della sua razza, c’era un luccichio d’intelligenza ragionatrice nei suoi occhi scuri, che lo rendeva particolarmente pericoloso.

Adesso quegli occhi stavano valutando il mago, lì davanti a lui. Il dewar rimase colpito. Come la maggior parte dei nani, non aveva nessuna considerazione per gli umani. E un fruitore umano di magia era doppiamente sospetto. Ma il Dewar era un giudice acuto della personalità, e vide nelle labbra sottili del mago, nel suo volto smunto e nei suoi occhi gelidi uno spietato desiderio di potere, che poteva capire e del quale era in grado di fidarsi.

«Tu... Fistandantilus?» ringhiò sordamente il Dewar.

«Lo sono.» Il mago chiuse la mano e la fiamma scomparve, lasciandoli un’altra volta nel buio, fatto per il quale almeno il nano provò sollievo. «E parlo nanesco, perciò possiamo conversare nella tua lingua. Lo preferirei, appunto, in modo che non ci siano possibilità di equivoci.»

«Molto bene.» Il Dewar si sporse in avanti. «Sono Argat, thane del mio clan. Ho ricevuto il tuo messaggio. Siamo interessati, ma dobbiamo saperne di più.»

«Intendendo, “Cosa ci guadagniamo?”,» disse Raistlin in tono beffardo. Tese una mano sottile, indicando un angolo della tenda.

Guardando in quella direzione, Argat non vide niente. Poi, nell’angolo della tenda, un oggetto cominciò ad ardere, dapprima un tenue bagliore, poi con fulgore crescente, e Argat risucchiò ancora una volta il proprio respiro, ma questa volta per stupore e incredulità più che per paura.

D’un tratto lanciò a Raistlin un’occhiata tagliente e sospettosa.

«Ma certo, vai pure ad esaminarlo,» annuì Raistlin, con una scrollata di spalle. «Potrai anche portarlo via con te stanotte stessa... se ci metteremo d’accordo.»

Ma Argat aveva già lasciato con uno scatto la sedia, precipitandosi, incespicando, verso l’angolo della tenda. Cadde in ginocchio e affondò le mani dentro il cofano pieno di monete d’acciaio che scintillavano d’un bagliore vivo e magico. Per lunghi momenti non potè fare altro che fissare quella ricchezza con occhi sfavillanti, lasciando che le monete gli scorressero tra le dita. Poi, con un tremulo sospiro, si risollevò e tornò alla sua sedia.

«Hai un piano?»

Raistlin annuì. Il magico bagliore delle monete sbiadì, ma rimase ancora un fievole luccichio che continuò ad attirare lo sguardo del nano.

«Le spie ci dicono,» riprese Raistlin, «che Duncan ha in mente di affrontare il nostro esercito sulle pianure davanti a Pax Tharkas, con l’intenzione di sconfìggerci colà o, nel caso in cui non riescano nel loro intento, di infliggerci pesanti perdite. Se dovessimo vincere noi, si ritirerà con le sue forze all’interno della fortezza, vicino alle porte, attivando il congegno che farà precipitare migliaia di tonnellate di roccia per bloccare il passaggio.

«Con le riserve di cibo e di armi che ha immagazzinato là dentro, potrà aspettare fino a quando noi rinunceremo e ci ritireremo, oppure fino a quando non arriveranno i suoi rinforzi da Thorbardin, per intrappolarci dentro la valle. Ho ragione?»

Argat si passò le dita attraverso la barba nera. Sfoderò il coltello e cominciò a lanciarlo in aria e a riafferrarlo con destrezza. Lanciò un’occhiata al mago e smise d’un tratto, allargando le mani.

«Mi spiace, un tic nervoso,» disse sogghignando maligno. «Spero di non averti allarmato. Se ti fa sentire inquieto, posso...»

«Se dovesse rendermi inquieto, posso risolvere il problema,» osservò Raistlin in tono pacato.

«Continua pure.» Fece un gesto. «Provaci.»

Scrollando le spalle, ma sentendosi a disagio sotto lo sguardo di quegli strani occhi che poteva percepire ma non vedere in mezzo alle ombre del cappuccio nero, Argat lanciò il coltello in aria...

Una mano bianca e sottile guizzò fuori dal buio con un movimento serpentino, agguantò il coltello per l’impugnatura, e lo conficcò dentro il tavolo che si trovava fra loro.

Gli occhi di Argat scintillarono. «Magia!» esclamò aspramente.

«Destrezza,» lo contraddisse Raistlin, gelido.

«E adesso,» aggiunse, «vogliamo continuare questa discussione oppure fare questi giochetti nei quali eccellevo nella mia infanzia?»

«Le tue informazioni sono precise,» mormorò Argat, rinfoderando il coltello. «Questo è il piano di Duncan.»

«Bene. Il mio piano è molto semplice. Duncan sarà all’interno della fortezza stessa. Non uscirà sul campo. Darà l’ordine di sbarrare le porte.»

Raistlin riaffondò sulla sua sedia, e congiunse le punte delle dita. «Quando quell’ordine verrà dato, le porte non si chiuderanno.»

«Così facile?» esclamò Argat, beffardo.

«Così facile,» annuì Raistlin. Allargò le mani. «Coloro che dovrebbero chiuderle, moriranno. Tutto quello che dovrete fare sarà tenere aperte le porte soltanto per pochi minuti, per consentirci di assaltarle. Pax Tharkas cadrà. La tua gente deporrà le armi e si offrirà di unirsi a noi.»

«Facile, salvo per un piccolo particolare,» replicò Argat, fissando Raistlin, sarcastico. «Le nostre famiglie a Thorbardin. Che ne sarà di esse, se diventeremo traditori?»

«Niente,» rispose Raistlin. Affondò una mano in una tasca sul fianco e ne tirò fuori una pergamena arrotolata, legata con un nastro nero. «Manderai questa a Duncan.» La porse ad Argat, facendogli un cenno. «Leggila.»

Corrugando la fronte, sempre guardando Raistlin con sospetto, il nano prese il rotolo, lo slegò, e portandolo vicino al cofano pieno di monete, lesse, al fioco, magico bagliore.

Sollevò lo sguardo su Raistlin, stupito. «Questo... questo è nella lingua del mio popolo!»

Raistlin annuì, con una certa impazienza. «Certo, cosa ti aspettavi? Altrimenti Duncan non ci crederebbe.»

«Ma...» disse Argat ad alta voce, «... è una lingua segreta, conosciuta soltanto ai Dewar e a pochi altri, come Duncan, re...»

«Vuoi leggere?» Raistlin fece un gesto d’irritazione. «Non posso aspettare tutta la notte.»

Maledicendo Reorx fra i denti, il nano lesse la pergamena. Gli ci volle parecchio, anche se le parole erano poche. Accarezzandosi la folta barba aggrovigliata, rifletté. Poi, alzandosi, tornò ad arrotolare la pergamena e la tenne nella mano, battendola lentamente sul palmo.

«Hai ragione. Questo risolve tutto.» Tornò a sedersi, i suoi occhi scuri si fissarono sul mago, stringendosi. «Ma voglio che a Duncan venga dato qualcos’altro. Non soltanto una pergamena. Qualcosa... che lo colpisca.»

«Cos’è che colpisce, per la tua razza?» chiese Raistlin, torcendo le labbra. «Qualche dozzina di cadaveri tagliati a pezzi...»

Argat sogghignò. «La testa del vostro generale.»

Vi fu un lungo silenzio. Non un fruscio, o il più piccolo sussurro di tessuto, tradì i pensieri di Raistlin. Parve perfino che avesse smesso di respirare. Il silenzio durò fino a dar l’impressione ad Argat di essere diventato anch’esso un vegetale, tant’era intenso e potente.

Il nano rabbrividì, poi corrugò la fronte. No, si sarebbe attenuto alla sua richiesta. Duncan sarebbe stato costretto a proclamarlo un eroe, come quel bastardo di Kharas.

«D’accordo.» La voce di Raistlin era piatta, priva d’inflessioni e di emozioni. Ma mentre parlava, si sporse sopra il tavolo. Sentendo l’arcimago che si faceva più vicino, Argat si tirò indietro. Adesso poteva vedere quegli occhi luccicanti e le loro gelide profondità, nere e abissali, lo trafissero fin nel cuore stesso del suo essere.

«D’accordo,» ripetè il mago. «Assicurati di mantenere la tua parte del patto.»

Deglutendo, Argat esibì un agro sorriso. «Non sei chiamato l’Oscuro senza motivo, non è vero, amico mio?» disse sforzandosi di continuare a sorridere mentre si alzava dalla sedia, infilandosi la pergamena nella cintura.

Raistlin non rispose, ma un fruscio del cappuccio indicò che aveva udito. Scrollando le spalle, Argat si girò e fece un cenno ai suoi compagni, mostrando con un gesto imperioso il forziere nell’angolo.

Precipitandosi verso di esso, i due nani abbassarono il coperchio e lo chiusero con una chiave che Raistlin aveva tirato fuori dalle pieghe delle sue vesti e aveva loro porto in silenzio.

Malgrado i nani fossero abituati a trasportare senza difficoltà pesanti fardelli, i due nani cacciarono un lieve grugnito quando sollevarono il forziere. Gli occhi di Argat sfavillarono per il piacere.

I due nani precedettero il loro capo fuori della tenda. Tenendo in mezzo il fardello fra loro, si affrettarono verso la sicurezza delle ombre della foresta. Argat li seguì con lo sguardo, poi si voltò verso il mago che era tornato ad essere una pozza di tenebra nella tenebra.

«Non preoccuparti, amico, non verremo meno alla parola data.»

«No, amico,» disse Raistlin. «Non lo farete.»

Argat trasalì. Non gli era piaciuto il tono del mago.

«Vedi, Argat, quel denaro è stato maledetto. Se farete il doppio gioco, tu e chiunque altro toccherà quelle monete vedrà la pelle delle sue mani diventare nera, e subito cominciare a marcire. E una volta che le vostre mani saranno ridotte a una massa di carne fetida, si annerirà la pelle delle vostre braccia e delle vostre gambe. E, lentamente, mentre osserverete impotenti, la maledizione si diffonderà in tutto il vostro corpo. Quando non ce la farete più a reggervi sui vostri piedi putrescenti, allora crollerete al suolo morti.»

Argat produsse un suono strozzato, inarticolato. «Stai... stai mentendo!» riuscì a ringhiare.

Raistlin non disse niente. Per quello che Argat ne sapeva, poteva benissimo essere scomparso dalla tenda. Il nano non riuscì a vedere il mago o anche soltanto a percepire la sua presenza. Quello che invece udì furono le grida e le risate dall’alloggiamento principale, quando la porta si spalancò di colpo. Sgorgò un fiotto di luce, nani e uomini uscirono barcollando all’aria della notte.

Imprecando fra i denti, Argat si affrettò ad allontanarsi.

Ma mentre correva, si asciugò freneticamente le mani sui calzoni.

Capitolo sesto.

L’alba. Il sole di Krynn strisciò fuori lentamente dalle montagne, quasi sapesse su quale orrendo spettacolo avrebbe proiettato la sua luce, oggi. Ma non era possibile fermare il tempo. Comparendo finalmente al di sopra delle vette delle montagne, il sole venne accolto da uno scrosciare di applausi e dal cozzare delle spade contro gli scudi da parte di coloro che, forse, contemplavano l’alba per l’ultima volta nella loro vita.

Fra quelli che applaudivano c’era Duncan, Re dei Nani della Montagna, in piedi in cima agli spalti della grande fortezza di Pax Tharkas, circondato dai suoi generali. Duncan sentì la voce profonda e rauca dei suoi uomini levarsi intorno a lui come un’onda di marea e sorrise soddisfatto. Quella sarebbe stata una giornata gloriosa.

Soltanto un nano non applaudiva. Duncan non dovette neppure guardare, per essere consapevole del silenzio che tuonava nel suo cuore con lo stesso fragore con cui gli applausi rimbombavano nelle sue orecchie.

Discosto dagli altri c’era Kharas, eroe dei nani. Alto, splendido nella sua sfolgorante armatura, con il grande martello stretto nelle ampie mani, fissava il sole, e se qualcuno l’avesse guardato, avrebbero visto lacrime colare lungo il suo volto.

Ma nessuno lo guardava. Tutti evitavano con cura di farlo. Non perché piangeva, malgrado le lacrime fossero considerate dai nani una debolezza infantile. No, non era perché Kharas piangeva che tutti distoglievano gli occhi da lui. Era perché, quando le lacrime cadevano, colavano senza ostacoli lungo un volto spoglio.

Kharas si era tagliato la barba.

Proprio mentre Duncan percorreva con lo sguardo le pianure davanti a Pax Tharkas, proprio mentre la sua mente assimilava lo spiegamento e la collocazione delle forze nemiche che si allargavano sui pianori spogli, con le punte delle lance che scintillavano alla luce del sole, il thane poteva ancora sentire gli effetti del trauma sconfinato che quella mattina aveva sopraffatto la sua anima quando aveva visto Kharas prendere posto sugli spalti, il volto nudo. Il nano reggeva fra le mani le lunghe trecce ricciolute della sua magnifica barba e, mentre guardavano inorriditi, Kharas le aveva scagliate fuori dagli spalti.

Una barba è il diritto di nascita di un nano, il suo orgoglio, l’orgoglio della sua famiglia. Un nano, in preda a un profondo dolore, passerà il periodo di lutto senza pettinarsi la barba, ma c’è soltanto una cosa che può indurre un nano a raderla. La vergogna. È il segno del disonore, la punizione inflitta a un assassino, a un codardo, a un disertore.

«Perché?» fu tutto ciò che lo sbalordito Duncan era riuscito a chiedere.

Fissando le montagne, Kharas aveva risposto con una voce che si era rotta, crepandosi come una roccia: «Combatto questa battaglia perché mi hai ordinato di combattere, thane. Ti ho giurato fedeltà e l’onore m’impone di rispettare quell’impegno. Ma, mentre combatto, voglio che tutti sappiano che non trovo nulla di onorevole nell’uccidere i miei consanguinei, e neppure gli umani che, più di una volta, hanno combattuto al mio fianco. Che tutti sappiano che oggi Kharas si batte nella vergogna.»

«Bella considerazione che avranno di te quelli che condurrai in battaglia!» aveva risposto Duncan con amarezza.

Ma Kharas aveva chiuso la bocca, e non aveva voluto aggiungere altro.

«Thane!» gridarono allo stesso tempo parecchi uomini, riportando l’attenzione di Duncan sui pianori. Ma anche lui aveva visto le quattro figure, minuscole come giocattoli a quella distanza, staccarsi dall’esercito e cavalcare verso Pax Tharkas. Tre delle figure impugnavano bandiere svolazzanti. La quarta impugnava soltanto un’asta dalla quale s’irradiava una luce vivida e limpida che poteva esser vista perfino da quella distanza, nella luminosità crescente del giorno.

Naturalmente Duncan riconobbe subito due degli stendardi. Il vessillo dei nani delle colline, con il suo simbolo fin troppo familiare della falce e del martello, che era ripetuto in colori diversi sul suo stesso stendardo. Invece non aveva mai visto prima di allora il vessillo degli uomini delle pianure, ma seppe subito che poteva essere soltanto quello. Era adatto a loro: il simbolo del vento che spazzava la prateria. Suppose che il terzo vessillo appartenesse a quel generale venuto dalla gavetta che era sbucato dal nulla.

«Umpf!» sbuffò Duncan, fissando con disprezzo il vessillo con il suo simbolo della stella a nove punte. «Da tutto quello che abbiamo sentito dire, dovrebbe avere invece uno stendardo con sopra l’insegna della Gilda dei Ladri appaiata con una mucca muggente!»

I generali risero.

«Oppure, rose morte,» suggerì uno di loro. «Ho sentito dire che molti cavalieri rinnegati di Solamnia cavalcano insieme ai ladri e ai contadini.

Le quattro figure galoppavano attraverso la pianura, con gli stendardi che svolazzavano alle loro spalle, gli zoccoli dei loro cavalli sollevavano piccole nuvole di polvere.

«Il quarto, vestito di nero, dovrebbe essere lo stregone, Fistandantilus?» chiese Duncan, burbero, con le folte sopracciglia che si aggrovigliavano al punto da nascondergli quasi del tutto gli occhi. I nani, non avendo nessun talento per la magia, la di sprezzavano, diffidandone più di ogni altra cosa.

«Sì, thane,» rispose un generale.

«Di tutti loro, è quello che temo maggiormente,» borbottò Duncan, cupo.

«Bah!» Un vecchio generale si accarezzò compiaciuto la lunga barba. «Non devi temere lo stregone. Le nostre spie ci dicono che la sua salute è scarsa. Usa di rado la sua magia, sempre che la usi, e passa la maggior parte del tempo a rimuginare nella sua tenda. Inoltre, ci vorrebbe un esercito di stregoni potenti quanto lui per conquistare questa fortezza con la magia.»

«Suppongo che tu abbia ragione,» disse Duncan, sollevando la mano per accarezzarsi la barba.

Intravedendo Kharas con la coda dell’occhio, arrestò la propria mano sentendosi d’un tratto a disagio, e all’improvviso strinse le mani dietro la schiena. «Comunque, continuate a tenerlo d’occhio.» Alzò la voce. «Voi, tiratori scelti: una borsa d’oro a colui la cui freccia alloggerà tra le costole dello stregone!»

Si levò un sonoro evviva che subito si spense quando i quattro si arrestarono davanti alla fortezza.

Il capo, il generale, sollevò la mano con il palmo verso l’esterno nell’antico gesto che indicava la volontà di parlamentare. Percorrendo gli spalti a grandi passi e arrampicandosi su un blocco di pietra che era stato messo lì proprio con quello scopo, Duncan si piantò le mani ai fianchi, allargò le gambe e guardò sotto di sé con occhio torvo.

«Vorremmo parlare!» gridò da sotto il generale Caramon. La sua voce tuonò e rimbalzò tra le mura delle ripide montagne che fiancheggiavano la fortezza.

«Tutto è stato detto!» replicò Duncan. La voce del nano suonò altrettanto poderosa, anche se le sue dimensioni erano all’incirca un quarto di quelle del grosso generale.

«Vi diamo un’ultima possibilità! Restituite ai vostri consanguinei ciò che, come ben sapete, appartiene loro di diritto! Restituite a questi umani ciò che avete loro sottratto. Dividete la vostra immensa ricchezza. Dopotutto, i morti non possono spenderla!»

«No, ma voi vivi trovereste un modo, non è vero?» ribatté Duncan con voce rimbombante, scoppiando in una risata beffarda. «Quello che noi abbiamo, ce lo siamo guadagnato sgobbando onestamente, lavorando nelle nostre case sotto le montagne, non vagando per il paese in compagnia di barbari selvaggi. Ecco la nostra risposta!»

Duncan alzò la mano. I tiratori scelti, pronti e in attesa di quel segnale, tesero le corde dei loro archi. Duncan abbassò di scatto la mano, e un centinaio di frecce sibilarono attraverso l’aria. I nani sugli spalti cominciarono a ridere, sperando di vedere i quattro che giravano i cavalli e fuggivano impazziti per mettersi in salvo.

Ma la risata morì loro sulle labbra. Le quattro figure non si mossero, mentre le frecce descrivevano la parabola verso di loro. Lo stregone dalle Vesti Nere sollevò la mano. Nel medesimo istante la punta di ciascuna freccia esplose in fiamme, le asticelle divennero fumo e, nel giro di pochi istanti, tutte rimpicciolirono fino a scomparire nella vivida luce del mattino.

«E questa è la nostra risposta! » la voce fredda e severa del generale aleggiò verso l’alto, fino a loro. Facendo girare il proprio cavallo, il generale partì al galoppo in direzione delle sue armate, affiancato dallo stregone dalle Vesti Nere, dal nano delle colline e dall’uomo delle pianure.

Poiché udì i suoi uomini borbottare fra loro, e vedendo che si scambiavano occhiate cupe e dubbiose, Duncan soffocò con decisione le proprie momentanee perplessità e si voltò a fronteggiarli, con la barba che gli fremeva per la rabbia.

«Cos’è questa storia?» volle sapere, irato. «Vi siete fatti spaventare dai trucchi di un illusionista da strada? Che cosa guido, un esercito di maschi adulti o di bambini?»

Quando li vide abbassare la testa e arrossire per l’imbarazzo, Duncan scese dal suo podio.

Raggiunto a grandi passi il lato opposto degli spalti, guardò giù nel vasto cortile della poderosa fortezza che era formata non da mura costruite da mano umana ma dalle pareti naturali delle stesse montagne. I fianchi delle montagne erano costellati di caverne. Di solito il fumo e il fragore dei minerali che venivano estratti e trasformati in acciaio sarebbero sgorgati dalle loro imboccature spalancate. Ma oggi le miniere erano chiuse, così come le forge.

Quella mattina il cortile brulicava di nani. Vestiti con le loro pesanti armature, impugnavano scudi, asce e martelli, le armi preferite dalla fanteria. Tutte le teste si levarono alla comparsa di Duncan e gli evviva, che si erano momentaneamente spenti, ricominciarono.

«È la guerra!» urlò Duncan al di sopra del frastuono, alzando le mani.

Gli evviva crebbero, poi cessarono. Dopo un attimo di silenzio, le profonde voci dei nani si levarono in un canto.

Sotto le colline il cuore dell’ascia
si leva dalle ceneri, il nucleo immobile del fuoco,
riscaldato e martellato l’impugnatura un ripensamento,
poiché le colline forgiano il primo alito di guerra.
Il cuore del soldato si apparenta e si affratella col campo di battaglia.
Torna nella gloria o sul tuo scudo.

Fuori dalle montagne nel mezzo dell’aria,
le asce sognano... sognano la roccia,
il metallo vivo attraverso le ere del metallo grezzo.
Pietra sul metallo, metallo sulla pietra.
Il cuore del soldato contiene, e sogna il campo di battaglia.
Torna nella gloria o sul tuo scudo.

Il rosso del ferro immaginato dalla vena,
il giallo dell’ottone, il verde del rame,
sfavilla nel fuoco la forgia del mondo,
consumandosi nel suo sogno mentre si tuffa nella pietra,
e nel cuore del soldato, e così completa il campo di battaglia.
Torna nella gloria o sul tuo scudo.

Con quella canzone che gli elettrizzava il sangue, Duncan sentì svanire i propri dubbi, così come le frecce erano svanite nell’aria immobile. I suoi generali stavano già scendendo dagli spalti affrettandosi ad assumere le loro posizioni. Uno soltanto di loro era rimasto, Argat, generale dei Dewar. Anche Kharas era ancora là. Duncan si girò a fissarlo, e aprì la bocca per parlare.

Ma l’eroe dei nani si limitò semplicemente a guardare il proprio re con un’espressione cupa e ossessionata; poi, dopo essersi inchinato al suo thane, si voltò e seguì gli altri per prendere il proprio posto a capo della fanteria.

Duncan lo fissò incollerito. «Che Reorx possa incendiargli la barba!» borbottò, avviandosi anche lui nella stessa direzione. Sarebbe stato presente all’apertura delle porte, quando il suo esercito si sarebbe messo in marcia verso i pianori. «Chi mai crede di essere? I miei stessi figli non si sarebbero comportati così con me! Questo non deve continuare. Dopo la battaglia, verrà messo al suo posto.»

Continuando a brontolare fra sé, Duncan aveva quasi raggiunto la scala che conduceva in basso, quando sentì una mano sul suo braccio. Sollevando lo sguardo, vide Argat.

«Ti chiedo, Re,» disse il nano nella sua rozza lingua, «di ripensarci. Nostro piano buono. Abbandona inutile grumo di roccia. Lascia che loro abbiano.» Indicò con un gesto gli eserciti fuori sui pianori. «Loro non fortificheranno. Quando noi ritirati a Thorbardin, ci inseguiranno fin dentro i pianori. Poi noi riconquisteremo Pax Tharkas e... bum,» il nano scuro batté le mani chiudendole con uno scatto, «avremo in trappola! Imprigionati fra Pax Tharkas a nord e Thorbardin a sud.»

Duncan fissò, gelido, il Dewar. Argat aveva presentato quella strategia al Consiglio di Guerra, e allora Duncan si era chiesto come fosse riuscito ad elaborarla. Di solito i Dewar s’interessavano poco alle faccende militari, avendo di mira una cosa soltanto: la loro parte di bottino. Era forse opera di Kharas, questo, un ulteriore tentativo di sottrarsi al combattimento?

Duncan scrollò via con rabbia il braccio del Dewar. «Pax Tharkas non cadrà mai!» dichiarò. «La sua strategia è la strategia del codardo. Non cederò nulla a quella marmaglia, neanche un pezzo di rame, neanche un sasso di questo terreno! Piuttosto morirò qui!»

Allontanandosi con passo rimbombante, Duncan discese sferragliando le scale con la barba irta per l’ira.

Seguendolo con lo sguardo, Argat contorse il labbro, sempre sorridendo sardonico: «Forse tu potrai anche morire su questo disgraziato pezzo di roccia, re Duncan. Ma non Argat.» Si voltò verso altri due Dewar che si erano tenuti nell’ombra di un angolo e annuì due volte. I nani annuirono in risposta, poi si affrettarono ad allontanarsi.

In piedi sugli spalti, Argat osservò il sole che saliva sempre di più nel cielo. Preoccupato, cominciò a sfregarsi le mani con fare assente sull’armatura di cuoio, come se cercasse di pulirle.

L’Highgug non ne era sicuro, ma aveva la sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato.

Anche se non era terribilmente percettivo, e capiva assai poco di complicate tattiche e strategie di guerra, l’Highgug si rese conto tuttavia che dei nani di ritorno vittoriosi dal campo di battaglia non avrebbero rimesso piede nella fortezza barcollando, coperti di sangue, per poi cadere morti ai suoi piedi.

Uno o due avrebbe potuto attribuirli alle fortune della guerra, ma il numero di nani che si comportava in quel modo pareva aumentare a una velocità davvero allarmante. L’Highgug decise di tentar di scoprire quello che stava succedendo.

Fece due passi avanti, poi, udendo il più orrendo baccano immaginabile alle sue spalle, si fermò di colpo. Tirando un profondo sospiro, l’Highgug si voltò. Si era dimenticato della sua compagnia.

«No, no, no!» urlò arrabbiato l’Highgug, agitando le braccia in aria. «Quante volte devo dire? State qui! State qui! Re detto Highgug, “Voi Qua State Qui”. Questo voler dire state Qui! Capito?»

L’Highgug fissò la sua compagnia con occhio severo, inducendo quelli ancora in piedi e capaci di affrontare l’espressione di quell’occhio (l’altro mancava) a tremare per la vergogna. Quei nani dei fossi, lì nella compagnia, che erano inciampati sulle loro picche, quelli che avevano, nella confusione, trafitto per sbaglio un vicino, quelli che giacevano proni al suolo e quelli che avevano compiuto un completo dietrofront e adesso guardavano coraggiosamente in direzione opposta, udirono la voce del loro comandante e tremarono.

«Sentite, verminose teste di fungo,» ringhiò l’Highgug, respirando rumorosamente, «io vado scoprire cosa successo. Non pare giusto. Tutti tornano così in fortezza. Niente cantare, solo sanguinare. Non modo che Re detto a Highgug cose sarebbero state. Così Io Vado. Voi State Qui. Capito? Ripetete.»

«Io Vado.» gli fece eco obbediente la sua truppa. «Voi State Qui.»

L’Highgug si tirò la barba per la disperazione. «No! Io Vado! Voi... Oh, non importa!»

Mentre si allontanava incollerito a grandi passi, sentì di nuovo dietro di sé, ancora una volta, lo sferragliare delle picche che cadevano a terra.

Per fortuna, forse, l’Highgug non dovette andare molto lontano. Altrimenti quando fosse tornato avrebbe trovato morta la metà del suo contingente, i suoi nani infilzati sulle punte delle loro stesse picche.

Così, invece, fu in grado di scoprire quello che gli serviva e tornare dalle sue truppe prima che una mezza dozzina, quanto meno, di loro si ammazzasse per sbadataggine.

L’Highgug aveva fatto soltanto venti passi quando aggirò un angolo e andò quasi a sbattere contro Duncan, il suo re. Duncan non lo notò, poiché gli voltava le spalle. Il re era impegnato in una conversazione con Kharas e molti altri ufficiali comandanti. Affrettandosi a fare un passo indietro, l’Highgug guardò e ascoltò con ansia.

A differenza di molti dei nani che erano tornati dal campo di battaglia, le cui pesanti cotte di maglia erano talmente ammaccate da far quasi pensare che fossero rotolati giù lungo il fianco roccioso d’una montagna, l’armatura di Kharas aveva soltanto due o tre piccole ammaccature. Le braccia dell’eroe erano insanguinate dalle punte delle dita fino ai gomiti, ma era il sangue del nemico, e non il suo che aveva addosso. Pochi erano coloro che potevano resistere ai poderosi colpi del martello che impugnava. Innumerevoli erano i nemici caduti per mano di Kharas, anche se molti si erano chiesti negli ultimi istanti di vita perché mai l’alto nano singhiozzasse amaramente mentre sferrava il colpo fatale. Ma, in quel momento, Kharas non stava piangendo. Le sue lacrime erano completamente scomparse. Stava discutendo con il suo re.

«Siamo stati battuti sul campo, thane,» dichiarò, in tono severo. «Il generale Ironhand ha avuto ragione a ordinare la ritirata. Se vogliamo tenere Pax Tharkas, dobbiamo ritirarci e sbarrare le porte come avevamo progettato. Ricorda, thane. Questo momento non era imprevisto.»

«Ma nondimeno è un momento di vergogna,» ringhiò Duncan, sbottando in un’amara imprecazione. «Battuti da un branco di ladri e di contadini!»

«Quel branco di ladri e di contadini è stato ben addestrato, thane,» replicò Kharas con solennità, e i generali non poterono fare a meno di annuire, approvando a malincuore le sue parole. «Gli uomini delle pianure si gloriano in battaglia e i nostri consanguinei si battono con il coraggio col quale sono nati. E poi sono scesi dalle colline i Cavalieri di Solamnia sui loro cavalli.»

«Devi dare l’ordine, thane!» esclamò uno dei generali. «Oppure dovremo prepararci a morire dove ci troviamo.»

«Chiudete quelle porte maledette da dio, allora!» urlò Duncan, in preda alla collera. «Ma non azionate il meccanismo. No, fino all’ultimo momento possibile. Potrebbe non essercene bisogno. Costerà loro caro cercare di aprire una breccia nelle porte, e voglio essere in grado di uscire di nuovo senza dover sgombrare tonnellate di roccia.»

«Chiudete le porte, chiudete le porte!» echeggiarono molte voci. Tutti, lì nel cortile, i vivi, i feriti, perfino i morenti, girarono la testa per vedere le colossali porte che ruotavano su se stesse per chiudersi. L’Highgug era fra questi e fissava la scena con reverenziale meraviglia. Aveva sentito parlare di quelle grandi porte, di come si muovevano in silenzio sui giganteschi cardini oliati che funzionavano con tanta scorrevolezza da richiedere soltanto due nani su ciascun lato per tirarle e chiuderle.

L’Highgug rimase un po’ deluso quando sentì che il congegno per far crollare le rocce non sarebbe stato azionato. La vista di tonnellate di frammenti di montagna che rotolavano giù per bloccare le porte era qualcosa che gli dispiaceva perdersi. Comunque, ci sarebbe stato ugualmente da divertirsi.

Allo spettacolo successivo l’Highgug trattenne il respiro fin quasi a soffocare. Guardando la porta, poteva vedere al di là di essa, e ciò che vide era paralizzante.

Un immenso esercito si stava precipitando verso di lui. E non era il suo esercito!

Questo, allora, significava che doveva trattarsi dell’esercito del nemico, decise dopo qualche istante di profonde riflessioni, essendoci, per quanto lui ne sapeva, soltanto due fazioni in quel conflitto: la sua e la loro.

Il sole di mezzogiorno risplendeva vivido sulle armature dei Cavalieri di Solamnia, lampeggiava sui loro scudi e traeva barbagli dalle loro spade sguainate. Più lontano, dietro i cavalieri, stava arrivando di corsa la fanteria. L’esercito di Fistandantilus si stava avventando verso la fortezza, sperando di raggiungerla prima che le porte potessero venir chiuse completamente e bloccate. Quei pochi nani delle montagne abbastanza coraggiosi per contrastare il nemico vennero abbattuti dall’acciaio balenante e calpestati dagli zoccoli spietati.

Il nemico si stava avvicinando sempre di più. L’Highgug deglutì nervosamente. Non ne sapeva molto di manovre militari, ma gli parve che quello sarebbe stato un momento eccellente perché le porte si chiudessero del tutto. Pareva che anche i generali la pensassero nell’identico modo, poiché adesso correvano tutti in quella direzione, gridando e urlando.

«In nome di Reorx, ma quanto tempo ci mettono...» cominciò a dire Duncan. D’un tratto, Kharas impallidì.

«Duncan,» disse con calma glaciale, «siamo stati traditi. Devi andartene subito.»

«Co... cosa?» balbettò Duncan, sbalordito. Rizzandosi in punta di piedi, si sforzò invano di vedere al di là della folla che turbinava nel cortile. «Traditi! Ma come...»

«I Dewar, mio thane,» gli spiegò Kharas, il quale, grazie alla sua statura, era in grado di vedere quello che stava accadendo. «A quanto pare hanno assassinato i guardiani delle porte e adesso combattono per tenerle aperte.»

«Uccideteli!» La bocca di Duncan schiumava per la collera, la saliva gli sgocciolava lungo la barba. «Uccideteli tutti!» Il re dei nani sfoderò la spada e balzò in avanti. «Io personalmente...»

«No, thane!» Kharas lo afferrò, trascinandolo indietro. «È troppo tardi. Vieni, dobbiamo raggiungere i grifoni... Devi tornare a Thorbardin, mio Re!»

Ma Duncan non era disposto a intender ragione. Lottò ferocemente contro Kharas. Alla fine il nano più giovane, cupo in volto, serrò il pugno e colpì il suo re in pieno mento. Duncan incespicò all’indietro, barcollando sotto il colpo, ma non crollò a terra.

«Avrò la tua testa per questo!» imprecò il re, cercando debolmente di afferrare l’elsa della sua spada. Ma un altro pugno di Kharas completò l’opera. Duncan cadde lungo disteso al suolo e giacque là senza più muoversi.

Kharas, con un’espressione addolorata sul volto, si chinò, sollevò il suo re, con l’armatura, la cotta di maglia e tutto il resto, e con un grugnito si mise in spalla il nano tozzo e massiccio. Chiamando alcuni fra gli altri nani ancora in grado di reggersi e di combattere, perché lo coprissero, Kharas si affrettò a raggiungere i grifoni in attesa, con il re esanime di traverso sulla sua spalla, le braccia penzoloni.

L’Highgug fissava l’avanzare dell’esercito nemico affascinato e inorridito. Più e più volte echeggiò nella sua mente l’ultimo ordine che Duncan gli aveva impartito: «Tu Stai Qui.»

Ora, ciò che l’Highgug intendeva fare, era voltarsi e tornare di corsa verso la sua truppa.

Malgrado i nani dei fossi avessero la reputazione ben meritata di essere la razza più codarda di tutto Krynn, potevano, se messi con le spalle al muro, combattere con tanta ferocia da sbalordire il nemico.

La maggior parte degli eserciti usava i nani dei fossi soltanto in posizione di appoggio, tenendoli quanto più possibile in retroguardia, dal momento che c’erano possibilità quasi pari che un reggimento di nani dei fossi infliggesse alla propria fazione gli stessi danni che infliggeva al fronte avversario e magari di più.

Così, Duncan aveva dispiegato l’unico distaccamento di nani dei fossi attualmente residente a Pax Tharkas (erano ex minatori) al centro del cortile, ingiungendo loro di rimaner là, calcolando che quello sarebbe stato il modo migliore per tenerli lontani dai guai. Aveva dato loro delle picche nell’improbabile eventualità che il nemico avesse fatto irruzione dalle porte con una carica di cavalleria.

Ma era proprio questo che stava accadendo. E, vedendo l’Esercito di Fistandantilus che stava arrivando loro addosso, sapendo di essere intrappolati e sconfitti, tutti i nani di Pax Tharkas erano piombati nella confusione.

Pochi erano quelli che avevano mantenuto il sangue freddo. I tiratori scelti, sugli spalti, facevano piovere nugoli di frecce sul nemico avanzante, facendolo rallentare un po’. Parecchi comandanti stavano radunando i propri reggimenti, preparandosi a combattere durante la ritirata fra le montagne. Ma la maggior parte stava scappando per mettersi al riparo fra le colline circostanti.

E ben presto soltanto un gruppo rimase ad ostacolare il passo all’esercito nemico: i nani dei fossi.

«Ci siamo!» si affrettò a gridare l’Highgug ai suoi, quando tornò indietro ansimando e sbuffando.

Sotto la sporcizia il suo volto era bianco, però lui era calmo e composto. Gli era stato detto di Stare Là, e, per la barba di Reorx, sarebbe Stato Là.

Ma, nel vedere che la maggior parte dei suoi stava cercando di squagliarsela, con gli occhi sgranati alla vista dei cavalli che, avanzando col fragore del tuono, erano ormai vicini alle porte aperte, l’Highgug decise che era indispensabile qualcosa per tirare un po’ su il morale.

Avendoli addestrati proprio per una circostanza come quella, l’Highgug aveva anche insegnato alle sue truppe un canto di guerra, e ne era assai orgoglioso. Sfortunatamente, non erano ancora riusciti a impararlo nella maniera giusta.

«Ora,» urlò, «cosa mi date?»

«La Morte!» gridarono allegramente i suoi, all’unisono.

All’Highgug vennero i brividi. «No, no, no!» urlò, in preda all’esasperazione, pestando i piedi per terra. I suoi si guardarono l’un l’altro, dolenti. «Ve lo dirò io, brutte teste fungose! E...»

«Eterna Fedeltà!» gridò all’improvviso uno di loro, trionfante.

Gli altri lo fissarono, accigliati, borbottando «brutto ruffiano...» Un vicino, ingelosito, giunse perfino a pungolarlo sulla schiena con una picca. Per fortuna, era l’estremità del manico (l’impugnava alla rovescia), altrimenti avrebbe potuto procurargli un danno serio.

«Proprio così,» dichiarò l’Highgug, cercando di non prestare troppa attenzione al fatto che il trepestio degli zoccoli stava crescendo sempre più d’intensità alle sue spalle. «Adesso, proviamo di nuovo. Cosa mi date?»

«E... eter... na... fé... fé... deità!» Ebbe un suono piuttosto forzato, molti continuavano a inciampare in quelle difficili parole. Certo, sembrava mancare l’entusiastico vigore del primo.

In fondo al gruppo, qualcuno alzò la mano.

«Ah, cosa c’è, Gug Snug?» ringhiò l’Highgug.

«Noi dovere dare... eterna fedel... tà quando morti?»

L’Highgug lo fissò, infuriato, con l’unico occhio sano.

«No, testa di rapa!» sbottò, digrignando i denti. «Morte o fedeltà eterna. Qualsiasi cosa arrivi prima.»

Immensamente rincuorati da questa precisazione, i nani dei fossi sogghignarono.

L’Highgug, scuotendo la testa e borbottando, si girò per affrontare il nemico. «Preparate le picche!» gridò.

Fu un errore, e Io capì nel medesimo istante in cui pronunciava quelle parole, udendo il terrificante scompiglio, la confusione e le imprecazioni (e qualche gemito di dolore) che si levarono alle sue spalle.

Ma, a quel punto, non aveva più importanza...

Il sole tramontò in una foschia rosso sangue, sprofondando dietro la silenziosa foresta di Qualinesti.

Su tutta Pax Tharkas regnava la quiete, la poderosa, imprendibile fortezza era caduta appena dopo mezzogiorno. Nel pomeriggio c’era stata qualche scaramuccia per eliminare le ultime sacche di resistenza dei nani che si stavano ritirando, combattendo, verso le montagne. Molti erano riusciti a fuggire perché la carica dei cavalieri era stata efficacemente frenata da un piccolo gruppo di picchieri, che non avevano ceduto d’un passo quando le porte erano state violate, rifiutandosi cocciutamente di muoversi.

Kharas, sorreggendo il re privo di sensi fra le braccia, tornò in volo a Thorbardin con il grifone, accompagnato dagli ufficiali di Duncan ancora in vita.

Il resto dell’esercito dei nani delle montagne, che si trovavano cornea casa propria nelle caverne e fra le rocce dei passi coperti di neve, stava anch’esso dirigendosi verso Thorbardin. I Dewar, che avevano tradito i loro consanguinei, stavano bevendo la birra catturata a Duncan e si vantavano delle loro gesta, mentre la maggior parte dell’esercito di Caramon li guardava con disgusto.

Mentre il sole stava tramontando, il cortile della fortezza era pieno di nani e di uomini che celebravano la loro vittoria, e di ufficiali che cercavano invano di arrestare la marea di ubriachezza che minacciava di travolgere tutti. Urlando, minacciando, e spaccando qualche testa, riuscirono a trascinar via un numero sufficiente di combattenti da mettere di sentinella e formare delle squadre di addetti alle sepolture.

Crysania aveva passato la prova del sangue. Malgrado fosse stata tenuta ben lontana dalla battaglia da un guardingo Caramon, era riuscita, una volta entrati nella fortezza, a eluderlo. Adesso, avvolta in un mantello e incappucciata, passava da un ferito all’altro, guarendo furtivamente quelli che poteva senza richiamare su di sé un’attenzione indesiderata. E, molti anni dopo, i sopravvissuti avrebbero raccontato la storia ai loro nipoti, sostenendo di aver visto una figura vestita di bianco che portava una luce splendente intorno al collo, e aveva appoggiato su di loro le sue mani gentili portando via il dolore.

Nel frattempo, Caramon aveva riunito i suoi ufficiali in una stanza di Pax Tharkas, per mettere a punto la loro strategia, anche se l’omone era esausto al punto da riuscire a stento a pensare in maniera coerente.

Così, pochi videro la solitaria figura abbigliata di nero varcare le porte aperte di Pax Tharkas.

Cavalcava un irrequieto cavallo nero che si adombrava all’odore del sangue. Fermandosi per un istante, la figura pronunciò alcune parole rivolgendosi al suo destriero, dando l’impressione di riuscire a calmare l’animale. Quelli che videro la figura si fermarono un attimo, in preda al terrore, molti avendo l’impressione, causata dalla febbre o dalla sbornia, che si trattasse della morte in persona venuta a raccogliere quelli che non erano stati ancora sepolti.

Poi qualcuno borbottò: «Lo stregone», e allora tutti si allontanarono, dando in una risata tremante o in un sospiro di sollievo.

Con gli occhi oscurati dalle profondità del suo cappuccio nero, ma osservando attentamente tutto quello che gli stava intorno, Raistlin avanzò finché non arrivò allo spettacolo più straordinario di tutto il campo di battaglia: i corpi di cento e più nani dei fossi che giacevano (per la maggior parte) in file ordinate e sovrapposte. Molti stringevano ancora saldamente la picca (parecchi all’incontrano) nelle mani morte. Però, fra loro giacevano anche alcuni cavalli che erano stati feriti (in genere accidentalmente) dagli affondo e dai fendenti vibrati alla disperata dai nani dei fossi. Era stato notato, quando i cavalli erano stati trascinati via, che più di un animale aveva segni di denti nelle zampe anteriori. Alla fine i nani dei fossi avevano lasciato cadere le inutili picche per combattere come meglio sapevano fare: con le unghie e coi denti.

«Questo non risulta dai documenti storici,» mormorò Raistlin fra sé, fissando quei piccoli, miserevoli corpi, accigliandosi. I suoi occhi lampeggiarono. «Forse,» mormorò, «questo significa che il tempo è stato alterato?»

Rimase immobile a riflettere per lunghi momenti. Poi d’un tratto capì.

Nessuno vide il volto di Raistlin, nascosto com’era dal cappuccio, altrimenti avrebbe notato un improvviso, rapido spasimo di rabbia e di dolore.

«No,» disse fra sé con amarezza, «il penoso sacrificio di queste povere creature è stato lasciato fuori dai libri di storia non perché non sia successo. È stato lasciato fuori semplicemente perché...»

S’interruppe per qualche istante, fissando con espressione cupa quei piccoli corpi frantumati, «... perché non importava a nessuno.».

Capitolo settimo.

«Devo vedere il generale!» La voce penetrò la soffice, calda nube di sonno che avvolgeva Caramon come la coperta del letto imbottita di piume, il primo vero letto nel quale avesse dormito da molti mesi a questa parte.

«Vai via,» mugugnò Caramon, e sentì Garic dire la stessa cosa, o qualcosa di molto simile...

«Impossibile. Il generale sta dormendo. Non dev’essere disturbato.»

«Devo vederlo. È urgente!»

«Non ha dormito per quasi quarantotto ore...»

«Lo so! Ma...»

Le voci si fecero sommesse. Bene, pensò Caramon, adesso posso tornare a dormire. Ma scoprì, per sua sfortuna, che quelle voci sommesse lo svegliavano ancora di più. Capì subito che qualcosa non andava. Con un gemito rotolò su se stesso, trascinandosi il cuscino sopra la testa. Non c’era muscolo del suo corpo che non gli facesse male; era rimasto in sella per quasi diciotto ore senza mai riposare. Certamente Garic avrebbe potuto risolvere il...

La porta della stanza si aprì con un lieve fruscio.

Caramon strinse le palpebre con forza, sprofondando ancora di più nel letto di piume. Gli venne in mente, mentre lo faceva, che fra un paio di centinaia d’anni Verminaard, il malvagio Signore dei Draghi, avrebbe dormito in quello stesso letto. La mattina in cui gli Eroi avrebbero liberato gli schiavi di Pax Tharkas, qualcuno forse l’avrebbe svegliato in quel modo?

«Generale,» si fece udire la voce sommessa di Garic. «Caramon.»

Un’imprecazione borbottata si levò dal cuscino.

Forse, quando me ne andrò, metterò una rana nel letto, pensò Caramon con cattiveria. Fra duecento anni sarebbe stata rigida al punto giusto...

«Generale,» insistè Garic. «Mi spiace sinceramente svegliarti, signore, ma è necessaria la tua immediata presenza nel cortile.»

«E per cosa mai?» ringhiò Caramon, buttando via le coperte e rizzandosi a sedere, sussultando per il dolore che avvertì alle cosce e alla schiena. Si sfregò gli occhi, poi fissò Garic.

«L’esercito, signore. Se ne sta andando.»

Caramon lo fissò. «Cosa? Sei matto.»

«No, s... signore,» balbettò un giovane soldato che era strisciato dietro a Garic e adesso si trovava alle sue spalle, gli occhi spalancati per la meraviglia di trovarsi in presenza del suo comandante, malgrado il generale fosse nudo e sveglio soltanto a metà. «S... si stanno radunando a... adesso nel cortile, signore. I nani e gli uomini delle pianure e... e alcuni dei nostri.»

«Non i Cavalieri,» si affrettò ad aggiungere Garic.

«Bene, oh, bene...» balbettò Caramon, poi agitò la mano. «Di’ loro che si disperdano, dannazione! Questa è un’enorme sciocchezza.» Imprecò. «In nome degli dei, tre quarti di loro erano ubriachi fradici, stanotte!»

«Sono sobri quel che basta, stamattina, signore. E credo che tu dovresti venire,» aggiunse Garic con voce sommessa. «È tuo fratello a condurli.»

«Cosa significa questo?» volle sapere Caramon, il suo respiro generava tante nuvolette bianche nell’aria gelida. Era la più fredda mattina d’autunno. Un sottile strato di brina ricopriva le pietre di Pax Tharkas, cancellando misericordiosamente le macchie rosse della battaglia. Avvolto in uno spesso mantello, con addosso soltanto le brache e gli stivali che si era infilati in fretta e furia, Caramon lanciò un’occhiata al cortile, tutt’intorno a sé. Era affollato di nani e di uomini, tutti in fila, torvi e silenziosi, in attesa dell’ordine di mettersi in marcia. Lo sguardo severo di Caramon si appuntò su Reghar Fireforge, poi si spostò su Darknight, capo degli uomini delle pianure.

«Ne abbiamo discusso ieri,» continuò Caramon. Con la voce tesa per la rabbia a stento trattenuta, si fermò davanti a Reghar. «Ci vorranno altri due giorni perché i nostri carri con i rifornimenti ci raggiungano. Qui non è rimasto abbastanza cibo per metterci in marcia, me l’avete detto voi stessi, ieri sera. E non troverete neppure un coniglio sui Pianori di Dergoth...»

«Non c’importa saltare qualche pasto,» grugnì Reghar, la sua enfasi sul «ci» non lasciava alcun dubbio sul significato delle sue parole. Era ben noto l’amore di Caramon per i suoi pasti.

Questo non contribuì in nessun modo a migliorare l’umore del generale.

Caramon arrossì, poi: «E le armi, sciocco dalla lunga barba?» sbottò. «E l’acqua, un riparo, il cibo per i cavalli?»

«Non resteremo più a lungo sui Pianori,» ribatté Reghar, con un balenio negli occhi. «I nani delle montagne, che Reorx maledica il loro cuore di pietra, sono in preda alla confusione. Dobbiamo colpire subito, prima che riescano a riorganizzare le loro forze. »

«Ne abbiamo già discusso ieri sera!» urlò Caramon, esasperato. «Quella che abbiamo affrontato qui era soltanto una parte delle loro forze. Duncan ha un altro intero esercito ad attendervi sotto la montagna!»

«Forse. O forse no,» ringhiò Reghar, imbronciato, guardando fisso verso sud e incrociando le braccia. «In ogni caso, abbiamo cambiato idea. Ci metteremo in marcia quest’oggi... con o senza di te.»

Caramon lanciò un’occhiata a Darknight, il quale era rimasto zitto durante tutta l’animata conversazione. Il capo degli uomini delle pianure si era limitato ad annuire soltanto una volta. I suoi uomini, dietro di lui, aspettavano, severi e silenziosi, anche se qua e là Caramon aveva potuto vedere qualche faccia verdastra, la quale stava a indicare che molti non si erano ancora del tutto ripresi dai festeggiamenti della notte precedente.

Alla fine lo sguardo di Caramon si spostò su una figura abbigliata di nero in groppa a un cavallo nero. Malgrado gli occhi della figura fossero oscurati dal cappuccio nero, Caramon aveva percepito il loro sguardo intenso e divertito sin da quando era uscito dalla porta della gigantesca fortezza.

Voltando d’un tratto le spalle al nano, Caramon si avvicinò a Raistlin. Non fu sorpreso di trovare Dama Crysania sul suo cavallo, infagottata in un pesante mantello. Quando si avvicinò, ebbe modo di notare che l’orlo in basso del suo mantello da chierico era coperto da macchie scure di sangue. Il suo volto, appena visibile sopra una sciarpa che si era avvolta intorno al collo e al mento, era pallido ma composto. Per un attimo, Caramon si chiese dove fosse mai stata Crysania, e cosa avesse fatto durante quella lunga notte. Tuttavia, i suoi pensieri erano concentrati adesso sul suo gemello.

«Questa è opera tua,» disse a bassa voce, avvicinandosi a Raistlin e appoggiando una mano sul collo del cavallo nero.

Raistlin annuì compiaciuto, sporgendosi in avanti sopra il pomo della sella, per parlare con suo fratello. Caramon potè vedere la sua faccia, fredda e bianca come la brina sul selciato sotto i loro piedi. «Cosa ti è saltato in mente?» volle sapere Caramon, sempre a bassa voce. «Di che si tratta? Tu sai che non possiamo metterci in marcia senza rifornimenti!»

«Stai giocando troppo sul sicuro, fratello mio,» replicò Raistlin.

Scrollò le spalle, e aggiunse: «Il convoglio dei rifornimenti ci raggiungerà. In quanto alle armi, gli uomini ne hanno raccolte un gran numero qui, dopo la battaglia. Reghar ha ragione, dobbiamo affrettarci a colpire prima che Duncan faccia in tempo a riorganizzarsi.»

«Avresti dovuto discutere di questo con me!» grugnì Caramon, serrando il pugno. «Sono io il comandante!»

Raistlin guardò altrove, spostandosi leggermente sulla sella. Caramon, trovandosi vicino a lui, sentì il corpo di suo fratello rabbrividire sotto le vesti nere. «Non ce n’è stato il tempo,» disse infine l’arcimago, dopo un lungo istante. «Questa notte ho fatto un sogno, fratello mio. Lei è venuta a me, la mia Regina... Takhisis... È d’assoluta importanza che io raggiunga Zhaman quanto prima possibile.»

Caramon fissò suo fratello con silenziosa, improvvisa comprensione. «Non significano niente per te?» disse con voce sommessa, indicando con un gesto gli uomini e i nani in attesa, alle sue spalle.

«A te interessa una cosa soltanto: raggiungere il tuo prezioso Portale!» Spostò lo sguardo amareggiato su Crysania, che lo guardava con calma, anche se i suoi occhi grigi erano seri e annebbiati da una notte insonne, piena di orrori, passata tra i feriti e i morenti. «Anche tu? Anche tu lo appoggi?»

«La prova del sangue, Caramon,» lei replicò con voce sommessa. «Dev’essere fermata per sempre. Ho visto il male supremo che l’umanità può infliggere a se stessa.»

«Proprio me lo chiedo!» borbottò Caramon, lanciando un’occhiata al suo gemello.

Alzando le mani sottili, Raistlin tirò lentamente indietro le pieghe del suo cappuccio, lasciando visibili gli occhi. Caramon si ritrasse, vedendosi riflesso in quella superficie piatta, l’immagine della sua stessa faccia: smunta, incolta, i capelli scarmigliati che sbattevano al vento. E poi, mentre Raistlin lo fissava, trattenendolo con uno sguardo intenso, allo stesso modo in cui un serpente ammalia un uccello, delle parole echeggiarono nella sua mente:

Tu mi conosci bene, fratello mio. Il sangue che scorre nelle nostre vene qualche volta parla più fotte delle parole. Sì, hai ragione, non me ne importa nulla di questa guerra. L’ho combattuta per uno scopo soltanto, che è quello di raggiungere il Portale. Questi sciocchi mi condurranno fin laggiù. AI di là di quel punto, cosa m’importa se vinciamo o perdiamo?

Ti ho consentito di giocare a fare il generale, Caramon, dal momento che il tuo giochino pareva piacerti. E, in effetti, ti riesce sorprendentemente bene. Hai servito il mio scopo in maniera adeguata. Mi servirai ancora. Condurrai l’esercito fino a Zhaman. Una volta che Dama Crysania ed io saremo laggiù sani e salvi, ti manderò a casa. Ricorda questo, fratello mio: la battaglia dei Pianori di Dergoth è stata perduta! Questo, tu non potrai cambiarlo!

«Non ti credo!» disse Caramon, con voce impastata, fissando Raistlin con occhi spiritati. «Tu non andresti verso la tua stessa morte! Devi sapere qualcosa! Devi...»

A questo punto Caramon soffocò, mezzo strozzato. Raistlin si avvicinò ancora di più a lui, dando l’impressione di succhiargli le parole dalla gola.

Le informazioni appartengono a me soltanto! Quello che io so o non so, non ti riguarda, perciò non tormentare il tuo cervello con inutili congetture.

«Lo dirò a tutti loro!» ringhiò Caramon, a denti stretti. «Dirò loro la verità!»

Dirai loro che cosa? Che hai visto il futuro? Che sono condannati a morire? Vedendo la lotta sul volto angosciato di Caramon, Raistlin sorrise. Credo proprio di no, fratello mio. E adesso, se vorrai tornare di nuovo a casa tua, ti suggerisco di tornare di sopra, d’infilarti l’armatura e guidare il tuo esercito.

L’arcimago sollevò le mani e tornò ad abbassare il cappuccio sopra gli occhi. Caramon inspirò, boccheggiando come se qualcuno gli avesse gettato dell’acqua fredda in faccia. Per qualche istante riuscì soltanto a starsene là immobile a fissare il suo gemello, tremando in preda a una collera che quasi lo travolse.

In quel momento, il suo unico pensiero era Raistlin... che rideva con lui accanto all’albero...

Raistlin che stringeva in mano il coniglio... Il cameratismo fra loro era stato qualcosa di assai concreto. Era pronto a giurarlo! Eppure, anche questo era reale. Reale e freddo e tagliente come una lama di coltello che scintillava alla chiara luce del mattino.

E, lentamente, la luce di quel coltello cominciò a penetrare le nubi di confusione, recidendo un altro dei legami che lo univano a suo fratello.

Il coltello si muoveva lentamente. C’erano molti legami da tagliare.

Caramon si rese conto che il primo aveva ceduto nell’arena intrisa di sangue di Istar. E sentì un altro legame troncarsi netto mentre fissava suo fratello in quel cortile coperto di brina di Pax Tharkas.

«Pare che io non abbia altra scelta,» esclamò, con le lacrime di rabbia e di dolore che offuscavano l’immagine di suo fratello.

«Nessuna,» confermò Raistlin. Afferrò le redini e si preparò ad allontanarsi in sella al suo cavallo.

«Ci sono cose di cui mi devo occupare. Naturalmente Dama Crysania cavalcherà con te, fra le avanguardie. Non aspettarmi, io rimarrò indietro per un po’.»

E così, sono congedato, si disse Caramon. Seguendo con lo sguardo suo fratello che si allontanava, non provò più nessuna sensazione di rabbia, soltanto una sofferenza sorda e tormentosa. Una volta aveva sentito dire che un arto amputato si lasciava alle spalle un dolore fantasma simile a quello vero...

Girando sui tacchi, percependo più che udendo, il pesante silenzio che era calato sul cortile, il generale raggiunse da solo i suoi alloggi e, con misurata lentezza, cominciò a infilarsi l’armatura.

Quando Caramon tornò, vestito della sua familiare armatura dorata, il mantello svolazzante al vento, i nani e gli uomini delle pianure e gli uomini del suo stesso esercito levarono la voce in un rimbombante evviva.

Non soltanto ammiravano e rispettavano genuinamente Pomone, ma tutti gli attribuivano la brillante strategia che li aveva condotti alla vittoria il giorno prima. Il generale Caramon era fortunato, dicevano... era benedetto da qualche dio. Dopotutto, non era stata la fortuna che aveva trattenuto la mano dei nani, impedendo che chiudessero le porte?

Molti si erano sentiti a disagio quand’era corsa la voce che sarebbero partiti senza di lui. Molte occhiate torve erano state lanciate allo stregone vestito di nero. Ma chi mai avrebbe osato esprimere ad alta voce la propria opinione?

Quegli evviva furono d’immenso conforto per Caramon e, per qualche istante, non riuscì a dire niente. Poi, ritrovata la voce, impartì burberamente gli ordini, mentre si preparava a partire.

Con un gesto, Caramon chiamò a sé uno dei più giovani cavalieri.

«Michael, ti lascio qui a Pax Tharkas, in comando,» gli disse, mentre s’infilava un paio di guanti. Il giovane cavaliere arrossì di piacere a quell’inatteso onore, guardando allo stesso tempo dietro di sé lo spazio che la sua partenza lasciava tra le file.

«Signore, io sono soltanto di basso grado... Certamente, qualcuno più qualificato...»

Sorridendogli con tristezza, Caramon scosse la testa. «Conosco le tue capacità, Michael. Non ricordi? Eri pronto a morire pur di ubbidire a un ordine, e hai trovato la compassione necessaria a disobbedirlo. Non sarà facile, qui. Ma fai del tuo meglio. Le donne e i bambini rimarranno qui con te, naturalmente. E manderò indietro chiunque rimanga ferito. Quando arriverà il convoglio dei rifornimenti, accertati che venga fatto proseguire quanto più rapidamente possibile.» Scosse la testa.

«Non che sia probabile che ciò avvenga presto,» borbottò. Sospirando, aggiunse: «Forse potrai resistere qui per tutto l’inverno, se sarà necessario. Non importa ciò che potrà accadere a noi...»

Vedendo i cavalieri che si scambiavano sguardi perplessi e preoccupati, Caramon troncò d’un tratto la frase. No, non doveva in alcun modo consentire che la sua amara precognizione trasparisse.

Perciò, fingendo allegria, strinse la spalla di Michael e aggiunse qualche futile parola ardimentosa, poi salì in groppa al suo cavallo tra grida di sfrenato entusiasmo.

Le grida crebbero ancora di più quando il portabandiera innalzò il vessillo dell’esercito. Lo stendardo di Caramon, con la sua stella a nove punte, sfavillò al sole. I suoi cavalieri si disposero in ranghi serrati dietro di lui. Crysania arrivò per cavalcare insieme a loro e i Cavalieri si divisero, con la consueta cortesia, per consentirle di prendere il suo posto. Anche se i Cavalieri non sapevano cosa farsene di una strega, come chiunque altro al campo, si trattava, dopotutto, di una donna e il Codice chiedeva loro di proteggerla, anche a costo della vita.

«Aprite le porte!» gridò Caramon.

Spinte da mani bramose, le porte si spalancarono. Lanciando un’ultima, ampia occhiata all’intorno, per accertarsi che tutto fosse pronto, gli occhi di Caramon s’incontrarono, d’un tratto, con quelli del suo gemello.

Raistlin era in groppa al suo cavallo nero all’ombra delle grandi porte, Non si muoveva né parlava.

Si limitava a starsene seduto ad osservare, in attesa.

I due gemelli si fissarono intensamente quel tanto che bastava per spartire un respiro simultaneo, poi Caramon girò la testa in un’altra direzione.

Protese un braccio e afferrò l’asta del suo stendardo, togliendola al portabandiera. Issando lo stendardo alto sopra la sua testa, gridò una sola parola: «Thorbardin!» Il sole del mattino, che stava giusto levandosi da sopra i picchi, arse dorato sull’armatura di Caramon. Sfavillò dorato sui fili che formavano la stella raffigurata sul vessillo, luccicò dorato sulle punte delle lance tra le lunghe file di soldati alle sue spalle.

«Thorbardin!» gridò ancora una volta Caramon e, spronando il suo cavallo, uscì al galoppo dalle porte.

«Thorbardin!» Un risuonare di urla e un cozzare di spade contro gli scudi fecero eco al suo grido. I nani intonarono con voce gutturale il loro familiare e arcano salmodiare: «Pietra e metallo, metallo e pietra, pietra e metallo, metallo e pietra,» accompagnandolo con il battito dei loro piedi calzati di ferro in un ritmo esaltante mentre marciavano fuori dalla fortezza, disposti in rigide file.

Li seguirono gli uomini delle pianure che si muovevano in maniera meno ordinata. Avvolti nei loro mantelli di pelliccia per proteggersi dal gelo, avanzavano senza fretta, arrotando le armi, con penne legate tra i capelli, oppure con strani simboli dipinti sui loro volti. Ben presto, stanchi di quel rigido spiegamento, sarebbero usciti dalla strada per viaggiare alla loro usuale maniera, in branchi di cacciatori.

Dopo i barbari, venne rannata di Caramon costituita da contadini e da ladri, non pochi fra loro barcollavano per i postumi della festa della vittoria, la sera prima. E, infine, la retroguardia era formata dai loro nuovi alleati, i Dewar.

Argat cercò di attirare l’attenzione di Raistlin, quando lui e i suoi sfilarono fuori dalla fortezza, ma lo stregone continuò a rimanere seduto avvolto nelle vesti nere, sul suo cavallo nero, il volto nascosto nell’ombra. L’unica parte di carne e di sangue visibile della sua persona erano le mani bianche e sottili che reggevano le redini del suo destriero.

Gli occhi di Raistlin non erano sul Dewar, e neppure sull’esercito che stava marciando davanti a lui.

Erano sulla scintillante figura dorata che cavalcava alla testa dell’armata. E ci sarebbe voluto un occhio più acuto di quello del Dewar per notare che le mani dello stregone stringevano le redini con forza innaturale o che le vesti nere avevano tremato, soltanto per un attimo, come a causa d’un sommesso sospiro.

I Dewar uscirono a passo di marcia, e il cortile rimase vuoto, salvo per i civili al seguito. Le donne si asciugarono le lacrime e, chiacchierando, tornarono ai loro compiti. I bambini si arrampicarono sulle mura per acclamare l’esercito, fintanto che rimaneva visibile. E infine le porte di Pax Tharkas tornarono a chiudersi, ruotando scorrevoli e silenziose, sui loro cardini ben oliati.

Immobile, da solo, sugli spalti Michael seguì con lo sguardo il grande esercito che avanzava verso sud come un’onda di marea, con le punte delle lance che risplendevano al sole del mattino, l’alito caldo che si levava come tante nuvolette di nebbia, il salmodiare dei nani che echeggiava ancora, in distanza, in mezzo alle montagne.

Dietro di loro cavalcava una figura solitaria ammantata di nero. Fissando quella figura, Michael si sentì incoraggiato. Pareva un buon presagio. Adesso la morte cavalcava dietro l’esercito invece che davanti ad esso.

Il sole aveva illuminato col suo bagliore l’apertura delle porte di Pax Tharkas; adesso tramontava sulla chiusura delle porte della grande fortezza montana di Thorbardin. Mentre il meccanismo idraulico che faceva funzionare le porte gemeva e sibilava, parte della montagna stessa parve scivolare di nuovo al suo posto obbedendo a un ordine. In effetti, quando le porte erano chiuse e sigillate, era impossibile distinguerle dalla parete di roccia della montagna stessa, talmente era stata grande la maestria dei nani, che avevano impiegato anni a costruirle.

La chiusura delle porte significava guerra. La notizia dell’avanzata dell’esercito di Fistandantilus era già arrivata, portata da spie sulle veloci ali dei grifoni. Adesso la fortezza montana era un brulicare di attività. Le faville sprizzavano nelle officine degli armaioli che finivano per addormentarsi col martello in mano. Le taverne raddoppiarono i loro affari durante la notte, quando tutti venivano a vantarsi delle grandi gesta che avrebbero compiuto sul campo di battaglia.

Soltanto una parte dell’immenso regno sotterraneo era tranquilla, e fu verso questo luogo che l’eroe dei nani si avviò con i suoi passi pesanti, due giorni dopo che l’esercito di Caramon aveva lasciato Pax Tharkas.

Entrando nella grande Sala delle Udienze del Re dei Nani delle Montagne, Kharas sentì i propri stivali creare echi cavernosi nella grande cavità a volta che era stata scavata nella pietra della montagna stessa. Adesso la sala era vuota, salvo per un gruppo di nani seduti davanti a una piattaforma di pietra.

Kharas passò oltre le lunghe file di panche di pietra dove, la sera prima, migliaia di nani avevano approvato con grida assordanti il loro re che dichiarava guerra ai loro consanguinei.

Oggi c’era una Riunione di Guerra del Consiglio dei thane. Come tale, non richiedeva la presenza della cittadinanza, così Kharas era rimasto un po’ sorpreso nel sapersi invitato. L’eroe era in disgrazia, tutti lo sapevano. Si facevano perfino ipotesi che Duncan intendesse esiliarlo.

Kharas notò, mentre si stava avvicinando, che Duncan lo stava fissando con occhio ostile, ma questo poteva essere dovuto al fatto che l’occhio e la guancia sinistra del re al di sopra della barba erano neri e gonfi, come risultato del colpo che Kharas gli aveva inflitto.

«Oh, rialzati, Kharas,» sbottò Duncan, quando il nano alto e sbarbato s’inchinò profondamente davanti a lui.

«Non fino a quando non mi avrai perdonato, thane,» dichiarò Kharas, mantenendo la sua posizione.

«Perdonarti cosa... l’aver martellato un po’ di buon senso nella testa di un vecchio nano rimbecillito?» Duncan esibì un sorriso sardonico. «No, non sei perdonato per questo, bensì ringraziato.» Il re si sfregò la mascella. «Il dovere è doloroso, dice il proverbio. Adesso lo capisco. Ma non parliamo più di questo.»

Quando vide che Kharas si raddrizzava, Duncan gli porse una pergamena. «Ti ho fatto venire qui per un altro motivo. Leggi questo.»

Perplesso, Kharas esaminò la pergamena. Era legata con un nastro nero, ma non era sigillata.

Lanciando un’occhiata agli altri thane che erano tutti radunati là, ognuno sul proprio seggio di pietra situato un po’ più in basso di quello del re, lo sguardo di Kharas andò in particolare a uno scranno: quello vuoto di Argat, thane dei Dewar. Corrugando la fronte, Kharas srotolò la pergamena e lesse ad alta voce, inciampando più volte nella rozza lingua dei Dewar:

Duncan, re dei nani di Thorbardin.

Saluti da coloro che adesso chiami traditori.

Questa pergamena viene spedita da noi che sappiamo che punirai i Dewar sotto la montagna per ciò che abbiamo fatto a Pax Tharkas. Se questa pergamena ti verrà consegnata, significa che siamo riusciti a tenere aperte le porte.

Hai disprezzato il nostro piano durante il Consiglio. Forse adesso ne vedi la saggezza. Il nemico adesso è guidato dallo stregone. Lo stregone è amico nostro. Farà marciare l’esercito verso i Pianori di Dergoth. Noi marciamo con loro, amici loro. Quando l’ora verrà, quelli che hai chiamato traditori colpiranno. Attaccheremo il nemico dall’interno e lo spingeremo sotto le lame delle vostre asce.

Se hai dei dubbi sulla nostra fedeltà, tieni in ostaggio la nostra gente sotto la montagna fino a quando non saremo tornati. Promettiamo grande dono da consegnare a te come prova lealtà.

Argat, dei Dewar, thane

Kharas lesse la pergamena due volte, ma le sue rughe non si spianarono. Semmai diventarono più profonde.

«Insomma,» volle sapere Duncan.

«Non intendo aver nulla a che fare con dei traditori,» dichiarò Kharas, tornando ad arrotolare la pergamena, e restituendola, disgustato.

«Ma se sono sinceri,» insisté Duncan, «ciò potrebbe darci una grande vittoria!»

Kharas alzò gli occhi per incontrare quelli del suo re che sedeva sulla predella sopra di lui. «Thane, se in questo momento potessi parlare al generale dei nostri nemici, a questo Caramon Majere che, stando a tutti i resoconti, è un uomo giusto e d’onore, gli direi esattamente quale pericolo lo minaccia, anche se ciò dovesse significare la nostra sconfitta.»

Gli altri thane sbuffarono o brontolarono.

«Avresti dovuto essere un Cavaliere di Solamnia!» borbottò uno di loro, una affermazione non certo intesa come un complimento.

Duncan lanciò a tutti un’occhiata severa, ed essi piombarono in un silenzio imbronciato.

«Kharas,» disse Duncan, in tono paziente, «noi sappiamo quali sono i tuoi sentimenti sull’onore, e per questo ti applaudiamo. Ma l’onore non darà da mangiare ai bambini di coloro che potrebbero morire in questa battaglia, né impedirà ai nostri consanguinei di ripulire le nostre ossa, se dovessimo cadere. No,» continuò Duncan e la sua voce si fece severa e profonda, «esiste un tempo dell’onore e un tempo in cui va fatto ciò che dobbiamo.» Ancora una volta si sfregò la mascella.

«Tu stesso me l’hai dimostrato.»

Il volto di Kharas s’incupì. Con fare assente, alzata una mano per accarezzarsi la barba fluente che non c’era più, la lasciò poi ricadere con un’espressione di disagio e poi, arrossendo, si fissò i piedi.

«I nostri esploratori hanno controllato questo messaggio,» continuò Duncan. «L’esercito si è messo in marcia.»

Kharas sollevò lo sguardo, accigliandosi. «Non ci credo!» esclamò. «Non ci ho creduto quando l’ho sentito dire! Hanno lasciato Pax Tharkas? Prima dell’arrivo dei carri con i loro rifornimenti? Allora dev’essere vero, lo stregone deve aver preso il comando. Nessun generale farebbe un errore del genere...»

«Saranno sui Pianori nei prossimi due giorni. Il loro obbiettivo è, secondo i nostri informatori, la fortezza di Zhaman, dove hanno intenzione d’insediare il loro quartier generale. Abbiamo una piccola guarnigione laggiù che offrirà una resistenza simbolica e poi batterà in ritirata, sperando di riuscire ad attirarli all’aperto. »

«Zhaman,» borbottò Kharas, grattandosi la mandibola, dal momento che non poteva più tirarsi la barba. D’un tratto fece un passo avanti, adesso il suo volto traboccava di zelo. «Thane, se posso presentare un piano che metterà fine a questa guerra con un minimo spargimento di sangue, sei disposto ad ascoltare e a permettermi di tentare?»

«Ascolterò,» disse Duncan dubbioso, facendosi rigido in volto.

«Dammi uno squadrone scelto di nani, thane, e m’incaricherò di uccidere questo stregone, questo Fistandantilus. Quando sarà morto, mostrerò questa pergamena al suo generale e ai nostri consanguinei. Capiranno di essere stati traditi. Vedranno la potenza del nostro esercito schierata contro di loro. Allora dovranno certamente arrendersi!»

«E cosa ne faremo, se si arrenderanno?» sbottò seccamente Duncan, irritato, anche se mentre parlava stava già esaminando il piano nella sua mente. Gli altri thane avevano già smesso di borbottare nella propria barba e si stavano guardando l’un l’altro con le folte sopracciglia che s’intrecciavano sopra i loro occhi.

«Dà loro Pax Tharkas, thane,» disse Kharas, con foga ancora maggiore. «A quelli che vorranno viverci, naturalmente. Indubbiamente, i nostri consanguinei torneranno alle loro case. Potremmo far loro qualche concessione, non molte,» si affrettò ad aggiungere, vedendo il volto di Duncan che si oscurava. «Questo si potrà concordare con i termini della resa. Ma offriremo riparo e protezione agli umani ed ai nostri consanguinei durante l’inverno... potrebbero lavorare nelle miniere...»

«Il piano ha delle possibilità,» bofonchiò Duncan pensosamente. «Una volta che vi troverete nel deserto, potreste nascondervi nei Tumuli...»

Tacque, riflettendo. Poi, lentamente, scosse la testa. «Ma è una scelta pericolosa, Kharas. E tutto potrebbe risultare, alla fine, inutile. Anche se riuscirai a uccidere l’Oscuro, e ti ricordo che lo descrivono come uno stregone molto potente, ci sono tutte le possibilità che anche tu rimanga ucciso, prima di riuscire a parlare a questo generale Majere. Corre voce che sia il gemello dello stregone!»

Kharas ebbe uno stanco sorriso, sempre con la mano sulla mascella sbarbata. «Questo è un rischio che correrò con gioia, thane, se significa che nessun altro dei miei consanguinei morirà per mia mano.»

Duncan lo fissò furioso poi, sfregandosi la mascella ancora gonfia, sospirò. «Molto bene,» disse.

«Hai il nostro permesso. Scegli i tuoi compagni con cura. Quando andrai?»

«Questa notte, thane, con il tuo permesso.»

«Le porte della montagna verranno aperte per te, poi torneranno a chiudersi. Che, poi, si riaprano per accoglierti vittorioso o per vomitare la potenza armata dei nani delle montagne, questo dipenderà da te, Kharas. Che la fiamma di Reorx possa risplendere sul tuo mantello.»

Dopo aver eseguito un nuovo inchino, Kharas si girò e uscì dalla sala, con passo ben più veloce e vigoroso di quando aveva fatto il suo ingresso.

«Se ne va uno che non possiamo certo permetterci di perdere,» disse uno dei thane, seguendo con lo sguardo la figura del nano alto e sbarbato che si allontanava.

«L’abbiamo perso fin dall’inizio,» sbottò Duncan, in tono aspro. Ma il suo volto era smunto e segnato dal dolore mentre borbottava queste parole. «Adesso dobbiamo mettere a punto i piani per la guerra.».

Capitolo ottavo.

«Di nuovo niente acqua,» dichiarò Caramon con calma.

Reghar aggrottò le sopracciglia. Malgrado il generale avesse mantenuto accuratamente la voce priva d’espressione, il nano sapeva di essere ritenuto responsabile. Rendersi conto che la colpa era in gran parte sua non aiutava, però, il corso degli eventi. L’unica sensazione più sciagurata e insopportabile della stessa colpevolezza era quella di sentirsi meritatamente colpevoli.

«Ci sarà un’altra pozza d’acqua a mezza giornata di marcia,» ribatté Reghar con una faccia dura come il granito. «Ai vecchi tempi si trovavano dappertutto, come le pustole del vaiolo.»

Il nano agitò un braccio. Caramon lanciò un’occhiata intorno a sé. Fin dove arrivava il suo sguardo, non c’era niente: né alberi, né uccelli, neppure il più piccolo arbusto striminzito. Niente, salvo interminabili miglia di sabbia, punteggiate qua e là da strani tumuli a cupola. Molto in distanza, le ombre scure della montagna di Thorbardin si profilavano davanti ai suoi occhi, come il ricordo tenace d’un brutto sogno.

L’esercito di Fistandantilus stava perdendo la battaglia prima ancora che cominciasse.

Dopo parecchi giorni di marce forzate, erano finalmente usciti dal passo montano che si trovava dietro Pax Tharkas, e adesso erano sui Pianori di Dergoth. Il convoglio dei rifornimenti non li aveva raggiunti e, a causa della veloce andatura con la quale si muovevano, pareva che ci sarebbe voluta più d’una settimana prima che i carri lenti e pesanti si ricongiungessero con loro.

Raistlin aveva insistito con i comandanti degli eserciti sulla necessità di fare in fretta e, malgrado Caramon si fosse opposto apertamente a suo fratello, Reghar aveva appoggiato l’arcimago ed era riuscito a portare dalla loro parte anche gli uomini delle pianure. Ancora una volta, Caramon aveva avuto poca scelta, se non quella di seguirli. E così l’esercito si alzava prima dell’alba, marciava facendo soltanto una breve sosta a mezzogiorno, e proseguiva fino al tramonto quando, con luce ancora sufficiente a vedere, si fermavano per accamparsi.

Non pareva un esercito di vincitori. Non c’erano più il cameratismo, le risate, i giochi della sera.

Non c’erano più i canti durante il giorno; perfino i nani avevano smesso il loro esaltato salmodiare, preferendo conservare il fiato per respirare mentre faticosamente marciavano un miglio dopo l’altro.

Di notte, gli uomini si accasciavano praticamente là dove si trovavano, mangiavano le loro magre razioni, e subito dopo piombavano in un sonno esausto fino a quando non arrivavano i sergenti a prenderli a calci e a pungolarli, per dare inizio a una nuova giornata.

Il morale era basso. C’erano mormorii e lamentele, specialmente man mano che il cibo diminuiva.

Quello non era stato un problema in mezzo alle montagne. La cacciagione era stata abbondante. Ma una volta arrivati sui Pianori, come Caramon aveva predetto, le uniche cose viventi visibili erano loro stessi. Vivevano di pane duro cotto senza lievito e di strisce di carne secca che venivano distribuiti due volte il giorno, la mattina e la sera. E Caramon sapeva che, se i carri dei rifornimenti non li avessero raggiunti al più presto, anche quella piccola quantità sarebbe stata ridotta della metà.

Ma il generale aveva altre preoccupazioni oltre al cibo, entrambe più cruciali. Una era la mancanza d’acqua. Malgrado Reghar gli avesse detto fiduciosamente che c’erano pozze d’acqua sui Pianori, le prime due che avevano trovato erano in secca. Allora, e soltanto allora, il vecchio nano aveva arcignamente ammesso che l’ultima volta che aveva messo gli occhi sui Pianori era avvenuto prima del Cataclisma. L’altro problema di Caramon era costituito dai rapporti fra gli alleati, che si andavano rapidamente deteriorando.

Sempre appesa a un filo nel migliore dei casi, adesso l’alleanza si stava sfaldando. Gli uomini del nord imputavano ai nani e agli uomini delle pianure i loro attuali problemi, dal momento che avevano appoggiato lo stregone.

Gli uomini delle pianure, da parte loro, non si erano mai trovati fra le montagne prima di allora.

Avevano scoperto che vivere e combattere su un terreno montuoso significava cimentarsi con il freddo e la neve e, come il capo aveva detto a Caramon, esprimendosi in modo crudo: «O è troppo su o è troppo giù!»

Adesso, vedendo le gigantesche montagne di Thorbardin profilarsi sull’orizzonte meridionale, gli uomini delle pianure cominciavano a pensare che tutto l’oro e l’acciaio scuri rivolti verso nord, e seppe che una mattina si sarebbe svegliato e avrebbe scoperto che se n’erano andati.

Da parte loro i nani consideravano gli umani codardi e deboli, gente che correva a piangere dalla mamma chiedendo d’esser riportati a casa nel momento in cui le cose si facevano un po’ difficili.

Essi giudicavano la mancanza d’acqua e di cibo niente più d’un piccolo fastidio. Il nano che osasse anche soltanto accennare al fatto che aveva sete veniva subito redarguito dai suoi compagni.

Quella sera, mentre si trovava nel bel mezzo della distesa desertica, prendendo a calci la sabbia con la punta del suo stivale, Caramon pensò a questo e agli altri suoi problemi.

Poi, alzando gli occhi, lo sguardo di Caramon si appuntò su Reghar. Convinto che Caramon non lo stesse osservando, il vecchio nano aveva perso la sua ferrea severità: aveva infossato le spalle e sospirava per la stanchezza. La sua somiglianza con Flint fece dolere il cuore a Caramon per la sua intensità. Vergognandosi per la propria collera, sapendo che era diretta più a se stesso che a chiunque altro, Caramon fece il possibile per fare ammenda.

«Non preoccuparti. Abbiamo abbastanza acqua per tutta la notte. Domani troveremo di sicuro una pozza d’acqua, non credi?» disse battendo impacciato una mano sulla schiena di Reghar. Il vecchio nano sollevò lo sguardo su Caramon, sorpreso e subito insospettito, temendo di essere il bersaglio di qualche battuta.

Ma nel vedere il volto stanco di Caramon che gli sorrideva incoraggiante, Reghar si rilassò. «Sì,» il nano annuì, con un riluttante sorriso in risposta. «Domani, certamente.»

Allontanandosi dalla pozza disseccata, i due fecero ritorno al campo.

La notte scendeva presto sui Pianori di Dergoth. Il sole calò rapidamente dietro le montagne, come se lo nauseasse la vista di quella terra vasta, desolata, di quel terreno sterile, spoglio, deserto. Pochi fuochi ardevano. Per la maggior parte i soldati erano troppo stanchi per prendersi la briga di accenderli, e comunque non c’era nessun cibo da cuocere. Raggruppati separatamente a seconda della loro provenienza o razza, i nani delle colline, i settentrionali e gli uomini delle pianure si scambiavano sguardi carichi si sospetto. Naturalmente, tutti evitavano i Dewar.

Caramon, sollevando lo sguardo, vide la propria tenda, staccata da tutte le altre, come in un estremo desiderio di cancellare tutto il resto del campo.

Un’antica leggenda di Krynn narrava di un uomo che, un giorno, aveva commesso un crimine così orrendo che gli stessi dei si erano riuniti per infliggergli la punizione. Quando annunciarono che, d’ora in avanti, l’uomo avrebbe avuto la capacità di vedere nel futuro, l’uomo rise, convinto di aver battuto in astuzia gli dei. L’uomo, però, era poi morto d’una morte atroce, qualcosa che Caramon non era mai riuscito a capire.

Ora, invece, aveva capito, e l’anima gli faceva male. Davvero, non si sarebbe potuta infliggere punizione peggiore a un mortale: infatti, vedendo il futuro e sapendo cosa accadrà, l’uomo viene privato del suo dono più grande, la speranza.

Fino a quel momento, Caramon aveva sperato. Aveva creduto che Raistlin avrebbe tirato fuori un piano. Aveva creduto che suo fratello non avrebbe permesso che questo accadesse. Ma adesso, sapendo che a Raistlin, davvero, non importava nulla di ciò che sarebbe stato di quegli uomini e di quei nani e delle famiglie che si erano lasciati alle spalle, la speranza di Caramon si era spenta: erano condannati. E non c’era niente che lui potesse fare per impedire che quanto era accaduto prima, accadesse di nuovo.

Conoscendo questo, e conoscendo il dolore che ciò doveva inevitabilmente costargli, Caramon cominciò, senza avvedersene, a distanziarsi da coloro per i quali si era preoccupato. Cominciò a pensare alla sua casa.

La sua casa! Quasi dimenticata, perfino ricacciata di proposito nei recessi della sua mente... adesso i ricordi della sua casa Io inondavano con tale, vivida chiarezza, ogni volta che lui lo permetteva, che talvolta, durante le sue lunghe, solitarie serate, fissava un fuoco che non poteva vedere a causa delle lacrime.

Questo era l’unico pensiero che permetteva a Caramon di tirare avanti. A mano a mano che conduceva il suo esercito più vicino alla sconfitta, ogni passo lo conduceva più vicino a Tika, più vicino a casa...

«Attento!» Reghar lo afferrò, riscuotendolo dal suo sogno ad occhi aperti. Caramon ammiccò più volte e sollevò lo sguardo un attimo prima d’inciampare su uno degli strani tumuli che punteggiavano i Pianori.

«Ma cosa sono questi dannati affari?» brontolò Caramon, fissando il tumulo con furore. «Qualche tipo di tana di animali? Ho sentito parlare di scoiattoli senza coda che vivono in tane come queste sulle grandi terre piatte di Eastwilde.» Studiò corrucciato la struttura, che era alta quasi tre piedi e larga altrettanto, e scosse la testa. «Ma non mi piacerebbe affatto incontrare lo scoiattolo che ha costruito questo!»

«Ah! Macché scoiattoli!» esclamò Reghar, sprezzante. «Questi, li hanno costruiti i nani! Non lo vedi? Guarda come sono fatti, come sono rifiniti...» Passò amorevolmente la mano sulla liscia cupola. «Da quando in qua la natura fa un lavoro così perfetto?»

Caramon sbuffò. «Nani? Ma... perché? Per cosa? Neppure ai nani piace lavorare al punto da farlo per la propria salute! Perché mai perdere tempo a costruire tumuli nel deserto?»

«Posti di osservazione,» spiegò Reghar, succintamente.

«Osservazione?» sogghignò Caramon. «Per osservare cosa? I serpenti?»

«Il territorio, il cielo, gli eserciti... come il nostro.» Reghar batté il piede, sollevando una nuvola di polvere. «Hai sentito?»

«Sentito cosa?»

«Questo.» Reghar batté un’altra volta il piede. «È vuoto.»

La fronte di Caramon si spianò. «Gallerie!» I suoi occhi si spalancarono. Fissando il deserto davanti a sé e i tumuli che s’innalzavano l’uno dopo l’altro da quella terra piatta, dette in un fischio sommesso.

«Miglia e miglia di gallerie!» esclamò Reghar, annuendo. «Scavate così tanto tempo fa che erano già antiche per mio bisnonno. Naturalmente,» il nano sospirò, «la maggior parte di esse non è stata più usata durante tutto il tempo passato da allora. Stando alle leggende, un tempo c’erano delle fortezze fra qui e Pax Tharkas, che arrivavano fino ai Monti Kharolis. Un nano avrebbe potuto camminare da Pax Tharkas a Thorbardin senza mai vedere una sola volta il sole, se quelle vecchie storie sono vere.

«Adesso le fortezze non ci sono più. Ed è probabile che anche molte delle gallerie non ci siano più. Il Cataclisma ne ha distrutto la maggior parte. Però,» continuò Reghar, in tono più allegro, mentre riprendeva a camminare insieme a Caramon, «non sarei sorpreso se Duncan avesse qualche spia là sotto, che si aggira furtiva come un sorcio.»

«Che si trovino sopra o sotto, in ogni caso ci vedranno sempre arrivare da molto lontano,» borbottò Caramon, scrutando il terreno piatto e vuoto.

«Già,» disse Reghar. «E non gli servirà proprio a niente.» Caramon non rispose, e i due proseguirono, l’omone tornò da solo alla sua tenda e il nano all’accampamento della sua gente.

Dentro uno dei tumuli, non lontano dalla tenda di Caramon, degli occhi stavano davvero osservando l’esercito, seguendo ogni sua singola mossa. Ma quegli occhi non erano interessati all’esercito in sé. Erano interessati a tre persone, tre persone soltanto...

«Non manca molto, adesso,» disse Kharas. Stava scrutando fuori attraverso delle fessure intagliate con tanta abilità nella roccia da permettere a chi si trovava dentro il tumulo di guardar fuori, ma impedendo a chi guardava il tumulo dall’esterno di guardar dentro. «Quant’è la distanza, secondo i tuoi calcoli?»

La domanda era stata rivolta a un nano dall’aspetto antico e trasandato, il quale si degnò di dare un’occhiata fuori, con aria annoiata, dando poi un’altra occhiata valutatrice alla lunghezza della galleria sotto di loro. «Duecentocinquantatré passi ci porteranno dritti al centro,» annunciò senza esitazione.

Kharas guardò fuori sui Pianori, dove la grande tenda del generale si ergeva separata dai fuochi dei bivacchi dei suoi uomini. A Kharas pareva una cosa prodigiosa, che il vecchio nano potesse valutare la distanza in maniera così accurata. L’eroe avrebbe potuto esprimere dei dubbi, se si fosse trattato di qualcun altro e non di Smasher. Ma il vecchio ladro che era stato richiamato dalla pensione proprio per quel compito aveva la solida reputazione di aver compiuto imprese straordinarie, una reputazione che quasi equivaleva a quella dello stesso Kharas.

«Il sole sta tramontando,» riferì Kharas, piuttosto inutilmente poiché l’allungarsi delle ombre poteva esser visto proiettarsi obliquo sulle pareti rocciose della galleria dietro di lui. «Il generale è di ritorno. Sta entrando nella tenda.» Kharas corrugò la fronte. «Per la barba di Reorx, spero che non decida di cambiare le proprie abitudini proprio stanotte.»

«Non lo farà,» dichiarò Smasher. Comodamente rannicchiato in un angolo, parlava con la tranquilla certezza di chi (ai vecchi tempi) si era guadagnato da vivere osservando il venire, e più in particolare l’andare, dei suoi simili. «La prima cosa che impari quando svaligi una casa: tutti hanno le loro radicate abitudini, e a nessuno piace cambiarle. Il tempo è bello, non ci sono state sorprese, non c’è niente, là fuori, se non sabbia, e ancora sabbia. No, non cambierà le sue abitudini.»

Kharas corrugò la fronte. Non gli piaceva quella rievocazione del passato di fuorilegge del nano. Ben conscio dei propri limiti, Kharas aveva scelto Smasher per quella missione poiché aveva bisogno di qualcuno capace di muoversi in modo furtivo, rapido e silenzioso, capace di attaccare di notte e di fuggire nel buio.

Ma Kharas, che era stato ammirato dai Cavalieri di Solamnia per il suo senso dell’onore, provava ugualmente i morsi della coscienza. Tranquillizzò la propria anima ricordando che Smasher, molto tempo addietro, aveva pagato per le sue malefatte e aveva perfino compiuto parecchie imprese per il suo re, che avevano fatto di lui, se non un personaggio dalla reputazione immacolata, per lo meno un eroe minore.

Inoltre, si disse Kharas, pensa alle vite che salveremo.

Proprio mentre pensava questo, tirò un sospiro di sollievo. «Hai ragione, Smasher, ecco che arrivano lo stregone dalla sua tenda e la strega dalla propria.»

Stringendo con una mano il manico del martello, assicurato saldamente alla sua cintura, Kharas usò l’altra mano per spostare in una posizione più comoda una spada corta che portava infilata accanto al martello. Infine, affondò la mano in una borsa e ne tirò fuori una pergamena arrotolata, e con un’espressione pensierosa e solenne sulla faccia sbarbata, la cacciò in una tasca sicura della sua armatura di cuoio.

Voltandosi verso i quattro nani che erano alle sue spalle, disse: «Ricordatevi di non far del male alla donna o al generale più di quanto sia necessario per sopraffarli. Ma... lo stregone deve morire, e deve morire velocemente, poiché è lui il più pericoloso.»

Smasher sogghignò, e si rilassò sulla schiena ancora più comodamente. Lui non sarebbe andato.

Era troppo vecchio. Un tempo si sarebbe sentito insultato, ma adesso aveva un’età in cui una cosa del genere suonava come un complimento. Inoltre, le ginocchia gli scricchiolavano in maniera allarmante.

«Lasciate che si accomodino» consigliò loro il vecchio ladro. «Lasciate che si rilassino, che comincino a cenare. Poi,» si passò una mano sulla gola, dando in una risata chioccia, «duecentocinquantatré passi...»

Garic, di sentinella fuori della tenda del generale, ascoltava il silenzio che regnava all’interno. Era più inquietante e pareva echeggiare più forte del più violento litigio.

Lanciando un’occhiata all’interno attraverso la falda aperta della tenda, Garic vide i tre seduti insieme, come facevano tutte le sere, tranquilli, borbottando solo occasionalmente, ciascuno in apparenza immerso nelle proprie preoccupazioni.

Lo stregone era profondamente impegnato nei suoi studi. Correva voce che stesse progettando alcuni grandi, potenti incantesimi, che avrebbero fatto saltare le porte di Thorbardin. In quanto alla strega, chi mai poteva sapere cosa stesse pensando? Garic era grato a Caramon, che per lo meno la teneva d’occhio.

Erano corse voci bizzarre sulla strega, fra i soldati. Voci di miracoli fatti a Pax Tharkas, di morti che erano tornati in vita a un suo tocco, di gambe e braccia che erano ricresciute dai moncherini insanguinati. Garic non le aveva neanche prese in considerazione, naturalmente. Però, c’era stato qualcosa in lei, in questi ultimi giorni, che induceva il giovane a chiedersi se la sua prima impressione fosse stata corretta.

Garic si mosse inquieto al vento gelido che spazzava il deserto. Dei tre presenti nella tenda, era il generale quello che lo preoccupava maggiormente. Durante gli ultimi mesi il giovane aveva finito per riverire, e addirittura idolatrare Caramon. Osservandolo da vicino, cercando d’imitarlo il più possibile, Garic aveva notato l’ovvia depressione e infelicità del generale, che I’omone riteneva di riuscire a nascondere molto bene. Per Garic, Caramon aveva assunto il posto della famiglia che aveva perduto, e adesso il giovane cavaliere rifletteva il dolore di Caramon, proprio come avrebbe fatto per il dolore d’un fratello più vecchio.

«Sono quei dannati nani scuri,» borbottò Garic ad alta voce, battendo i piedi per evitare che s’intorpidissero. «Non mi fido di loro, questo è sicuro. Li manderei via, e sono sicuro che anche il generale lo farebbe, se non fosse per suo fra...»

Garic s’interruppe, trattenendo il fiato e aguzzando gli orecchi.

Niente. Ma avrebbe potuto giurare che...

Con la mano sull’elsa della spada il giovane cavaliere scrutò il deserto. Malgrado di giorno facesse molto caldo, di notte quello era un posto freddo e sgradevole. In lontananza vide i fuochi dei bivacchi. Qua e là poteva distinguere le ombre degli uomini che passavano.

Poi l’udì di nuovo. Un lieve rumore alle sue spalle. Sì, direttamente alle sue spalle. Come un passo di pesanti stivali dalle suole di ferro...

«Cos’è stato?» chiese Caramon, sollevando la testa. «Il vento,» mormorò Crysania, lanciando un’occhiata alla tenda e rabbrividendo, nell’osservare come il tessuto s’increspasse, quasi respirando come una cosa viva. «Soffia incessantemente in questo luogo orribile.»

Caramon si alzò a mezzo, con la mano sull’elsa della spada. «Non era il vento.»

Raistlin alzò lo sguardo su suo fratello. «Oh, siediti!» gli intimò, irritato, con un basso ringhio. «E finisci la tua cena, in modo che io possa tornarmene ai miei studi.»

L’arcimago stava ripassando nella mente un incantesimo particolarmente difficile. Vi si stava cimentando da molti giorni, cercando di scoprire la giusta inflessione e la pronuncia indispensabili a svelare i segreti delle parole. Finora avevano eluso la sua comprensione, mostrandosi prive di senso.

Spingendo da parte il piatto ancora pieno, Raistlin fece per alzarsi, quando il mondo letteralmente cedette sotto i suoi piedi.

Come se si trovasse sul ponte di una nave che stesse scivolando lungo un’onda ripida, il terreno sabbioso s’inclinò sotto il suo piede. Abbassando lo sguardo, pieno di stupore, l’arcimago vide un ampio foro spalancarsi davanti a lui. Uno dei pali che reggeva la tenda s’inclinò e vi cadde dentro, facendola afflosciare. Una lanterna appesa ai sostegni oscillò come impazzita, facendo beccheggiare e sobbalzare le ombre come tanti demoni.

Istintivamente, Raistlin si afferrò al tavolo e riuscì a salvarsi, evitando di cadere nel foro che si stava rapidamente allargando. Ma, mentre lo faceva, vide delle figure strisciare fuori dal foro: figure tozze e barbute. Per un istante la luce che danzava impazzita trasse riflessi vividi da lame d’acciaio, scintillò in occhi scuri e truci. Poi le figure sprofondarono nelle ombre.

«Caramon!» gridò Raistlin, ma capì subito dal trepestio alle sue spalle, accompagnato da una feroce imprecazione e dallo sferragliare di una lama d’acciaio estratta precipitosamente dal fodero, che Caramon era ben conscio del pericolo.

Raistlin udì anche una voce femminile che scandiva alto il nome di Paladine, e vide i vividi contorni di una luce bianca e pura, ma non ebbe il tempo di preoccuparsi di Crysania. Un enorme martello da guerra dei nani, in apparenza impugnato dall’oscurità stessa, lampeggiò alla luce della lanterna, mirando direttamente alla sua testa.

Pronunciando il primo incantesimo che gli venne in mente, Raistlin vide con soddisfazione un’invisibile forza arcana strappare il martello dalla mano del nano. Per suo ordine, la forza trasportò il martello attraverso il buio, per lasciarlo cadere con un tonfo all’angolo della tenda.

Dapprima stordita da quell’attacco inaspettato, adesso la mente di Raistlin era attiva ed operante.

Una volta superato lo shock iniziale, il mago la vedeva semplicemente come un’altra irritante interruzione dei suoi studi. Progettando di porvi rapidamente fine, l’arcimago rivolse la sua attenzione al nemico, il quale si ergeva davanti a lui fissandolo con occhi che non mostravano nessuna paura.

Non provando lui stesso nessuna paura, calmo nella consapevolezza che niente poteva ucciderlo, poiché era protetto dal tempo, Raistlin fece appello alla sua magia freddamente, senza affrettarsi.

La sentì raccogliersi in spire intorno al suo corpo, sentì l’estasi percorrere la sua persona come un piacere sensuale. Decise che quella sarebbe stata una piacevole diversione rispetto ai suoi studi. Un interessante esercizio... Tendendo le mani, cominciò a pronunciare le parole che avrebbero scagliato saette di sfrigolante luce azzurra attraverso il corpo del suo nemico in preda alle convulsioni. Ma venne inopinatamente interrotto.

Con la repentinità d’uno scroscio di tuono, due figure comparvero davanti a lui, balzando fuori dall’oscurità come se fossero cadute da una stella.

Ruzzolando ai piedi del mago, una delle figure lo fissò in preda a un’incontenibile eccitazione.

«Oh, guarda, è Raistlin! Ce l’abbiamo fatta, Gnimsh! Ce l’abbiamo fatta! Ehi, Raistlin! Scommetto che sei sorpreso di vedermi, uh? E, oh, ho da raccontarti la storia più meravigliosa che si possa immaginare! Vedi, ero morto. Be’, non lo ero per davvero, ma...»

«Tasslehoff!» rantolò Raistlin.

I pensieri sfrigolarono nella mente dell’arcimago, come il lampo avrebbe potuto sfrigolare dalle punte delle sue dita.

Il primo: un kender! Il Tempo poteva venir alterato!

Il secondo: il Tempo può venir alterato!

Il terzo: io posso morire!

Lo shock causato da quei pensieri scosse il corpo di Raistlin, dissolvendo la sua freddezza e la sua calma così indispensabili ad un fruitore di magia per lanciare i suoi complicati incantesimi.

Mentre la soluzione al suo problema, che non aveva cercato, insieme con la constatazione di ciò che avrebbe potuto costargli penetravano nel suo cervello, Raistlin perse il controllo. Le parole dell’incantesimo gli scivolarono via dalla mente. Ma il suo nemico continuava ad avanzare.

Reagendo d’istinto, con la mano che gli tremava, Raistlin mosse di scatto il polso, facendo cadere nel palmo della mano il piccolo pugnale d’argento che portava con sé.

Ma era troppo tardi... e troppo poco.

Capitolo nono.

L’attenzione di Kharas era completamente concentrata sull’uomo che aveva giurato di uccidere.

Reagendo con la determinazione e la risolutezza tipiche della mentalità militaresca, non prestò nessuna attenzione alla stupefacente comparsa delle due figure, ritenendole, forse, null’altro che creature evocate dall’arcimago.

Allo stesso tempo, Kharas vide gli occhi dell’arcimago svuotarsi. Vide la bocca di Raistlin, aperta per recitare parole micidiali, penzolare flaccida e molle, e il nano seppe che, almeno per pochi istanti, il nemico era in suo potere.

Kharas eseguì un affondo con la spada corta, trafiggendo le vesti nere e fluttuanti, ed ebbe la soddisfazione di sentire che aveva colpito nel segno.

Accostandosi al mago colpito, affondò la lama sempre più in profondità nell’esile corpo dell’umano. Lo strano calore dell’uomo lo avvolse come in un inferno avvampante. Un odio e una rabbia così intensi colpirono Kharas come un corpo fisico, facendolo cadere all’indietro e mandandolo a sbattere contro il suolo.

Ma lo stregone era mortalmente ferito. Questo, Kharas lo sapeva. Sollevando lo sguardo da dove era caduto, fissò quegli occhi brucianti e malefici: Kharas li vide ardere di furore... ma li vide anche colmi di sofferenza. E, alla luce oscillante e sobbalzante della lanterna, vide l’elsa della spada corta sporgere dal ventre del mago. Vide le mani sottili del mago avvinghiarsi ad essa, e lo sentì urlare in preda a una terribile angoscia. Seppe di non aver più nessuna ragione di aver paura. Lo stregone non avrebbe più potuto fargli del male.

Kharas si alzò in piedi, incespicando, allungò la mano e strappò fuori la spada. Lanciando un amaro urlo di agonia, con le mani inondate dal proprio sangue, lo stregone stramazzò al suolo e giacque immobile.

Allora Kharas ebbe tempo di guardarsi intorno. I suoi si stavano battendo all’ultimo sangue con il generale che, udendo gridare suo fratello, si era fatto livido per la paura e la collera. La strega non era visibile da nessuna parte, la luce arcana che aveva irradiato era scomparsa, smarrita nella tenebra.

Udendo un suono strozzato provenire da dietro le sue spalle, Kharas si voltò e vide le due apparizioni che l’arcimago aveva evocato intente a fissare con stordito orrore il corpo dello stregone. Guardandole bene, Kharas fu sorpreso nel constatare che quelle creature demoniache fatte emergere dalle regioni infernali non erano niente di più sinistro di un kender dai gambali di un azzurro vivace e di uno gnomo stempiato con un grembiule di cuoio.

Kharas non ebbe il tempo di riflettere su quel fenomeno. Aveva concluso quello che era venuto a fare, per lo meno quasi del tutto. Sapeva che non avrebbe potuto parlare col generale, non adesso, comunque. La sua preoccupazione principale era quella di condurre in salvo i suoi. Kharas attraversò di corsa la tenda, raccolse il suo grande martello da guerra e, urlando ai suoi in nanesco di togliersi di mezzo, lo scagliò direttamente contro Caramon.

Il martello colpì l’omone di striscio alla testa, stordendolo ma non uccidendolo. Caramon cadde come una quercia abbattuta e, d’un tratto, sulla tenda discese un silenzio mortale.

C’erano voluti soltanto pochi, brevi istanti.

Kharas lanciò un’occhiata attraverso la falda della tenda, e vide che il giovane cavaliere di guardia giaceva al suolo privo di sensi. Non c’era alcun segno che qualcuno seduto intorno a quei lontani falò avesse sentito o visto qualcosa d’insolito.

Alzando una mano, il nano fermò la lanterna che continuava a oscillare e si guardò intorno. Lo stregone giaceva in una pozza del proprio sangue. Il generale giaceva accanto a lui, con la mano tesa verso suo fratello, come se quello fosse stato il suo ultimo pensiero prima di perdere i sensi. In un angolo giaceva supina la strega, gli occhi chiusi.

Vedendo del sangue sulle sue vesti, Kharas fissò severamente i suoi. Uno di loro scosse la testa.

«Mi spiace, Kharas,» disse il nano, abbassando lo sguardo sulla donna e rabbrividendo, «ma la luce che emanava da lei era così forte! Mi sono sentito spaccare la testa. Non sono riuscito a pensare nient’altro se non a fermarla. Non... non ci sarei riuscito, ma poi lo stregone ha urlato e lei ha gridato, e la sua luce ha tremolato. Allora l’ho colpita, ma non molto forte. Non è ferita gravemente.»

«Va bene.» Kharas annuì. «Andiamo.» Recuperando il suo martello, il nano abbassò lo sguardo sul generale che giaceva ai suoi piedi. «Mi spiace,» disse, estraendo il pezzetto di pergamena e infilandolo nella mano protesa dell’omone. «Forse un giorno riuscirò a spiegartelo. » Alzandosi, si guardò intorno. «Tutto bene? Allora usciamo da qui.»

I suoi uomini si affrettarono a raggiungere l’ingresso della galleria.

«E questi due?» chiese uno di loro, fermandosi accanto al kender e allo gnomo.

«Prendeteli,» ordinò Kharas, secco. «Non possiamo lasciarli qui. Darebbero l’allarme.»

Per la prima volta, il kender parve tornare alla vita.

«No!» gridò, fissando Kharas con occhi imploranti, pieni di orrore. «Non puoi portarci via! Siamo appena arrivati! Abbiamo trovato Caramon e adesso possiamo tornare a casa! No, per favore!»

«Prendeteli,» ordinò Kharas in tono severo.

«No!» gemette il kender, lottando fra le braccia del suo catturatore. «No, per favore, non capisci. Eravamo nell’Abisso e siamo scappati...»

«Imbavagliatelo,» ringhiò Kharas, sbirciando giù dentro la galleria sotto la tenda per controllare se tutto andava bene. Facendo segno che si affrettassero, s’inginocchiò accanto al foro nel terreno.

I suoi uomini scesero nella galleria, trascinando il kender imbavagliato, il quale stava ancora opponendo una tale resistenza, scalciando e artigliando, che alla fine furono costretti a fermarsi e a legarlo come un pollo prima di riuscire a trasportarlo via. L’altro prigioniero, invece, non diede loro nessuna preoccupazione. Il povero gnomo era talmente inorridito da trovarsi ridotto in stato di shock. Guardandosi intorno impotente, la bocca spalancata, fece in silenzio tutto quello che gli veniva detto.

Kharas fu l’ultimo ad andarsene. Prima di saltar giù dentro la galleria, lanciò un’ultima occhiata intorno a sé.

Adesso la lanterna penzolava completamente immobile, diffondendo la sua tranquilla luminosità su una scena da incubo. I tavoli erano fracassati, le sedie rovesciate, il cibo era sparpagliato dappertutto. Una sottile striscia di sangue scorreva fuori da sotto il corpo del fruitore di magia vestito di nero. Formando una pozza nell’orlo del foro, il sangue cominciò lentamente a sgocciolare dentro la galleria.

Balzato dentro il buco, Kharas corse lungo la galleria fino a una distanza di sicurezza, poi si fermò.

Afferrando l’estremità di un pezzo di corda che giaceva sul pavimento della galleria, gli dette un violento strattone. L’estremità opposta della corda era legata a una delle travi di sostegno, direttamente sotto la tenda del generale. Lo strattone fece ruzzolare giù la trave. Si udì un sordo borbottio, poi, in distanza, Kharas potè vedere delle pietre che cadevano, e la sua vista fu oscurata da una densa nube di polvere.

Adesso che la galleria era bloccata alle sue spalle senza che ci fossero più rischi di venir inseguiti, Kharas si voltò e raggiunse di corsa i suoi.

«Generale...»

Caramon era in piedi, le sue grandi mani si protesero per stringere alla gola il suo nemico, un ringhio gli contorceva il volto.

Colto di sorpresa, Garic arretrò incespicando.

«Generale!» gridò. «Caramon! Sono io!»

D’un tratto un dolore lancinante e il suono familiare della voce di Garic penetrarono il cervello di Caramon. Con un gemito, si strinse la testa fra le mani e barcollò. Garic lo afferrò mentre cadeva, calandolo su una sedia dove non avrebbe più rischiato di farsi del male.

«Mio fratello?» chiese Caramon con voce impastata.

«Caramon... io...» Garic deglutì.

«Mio fratello!» esclamò Caramon, con voce rauca, stringendo il pugno.

«L’abbiamo portato nella sua tenda,» rispose Garic con voce sommessa. «La ferita è...»

«Cosa? La ferita è cosa?» digrignò Caramon con impazienza, sollevando la testa e fissando Garic con occhi iniettati di sangue e colmi di dolore.

Garic aprì la bocca, la chiuse, poi scosse la testa. «M... mio padre mi ha parlato di ferite del genere,» mormorò. «Uomini che andavano avanti giorni e giorni in preda a una terribile agonia...»

«Vuoi dire che è una ferita al ventre,» disse Caramon.

Garic annuì, poi si coprì il volto con la mano. Caramon, guardandolo con attenzione, si avvide che il giovane era pallido come la morte. Sospirando, chiudendo gli occhi, Caramon si preparò allo stordimento e alla nausea che l’avrebbero assalito quando si fosse rialzato in piedi. Poi, con un movimento risoluto, si alzò. L’oscurità turbinò e sussultò intorno a lui. Si costrinse a restare in piedi senza vacillare, e quando la vertigine fu passata, aprì gli occhi.

«Come ti senti?» chiese a Garic, fissando intensamente il giovane cavaliere.

«Sto bene,» rispose Garic, e la sua faccia arrossì per la vergogna. «Mi... mi hanno attaccato alle spalle.»

«Già.» Caramon vide il sangue incrostato sui capelli del giovane. «Capita. Non preoccuparti.» Il grosso guerriero sorrise senza allegria. «Mi hanno attaccato di fronte.»

Garic annuì di nuovo, ma era chiaro dall’espressione del suo viso che quella sconfitta gli rodeva la mente.

Gli passerà, pensò Caramon con stanchezza. Tutti dobbiamo affrontarlo, presto o tardi.

«Adesso andrò a far visita a mio fratello,» annunciò, avviandosi fuori della tenda con passo incerto.

Poi si fermò. «E Dama Crysania?»

«È addormentata. La lama di un coltello è rimbalzata sulle sue... uh... costole. Io... noi l’abbiamo medicata... meglio che potevamo. Abbiamo dovuto... lacerare le sue vesti.» Il rossore di Garic divenne ancora più intenso. «E le abbiamo dato da bere un po’ di brandy...»

«Sa di Raist... Fistandantilus?»

«Lo stregone l’ha proibito.»

Caramon rizzò le sopracciglia, poi corrugò la fronte. Guardando la tenda in rovina intorno a sé, vide la scia di sangue sul terriccio calpestato del pavimento. Tirando un profondo respiro, aprì la falda della tenda e uscì fuori con passo barcollante. Garic lo seguì.

«L’esercito?»

«Lo sanno. La voce si è diffusa.» Garic allargò le braccia in un gesto d’impotenza. «C’era così tanto da fare. Abbiamo tentato d’inseguire i nani...»

«Bah!» Caramon sbuffò, sussultando quando uno spasimo lacerante gli trafisse il cranio. «Avranno fatto crollare la galleria.»

«Sì. Abbiamo provato a scavare, ma tanto varrebbe mettersi a scavare l’intero dannato deserto,» dichiarò Garic con amarezza.

«E l’esercito?» insistè Caramon, fermandosi fuori della tenda di Raistlin. Udì un gemito sommesso provenire dall’interno.

«Gli uomini sono frastornati,» disse Garic con un sospiro. «Parlano. Sono confusi. Non so.».

Caramon afferrò la situazione. Lanciò un’occhiata nell’oscurità che regnava all’interno della tenda di suo fratello. «Entrerò da solo. Grazie per tutto quello che hai fatto, Garic,» aggiunse con gentilezza. «Adesso vai, e riposati un po’ prima di perdere i sensi per la stanchezza. Avrò bisogno di te più tardi, e non mi sarai di nessun aiuto ammalato.»

«Sì, signore,» replicò Garic. Fece per allontanarsi, barcollando, poi si fermò, voltandosi. Infilò la mano sotto il pettorale della sua armatura e tirò fuori un pezzo di pergamena intriso di sangue.

«Abbiamo... abbiamo trovato questo... nella tua mano, signore. E scritto in nanesco...»

Caramon guardò la pergamena, l’aprì, lesse quanto vi era scritto, poi tornò ad arrotolarla senza far commenti, cacciandosela nella cintura.

Adesso le tende erano circondate da sentinelle. Facendo cenno a una di queste, Caramon aspettò finché non si fu accertato che Garic veniva aiutato a raggiungere il proprio letto. Poi, facendosi forza, entrò nella tenda di Raistlin.

Una candela ardeva su un tavolo, accanto a un libro degli incantesimi che era stato lasciato aperto: era ovvio che l’arcimago si aspettava di ritornare ai suoi studi subito dopo la cena. Un nano di mezza età, segnato dalle cicatrici di molte battaglie (Caramon riconobbe in lui uno dei membri dello stato maggiore di Reghar) era rannicchiato fra le ombre accanto al letto. Una guardia accanto all’ingresso scattò sull’attenti quando Caramon entrò.

«Aspetta fuori,» ordinò Caramon alla guardia, e l’uomo uscì.

«Non permette che lo tocchiamo,» disse il vecchio nano indicando Raistlin con un cenno del capo.

«La ferita dev’essere fasciata. Non servirà a molto, naturalmente. Ma potrebbe tener dentro una parte di lui per un po’.»

«Mi occuperò io di lui,» dichiarò Caramon aspro.

Mettendo le mani sulle ginocchia, il nano si spinse in piedi.

Esitò, si schiarì la gola, come se si stesse chiedendo se doveva o no parlare. Presa la decisione, guardò Caramon in tralice con occhi scaltri e luminosi.

«Reghar mi ha detto che dovevo dirtelo. Se vuoi che lo faccia io... sai... farla finita velocemente, l’ho fatto altre volte. È una specie di dono che ho. Sono macellaio di professione, capisci...»

«Fuori.»

Il nano scrollò le spalle. «Come vuoi. Sta a te decidere. Però se fosse mio fratello...»

«Fuori!» ripetè Caramon con voce sommessa. Non seguì con lo sguardo il nano mentre se ne andava, neppure sentì il rumore dei suoi pesanti stivali. Tutti i suoi sensi erano concentrati sul suo gemello.

Raistlin giaceva sul suo letto, ancora vestito, con le mani serrate sulla sua orribile ferita. Macchiate di scuro a causa del sangue, le vesti e le carni del mago erano incollate insieme in un orrendo viluppo. Ed era in agonia. Contorcendosi involontariamente sul letto, ogni respiro che il mago esalava era un gemito basso e incoerente di dolore. Ogni inspirazione era una gorgogliante tortura.

Ma per Caramon lo spettacolo più orrendo era quello degli occhi luccicanti di suo fratello, che lo fissavano, consapevoli della sua presenza, mentre si avvicinava al letto. Raistlin era cosciente.

Inginocchiatosi accanto al letto di suo fratello, Caramon appoggiò una mano sulla testa febbricitante del suo gemello. «Perché non hai permesso che andassero a chiamare Crysania?» gli chiese con voce sommessa.

Raistlin fece una smorfia. Digrignando i denti costrinse le parole a uscirgli dalle labbra macchiate di sangue. «Paladine... non... mi... guarirà!» Quest’ultimo era un rantolo che terminò con un urlo strozzato.

Caramon lo fissò confuso. «Ma... stai morendo! Tu non puoi morire! Avevi detto...»

Raistlin roteò gli occhi, buttò indietro la testa. Il sangue gli gocciolò dalla bocca. «Il tempo... alterato... tutto... cambiato!» «Ma...»

«Vattene! Lasciami morire!» urlò Raistlin, in preda alla collera e al dolore, contorcendo il corpo.

Caramon rabbrividì. Cercò di guardare suo fratello con pietà, ma il viso, smunto e contorto per la sofferenza, non era il volto che conosceva.

La maschera di saggezza e intelligenza era stata strappata via, rivelando le linee scheggiate dell’orgoglio, dell’ambizione, dell’avarizia e della crudeltà insensibile. Era come se Caramon, pur guardando un volto che aveva sempre conosciuto, vedesse il suo gemello per la prima volta.

Forse, pensò Caramon, Dalamar ha visto questo volto nella Torre della Grande Stregoneria, mentre Raistlin gli bruciava la carne con le mani nude, praticandogli quei fori. Forse anche Fistandantilus aveva visto quel volto mentre moriva...

Disgustato, la sua stessa anima scossa dall’orrore, Caramon strappò lo sguardo da quel volto orribile e, irrigidendo la propria espressione, tese una mano. «Lascia almeno che ti curi la ferita.»

Raistlin scosse la testa con veemenza. Una mano coperta di sangue si staccò dal corpo, dove cercava di trattenere dentro di sé la vita stessa per stringere il braccio di Caramon. «No! Basta! Ho fallito. Gli dei stanno ridendo. Non posso... sopportare...»

Caramon lo fissò. D’un tratto, irrazionalmente, la rabbia s’impadronì dell’omone, una rabbia che nasceva da anni d’irrisioni sarcastiche e di servitù ingrata. Rabbia per aver visto morire degli amici a causa di quell’uomo. Rabbia per aver visto se stesso quasi distrutto. Rabbia per aver visto l’amore divorato, l’amore negato. Allungando la mano, Caramon afferrò le vesti nere e sollevò con uno scatto la testa di suo fratello dal cuscino.

«No, per gli dei!» urlò l’omone, con una voce che tremava tutta per la collera. «No, non morirai! Mi senti?» I suoi occhi si strinsero. «Non morirai, fratello mio! Tutta la vita sei vissuto soltanto per te stesso. Adesso, perfino nella tua morte, stai cercando una facile via d’uscita... per te! Mi lasceresti intrappolato qui senza pensarci due volte. Lasceresti Crysania! No, fratello! Tu vivrai, dannazione! Vivrai per mandarmi di nuovo a casa. Quello che farai dopo, con te stesso, riguarda soltanto te.»

Raistlin fissò Caramon e, malgrado il suo dolore, la macabra parodia d’un sorriso gli sfiorò le labbra. Parve quasi che riuscisse a produrre un sorriso completo, ma invece una bolla di sangue gli esplose nella bocca. Caramon allentò la stretta sulle vesti di suo fratello, quasi, ma non del tutto, spingendolo indietro. Raistlin tornò ad accasciarsi sul cuscino. I suoi occhi brucianti parevano divorare Caramon. In quel momento, l’unica vita che c’era in essi era costituita da un odio e da una rabbia indicibilmente amari.

«Vado ad avvertire Crysania,» dichiarò Caramon, cupo in volto, mentre si alzava in piedi, ignorando l’occhiata furente di suo fratello. «Deve almeno avere la possibilità di tentare di guarirti. Sì, se le occhiate potessero uccidere, so bene che in questo momento sarei morto. Ma, ascoltami, Raistlin o Fistandantilus o chiunque altro tu sia: se sarà volontà di Paladine che tu debba morire prima di causare altri guai a questo mondo, allora sia. Sono pronto ad accettare quel destino, come lo accetterà Crysania. Ma se invece è volontà di Paladine che tu viva, allora accetteremo anche quella... e lo farai anche tu!»

Raistlin, pur allo stremo delle forze, continuò a serrare in una morsa insanguinata il braccio di Caramon, stringendolo con dita che già parevano irrigidirsi nella morte.

Con fermezza, serrando le labbra, Caramon si staccò di dosso la mano di suo fratello. Si alzò in piedi, lasciò il capezzale di Raistlin, sentendo, accanto a sé, un gemito incoerente di agonizzante tormento. Caramon esitò un attimo... quel gemito gli arrivava dritto al cuore. Ma poi pensò a Tika, pensò alla sua casa...

Caramon continuò a camminare. Quando uscì fuori nella notte e si diresse a rapidi passi verso la tenda di Crysania, il grosso guerriero lanciò un’occhiata su un lato, e scorse il nano, il quale se ne stava con noncuranza in mezzo alle ombre, affilando un pezzo di legno con un coltello tagliente.

Caramon infilò la mano sotto l’armatura, e ne estrasse, una volta ancora, il pezzo di pergamena.

Non aveva certo bisogno di rileggerlo. Le parole erano poche e fin troppo semplici:

Lo stregone ha tradito te e il tuo esercito. Manda un messaggero a Thorbardin, per apprendere la verità.

Caramon scagliò al suolo la pergamena.

Che scherzo crudele! Che scherzo crudele e contorto!

Attraverso l’orribile tormento del suo dolore, Raistlin poteva sentire le risate degli dei. Offrirgli la salvezza con una mano e strappargliela con l’altra! Come dovevano divertirsi nel vedere la sua sconfitta!

Il corpo torturato di Raistlin, così come la sua anima, si contorceva in preda agli spasimi, divincolandosi in una rabbia impotente, bruciando nella consapevolezza del suo fallimento.

Umano debole e meschino, sentì.le voci degli dei che gridavano, così ti ricordiamo la tua mortalità!

Non era disposto ad assistere al trionfo di Paladine. Vedere che il dio lo beffeggiava, che si gloriava della sua caduta... no! Meglio morire in fretta, lasciare che la sua anima cercasse un qualunque, disperato rifugio. Ma quel bastardo di suo fratello, quell’altra metà di lui, quella metà che invidiava e disprezzava, la metà che lui avrebbe dovuto essere, per diritto... negargli questa... quest’ultima misericordiosa consolazione...

Il suo corpo fu colto da nuove convulsioni a causa del dolore. «Caramon!» gridò Raistlin, solo, nel buio. «Caramon, ho bisogno di te! Caramon, non lasciarmi!» singhiozzò, stringendosi lo stomaco, arricciandosi in una palla compatta. «Non lasciarmi... non lasciare che io affronti questo... da solo!»

E poi la sua mente smarrì il filo della coscienza. Il mago ebbe delle visioni, mentre la vita gli scivolava tra le dita. Ali scure di drago, un Globo dei draghi spezzato... Tasslehoff... uno gnomo...

La mia salvezza... La mia morte... Una luce intensa e fredda, bianca e pura, tagliente come la lama d’una spada, penetrò la mente del mago. Ritraendosi, tentò di fuggire, tentò di sommergersi nell’oscurità calda e consolatrice. Poteva sentire se stesso che implorava Caramon di ucciderlo, di metter fine al dolore e a quella luce vivida e lacerante.

Raistlin si sentì pronunciare quelle parole, ma non aveva nessuna consapevolezza del fatto di aver parlato ad alta voce. Lo sapeva soltanto perché al riflesso di quella luce pura e vivida aveva visto suo fratello che si allontanava da lui.

Lo splendore della luce crebbe ancora di più e divenne un volto fatto di luce, un volto bello, calmo, puro, con occhi scuri, grigi e freddi. Due mani fredde gli toccarono la pelle ardente.

«Lascia che ti guarisca.»

La luce gli fece male, peggio del dolore causatogli dall’acciaio. Urlando, contorcendosi, Raistlin cercò di fuggire, ma le mani lo tennero fermo.

«Lascia che ti guarisca.»

«Vai... via!»

«Lascia che ti guarisca!»

Una stanchezza, un’immensa stanchezza, sopraffece Raistlin. Era stanco di combattere... di combattere il dolore, di combattere il ridicolo, di combattere il tormento con cui era vissuto durante tutta la sua vita.

Molto bene. Che il dio ridesse pure. Se l’era guadagnato, dopotutto, pensò Raistlin con amarezza.

Che si rifiuti pure di guarirmi. E poi riposerò nella tenebra... nella tenebra confortante...

Chiudendo gli occhi, chiudendoli con forza per proteggerli dalla luce, Raistlin attese la risata... e, d’un tratto, vide il volto del dio.

Caramon era fuori, all’ombra della tenda di suo fratello, con la testa dolorante stretta fra le mani. Le tormentose implorazioni di Raistlin perché gli venisse data la morte lo trafiggevano come la lama di un coltello. Alla fine non ce la fece più. Era ovvio che il chierico aveva fallito. Afferrando l’elsa della propria spada, Caramon entrò nella tenda e marciò verso il letto.

In quell’istante, le grida di Raistlin cessarono.

Dama Crysania si accasciò sul suo corpo, cadendo con la testa sul petto del mago.

E morto! pensò Caramon. Raistlin è morto.

Fissando il volto di suo fratello non provò dolore. Si sentì invece invadere da una specie di orrore a quella vista, pensando... Che maschera grottesca ha scelto d’indossare la morte!

Il volto di Raistlin era rigido come quello d’un cadavere, la bocca era spalancata e non ne usciva nessun suono. La pelle era livida. Gli occhi ciechi e fissi sopra le guance infossate guardavano dritti nel nulla.

Avvicinandosi di un altro passo, talmente intorpidito da essere incapace di provar dolore, o sofferenza, o sollievo, Caramon guardò più da vicino la strana espressione sul volto del morto, e si rese conto, improvvisamente sbigottito, che Raistlin non era morto! Quegli occhi spalancati e fissi contemplavano ciechi questo mondo, ma soltanto perché ne vedevano un altro.

Un grido, quasi un uggiolio, scosse il corpo del mago, più orrendo, all’udito, delle sue grida agonizzanti. La sua testa si mosse leggermente, le sue labbra si dischiusero, la sua gola palpitò ma non produsse nessun suono.

E poi gli occhi di Raistlin si chiusero, la testa reclinò su un Iato, i suoi muscoli in preda agli spasimi si rilassarono, l’espressione sofferente sbiadì, lasciando un volto tirato e pallido. Esalò un profondo sospiro. Ne tirò un altro, e un altro ancora...

Scosso da ciò che aveva visto, incerto se dovesse o no provare gratitudine oppure un dolore ancora più intenso sapendo che suo fratello era vivo, Caramon vide tornare la vita nel corpo lacerato e sanguinante di suo fratello.

Scuotendosi di dosso a fatica la sensazione paralizzante che talvolta afferra qualcuno che si è svegliato all’improvviso da un sonno profondo, Caramon s’inginocchiò accanto a Crysania e, prendendola delicatamente con una mano, l’aiutò a rialzarsi. Crysania lo fissò sbattendo le palpebre senza riconoscerlo. Poi il suo sguardo si spostò immediatamente su Raistlin. Un sorriso le illuminò la faccia. Chiuse gli occhi e mormorò una preghiera di ringraziamento. Poi, portandosi una mano sul fianco, si afflosciò addosso a Caramon. Sulle sue bianche vesti era visibile del sangue fresco.

«Dovresti guarire te stessa,» disse Caramon, aiutandola a uscire dalla tenda, sorreggendo con le sue braccia robuste i suoi passi esitanti.

Crysania sollevò lo sguardo su di lui e, malgrado fosse indebolita, il suo volto era bello e calmo nel trionfo.

«Forse domani,» rispose con voce sommessa. «Questa notte la mia vittoria è ben più grande. Non vedi? Questa è la risposta alle mie preghiere.»

Contemplando quella bellezza pacifica e serena, Caramon sentì le lacrime salirgli agli occhi.

«Così, è questa la tua risposta?» chiese, burbero, lanciando un’occhiata in direzione dell’accampamento. I falò erano ridotti a mucchi dì cenere e di braci. Con la coda dell’occhio Caramon vide qualcuno che correva via, e seppe che ben presto si sarebbe diffusa la notizia che la strega era in qualche modo riuscita a restituire il morto alla vita.

Caramon sentì la bile salirgli in bocca. Poteva immaginare i discorsi, l’eccitazione, le domande, le congetture, le occhiate cupe e gli scuotimenti di teste, e la sua anima si ritrasse. Voleva soltanto andare a letto, dormire e dimenticarsi di tutto.

Ma Crysania stava parlando. «Questa è anche la tua risposta, Caramon,» disse con fervore. «Questo è il segno degli dei che abbiamo entrambi cercato.» Fermandosi, si girò per guardarlo in faccia con grande calore. «Sei ancora cieco come lo eri nella Torre? Non credi ancora? Abbiamo posto la faccenda nelle mani di Paladine e il dio ha parlato. Raistlin doveva vivere. Deve compiere questa sua grande impresa. Insieme, lui ed io, e anche tu, se ti unirai a noi, combatteremo il male e lo sconfiggeremo, così come stanotte abbiamo combattuto e sconfitto la morte!»

Caramon la fissò. Poi chinò la testa e infossò le spalle. Non voglio combattere il male, pensò stancamente. Voglio soltanto tornare a casa. Questo è chiedere troppo?

Sollevò una mano e cominciò a sfregarsi una tempia che gli pulsava. E poi si fermò, vedendo, alla luce dell’alba che andava lentamente aumentando d’intensità, i segni delle dita insanguinate di suo fratello ancora sul suo braccio. «Metterò una guardia all’interno della tua tenda,» disse con asprezza.

«Cerca di dormire un po’...»

Si allontanò.

«Caramon,» lo chiamò Crysania.

«Cosa?» Si fermò con un sospiro.

«Ti sentirai meglio domattina. In queste ore pregherò per te. Buona notte, amico mio. E ricordati di ringraziare Paladine per aver fatto la grazia di concedere la vita a tuo fratello.»

«Sì, sì... certamente,» bofonchiò Caramon. Si sentiva molto a disagio, con il mal di testa che andava peggiorando; sapeva che ben presto si sarebbe sentito molto peggio, per cui lasciò Crysania e fece ritorno, incespicando, alla propria tenda.

Qui, tutto solo, nell’oscurità, si sentì male, e vomitò in un angolo fino a crollare sul suo giaciglio sfinito.

Capitolo decimo.

Battendo leggermente sulla pietra dell’ospite, che si trovava fuori dell’abitazione di Duncan, Kharas aspettò nervosamente la risposta. Arrivò presto. La porta si aprì, e là c’era il suo re.

«Entra, e che tu sia il benvenuto, Kharas,» disse Duncan, allungando una mano e tirando a sé il nano.

Arrossendo per l’imbarazzo, Kharas entrò nella dimora del suo re. Sorridendogli gentilmente, per metterlo a suo agio, Duncan gli fece strada attraverso la casa, fino al suo studio privato.

Costruita molto in profondità, nel cuore del Regno della montagna, la dimora di Duncan era in realtà un complicato labirinto di stanze e di gallerie piene di quei mobili di legno, scuri, massicci e robusti che i nani ammiravano. Malgrado fosse più grande e spaziosa della maggiore parte delle case di Thorbardin, la dimora di Duncan era quasi esattamente simile a quella di ogni altro nano.

Sarebbe stato considerato il massimo del cattivo gusto se fosse stato altrimenti. Il semplice fatto che Duncan fosse il re, non gli dava il diritto di assumere atteggiamenti altezzosi. Così, malgrado avesse dei servitori, veniva di persona ad accogliere i visitatori alla porta e serviva gli ospiti con le proprie mani. Vedovo, viveva in quella casa insieme ai suoi due figli, che non erano sposati, essendo entrambi giovani (soltanto ottant’anni a testa, o giù di lì).

Era ovvio che lo studio nel quale Kharas entrò era la stanza preferita di Duncan. Scudi e asce da combattimento decoravano le pareti, insieme a un bell’assortimento di spade catturate agli hobgoblin, con le loro lame ricurve, un tridente di minotauro vinto da qualche lontano antenato e, naturalmente, martelli, ceselli e altri utensili per lavorare la pietra.

Duncan fece accomodare il suo ospite con la genuina ospitalità dei nani, offrendogli la miglior poltrona, versandogli la birra, e attizzando il fuoco. Kharas era stato lì altre volte, naturalmente, molte volte, in realtà. Ma adesso si sentiva inquieto e a disagio, come se fosse entrato nella casa di un estraneo. Forse ciò era dovuto al fatto che Duncan, malgrado trattasse l’amico con l’usuale cortesia, di tanto in tanto fissava il nano sbarbato con uno sguardo strano e penetrante.

Osservando quell’insolita espressione negli occhi di Duncan, Kharas trovò impossibile rilassarsi e rimase lì, sulla sedia, irrequieto, ripulendosi nervosamente la schiuma dalla bocca con il dorso della mano mentre aspettava che le formalità si concludessero.

E così fu assai presto. Versandosi un boccale di birra, Duncan lo svuotò d’un sol fiato. Poi, appoggiando il boccale sul tavolo accanto al suo braccio, si accarezzò la barba, fissando Kharas con un’espressione fosca e cupa.

«Kharas,» disse, «ci avevi detto che lo stregone era morto.» «Sì, thane,» replicò Kharas, sorpreso.

«Quello che io personalmente gli ho inferto era un colpo mortale. Nessuno avrebbe mai potuto sopravvivere...»

«Lui, sì,» ribatté Duncan, asciutto. Kharas si accigliò. «Mi stai accusando...»

Adesso toccò a Duncan arrossire. «No, amico mio! Ben lungi da me l’idea di farlo. Sono certo che, qualunque cosa possa essere successa, tu credevi in tutta sincerità di averlo ucciso.» Duncan emise un profondo sospiro. «Ma i nostri esploratori hanno riferito di averlo visto nel campo. In apparenza era ferito, per lo meno non era più in grado di cavalcare. Però, l’esercito ha proseguito per Zhaman, trasportando lo stregone su un carro.»

«Thane!» protestò Kharas, rosso in viso per la collera. «Ti giuro! Il suo sangue è scorso sopra le mie mani ! Ho strappato la mia spada dal suo corpo. Per Reorx!» Il nano rabbrividì. «Ho visto l’espressione della morte nei suoi occhi!»

«Non ne dubito, figliolo!» l’interruppe Duncan, con foga, protendendosi a battere la mano sulla spalla dell’eroe. «Non ho mai sentito che qualcuno sia sopravvissuto ad una ferita come quella che tu hai descritto, salvo che ai vecchi tempi, naturalmente, quando i chierici viaggiavano ancora per il paese.»

Come tutti gli altri veri chierici, anche i chierici nani erano scomparsi subito prima del Cataclisma.

Però, a differenza delle altre razze su Krynn, i nani non avevano mai abbandonato la loro credenza nell’antico dio, Reorx, il Forgiatore del Mondo. Malgrado i nani fossero rimasti sconvolti perché Reorx aveva causato il Cataclisma, la fede che avevano in lui era troppo radicata, e faceva parte in maniera troppo intrinseca della loro cultura, perché potessero semplicemente ripudiarla a causa di una piccola infrazione da parte del loro dio. Comunque, erano abbastanza incolleriti da non venerarlo più in maniera palese.

«Hai idea di come ciò possa essere accaduto?» chiese Duncan, corrugando la fronte.

«No, thane,» rispose Kharas con voce grave. «Ma mi sono chiesto come mai non avessimo ricevuto una risposta dal generale Caramon.» Rifletté per qualche istante. «Qualcuno ha interrogato quei due prigionieri che abbiamo portato indietro con noi? Potrebbero saper qualcosa.»

«Un kender e uno gnomo?» Duncan sbuffò. «Bah! Cosa possono sapere quei due? Inoltre, non c’è bisogno d’interrogarli. Comunque, non sono particolarmente interessato allo stregone. In realtà il motivo per il quale ti ho chiamato qui per comunicarti questa notizia, Kharas, è quello di insistere che adesso tu ti scordi di questi discorsi di pace e ti concentri sulla guerra.»

«Quei due hanno qualcosa di più della barba, thane,» borbottò Kharas, citando una antica espressione. Era ovvio che non aveva ascoltato una sola parola. «Io credo che dovresti...»

«So quello che pensi,» replicò Duncan cupo. «Apparizioni evocate dallo stregone. E ti dico che è ridicolo! Quale stregone che abbia un minimo di rispetto per se stesso evocherebbe mai un kender? E molto probabile, invece, che siano servitori, o qualcosa del genere. Là dentro era buio e ogni cosa era confusa. L’hai detto tu stesso.»

«Non ne sono sicuro,» disse Kharas con voce sommessa. «Se tu avessi visto la faccia del mago quando li ha guardati! Era la faccia di qualcuno che cammina per le pianure e d’un tratto vede un forziere colmo d’oro e di gioielli ai suoi piedi. Dammi il permesso, thane,» esclamò Kharas, con foga. «Lascia che li porti davanti a te. Parla con loro, è tutto quello che ti chiedo!»

Duncan diede in uno sterminato sospiro, fissando Kharas con aria malinconica.

«Molto bene,» sbottò alla fine. «Immagino che non possa far male. Ma...» Duncan studiò Kharas con sguardo astuto, «... se risulterà che non c’è nulla, mi prometti che lascerai perdere questa tua assurda idea e ti concentrerai sulla guerra? Sarà una lotta dura, figliolo,» aggiunse il re con maggior gentilezza, cogliendo un’espressione di autentico dolore sul volto sbarbato del suo giovane eroe.

«Avremo bisogno di te, Kharas.»

«Sì, thane,» rispose Kharas con voce ferma. «Accetto. Nel caso in cui non risulti nulla.»

Con un burbero cenno del capo, Duncan gridò per chiamare le guardie e uscì dalla casa con passo pesante, seguito più lentamente da Kharas, immerso nei suoi pensieri.

Procedettero attraverso il vasto regno sotterraneo dei nani, serpeggiando lungo le straducole da un lato e poi dall’altro, superarono su una barca il Mare di Urkhan e arrivarono finalmente al primo livello delle segrete. Qui venivano tenuti i prigionieri che avevano compiuto crimini e infrazioni di minore entità: debitori insolventi, un giovane che aveva mancato di rispetto a un anziano, bracconieri, e parecchi ubriachi, i quali smaltivano le gozzoviglie della notte. Qui venivano tenuti anche il kender e lo gnomo.

Per lo meno, vi erano stati tenuti, la sera prima.

«Tutto si riduce,» dichiarò Tasslehoff Burrfoot, mentre le guardie nane lo pungolavano perché andasse avanti, «al fatto di non avere una mappa.»

«Mi pareva che tu avessi detto di essere già stato qui, prima» replicò Gnimsh, in tono irritato.

«Non prima,» lo corresse Tas. «Dopo. O meglio, più tardi: questa sarebbe l’espressione più adatta. Circa duecento anni più tardi, da quanto mi riesce di calcolare. È una storia affascinante, sai. Venni qui con alcuni miei amici. Vediamo... è stato subito dopo che Goldmoon e Riverwind si erano sposati e prima che andassimo a Tharsis. Oppure è stato dopo che siamo andati a Tharsis?» Tas rifletté. «No, non può essere stato così, poiché Tharsis si trovava dove quell’edificio mi crollò addosso, e...»

«Ho­già­sentito­questa­storia,» sbottò Gnimsh.

«Cosa?» Tas ammiccò più volte.

«L’ho già... sentita!» urlò Gnimsh. La sua voce acuta da gnomo echeggiò nella cavità sotterranea, inducendo parecchi passanti a guardarlo con severità. Cupe in volto, le guardie nane sollecitarono i loro prigionieri.

«Oh,» disse Tas, un po’ abbattuto. Ma quasi subito il kender si rallegrò. «Però, il re non l’ha sentita, e ci stanno portando da lui. Probabilmente gli interesserà molto...»

«Hai detto che non avremmo dovuto dir niente sul fatto che veniamo dal futuro,» obiettò Gnimsh con un fragoroso bisbiglio, il lungo grembiule di cuoio che gli sbatteva intorno ai piedi.

«Dovremmo comportarci come se venissimo da qui, non ricordi?»

«Quello è stato quando pensavo che tutto sarebbe andato bene,» replicò Tas con un sospiro. «E tutto stava andando bene. Il congegno ha funzionato, siamo scappati dall’Abisso...»

«Ci hanno lasciati scappare...» gli fece notare Gnimsh.

«Insomma, qualunque cosa sia successa,» disse Tas, irritato da quell’osservazione. «In ogni caso, ne siamo venuti fuori, e questo è tutto ciò che conta. E il congegno magico ha funzionato, proprio come avevi detto tu.» Gnimsh sorrise felice e annuì. «E abbiamo trovato Caramon. Proprio come avevi detto tu, il congegno era cali., cala... qualunque cosa fosse per tornare da lui...»

«Calibrato,» lo interruppe Gnimsh.

«... ma poi,» Tas masticò nervosamente l’estremità della sua ciocca di capelli, «tutto è andato storto, chissà per quale motivo. Raistlin trafitto, forse morto. I nani che ci hanno trascinato via senza darmi neanche la possibilità di dirgli che stavano commettendo un grosso errore...»

Il kender proseguì con passo strascicato, riflettendo profondamente. Alla fine scosse la testa. «Ci ho ripensato, Gnimsh. So che è un atto disperato, al quale di solito non ricorrerei, ma non credo che ci restino altre scelte. La situazione ci è completamente sfuggita di mano.» Tas esalò un sospiro solenne. «Credo che dovremmo dire la verità.»

Gnimsh parve estremamente allarmato da quella drastica azione, talmente allarmato, in realtà, che inciampò sul suo grembiule e cadde lungo disteso per terra. Le guardie, nessuna delle quali parlava il comune, lo tirarono in piedi e trascinarono di peso lo gnomo per tutto il resto del percorso, arrivando finalmente a fermarsi davanti a una grande porta di legno. Qui altre guardie, squadrando lo gnomo e il kender con disgusto, diedero una spinta alla porta aprendola lentamente.

«Oh, sono già stato qui,» disse Tas all’improvviso. «Adesso so dove siamo.»

«E un grande aiuto,» borbottò Gnimsh.

«La Sala delle Udienze,» proseguì Tas. «L’ultima volta che eravamo qui, Tanis si è sentito male. È un elfo, sai. Be’, un mezzelfo, comunque, e odiava vivere sottoterra.» Il kender sospirò di nuovo.

«Vorrei che Tanis fosse qui, adesso. Saprebbe cosa fare. Vorrei che qualcuno di saggio fosse qui adesso.»

Le guardie li spinsero dentro la grande sala. «Per lo meno,» disse Tas a Gnimsh con voce sommessa, «non siamo soli. Per lo meno ci facciamo compagnia.»

«Tasslehoff Burrfoot,» disse il kender, inchinandosi davanti al re dei nani, rivolgendo poi, di nuovo, un inchino a ciascuno dei thane seduti sugli scranni di pietra dietro e a un livello più basso del trono di Duncan. «E questo è...»

Lo gnomo si fece avanti, pieno di zelo: «Gnimshmari...»

«Gnimsh!» tagliò netto Tas a voce alta, calpestando il piede dello gnomo, mentre Gnimsh faceva una sosta per riprender fiato. «Lascia che parli io!» lo rimproverò poi il kender, con un bisbiglio ben udibile.

Accigliandosi, Gnimsh piombò in un silenzio offeso, mentre Tas si guardava intorno con espressione vivace.

«Caspita, non è che abbiate progettato molto in quanto a rinnovamenti nei prossimi duecento anni, non è vero? L’aspetto sarà pressappoco lo stesso. Soltanto... mi sembra di ricordare quella fessura laggiù... no, dall’altra parte. Sì, quella. Diverrà parecchio più grande in futuro. Potreste voler...»

«Da dove vieni, kender?» interruppe severo Duncan.

«Da Solace,» disse Tas, ricordando che stava dicendo la verità. «Oh, non preoccuparti se non ne hai mai sentito parlare. Non esiste ancora. Non ne avevano sentito parlare neppure a Istar, ma questo non aveva molta importanza dal momento che a loro interessava soltanto quello che si trovava a Istar, voglio dire. Solace si trova a nord di Haven, anche quella non c’è ancora, ma ci sarà prima di Solace... se capisci quello che voglio dire.»

Duncan, sporgendosi in avanti, squadrò Tas con espressione inferocita da sotto le folte sopracciglia. Un sintomo indubbiamente allarmante. «Stai mentendo,» l’accusò.

«Niente affatto!» esclamò Tas, indignato. «Siamo arrivati qui usando un congegno magico che avevo preso a prestito, in un certo qual senso, da un amico. Funzionava bene quando l’avevo, ma poi, accidentalmente, l’ho rotto. Oh, in realtà non è stata colpa mia. Ma quella è un’altra storia. In ogni caso, sono sopravvissuto al Cataclisma, e sono finito nell’Abisso. Non un bel posto. Comunque, nell’Abisso ho incontrato Gnimsh, e lui l’ha riparato. Il congegno, voglio dire, non l’Abisso. È davvero un tipo meraviglioso,» proseguì Tas in tono confidenziale, battendo la mano sulla spalla di Gnimsh. «È proprio uno gnomo, ma le sue invenzioni funzionano.»

«E così, tu vieni dall’Abisso!» esclamò Kharas in tono severo. «Tu l’ammetti! Apparizioni dai Regni delle Tenebre! Lo stregone dalle Vesti Nere ti ha evocato, e tu sei arrivato a un suo ordine.»

Quella stupefacente accusa fece restare il kender senza parole.

«Co... co... » farfugliò Tas per parecchi istanti, poi ritrovò la propria voce. «Non sono mai stato così insultato in vita mia! Salvo, forse, quando quella guardia a Istar si è riferita a me chiamandomi un... un taglia... tagliabor... be’, non importa. Per non parlare del fatto che, se Raistlin avesse voluto evocare qualcosa, non credo proprio che saremmo stati noi. Il che mi fa ricordare una cosa!» Tas fissò Kharas con espressione altrettanto severa e furente. «Perché l’hai ucciso in quel modo? Voglio dire, forse non era quella che si può definire una persona davvero simpatica. E forse ha cercato di uccidermi facendomi rompere il congegno magico per poi abbandonarmi a Istar, sulla quale gli dei hanno scagliato una montagna di luce. Ma,» Tas se ne uscì in un sospiro nostalgico, «era di sicuro una delle persone più interessanti che io abbia mai incontrato.»

«Il tuo stregone non è morto, e tu lo sai benissimo, apparizione!» ringhiò Duncan.

«Ascolta, io non sono una appari... Non è morto?» Il volto di Tas s’illuminò. «È proprio vero? Perfino dopo che è stato trafitto in quel modo e con tutto quel sangue e il resto e... Oh! So com’è successo! Crysania! Certo! Dama Crysania!»

«Ah, la strega!» disse Kharas con voce sommessa, quasi parlando fra sé, mentre un alto brusio si levava dai thane.

«Be’, talvolta è fredda e impersonale,» dichiarò Tas, scosso da quelle parole, «ma non credo proprio che questo ti dia il diritto d’insultarla! E un chierico di Paladine, in fin dei conti.»

«Chierico!» I thane cominciarono a ridere.

«Ecco la tua risposta,» disse Duncan a Kharas, ignorando il kender. «Stregonerie.»

«Hai ragione, naturalmente, thane,» replicò Kharas, accigliandosi, «ma...»

«Ascoltate,» li implorò Tas. «Se soltanto mi lasciaste andar via! Continuo a cercare di dirlo, a voi nani. Questo è tutto un terribile errore! Devo andare da Caramon!»

Questo provocò una reazione. I thane si azzittirono immediatamente.

«Tu conosci il generale Caramon?» chiese Kharas, dubbioso.

«Generale?» ripetè Tas. «Caspita! Tanis sarà proprio sorpreso di sentirlo! Generale Caramon? Tika si metterebbe a ridere... Uh, ma certo che conosco Cara... Il generale Caramon,» si affrettò a continuare Tas, vedendo che le sopracciglia di Duncan s’intrecciavano di nuovo. «È il mio migliore amico. E se soltanto ascoltaste quello che sto cercando di dirvi, Gnimsh ed io siamo arrivati qui con il congegno magico per cercare Caramon e riportarlo a casa. Lui non vuole trovarsi qui, ne sono sicuro. Capite, Gnimsh ha riparato il congegno, così adesso può trasportare più di una persona...»

«Riportarlo a casa, dove?» ringhiò Duncan. «L’Abisso? Forse lo stregone ha evocato anche lui?»

«No!» sbottò Tas, cominciando a perdere la pazienza. «Riportarlo a casa a Solace, naturalmente. E anche Raistlin, se vorrà venire. In effetti, non riesco a immaginare cosa stiano facendo qui. Raistlin non poteva sopportare Thorbardin, l’ultima volta che siamo stati qui, il che avverrà fra circa duecento anni. Ha passato tutto il tempo a tossire e a lamentarsi per l’umidità. Flint diceva... Flint Fireforge, vale a dire un mio vecchio amico...»

«Fireforge?» Duncan balzò letteralmente fuori dal trono, fissando il kender con furore. «Sei un amico di Fireforge?».

«Be’, non c’è bisogno che tu te la prenda tanto,» disse Tas, un po’ sorpreso. «Flint aveva i suoi difetti, naturalmente, sempre a brontolare e ad accusare la gente di rubargli qualcosa, quando avevo davvero l’intenzione di rimettere quel braccialetto proprio dove l’avevo trovato, ma questo non significa che tu...»

«Fireforge,» dichiarò Duncan, con voce cupa, «è il capo dei nostri nemici. Oppure non lo sapevi?»

«No,» rispose Tas, mostrando interesse, «non lo sapevo. Oh, ma sono sicuro che non poteva essere lo stesso Fireforge!» aggiunse, dopo averci riflettuto un po’. «Flint non nascerà per almeno altri cinquant’anni. Forse è suo padre. Raistlin dice...»

«Raistlin? Chi è questo Raistlin?» volle sapere Duncan.

Tasslehoff gratificò il nano di uno sguardo severo. «Tu non mi ascolti. Raistlin è lo stregone, quello che avete ucciso... Cioè, quello che non avete ucciso. Quello che pensavate di aver ucciso ma non avete ucciso.»

«Il suo nome non è Raistlin. È Fistandantilus!» sbuffò Duncan. Poi, sempre più cupo, il re dei nani tornò a sedersi. «Così,» disse, fissando il kender da sotto le sue sopracciglia cespugliose, «tu hai in mente di riportare questo stregone, che è stato guarito da un chierico, quando non ci sono chierici in questo mondo, e un generale che, a quanto tu sostieni, è il tuo migliore amico, in un posto che non esiste per incontrare il nostro nemico che non è ancora nato, usando un congegno fabbricato da uno gnomo e che, a quanto pare, funziona davvero?»

«Esatto!» gridò Tas, trionfante. «Visto quanto puoi imparare ascoltando come si deve?» Gnimsh annuì enfaticamente.

«Guardie! Portateli via!» urlò Duncan. Girando sui tacchi, fissò Kharas con freddezza. «Mi hai dato la tua parola. Mi aspetto di vederti nella Sala del Consiglio di Guerra fra dieci minuti.»

«Ma, thane, se davvero conosce il generale Caramon...»

«Basta così!» Duncan era furente. «La guerra è alle porte, Kharas. Tutto il tuo senso dell’onore e tutte le tue nobili chiacchiere non possono fermarla! E tu ti troverai là fuori sul campo di battaglia, altrimenti puoi prendere la tua faccia che svergogna tutti e nasconderti nelle segrete insieme agli altri che hanno tradito il nostro popolo... i Dewar! Cosa scegli?»

«Naturalmente ti servirò, thane,» disse Kharas, il volto rigido. «Ho impegnato la mia vita.»

«Vedi di ricordartelo!» sbottò Duncan. «E per impedire che i tuoi pensieri vaghino altrove, ti ordino di rimanere confinato nei tuoi alloggi salvo che per partecipare alle riunioni del Consiglio di Guerra e che, inoltre, questi due,» indicò con un gesto Tas e Gnimsh, «vengano imprigionati e il luogo della loro detenzione rimanga segreto fino a quando la guerra non sarà finita. La morte cada sulla testa di chiunque violi questo ordine.»

I thane si guardarono l’un l’altro confermando la loro approvazione, anche se uno di loro borbottò che era troppo tardi. Le guardie afferrarono Gnimsh e Tas, ma il kender continuò a protestare energicamente mentre lo portavano via.

«Vi ho detto la verità!» gemeva. «Dovete credermi! So che sembra strano ma, vedete, non... non sono molto abituato a... uh... a dire la verità! Ma datemi un po’ di tempo. Sono sicuro che un giorno imparerò...»

Tasslehoff non avrebbe mai creduto che fosse possibile scendere così in basso sotto la superficie del mondo, mentre le guardie li conducevano via, se i suoi piedi non avessero fatto tutta quella strada. Ricordava che una volta Flint gli aveva detto che Reorx viveva là sotto, intento a forgiare il mondo con il suo grande martello.

«Dev’essere proprio un tipo allegro e simpatico,» borbottò Tas, tremando per il freddo al punto che i denti cominciarono a battergli. «Per lo meno, si potrebbe pensare che, se Reorx se ne stesse quaggiù a forgiare il mondo, farebbe senz’altro un po’ più caldo.»

«Vattia­fidare­dei­nani,» mugugnò Gnimsh.

«Cosa?» A Tas pareva di aver passato l’ultima metà della sua vita cominciando ogni frase rivolta allo gnomo con “cosa?”.

«Ho detto, vatti a fidare dei nani!» ripetè Gnimsh ad alta voce. «Invece di costruire le loro case dentro vulcani attivi che, malgrado siano un po’ instabili, forniscono un’eccellente fonte di calore, le hanno costruite dentro le antiche montagne morte.» Scosse la testa dagli esili ciuffi. «È difficile credere che siamo cugini.»

Tas non replicò, preoccupato com’era da altre faccende, per esempio come fare a tirarsi fuori da quella situazione, e dove andare, se fossero riusciti a farlo, e quando c’era probabilità che servissero la cena? Visto che, a quanto pareva, non c’era nessuna risposta immediata a questi quesiti (compreso quello della cena) il kender cadde in un cupo silenzio.

Oh, vi fu un momento davvero eccitante, quando vennero calati giù lungo una stretta galleria di roccia che era stata scavata dritta in verticale dentro la montagna. Il congegno che utilizzavano per calare la gente dentro quel pozzo veniva chiamato “ascensore” dagli gnomi, stando a quanto precisò Gnimsh. («“Ascensore” non è un nome inadatto, dal momento che stiamo andando giù?» gli fece notare Tas, ma lo gnomo l’ignorò.)

Visto che nessuna soluzione al suo problema sembrava imminente, Tas decise di non sprecare il suo tempo in quel luogo così interessante facendo l’imbronciato. Perciò, si godette completamente il tragitto in ascensore, anche se era piuttosto disagevole in certi punti, quando quel traballante congegno di legno, fatto funzionare da nani muscolosi che tiravano lunghissime corde, sbatteva contro i lati della galleria di roccia mentre veniva calato, sbatacchiando qua e là gli stessi occupanti e infliggendo agli stessi numerosi tagli e ammaccature.

Questo si rivelò altamente divertente, specialmente quando le guardie nane che accompagnavano Tas e Gnimsh scuotevano i pugni imprecando bellamente in nanesco contro gli operatori sopra di loro.

In quanto allo gnomo Gnimsh, era piombato in uno stato di eccitazione impossibile a credersi.

Raccogliendo un mozzicone di carboncino e prendendo a prestito uno dei fazzoletti di Tas, si accucciò sul pavimento dell’ascensore e cominciò subito a disegnare il progetto di un Nuovo Ascensore Migliorato.

«Carrucola­cavo­e­vapore,» farfugliò velocemente fra sé, tutto felice, impegnandosi tutto ad abbozzare quella che a Tas parve una gigantesca trappola per aragoste su ruote. «Sugiù sugiù. Che­piano? Un­passo­indietro. Capacità: trentadue. Inceppato? Segnal­dallarme! Sireneccorni!»

Quando finalmente raggiunsero il piano terra, Tas cercò di osservare con attenzione per vedere la direzione che stavano prendendo (così da potersene andare, anche se non avevano una mappa), ma Gnimsh si teneva aggrappato a lui, indicando il suo schizzo e spiegandoglielo nei particolari.

«Sì, Gnimsh. Davvero interessante,» diceva ogni tanto Tas, ascoltando soltanto per metà quello che lo gnomo gli diceva mentre il suo cuore sprofondava sempre più in basso del punto in cui si trovavano. «Un pifferaio in un angolo che suona una musica tranquillizzante? Sì, Gnimsh, è un’idea magnifica.»

Guardandosi intorno, mentre le loro guardie li pungolavano per farli avanzare, Tas sospirò. Non soltanto quel posto aveva un aspetto noioso almeno quanto l’Abisso, ma possedeva lo svantaggio supplementare di puzzare ancora di più. Disposte in file successive, delle rudimentali celle coprivano le pareti rocciose. Illuminate da torce che fumavano nell’aria fetida e rarefatta, le celle brulicavano di nani fino a scoppiare.

Tas fissò quelle celle con crescente perplessità, mentre proseguivano lungo la stretta corsia che correva fra i blocchi. Quei nani non avevano l’aspetto di criminali. C’erano maschi, femmine, perfino bambini, ammassati dentro le celle. Rannicchiati su sudice coperte, ammucchiati su scassati sgabelli, guardavano tristemente da dietro le sbarre.

«Ehi!» esclamò Tas, tirando la manica di una guardia. Il kender masticava un po’ il nanesco, avendone imparato i rudimenti da Flint. «Cos’è tutto questo?» chiese, agitando una mano. «Perché mai tutta questa gente si trova qui?» (Per lo meno, fu quello che sperò di aver detto. C’era senz’altro la forte possibilità che, in realtà, avesse chiesto involontariamente la strada per arrivare alla più vicina birreria.)

Ma la guardia si girò a guardarlo furente, limitandosi a dire: «Dewar.».

Capitolo undicesimo.

«Dewar?» ripetè Tas senza capire. La guardia, però, si rifiutò di elaborare la sua risposta e dette al kender un brutale spintone incitandolo ad andare avanti. Tas incespicò, poi riprese a camminare, guardandosi intorno, cercando di afferrare quello che stava accadendo. Gnimsh, nel frattempo, in apparenza colto da un altro attacco d’ispirazione, continuava a parlare di “idraulica”.

Tas rifletté. Dewar, pensò, cercando di ricordare dove aveva sentito quella parola. D’un tratto, la risposta gli venne in mente.

«I nani scuri!» esclamò. «Ma certo! Me ne ricordo! Hanno combattuto per il Signore dei Draghi. Ma l’ultima volta non vivevano qui, o suppongo che sarà la prossima volta, quando siamo venuti qui. O verremo qui. Maledizione, che grande pasticcio. Però, certamente non vivono nelle celle delle prigioni. Ehi,» Tas batté di nuovo la mano sulla spalla del nano, «che cosa hanno fatto? Voglio dire... per essere stati buttati in prigione?»

«Traditori!» sbottò il nano. Raggiunta una cella all’estremità della corsia, tirò fuori una chiave, la infilò nella serratura, e spalancò la porta.

Sbirciando all’interno, Tas vide all’incirca venti o trenta Dewar ammucchiati dentro la cella. Alcuni giacevano sul pavimento immersi nel letargo, altri dormivano seduti contro le pareti. Un gruppo, rannicchiati insieme in un angolo, stava parlando a bassa voce, all’arrivo della guardia. Smisero subito non appena la porta della cella si aprì. Non c’erano né donne né bambini in quella cella, soltanto maschi; e fissarono Tas, lo gnomo e la guardia con occhi cupi, carichi di odio.

Tas afferrò Gnimsh proprio mentre lo gnomo, sempre farfugliando di gente rimasta bloccata fra un piano e l’altro, stava per entrare distrattamente nella cella.

«Bene, bene,» disse Tas, rivolto alla guardia nana mentre trascinava indietro Gnimsh, facendolo fermare accanto a sé, «questo giro è stato molto... ehm... divertente. Adesso, se volete riportarci nelle nostre celle, che erano, devo dirlo, molto carine, così luminose, arieggiate e spaziose, credo di potervi assicurare che il mio compagno ed io non intraprenderemo nessuna escursione non autorizzata nella vostra città, anche se è un posto estremamente interessante, e mi piacerebbe visitarla un po’ di più. Io...»

Ma il nano, con una mano, spinse brutalmente il kender facendolo finire lungo disteso dentro la cella.

«Vorrei proprio che ti decidessi,» sbottò Gnimsh con irritazione, rivolto a Tas, mentre a sua volta incespicava dentro la cella. «Dentro o fuori?»

«Dentro, immagino,» replicò Tas, tutto mesto, rizzandosi a sedere e guardando i Dewar, i quali a loro volta lo fissavano in silenzio. Udì i tonfi dei pesanti stivali delle guardie che si stavano allontanando lungo il corridoio, accompagnati dalle urla oscene e dalle minacce dei prigionieri delle celle tutt’intorno.

«Ehi,» disse Tas, sorridendo in maniera amichevole, ma senza offrirsi di stringere la mano. «Sono Tasslehoff Burrfoot, e questo è il mio amico Gnimsh, e adesso, a quanto pare, saremo compagni di cella, no? Perciò, come vi chiamate? Ehm, ehi, dico, non è molto carino...»

Tas si drizzò in tutta la sua altezza, fissando con furore e severità uno dei Dewar che si era alzato in piedi e si stava avvicinando a loro. Era un nano piuttosto alto, con la faccia quasi invisibile sotto una folta massa di capelli e una barba aggrovigliata e impiastricciata. D’un tratto il nano sogghignò.

Vi fu un balenare di acciaio e un grosso coltello comparve nella sua mano. Avanzando con passo strascicato, puntò sul kender, il quale si ritirò in un angolo, il più lontano possibile, trascinando Gnimsh con sé.

«Chièquestagente?» squittì Gnimsh, allarmato, essendosi finalmente accorto dello squallore dell’ambiente in cui si trovavano.

Prima che potesse rispondere, il Dewar aveva afferrato il kender per il collo puntandogli il coltello alla gola.

È fatta! pensò Tas con rincrescimento. Questa volta sono morto di sicuro. Flint si farà una bella risata!

Ma il coltello del nano scuro passò a pochi pollici di distanza dal volto di Tas. Raggiunta la spalla, il nano scuro tagliò con mano esperta le cinghie delle borse di Tas, facendole ruzzolare sul pavimento unitamente al loro contenuto.

Immediatamente nella cella esplose il caos quando i Dewar si lanciarono su di esse. Il nano con il coltello ne afferrò, quante più poteva, vibrando fendenti e ceffoni contro i suoi stessi compagni, nel tentativo di tenerli a distanza. Tutto scomparve nel giro di pochi istanti.

Stringendo gli averi del kender, i Dewar si sedettero subito sul pavimento e cominciarono a frugarvi in mezzo. Il nano scuro con il coltello era riuscito a garantirsi il bottino più ricco.

Stringendo le borse al petto, tornò in fondo alla cella dove lui e i suoi amici cominciarono subito a scuoterne fuori il contenuto.

Dando in un rantolo di sollievo, Tas si lasciò cadere sul freddo pavimento di pietra. Ma nondimeno fu un sospiro di sollievo preoccupato, poiché Tas calcolò che, non appena le sue borse avessero perso la loro attrattiva, i Dewar avrebbero avuto la brillante idea di perquisire loro come prossima mossa.

«E sarà assai più facile perquisirci se saremo dei cadaveri,» borbottò fra sé. Però, questo lo condusse a un improvviso pensiero.

«Gnimsh!» bisbigliò con urgenza. «Il congegno magico! Dov’è?» Gnimsh, sbattendo le palpebre, batté la mano su una tasca del suo grembiule di cuoio e scosse la testa. Battendo la mano su un’altra tasca, tirò fuori una squadra e un carboncino. Li esaminò con attenzione per un momento poi, vedendo che nessuno dei due era il congegno magico, se li ricacciò in tasca. Tas stava considerando seriamente la possibilità di strozzarlo quando, con un sorriso di trionfo, lo gnomo affondò la mano in uno degli stivali e tirò fuori il congegno magico.

L’ultima volta che erano stati incarcerati, Gnimsh era riuscito a far collassare di nuovo il congegno.

Adesso, questo, aveva ripreso le dimensioni e la forma d’un comunissimo, anonimo ciondolo, invece del bellissimo e complicato scettro al quale assomigliava quand’era completamente esteso.

«Tienilo nascosto!» lo ammonì Tas. Lanciando un’occhiata ai Dewar, vide che erano impegnati a disputarsi quello che avevano trovato nelle sue borse. «Gnimsh,» bisbigliò Tas, «questo affare ha funzionato per farci uscire dall’Abisso, e hai detto che era cali... calo... caliqualcosa per andare dritti da Caramon, dal momento che Par-Salian l’aveva dato a lui. Ora, io non voglio che ci porti di nuovo da qualche parte nel tempo, ma credo che potrebbe funzionare per, diciamo, un saltino, no? Se Caramon è il generale di quell’esercito, non può essere lontano da qui.»

«E una grande idea!» Gnimsh cominciò a illuminarsi. «Solo un momento, fammi pensare...»

Ma era troppo tardi. Tas sentì qualcuno toccargli la spalla. Sentendo il cuore che gli balzava in gola, il kender si girò di scatto con quella che sperò fosse la Truce Espressione dell’Assassino Incallito sulla sua faccia. A quanto pareva, lo era, poiché il Dewar che l’aveva toccato arretrò incespicando in preda al terrore, sollevando rapidamente le mani per proteggersi.

Notando che si trattava di un nano piuttosto giovane, con un’espressione di quasi sano di mente nello sguardo, Tasslehoff sospirò e si rilassò, mentre il Dewar, constatando che il kender non l’avrebbe divorato vivo, smise di tremare e lo guardò speranzoso.

«Cosa c’è?» gli chiese Tas in nanesco. «Cosa vuoi?»

«Vieni. Vieni.» Il Dewar lo chiamò con un gesto. Poi, vedendo che Tas si accigliava, gli indicò qualcosa, poi l’invitò un’altra volta con la mano ad avvicinarsi, arretrando sempre più nella cella.

Tas si alzò cautamente in piedi. «Rimani qui, Gnimsh,» disse. Ma lo gnomo non lo stava ascoltando. Borbottando felice tra sé, Gnimsh era impegnato a torcere e a ruotare vari; minuscoli componenti del congegno.

Incuriosito, Tas seguì con circospezione il Dewar. Forse quel tipo aveva scoperto una via d’uscita.

Forse aveva scavato una galleria...

Il Dewar, continuando ad agitare una mano, fece avanzare il kender fino al centro della cella. Qui si fermò e gli indicò qualcosa.

«Aiuto?» disse, speranzoso.

Tas, abbassando lo sguardo, non vide nessuna galleria. Vide un Dewar disteso su una coperta. Il volto del nano era madido di sudore, i capelli e la barba erano zuppi. Aveva gli occhi chiusi e il corpo sussultava e si contorceva spasmodicamente. A quella vista, Tas cominciò a rabbrividire.

Lanciò un’occhiata intorno a sé. Poi, riportando lo sguardo sul giovane Dewar, scosse rincresciuto la testa.

«No,» disse con gentilezza. «Mi spiace. Non c’è... niente che io possa fare. Mi... mi spiace.»

Scrollò le spalle, impotente.

Il Dewar parve capire, poiché si accoccolò accanto al nano malato, chinando sconsolato la testa.

Tas tornò con cautela là dove Gnimsh se ne stava seduto, sentendosi tutto intorpidito dentro.

Lasciandosi cadere in un angolo, fissò la cella buia, vedendo e sentendo ciò che avrebbe dovuto vedere e sentire subito: le grida di dolore incoerenti, inconsulte, dissennate, voci disperate che chiedevano acqua e, qua e là, lo spaventoso silenzio di coloro che giacevano immobili, così totalmente, ineluttabilmente immobili...

«Gnimsh,» disse Tas a bassa voce, «questi nani sono malati. Davvero malati. L’ho visto accadere nei giorni che verranno. Questi nani hanno la peste.»

Gnimsh spalancò gli occhi. Lasciò quasi cadere il congegno magico.

«Gnimsh,» disse ancora Tas, cercando di parlare con calma, «dobbiamo andarcene da qui il più presto possibile! Da come la vedo io, le uniche scelte che abbiamo quaggiù è morire accoltellati, il che, per quanto indubbiamente interessante, ha i suoi svantaggi, oppure morire di peste, lentamente e con molta noia.»

«Credo che funzionerà,» dichiarò Gnimsh, fissando con occhio dubbioso il congegno magico.

«Naturalmente, potrebbe riportarci dritti nell’Abisso...»

«Non è un brutto posto, a dire il vero,» ribadì Tas, alzandosi in piedi e aiutando Gnimsh a fare altrettanto. «Ci vuole un po’ ad abituarcisi, e immagino che non saranno contenti di rivederci, ma credo che valga decisamente la pena di tentare.»

«Molto bene, lascia che faccia un aggiustamento...»

«Non toccarlo!»

Quella voce familiare era uscita dalle ombre ed era stata così severa e imperiosa che Gnimsh s’immobilizzò di colpo, stringendo il congegno nella mano.

«Raistlin!» gridò Tas, guardandosi intorno come impazzito. «Raistlin! Siamo qui! Siamo qui!»

«So dove sei,» replicò l’arcimago, gelido, materializzandosi dall’aria fumosa ed ergendosi davanti a loro nella cella.

La sua improvvisa comparsa causò rantoli, urla e grida da parte dei Dewar. Il nano scuro all’angolo, armato di coltello, balzò in piedi con movimenti serpentini e si lanciò in avanti. «Raistlin, stai at...» strillò Tas.

Raistlin si voltò. Non parlò. Non alzò la mano. Si limitò a fissare il nano scuro, il volto del Dewar divenne cinereo. Lasciando cadere il coltello dalle dita inerti, arretrò e cercò di nascondersi in mezzo alle ombre. Prima di voltarsi di nuovo verso il kender, Raistlin lanciò un’occhiata circolare alla cella. Il silenzio calò all’istante. Perfino i nani in preda al delirio tacquero.

Soddisfatto, Raistlin rivolse nuovamente la sua attenzione al kender. «...tento,» terminò Tas, poco convinto. Poi, il volto del kender s’illuminò. Batté le mani. «Oh, Raistlin! È così bello rivederti! E scoppi proprio di salute, per giunta, specialmente dopo aver avuto una... ehm... una spada piantata in... uh... Be’, lasciamo perdere. E sei venuto a salvarci, non è vero? E splendido! Io...»

«Basta con le ciance!» esclamò Raistlin sempre più gelido. Allungando una mano, afferrò Tas e lo tirò a sé con uno strattone. «Adesso, dimmi... da dove sei venuto?»

Tas balbettò, fissando Raistlin negli occhi: «Non... non sono sicuro che ci crederai. Nessun altro ci crede. Ma è la verità, lo giuro!»

«Dimmelo e basta!» ringhiò Raistlin e la sua mano torse con destrezza il colletto di Tasslehoff.

«Bene!» deglutì Tas, dimenandosi. «Uh, ricordati, serve a qualcosa se mi lasci respirare di tanto in tanto. Ora, vediamo. Ho cercato di fermare il Cataclisma, e il congegno si è rotto. Sono... sono sicuro che non era nelle tue intenzioni,» tartagliò il kender, «ma tu, uhm, sembra che mi abbia dato le istruzioni sbagliate...»

«L’ho fatto. Ne avevo l’intenzione,» dichiarò Raistlin, truce. «Continua.»

«Mi piacerebbe... sì. Ma è... difficile parlare senz’aria...»

Raistlin allentò leggermente la presa sul kender. Tas tirò un profondo respiro. «Bene! Dov’ero rimasto? Oh, sì. Ho seguito Dama Crysania giù, giù, fino alla parte più profonda del Tempio, a Istar, quando stava crollando, sai? E l’ho vista entrare in quella stanza, e sapevo che doveva essere venuta a trovarti, perché ha detto il tuo nome, e speravo che tu riparassi il congegno...»

«Spicciati!»

«B... bene.» Accelerando quanto più possibile, la loquela di Tas divenne quasi incomprensibile. «E poi c’è stato un tonfo alle mie spalle ed era Caramon, solo che non mi ha visto, e tutto è diventato buio, e quando mi sono svegliato tu non c’eri più, e ho sollevato gli occhi in tempo per vedere gli dei che scagliavano la montagna di fuoco...» Tas tirò un respiro. «Ora, quello sì che è stato uno spettacolo. Vuoi che te lo racconti... No? Be’... un’altra volta.

«Cre... credo di essermi addormentato di nuovo, poiché quando mi sono svegliato tutto era silenzio. Ho pensato di essere morto, soltanto non lo ero. Ero nell’Abisso, dove il Tempio è finito dopo il Cataclisma.»

«L’Abisso!» alitò Raistlin. La mano gli tremava.

«Non un bel posto,» dichiarò Tas, solennemente. «Malgrado quello che ho detto in precedenza. Ho incontrato la Regina...» il kender rabbrividì. «Non... non credo di volerne parlare, adesso, se non ti dispiace.»

Tese una mano tremante. «Ma qui c’è il suo marchio, questi cinque piccoli puntini bianchi... comunque ha detto che dovevo rimanere laggiù per sempre, pò... poiché adesso poteva cambiare la storia e vincere la guerra. Ed io non avevo questa intenzione.» Tas fissò Raistlin con espressione implorante. «Volevo soltanto aiutare Caramon. Ma poi, mentre ero giù nell’Abisso, ho trovato Gnimsh...»

«Lo gnomo,» disse Raistlin, con voce sommessa, gli occhi puntati su Gnimsh, il quale stava fissando stupefatto il fruitore di magia, non osando muoversi.

«Sì.» Tas girò la testa per sorridere al suo amico. «Ha messo su un congegno per viaggiare nel tempo che... funzionava sul serio, pensa! E, uùsh!, eccoci qui!»

«Sei fuggito dall’Abisso?» Raistlin puntò sul kender il suo sguardo simile a uno specchio.

Tas si contorse a disagio. Quegli ultimi momenti continuavano ad ossessionare i suoi sogni durante la notte, ed era raro che i kender sognassero.

«Uh, sicuro,» rispose, sorridendo all’arcimago in quella che sperò fosse una maniera disarmante.

Ma, in apparenza, il tentativo andò sprecato. Raistlin, preoccupato, stava contemplando lo gnomo con un’espressione che d’un tratto raggelò Tas dalla testa ai piedi.

«Hai detto che il congegno si è rotto?» chiese Raistlin con voce sommessa.

«Sì.» Tas deglutì. Sentendo che la morsa di Raistlin si allentava e vedendo il mago smarrito nei propri pensieri, Tas si agitò leggermente, cercando di liberarsi completamente dalla stretta del mago. Con sua sorpresa, Raistlin lo lasciò andare, mollandolo così all’improvviso che Tas quasi ruzzolò all’indietro.

«Il congegno era rotto,» mormorò Raistlin. All’improvviso fissò Tas con grande attenzione.

«Allora... chi l’ha riparato?» La voce dell’arcimago era poco più di un sussurro.

Scostandosi da Raistlin, Tas cercò di guadagnare tempo. «Spe... spero che i maghi non si arrabbieranno. In effetti, non è che Gnimsh l’abbia riparato. Lo dirai a Par-Salian, non è vero, Raistlin? Non vorrei finire nei guai, be’, in più guai con lui di quanti ne abbia già. Noi non abbiamo fatto niente con il congegno, no davvero. Gnimsh l’ha soltanto... uh... rimesso insieme, si potrebbe dire, com’era prima, e così ha funzionato.»

«Lo ha rimontato?» insisté Raistlin, con quella stessa, strana espressione negli occhi.

«S... sì.» Con un sorriso forzato, Tas arretrò di qualche passo per dare una gomitata a Gnimsh nelle costole, proprio mentre lo gnomo apriva la bocca per parlare. «Ri... montato. È proprio la parola giusta. Rimontato.»

«Ma Tas...» cominciò a dire Gnimsh ad alta voce. «Non ricordi quello che è successo? Io...»

«Chiudi il becco!» sibilò Tas. «E lascia parlare me. Siamo già in un sacco di guai! Ai maghi non piace che si facciano pasticci con i loro congegni, anche se tu l’hai migliorato! Sono sicuro che riuscirò a farlo capire a Par-Salian, quando lo vedrò. Indubbiamente sarà contento che tu l’abbia aggiustato. Dopotutto, dev’essere stato piuttosto fastidioso per loro avere un congegno che trasportava una sola persona per volta... e tutto il resto. Sono sicuro che Par-Salian la vedrà in questo modo, ma preferisco essere io quello che glielo dirà, se capisci quello che intendo. Raistlin è un po’... be’, nervoso per queste cose. Non credo che capirebbe e, credimi,» lanciò un’occhiata al mago e deglutì, «questo non è il momento per cercare di spiegarglielo.»

Gnimsh, lanciando un’occhiata dubbiosa a Raistlin, rabbrividì e si strinse addosso a Tas.

«Mi sta guardando come se avesse intenzione di rivoltarmi come un guanto!» borbottò lo gnomo, innervosito.

«Guarda sempre tutti in quel modo,» gli bisbigliò Tas in risposta. «Ti ci abituerai.»

Nessuno parlò. Nella cella affollata, uno dei nani malati gemette e gridò in preda al delirio. Tas lanciò un’occhiata inquieta nella sua direzione, poi guardò Raistlin. Il fruitore di magia stava di nuovo fissando lo gnomo, con quella strana espressione cupa e preoccupata sul volto pallido.

«Uh, è proprio tutto quello che posso dirti, adesso, Raistlin,» disse Tas ad alta voce, lanciando un’altra occhiata nervosa ai nani malati. «Adesso, possiamo andarcene? Ci porterai via da qui come facevi a Istar? Era molto divertente e...»

«Dammi il congegno.» Raistlin tese la mano.

Per qualche ragione, forse era quell’espressione negli occhi del mago, o forse era invece il freddo umido delle segrete, là nel sottosuolo, Tas cominciò a rabbrividire. Gnimsh, stringendo in mano il congegno, guardò Tas con una muta domanda.

«Uhm, ti dispiacerebbe se lo tenessimo ancora per un po’?» cominciò a dire Tas. «Non lo perderò...»

«Dammi il congegno,» ripeté Raistlin, a bassa voce.

Tas deglutì di nuovo. Aveva uno strano sapore in bocca. «Farai... farai meglio a darglielo, Gnimsh.»

Lo gnomo, sbattendo le palpebre come stordito, e cercando ovviamente di capire cosa stava accadendo, si limitò a fissare Tas, più che mai perplesso.

«Va... va bene,» annuì Tas, cercando di sorridere, malgrado il suo volto si fosse improvvisamente irrigidito. «Raist... Raistlin è un mio amico, capisci. Lo terrà al sicuro...»

Scrollando le spalle, Gnimsh si girò e, avanzando strascicando i piedi, porse il congegno tenendolo sul palmo della mano. Il ciondolo pareva insignificante e privo d’interesse alla fioca luce della torcia. Tendendo a sua volta la mano, Raistlin prese il congegno, lentamente e con cautela. Lo studiò da vicino, poi lo fece scivolare dentro una delle tasche segrete delle sue vesti nere.

«Vieni qui da me, Tas,» disse Raistlin, gentilmente, facendogli segno con la mano.

Gnimsh era ancora immobile davanti a Raistlin, fissando sconsolato la tasca dentro la quale il congegno era scomparso. Afferrando lo gnomo per le cinghie del suo grembiulone di cuoio, Tas trascinò Gnimsh lontano dal mago. Poi, stringendogli la mano, sollevò lo sguardo.

«Siamo pronti, Raistlin,» disse raggiante. «Portaci via di qui in un lampo! Caspita, Caramon sarà proprio sorpreso...»

«Ho detto... vieni qui, Tas,» ripeté Raistlin, con quella sua voce sommessa, priva d’espressione. I suoi occhi erano puntati sullo gnomo.

«Oh, Raistlin, non avrai l’intenzione di lasciarlo qui, non è vero?» gemette Tas. Lasciando cadere la mano di Gnimsh, fece un passo avanti. «Poiché, se lo farai, io preferisco rimanere. Voglio dire, lui non riuscirà mai a tirarsi fuori da questo pasticcio da solo. E ha questa magnifica idea per un ascensore meccanico...»

La mano di Raistlin guizzò fuori come un serpente e afferrò Tas per il braccio, tirandolo accanto a sé con uno strattone. «No, non lo lascerò qua, Tas.»

«Visto? Ci trasporterà da Caramon in un lampo. La magia è un gran divertimento,» cominciò a dire Tas, torcendosi per guardare Gnimsh e cercando di sorridere, malgrado che le forti dita del mago gli stessero causando un dolore orribile. Ma alla vista della faccia di Gnimsh, il sorriso di Tas sparì.

Fece per tornare indietro dal suo amico, ma Raistlin lo tenne saldo.

Lo gnomo era rimasto tutto solo, con un’espressione confusa e patetica, sempre stringendo nella mano il fazzoletto di Tas.

Tas tornò a contorcersi. «Oh, Gnimsh, per favore. Andrà tutto bene. Te l’ho detto. Raistlin è amico mi...»

Alzando una mano e tenendo con l’altra Tas stretto per il colletto, l’arcimago puntò un dito contro lo gnomo. La voce sommessa di Raistlin cominciò a salmodiare: «Ast kiranan kair...». Tas fu invaso dall’orrore. Aveva già sentito quelle parole magiche...

«No!» gridò angosciato. Girandosi di scatto sollevò lo sguardo sugli occhi di Raistlin. «No!» urlò di nuovo, scagliandosi con tutto il corpo addosso al mago, picchiandolo con le piccole mani.

«...Gardurm Soth-arm // Suh kali Jalaran!» terminò Raistlin con calma.

Tas, sempre stringendo fra le mani le vesti nere di Raistlin, sentì l’aria che cominciava a crepitare e a sfrigolare. Girandosi di scatto con un grido incoerente, il kender vide saette fiammeggianti scoccare dalle dita del mago e abbattersi sullo gnomo. Quei lampi magici colpirono Gnimsh in pieno petto. La terrificante energia sollevò da terra il piccolo corpo dello gnomo e lo scagliò all’indietro mandandolo a sbattere contro la parete di pietra alle sue spalle.

Gnimsh si accartocciò al suolo senza neppure un grido. Il fumo si levò dal suo grembiule di cuoio.

Si sentì l’odore dolciastro e nauseante della pelle bruciata. La mano che stringeva il fazzoletto del kender si contrasse e poi rimase immobile.

Tas non riuscì a muoversi. Fissava la scena con le mani ancora impigliate nelle vesti di Raistlin.

«Vieni, Tas,» disse Raistlin.

Voltandosi, Tas puntò nuovamente gli occhi su Raistlin. «No,» bisbigliò, tremando, cercando di liberarsi dalla forte stretta del mago. Poi gridò, in preda all’angoscia: «L’hai assassinato! Perché? Era mio amico!»

«Le mie ragioni mi appartengono,» replicò Raistlin, stringendo saldamente con mano il kender che continuava a dibattersi. «Adesso verrai con me.»

«No, non vengo!» gridò Tas, lottando freneticamente. «Tu non sei interessante né eccitante, sei malvagio, come l’Abisso! Sei brutto e orribile, e non verrò da nessuna parte con te! Mai! Lasciami andare! Lasciami andare!»

Accecato dalle lacrime, scalciando e urlando e stringendo le mani a pugno menò colpi all’impazzata a Raistlin.

Ridestandosi dal loro silenzioso terrore, i Dewar nella cella cominciarono a urlare in preda al panico, attirando l’attenzione dei nani nelle altre celle. Urlando e strepitando, gli altri Dewar si ammassarono contro le sbarre, cercando di vedere cosa stava accadendo.

Esplose un pandemonio. Al di sopra delle grida e delle urla si potevano udire le voci profonde delle guardie che gridavano qualcosa in nanesco.

Raistlin, freddo e truce in volto, appoggiò una mano sulla fronte di Tasslehoff e pronunciò rapidamente delle parole, con voce sommessa. Il corpo del kender si afflosciò all’istante.

Afferrandolo prima che cadesse sul pavimento, Raistlin parlò di nuovo, e il mago e il kender scomparvero, lasciando gli stupefatti Dewar a bocca aperta, con gli occhi fissi sullo spazio lasciato vuoto e sul corpo dello gnomo morto, che giaceva rannicchiato in un angolo.

Un’ora più tardi Kharas, essendo sfuggito con facilità al suo confino, raggiunse il blocco di celle in cui il clan dei Dewar veniva tenuto prigioniero.

Cupo in volto, Kharas avanzò a lunghi passi lungo i corridoi.

«Cosa sta succedendo?» chiese a una guardia. «Mi pare che sia tutto tremendamente tranquillo.»

«Ah, una specie di sommossa poco fa,» borbottò una guardia. «Ma non siamo riusciti a capire cos’è successo.»

Kharas si guardò intorno, la sua espressione era dura. I Dewar ricambiavano il suo sguardo, non con odio, ma con sospetto, perfino paura.

Sempre più preoccupato a mano a mano che avanzava, sentendo che era accaduto qualcosa di orribile, il nano accelerò il passo. Raggiunta l’ultima cella, guardò dentro.

Alla vista di Kharas, quei Dewar che erano in grado di muoversi balzarono tutti in piedi e arretrarono fino all’angolo più lontano della cella.

Contemplando la scena, Kharas si accigliò. Vide il corpo dello gnomo che giaceva inerte sul pavimento.

Lanciò un’occhiata furiosa alla guardia stupefatta, poi puntò lo sguardo sui Dewar.

«Chi ha fatto questo?» volle sapere. «E dov’è il kender?»

Con grande stupore di Kharas i Dewar, invece di negare scontrosamente il crimine, vennero avanti impetuosamente, farfugliando tutti allo stesso tempo. Con un movimento rabbioso e sferzante della mano, Kharas li azzittì. «Tu, là,» indicò uno dei Dewar che stringeva ancora una delle borse di Tas.

«Dove hai preso quella borsa? Cos’è successo? Chi è stato a fare questo? Dov’è il kender?»

Mentre il Dewar veniva avanti strascicando i piedi, Kharas fissò i suoi occhi scuri. E vide, con orrore, che qualunque equilibrio mentale un tempo il nano potesse aver posseduto, adesso era completamente scomparso.

«Io l’ho visto,» disse il Dewar, sogghignando. «Io l’ho visto. Nelle sue Vesti Nere e tutto il resto. È venuto per lo gnomo. Ed è venuto per il kender. E la prossima volta verrà per noi!»

Il nano scuro scoppiò a ridere orribilmente. «Per noi!» ripetè.

«Chi?» chiese Kharas, in tono severo. «Hai visto chi? Chi è venuto per il kender?»

«Ebbene, lui... lei stessa!» bisbigliò il Dewar, voltandosi per fissare il corpo dello gnomo, sgranando gli occhi spiritati. «La morte...».

Capitolo dodicesimo

Da secoli nessuno aveva più posto piede all’interno della magica fortezza di Zhaman. I nani la guardavano con sospetto e diffidenza, per parecchie ragioni. Innanzi tutto perché apparteneva agli stregoni. E ancora, quelle mura di pietra non erano state costruite dai nani, ma non erano neppure naturali. La fortezza era stata fatta sorgere, così narrava la leggenda, dal suolo per magia, ed era la magia che la teneva ancora insieme.

«Deve trattarsi di magia,» brontolò Reghar rivolto a Caramon, lanciando una feroce occhiata alle guglie alte e sottili della fortezza, «altrimenti sarebbe crollata già parecchio tempo fa.»

I nani delle colline, rifiutandosi all’unanimità di mettere anche soltanto la punta della barba dentro la fortezza, piantarono l’accampamento fuori, sui pianori. Gli uomini delle pianure fecero lo stesso.

Non tanto per paura dell’edificio magico, anche se lo guardavano di traverso, bofonchiando qualcosa su di esso nella loro lingua, ma per il fatto che si sentivano a disagio in qualsiasi edificio.

Gli altri umani, facendosi beffe di ogni superstizione, entrarono nell’antica fortezza, ironizzando, con scroscianti risate, sugli spettri e le infestazioni. Rimasero dentro una notte soltanto. La mattina seguente li vide intenti ad accamparsi all’aperto, borbottando che sotto le stelle si dormiva meglio e che l’aria era più fresca.

«Cos’è successo qui dentro?» chiese Caramon, vagamente inquieto, a suo fratello mentre camminavano attraverso la fortezza dopo il loro arrivo. «Hai detto che non era una Torre della Grande Stregoneria, ma è ovvio che c’è magia. Sono stati gli stregoni a costruirla. E,» l’omone rabbrividì, «dà una strana sensazione, non arcana come le Torri. Ma una sensazione di... di...»

S’interruppe in un balbettio.

«Di violenza,» mormorò Raistlin, abbracciando con lo sguardo guizzante e penetrante tutti gli oggetti intorno a lui. «Di violenza e di morte, fratello mio, poiché questo era un luogo di esperimenti. I maghi costruirono questa fortezza lontano dalle terre civilizzate per un buon motivo, perché sapevano che la magia evocata qui poteva benissimo sfuggire al loro controllo. E così effettivamente accadde, spesso. Ma qui emersero anche grandi cose, una magia che aiutò il mondo.»

«Perché mai è stata abbandonata?» chiese Dama Crysania, stringendosi ancora di più intorno alle spalle il mantello di pelliccia. L’aria che si muoveva attraverso gli stretti corridoi era gelida e sapeva di polvere e di pietra.

Raistlin rimase silenzioso per lunghi momenti, corrugando la fronte. Lentamente e in silenzio avanzarono lungo quei corridoi contorti. I morbidi stivali di cuoio di Dama Crysania non producevano neppure un fruscio mentre camminava. I tonfi dei pesanti stivali di Caramon traevano echi dalle camere vuote, le vesti fruscianti di Raistlin sussurravano attraverso i corridoi, il Bastone di Magius sul quale si appoggiava picchiava sommesso sul pavimento. Silenziosi com’erano, avrebbero potuto essere i fantasmi di se stessi che camminavano lungo quell’intrico di passaggi.

Quando Raistlin parlò, la sua voce fece sussultare sia Caramon sia Crysania.

«Malgrado ci siano sempre state le tre Vesti, buone, neutrali e malvagie, fra i fruitori di magia, non abbiamo, sfortunatamente, sempre mantenuto l’equilibrio,» disse Raistlin. «Quando la gente si rivoltò contro di noi, le Vesti Bianche si ritirarono nelle loro Torri, sostenendo la pace. Le Vesti Nere, però, dapprima cercarono di reagire. S’impadronirono di questa fortezza e la usarono compiendo esperimenti per creare eserciti.» Fece una pausa. «Esperimenti che all’epoca non ebbero successo, ma che portarono alla creazione dei draconici nella nostra epoca.

«Con questo insuccesso, i maghi si resero conto della situazione disperata in cui si trovavano. Abbandonarono Zhaman, unendosi ai loro compagni in quelle che diventarono note come le Battaglie Perdute.»

«Sembri conoscere la strada, qua dentro,» osservò Caramon.

Raistlin lanciò un’occhiata penetrante a suo fratello, ma il volto di Caramon era pacato, innocente, anche se forse c’era una strana espressione nebbiosa nei suoi occhi castani.

«Non capisci ancora, fratello mio?» chiese Raistlin, con voce aspra, fermandosi in un corridoio buio e ventoso. «Non sono mai stato qui, eppure ho percorso questi corridoi. La cella nella quale ho dormito è la stessa dove ho già passato molte notti, anche se devo ancora passare una sola notte in questa fortezza. Sono un estraneo, qua dentro, eppure conosco la collocazione di ogni singola stanza, da quelle per la meditazione e lo studio in cima alla fortezza alle sale dei banchetti al primo livello.»

Anche Caramon si fermò. Lentamente, si guardò intorno, fissando il soffitto polveroso, scrutando i corridoi vuoti dove la luce del sole filtrava attraverso le finestre scolpite per proiettarsi in quadrati sui pavimenti di pietra. Alla fine, il suo sguardo tornò ad incontrare quello del suo gemello.

«Allora, Fistandantilus,» disse con voce greve, «tu sai che questa sarà la tua tomba.»

Per un istante, Caramon colse una piccola crepa nel vetro degli occhi di Raistlin: ma non rabbia, bensì divertimento, trionfo. Poi lo specchio luminoso fu nuovamente integro, e Caramon vi vide soltanto il riflesso di se stesso, in piedi in mezzo a una chiazza della debole luce del sole invernale.

Crysania si mosse, ponendosi accanto a Raistlin. Gli mise la mano sul braccio con cui lui si appoggiava al bastone e guardò Caramon con occhi grigi e freddi. «Gli dei sono con noi,» disse.

«Non erano con Fistandantilus. Tuo fratello è forte nella sua arte, io sono forte nella mia fede. Non falliremo!»

Sempre guardando Caramon, sempre mantenendo il riflesso del suo gemello nelle orbite luccicanti dei suoi occhi, Raistlin sorrise. «Sì,» bisbigliò, e c’era un leggero sibilo nelle sue parole, «gli dei sono davvero con noi!»

Al primo livello della grande fortezza magica di Zhaman si aprivano gigantesche sale scolpite nella pietra che, nel passato, erano stati luoghi d’incontri e di celebrazioni. C’erano anche stanze che un tempo erano state colme di libri, attrezzate per poter studiare e meditare nella tranquillità.

All’estremità opposta c’erano le cucine e i magazzini, che da molto tempo non venivano più usati ed erano coperti dalla polvere degli anni.

Ai livelli superiori c’erano camere da letto rigurgitanti di mobili bizzarri di antica foggia. I letti erano coperti da lenzuola perfettamente conservate, nel corso degli anni, dall’aria asciutta del deserto. Caramon, Dama Crysania e gli ufficiali dello stato maggiore di Caramon dormivano in quelle stanze. Se non dormivano saporitamente, se talvolta si svegliavano durante la notte pensando di aver udito delle voci che cantavano inusitate parole o di aver intravisto strane figure spettrali che fluttuavano attraverso l’oscurità illuminata dal chiarore lunare, nessuno ne parlava alla luce del giorno.

Ma dopo alcune notti, tutto questo venne dimenticato, inghiottito da preoccupazioni più gravi e immediate riguardanti i rifornimenti, le risse fra gli uomini e i nani, e i rapporti delle spie secondo i quali i nani di Thorbardin stavano ammassando un esercito immenso e bene armato.

Inoltre a Zhaman, al primo livello, c’era un corridoio che sembrava un errore costruttivo. Tutti quelli che vi si avventuravano scoprivano che si dipartiva da un andito per terminare all’improvviso in una parete vuota. Pareva proprio che i costruttori, disgustati, avessero buttato giù gli utensili a quel punto, decidendo di smettere.

Ma quel corridoio non era un errore. Quando le mani adatte venivano appoggiate sul muro vuoto, quando le rune adatte venivano tracciate sulla polvere della parete stessa, allora compariva una porta che conduceva ad una grande scalinata scolpita nelle fondamenta di granito di Zhaman...

«Ancora una volta.» La voce era sommessa, paziente, e si avventava su Tasslehoff attorcigliandoglisi addosso come un serpente. Contorcendosi intorno a lui, affondava i denti uncinati nelle sue carni, succhiandogli fuori la vita.

«Esamineremo tutto un’altra volta. Parlami dell’Abisso,» disse la voce. «Qualunque cosa ti ricordi. Come ci sei entrato. Com’è il paesaggio. Chi e cosa hai visto. La Regina stessa, che aspetto aveva, le sue parole...»

«Ci sto provando, Raistlin, davvero!» uggiolò Tasslehoff. «Ma... l’abbiamo esaminato e straesaminato durante questi ultimi due giorni. Non riesco a pensare a nient’altro! E la mia testa è calda e i miei piedi e le mie mani sono freddi e... la stanza mi gira intorno. Se... se tu potessi farla smettere di girare, Raistlin, credo che potrei riuscire a ricordare...»

Sentendo la mano di Raistlin sul suo petto, Tas si ritrasse ancora di più nel letto. «No!» gemette, cercando disperatamente di sgusciar via. «Sarò bravo, Raistlin! Me ne ricorderò. Non farmi male, non come al povero Gnimsh!»

Ma l’arcimago tenne appoggiata la mano sul petto del kender per un solo istante, poi la portò alla sua fronte. Tas aveva la pelle che gli bruciava, ma il tocco di quella mano bruciava ancora di più.

«Giaci immobile,» gli ordinò Raistlin. Poi, sollevandolo fra le braccia, Raistlin fissò intensamente gli occhi infossati del kender.

Alla fine, lasciò cadere Tas sul letto e, borbottando un’amara imprecazione, si alzò in piedi.

Disteso sul letto, inzuppato di sudore, Tas vide la figura abbigliata di nero librarsi su di lui per un istante, poi, con uno svolazzare e un turbinare di vesti, Raistlin si girò e uscì a grandi passi dalla stanza. Tas cercò di sollevare la testa per vedere dove il mago stava andando, ma lo sforzo fu eccessivo. Ricadde estenuato sul letto.

Perché mai sono così debole? si chiese. Cosa c’è che non va? Voglio dormire. Forse allora il dolore cesserà. Tas chiuse gli occhi. Ma questi tornarono a spalancarsi come se avessero dei fili attaccati alle ciglia. No, non posso dormire! pensò spaventato. Ci sono delle cose, là fuori nel buio, cose orribili, le quali non aspettano altro che io mi addormenti! Le ho viste, sono là fuori! Mi balzeranno addosso e...

Come se provenisse da un’immensa distanza, udì la voce di Raistlin che parlava con qualcuno.

Scrutando intorno a sé, cercando disperatamente di tener lontano il sonno, Tas decise di concentrarsi su Raistlin. Forse scoprirò qualcosa, pensò sconsolato, forse scoprirò cosa mi sta succedendo.

Lanciò un’occhiata intorno, e vide la figura abbigliata di nero parlare con un’altra figura, tozza e scura. Senza alcun dubbio, stavano discutendo di lui. Tas si sforzò di ascoltare, ma la sua mente continuava a fare strane cose, andava via a giocare da qualche altra parte senza invitare il suo corpo.

Così, Tas non poteva esser sicuro se sentiva davvero ciò che sentiva, oppure stava sognando.

«Dagli ancora un po’ di pozione. Dovrebbe tenerlo buono,» diceva una voce che pareva quella di Raistlin alla figura bassa e scura. «Ci sono poche... pochissime possibilità che quaggiù qualcuno lo senta, ma non posso rischiare.»

La figura bassa e scura replicò qualcosa. Tas chiuse gli occhi e lasciò che le acque fresche di un lago azzurrissimo, il lago Crystalmir, gli lambissero la pelle bruciante. Forse, alla fine, la sua mente avrebbe deciso di portare con sé anche il corpo.

«Quando me ne sarò andato,» la voce di Raistlin uscì fuori dall’acqua, «chiudi la porta alle mie spalle e spegni la luce. Negli ultimi tempi mio fratello è diventato sospettoso. Se dovesse scoprire la porta magica, non c’è dubbio che scenderà qui sotto. Non deve trovare nulla. Tutte queste celle dovranno apparire vuote.»

La figura bassa e tozza borbottò e la porta cigolò sui cardini.

D’un tratto, le acque di Crystalmir cominciarono a ribollire intorno a Tas. Dei tentacoli uscirono da esse come tanti serpenti, cercando di afferrarlo. Tas spalancò gli occhi. «Raistlin!» implorò. «Non lasciarmi. Aiutami!»

Ma la porta si chiuse sbattendo. La figura bassa e scura si avvicinò al fianco del letto di Tas strascicando i piedi. Fissandola con orrore come in un sogno, Tas vide che si trattava di un nano.

Gli sorrise.

«Flint?» mormorò, attraverso le labbra asciutte e screpolate. «No! Arack!» Cercò di correr via, ma i tentacoli nell’acqua si stavano allungando verso i suoi piedi.

«Raistlin!» urlò, cercando freneticamente di arretrare e fuggire. Ma i suoi piedi non volevano muoversi. Qualcosa lo afferrò! I tentacoli! Tas lottò, urlando in preda al panico.

«Chiudi il becco, bastardo. Bevi questo.» i tentacoli lo ghermirono per il ciuffo dei capelli e gli premettero una tazza contro le labbra. «Bevi, o ti strappo i capelli dalle radici!»

Soffocando, fissando la figura con occhi spiritati, Tas trangugiò un sorso. Il liquido era amaro ma fresco, e calmante, Lui aveva sete, tantissima sete! Singhiozzando, Tas afferrò la tazza strappandola dalle mani del nano e ne inghiottì il contenuto. Poi giacque sul suo cuscino. Nel giro di pochi istanti i tentacoli scivolarono via, il dolore che gli attanagliava braccia e gambe lo lasciò, e le acque limpide e dolci di Crystalmir si rinchiusero sopra di lui.

Crysania si risvegliò da un sogno con la netta impressione che qualcuno avesse chiamato il suo nome. Anche se non riusciva a ricordare di aver udito un solo suono, la sensazione era così forte e intensa che si ritrovò subito completamente desta, dritta a sedere sul letto, ancora prima di essere realmente consapevole di ciò che l’aveva svegliata. Aveva forse fatto parte del sogno? No.

L’impressione rimaneva, e anzi diventava più forte.

Qualcuno si trovava nella stanza insieme a lei! Si affrettò a guardarsi intorno. La luce di Solinari, che filtrava da un angolo all’estremità opposta della stanza, faceva assai poco per illuminarla. Non poteva vedere niente, ma percepì un movimento. Crysania aprì la bocca per chiamare le guardie...

E sentì una mano sulle labbra. Poi Raistlin si materializzò dall’oscurità della notte, seduto sul suo letto.

«Perdonami per averti spaventato, Reverenda Figlia,» le disse in un sommesso sussurro, un bisbiglio a stento udibile. «Ho bisogno del tuo aiuto e non desidero attirare l’attenzione delle guardie.» Le tolse lentamente la mano dalla bocca.

«Non ero spaventata,» protestò Crysania. Lui le sorrise, e lei arrossì. Era talmente vicino a lei che poteva sentirla tremare. «Mi hai... sorpreso, è tutto. Stavo sognando. Facevi parte del sogno.»

«Certo,» replicò Raistlin con calma. «Il Portale si trova qui, e così siamo molto vicini agli dei.»

Non è la vicinanza degli dei che mi fa tremare, pensò Crysania, con un sospiro fremente, sentendo il calore bruciante di quel corpo accanto a lei, respirandone la misteriosa, intossicante fragranza. Si scostò da lui con rabbia, soffocando con fermezza i propri desideri e le proprie brame. Lui è al di sopra di queste cose. Lei avrebbe dovuto forse mostrarsi più debole?

Crysania tornò d’un tratto sull’argomento. «Hai detto di aver bisogno del mio aiuto. Perché?» Si sentì afferrare da un’improvvisa paura. Allungò impulsivamente il braccio e gli ghermì la mano.

«Stai bene, non è vero? La tua ferita...»

Uno spasimo di dolore attraversò in un lampo il volto di Raistlin, poi la sua espressione si fece dura e amareggiata. «No, sto bene,» replicò secco.

«Paladine sia ringraziato,» disse Crysania, sorridendo, lasciando che la propria mano si attardasse nella sua.

Gli occhi di Raistlin divennero due fessure. «Il dio non ha i miei ringraziamenti!» borbottò. La mano che stringeva quella di Crysania si chiuse ancor di più, facendole male.

Crysania rabbrividì. Per un istante parve che il calore del corpo del mago, così vicino al suo, le stesse risucchiando via il suo, lasciandola raggelata. Cercò di liberare la mano dalla sua stretta, ma Raistlin, destato, a causa del suo movimento, dal suo amaro sogno ad occhi aperti, si voltò a guardarla.

«Perdonami, Reverenda Figlia,» le disse, lasciandola andare. «Il dolore era insopportabile. Ho pregato perché mi venisse data la morte. Mi è stata negata.»

«Ne conosci la ragione,» replicò Crysania. La sua paura si era smarrita nella pietà che provava per lui. La sua mano esitò per un istante, poi ricadde sul copriletto, vicino alla mano tremante di Raistlin, senza però toccarlo.

«Sì, e l’accetto. Però non posso perdonarlo. Ma questo è fra il tuo dio e me,» disse Raistlin, in tono di rimprovero.

Crysania si morse il labbro. «Accetto il rimprovero. Era meritato.» Rimase silenziosa per un momento. Anche Raistlin non aveva nessuna voglia di parlare, le rughe sul suo volto si approfondirono.

«Hai detto a Caramon che gli dei erano con noi. Così, allora, sei entrato in comunione con il mio dio, con Paladine?» si azzardò a chiedere Crysania, esitando.

«Certo.» Raistlin ebbe un sorriso contorto. «La cosa ti sorprende?»

Crysania sospirò. Abbassò di scatto la testa, i capelli le ricaddero intorno alle spalle. Il debole chiarore lunare, lì nella stanza, traeva dai suoi capelli neri una morbida radiosità azzurra, facendo brillare la sua pelle d’un bianco purissimo.

Il suo profumo riempiva la stanza, riempiva la notte. Sentì un tocco sui suoi capelli. Sollevando la testa, vide gli occhi di Raistlin ardere d’una passione che giungeva dal suo profondo, una fonte che non aveva nulla a che fare con la magia. Crysania trattenne il fiato, ma in quel momento Raistlin si alzò e si allontanò.

Crysania sospirò. «Allora sei stato in comunione con entrambi gli dei?» chiese ansiosa.

Raistlin si girò a metà. «Sono stato in comunione con tutti e tre,» rispose spiccio.

«Tre?» Lei ne fu sorpresa. «Gilean?»

«E chi è Astinus se non il portavoce di Gilean?» ribatté Raistlin, con disprezzo. «Sempre che non sia Gilean in persona, come qualcuno ha ipotizzato. Ma questo non dev’essere niente di nuovo, per te...»

«Non ho mai parlato con la Regina delle Tenebre,» disse Crysania.

«Davvero?» chiese Raistlin con un’occhiata penetrante che scosse il chierico fino all’intimo della sua anima. «Non conosce il desiderio del tuo cuore? Non te l’ha forse offerto?»

Guardando dentro i suoi occhi, consapevole della sua vicinanza, sentendosi riafferrare dal desiderio, Crysania non potè rispondere. Poi, mentre lui continuava ad osservarla, deglutì e scosse la testa. «Se l’ha fatto,» rispose, con un tono di voce quasi impercettibile, «me l’ha dato con una mano e negato con l’altra.»

Crysania sentì frusciare le vesti nere come se il mago avesse trasalito. Il suo volto, visibile alla luce della luna, fu, per un istante, preoccupato e pensieroso. Poi si distese.

«Non sono venuto qui per discutere di teologia,» disse Raistlin con un lieve sorriso di scherno. «Ho un’altra e più immediata preoccupazione.»

«Naturalmente.» Crysania arrossì, scostandosi nervosamente dal viso i capelli aggrovigliati.

«Ancora una volta, mi scuso. Hai bisogno di me, avevi detto...»

«Tasslehoff si trova qui.»

«Tasslehoff?» ripetè Crysania con espressione confusa e stupita. «Sì. E sta molto male. In realtà sta morendo. Ha bisogno delle tue capacità di guaritrice.»

«Ma, non capisco. Perché... Come mai si trova qui?» Crysania balbettò, sconcertata. «Avevi detto che era tornato al nostro tempo.»

«Così credevo,» rispose Raistlin con voce grave. «Ma, a quanto pare, mi sbagliavo. Il congegno magico l’ha portato qui, in questo tempo. Ha vagato per il mondo alla maniera dei kender, in un continuo divertimento. Poi, avendo sentito parlare della guerra, è arrivato qui per condividere l’avventura. Per sfortuna, durante i suoi vagabondaggi, ha contratto la peste.»

«È terribile. Certo che verrò.» Raccogliendo il suo mantello di pelliccia dall’estremità del letto, se lo avvolse intorno alle spalle, notando, mentre lo faceva, che Raistlin le aveva voltato la schiena.

Guardando fuori della finestra la luce argentea della luna, vide serrarsi i muscoli della sua mascella, come se fosse in preda a una lotta interiore.

«Sono pronta,» disse in tono calmo ed efficiente Crysania, mentre si allacciava il mantello; Raistlin tornò a voltarsi e le porse la mano. Crysania lo fissò perplessa.

«Dobbiamo percorrere i sentieri della notte,» le disse con voce sommessa. «Come ti ho detto, non voglio mettere in allarme le guardie.» «Ma perché no?» lei replicò. «Che differenza...» «Cosa dirò a mio fratello?» Crysania esitò. «Capisco...»

«Capisci il mio dilemma?» le chiese Raistlin, guardandola con attenzione. «Se glielo dicessi, sarebbe una preoccupazione per lui, proprio nel momento in cui non può certo permettersi di aggiungere altri fardelli a quelli che già porta. Tas ha rotto il congegno magico. Questo scombussolerebbe anche Caramon, anche se è ben conscio che ho in progetto di mandarlo a casa. Ma... dovrei dirgli che il kender si trova qui.»

«Caramon è apparso preoccupato ed infelice durante questi ultimi giorni,» disse Crysania, pensierosa, con una certa apprensione nella voce. «La guerra non sta andando bene,» la informò Raistlin con schiettezza. «L’esercito gli si sta sfasciando intorno. Gli uomini delle pianure parlano ogni giorno di andarsene. Per quello che ne sappiamo, potrebbero essersene già andati. I nani sotto Fireforge sono un branco infido. Fanno pressione su Caramon perché attacchi prima di essere pronto. I carri con i rifornimenti sono scomparsi, nessuno sa cosa ne sia stato. Il suo stesso esercito è inquieto, turbato. E se, per coronare tutto questo, ci fosse anche un kender che se ne va in giro a chiacchierare a vanvera, distraendolo da...»

Raistlin sospirò. «Tuttavia non posso, per una questione di onore, tenerglielo nascosto.»

Crysania strinse le labbra. «No, Raistlin. Non credo che sarebbe saggio dirglielo.» Vedendo che Raistlin appariva dubbioso, continuò con foga: «Non c’è niente che Caramon possa fare. Se il kender è davvero gravemente malato, come tu sospetti, io potrò guarirlo, ma rimarrà debole per parecchi giorni. Sarebbe soltanto una preoccupazione in più per tuo fratello. Caramon ha in mente di mettersi in marcia fra qualche giorno. Noi cureremo il kender poi, quando si sarà completamente ristabilito, potrà incontrare il suo amico al campo, se questo sarà il suo desiderio.»

L’arcimago sospirò di nuovo, riluttante e dubbioso. Poi scrollò le spalle. «Molto bene, Reverenda Figlia,» disse. «Mi farò guidare da te in questa faccenda. Le tue parole sono sagge. Non diremo a Caramon che il kender è tornato.»

Le si avvicinò, e Crysania, alzando lo sguardo a fissarlo, colse uno strano sorriso sul suo viso, un sorriso che, soltanto per questa volta, si rifletté nei suoi occhi luccicanti. Sorpresa, turbata, senza capir bene il perché, Crysania arretrò, ma lui la cinse con il braccio, avviluppandola nelle pieghe morbide delle sue maniche nere, e tenendola stretta a sé.

Chiudendo gli occhi, Crysania si dimenticò di quel sorriso. Stringendosi a lui, avvolta in quel calore, ascoltò il rapido battito del suo cuore...

Mormorando parole magiche, lui trasformò entrambi in nulla. Le loro ombre parvero librarsi per un istante alla luce della luna, poi anche queste svanirono con un sussurro.

«Lo tieni qui? Nelle segrete?» chiese Crysania, rabbrividendo nell’aria gelida e umida.

«Shirak.» Raistlin fece accendere il cristallo in cima al Bastone di Magius riempiendo la stanza d’una morbida luce. «Giace laggiù,» disse il mago, indicandole il punto.

Un rozzo letto spiccava contro la parete. Rivolgendo a Raistlin un’occhiata di rimprovero, Crysania si affrettò accanto al letto. Quando il chierico s’inginocchiò accanto al kender e gli appoggiò la mano sulla fronte febbricitante, Tas urlò. I suoi occhi si spalancarono di colpo, ma la fissarono senza vederla. Raistlin seguendola più lentamente, fece segno a un nano scuro che era rannicchiato in un angolo. «Lasciaci,» gli intimò il mago, poi si avvicinò anche lui al letto. Sentì la porta della cella che si chiudeva alle spalle del nano.

«Come puoi tenerlo chiuso in una simile oscurità?» l’accusò Crysania. «Hai mai curato prima d’oggi le vittime della peste, Dama Crysania?» le chiese Raistlin, con uno strano tono nella voce.

Sorpresa, lei levò lo sguardo su di lui, poi arrossì e guardò altrove. Sorridendo amaramente, Raistlin rispose alla propria domanda. «No, certo che no. La peste non è mai arrivata a Palanthas. Non ha mai colpito i belli, i ricchi...» Non fece nessuno sforzo per nascondere il proprio disprezzo, e Crysania sentì la propria pelle bruciare, come se fosse lei quella che aveva la febbre.

«Be’, da noi è arrivata,» continuò Raistlin. «Ha spazzato i quartieri più poveri di Haven. Naturalmente, non c’erano guaritori. Né erano molti quelli disposti a restare per curare i malati. Perfino i membri delle loro stesse famiglie li sfuggivano. Povere anime patetiche. Io ho fatto quello che potevo curandoli con l’abilità che avevo acquisito nell’uso delle erbe. Se non potevo guarirli, potevo almeno alleviare i loro dolori. Il mio Maestro disapprovava.» Raistlin parlava in tono sommesso, e Crysania si rese conto che si era dimenticato della sua presenza. «E anche Caramon: diceva di temere per la mia salute. Bah!» Raistlin rise senza allegria. «Temeva per se stesso. Il pensiero della peste lo spaventava più di un esercito di goblin. Ma io, potevo voltar loro la schiena? Non avevano nessuno... nessuno. Poveri sventurati che stavano morendo... in totale solitudine.»

Fissandolo ammutolita, Crysania sentì le lacrime pungerle gli occhi. Raistlin non la vedeva. Nella sua mente, era tornato in quelle piccole, fetide capanne ammucchiate ai margini della città come se fossero corse là a nascondersi. Vide se stesso muoversi fra i malati nelle sue vesti rosse, costringendoli a ingurgitare l’amara medicina, reggendo i morenti fra le braccia, alleviando i loro ultimi istanti. Lavorava tra i malati con animo cupo, senza chiedere nessun ringraziamento, senza aspettarsene nessuno. La sua faccia, l’ultima faccia umana che molti avrebbero visto, non esprimeva né compassione né sollecitudine. Eppure i morenti vi trovavano conforto. Accanto a loro c’era qualcuno che capiva, che viveva quotidianamente nel dolore, che aveva guardato in faccia la morte e non aveva paura...

Raistlin accudiva le vittime della peste. Faceva quello che sentiva di dover fare a rischio della propria vita, ma perché? Per una ragione che non aveva ancora capito. Una ragione, forse, dimenticata...

«In ogni caso,» Raistlin tornò al presente, «ho scoperto che la luce faceva male agli occhi dei malati di peste. Anche gli occhi di quelli che si erano ripresi, spesso subivano...»

Fu interrotto da un urlo terrificante del kender.

Tasslehoff lo stava fissando con occhi spiritati. «Per favore, Raistlin! Sto cercando di ricordare! Non riportarmi dalla Regina delle Tenebre...»

«Zitto, Tas,» disse Crysania con voce sommessa, stringendo il kender con entrambe le mani quando Tas parve tentare, alla lettera, di arrampicarsi dentro la parete alle sue spalle. «Calmati, Tas. Sono Dama Crysania. Mi riconosci? Ti aiuterò.»

Tas puntò il suo sguardo febbricitante e folle sul chierico, guardandola per qualche istante senza capire. Poi con un singhiozzo si aggrappò a lei. «Non lasciare che mi riporti nell’Abisso, Crysania! Non lasciare che ci porti anche te! È orribile... orribile. Moriremo tutti, moriremo come il povero Gnimsh. Me l’ha detto la Regina delle Tenebre!»

«Sta delirando,» mormorò Crysania, cercando di liberarsi dalle mani di Tas, costringendolo a stendersi. «Che strane allucinazioni. Succede a tutte le vittime della peste?»

«Sì,» annuì Raistlin. Fissando intensamente Tas, il mago s’inginocchiò accanto al letto. «Talvolta è meglio assecondarli. Può servire a calmare il malato. Tasslehoff...»

Raistlin appoggiò una mano sul petto del kender, e all’istante Tas crollò sul letto, ritraendosi dal mago, tremando e fissandolo in preda all’orrore. «Sarò bravo, Raistlin,» uggiolò. «Non farmi del male, non come al povero Gnimsh. Lampi! Lampi!»

«Tas,» disse Raistlin con fermezza, con una nota di collera e di esasperazione nella voce che indusse Crysania a fissarlo con aria di rimprovero.

Ma quando vide soltanto un’espressione di fredda preoccupazione sul suo volto, suppose di aver frainteso il tono della sua voce. Chiuse gli occhi e toccò il medaglione di Paladine che portava appeso al collo, cominciando a mormorare una preghiera di guarigione.

«Non ti farò del male, Tas. Sst, non muoverti.» Vedendo Crysania smarrita nella comunione con il suo dio, Raistlin sibilò: «Dimmi, Tas, dimmi cos’ha detto la Regina delle Tenebre.»

Il volto del kender perse l’acceso rossore causato dalla febbre a mano a mano che le sommesse parole di Crysania scivolavano su di lui, più dolci e più fresche delle acque delle sue deliranti fantasticherie. Con il calare della febbre il volto di Tas diventò d’un colore spettrale, cinereo. Un debole bagliore di buon senso riemerse nei suoi occhi. Ma il kender non distolse mai il suo sguardo da Raistlin.

«Me l’ha detto... prima che ce ne andassimo...» disse Tas con voce soffocata.

«Che ve ne andaste?» Raistlin si sporse in avanti. «Credevo che tu avessi detto che siete scappati!»

Tas sbiancò in volto, leccandosi le labbra aride e screpolate. Cercò con uno sforzo di distogliere lo sguardo dal mago, ma gli occhi di Raistlin, scintillando al riflesso del Bastone, trattenevano saldamente il kender spremendogli fuori la verità. Tas deglutì. La gola gli faceva male.

«Acqua,» implorò.

«Quando me l’avrai detto!» ringhiò Raistlin, lanciando un’occhiata a Crysania, che era ancora inginocchiata, con la testa fra le mani, intenta a pregare Paladine.

Tas deglutì dolorosamente. «Pensavo... pensavo che stessimo... scappando. Abbiamo usato i... il congegno, e abbiamo cominciato... a sollevarci. Ho visto... l’Abisso, la pianura, piatta, vuota, precipitare giù sotto i m... miei piedi. E,» Tas rabbrividì, «non era più vuota! C’erano... c’erano ombre e...» Buttò indietro la testa, gemendo. «Oh, Raistlin, non farmelo ricordare! Non farmi tornare laggiù!»

«Zitto!» bisbigliò Raistlin, coprendogli la bocca con la mano. Crysania sollevò lo sguardo preoccupata, ma vide soltanto Raistlin che accarezzava con tenerezza la guancia del kender.

Vedendo il volto pallido e l’espressione terrorizzata di Tas, Crysania corrugò la fronte e scosse la testa.

«Sta meglio,» disse. «Non morirà. Ma ombre buie si librano intorno a lui, impedendo alla luce risanante di Paladine di guarirlo del tutto. Sono le ombre delle sue farneticazioni febbricitanti. Non puoi fare niente per eliminarle?» Le sue delicate sopracciglia s’intrecciarono. «Di qualunque cosa si tratti, sembra sia molto reale per lui. Dev’essere stato qualcosa di davvero orrendo per aver spaventato in questo modo un kender.»

«Forse, Dama, se tu uscissi, potrebbe parlare con me sentendosi più a suo agio,» suggerì Raistlin con voce pacata. «Siamo amici da così vecchia data...»

«È vero,» annuì Crysania sorridendo, e fece per alzarsi in piedi. Con suo vivo stupore, Tas si aggrappò alle sue mani.

«Non lasciarmi con lui, Dama! » Tas rantolò. «Ha ucciso Gnimsh! Il povero Gnimsh. L’ho visto mo... morire!» Tas cominciò a piangere. «Un lampo bruciante...»

«Su, su, Tas,» disse Crysania, consolandolo, costringendo il kender con delicatezza, ma anche con fermezza, a ridistendersi. «Nessuno ti farà del male. Chiunque abbia ucciso questo, uh... Gnimsh, adesso non può farti niente. Sei insieme ai tuoi amici. Non è così, Raistlin?»

«La mia magia è potente,» disse Raistlin, con voce sommessa. «Ricordalo, Tasslehoff, ricorda la potenza della mia magia.»

«Sì, Raistlin,» rispose Tas, giacendo del tutto immobile, inchiodato dallo sguardo fisso e fermo del mago.

«Credo sia saggio che tu rimanga a parlargli,» mormorò Crysania. «Queste tenebrose paure lo logoreranno e ostacoleranno il processo di guarigione. Tornerò da sola nella mia stanza, con l’aiuto di Paladine.»

«Così, siamo d’accordo nel non dirlo a Caramon?» Raistlin lanciò un’occhiata obliqua a Crysania.

«Sì,» rispose Crysania in tono deciso. «Non farebbe altro che preoccuparlo inutilmente.» Riportò lo sguardo sul suo paziente. «Tornerò domattina, Tasslehoff. Parla a Raistlin, sgrava la tua anima. E poi, dormi.» Appoggiando la sua fresca mano sulla fronte intrisa di sudore di Tas, aggiunse: «Possa Paladine essere con te.»

«Caramon?» chiese Tas, speranzoso. «Hai detto Caramon? E qui?»

«Sì, e quando avrai dormito, mangiato e riposato, ti porterò da lui.»

«Non potrei vederlo adesso?» gridò Tas, fremente, poi lanciò, timoroso, un’occhiata obliqua a Raistlin. «Sempre... sempre che non sia di troppo disturbo, s’intende...»

«Ha molto da fare,» dichiarò Raistlin, con freddezza. «Adesso è un generale, Tasslehoff. Ha eserciti da comandare, una guerra da combattere. Non ha tempo per i kender.»

«No, su... suppongo di no,» sospirò Tas, con un filo di voce, riadagiandosi sul cuscino, sempre con gli occhi puntati su Raistlin.

Con un’ultima, delicata carezza sulla sua testa, Crysania si alzò in piedi. Reggendo in mano il medaglione di Paladine, mormorò una preghiera e se ne andò, svanendo nella notte.

«E adesso, Tasslehoff,» disse Raistlin con una voce sommessa che fece tremare Tas, «siamo soli.»

Con le sue forti mani, il mago tirò li-coperte sopra il corpo del kender, e gli raddrizzò il cuscino sotto la testa. «Ecco, sei comodo?»

Tas non riuscì a parlare. Poteva soltanto fissare l’arcimago con crescente orrore.

Raistlin si sedette sul letto accanto a lui. Appoggiando una mano sottile sulla fronte di Tas, accarezzò con fare distratto la pelle del kender e gli lisciò all’indietro i capelli bagnati.

«Ti ricordi di Dalamar, il mio apprendista, Tas?» chiese Raistlin, come iniziando una conversazione. «Credo che tu l’abbia visto nella Torre della Grande Stregoneria, giusto?» Le dita di Raistlin erano leggere come zampe di ragno sul volto di Tas. «Ricordi che, a un certo punto, Dalamar si è lacerato le vesti nere, rivelando cinque ferite sul suo petto? Sì, vedo che te ne ricordi. Era la sua punizione, Tas. La punizione per avermi nascosto delle cose.» Le dita di Raistlin smisero di strisciare sulla pelle del kender e si arrestarono dov’erano, esercitando una certa pressione sulla fronte di Tas.

Il kender rabbrividì, mordendosi la lingua per evitare di urlare. «Sì, me ne ricordo, Raistlin.»

«Un’esperienza interessante, non credi?» chiese Raistlin con noncuranza. «Posso fonderti con un tocco, così come potrei fondere, diciamo,» scrollò le spalle, «il burro con un coltello arroventato. I kender amano le esperienze interessanti, credo.»

«Non... non così interessanti,» bisbigliò Tas, miseramente. «Ti racconterò tutto, Raistlin! Ti racconterò tutto quello che... che è successo.» Chiuse gli occhi per un istante, poi cominciò a parlare, con tutto il corpo che tremava al ricordo del terrore. «Non... non ci è sembrato tanto di sollevarci fuori dall’Abisso... ma che l’Abisso, al contrario, precipitasse via sotto di noi! E poi, come ho detto, ho visto che non era vuoto. Potevo vedere delle ombre, e ho pensato... ho pensato che fossero vallate e montagne...»

Gli occhi di Tas si spalancarono di colpo. Fissò il mago in preda allo sgomento. «Ma non lo erano! Quelle ombre erano i suoi occhi, Raistlin! E le colline e le vallate erano il suo naso e la sua bocca e ho... ho pensato che stesse per inghiottirci! Ma abbiamo continuato a sollevarci sempre di più, e lei precipitava via sotto di noi, turbinando, e poi mi ha guardato e ha detto... e ha detto...»

«Cos’ha detto?» volle sapere Raistlin. «Il messaggio per me! Dev’esserlo stato! È per questo che ha mandato te! Cos’ha detto la Regina?»

La voce di Tas divenne un flebile sussurro. «Ha detto, “Torna a casa...”».

Capitolo tredicesimo.

L’effetto delle sue parole su Raistlin sbalordì Tasslehoff più di qualunque altra cosa. Altre volte Tas aveva visto Raistlin arrabbiato. L’aveva visto soddisfatto, l’aveva visto commettere degli assassinii, aveva visto il volto del mago quando Kharas, l’eroe dei nani, aveva conficcato la spada nelle sue carni.

Ma non aveva mai visto una simile espressione.

Il volto di Raistlin divenne cinereo, impallidì talmente che Tas pensò, per un incoerente momento, che il mago fosse morto, che fosse rimasto fulminato sul posto. Quegli occhi simili a specchi parvero infrangersi ; Tas si vide riflesso nelle minuscole schegge della vista del mago. Poi vide quegli occhi perdere ogni capacità di riconoscimento, diventare completamente vuoti, fissare ciechi ciò che avevano davanti.

La mano appoggiata sulla sua testa cominciò a tremare violentemente. E, mentre il kender osservava con stupore, vide Raistlin che sembrò accartocciarsi davanti a lui. Il suo volto invecchiò in maniera percettibile. Quando si alzò in piedi, sempre con lo sguardo fisso intorno a sé senza vedere, l’intero corpo del mago era scosso da un tremito.

«Raistlin?» chiese Tas innervosito, lieto che il mago avesse distolto l’attenzione da lui, ma sconcertato dal suo strano aspetto.

Il kender si rizzò a sedere, in preda alla debolezza. Ma quella terribile sensazione di vertigine era scomparsa, insieme a quella bizzarra e insolita paura. Si sentiva, di nuovo, quasi del tutto se stesso.

«Raistlin... non avevo nessuna cattiva intenzione. Starai male, adesso? Hai un aspetto tremendamente strano...»

Ma l’arcimago non rispose. Barcollando all’indietro, Raistlin cadde contro la parete di pietra e rimase là, respirando affannosamente. Coprendosi il volto con una mano, lottò disperatamente per riprendere il controllo di sé, una lotta con qualche arcano avversario che era invisibile a Tas, come se il mago stesse combattendo contro uno spettro.

Poi con un lento, cavernoso urlo di rabbia, Raistlin si lanciò in avanti. Afferrò il Bastone di Magius e, con le vesti nere che gli sbattevano intorno, fuggì via attraverso la porta aperta.

Seguendo Raistlin con lo sguardo stupito, Tas lo vide passare di corsa davanti al nano scuro di guardia accanto alla soglia. Il nano lanciò un’occhiata al volto cadaverico di Raistlin, mentre il mago gli passava accanto correndo alla cieca e, con uno stridulo grido farneticante, si girò di scatto e schizzò via nella direzione opposta.

Questa fulminea successione di eventi fu così stupefacente che Tas impiegò parecchi istanti a rendersi conto che non era più prigioniero.

«Sai,» disse il kender fra sé e sé, portandosi la mano alla fronte, «Crysania aveva ragione. Mi sento meglio adesso che me lo sono tolto dalla mente. Non è servito molto a Raistlin, sfortunatamente, ma d’altronde... a me, cosa importa? Be’, non molto.» Tas sospirò. «Non capirò mai perché ha ucciso il povero Gnimsh. Forse, un giorno, avrò la possibilità di chiederglielo.

«Ma adesso,» il kender si guardò intorno, «la prima cosa da fare è trovare Caramon e dirgli che ho il congegno magico, e che possiamo andare a casa. Non ho mai pensato che l’avrei detto,» proseguì Tas con nostalgia, ruotando le gambe e appoggiando i piedi sul pavimento, «ma “casa” in questo momento suona tremendamente simpatico!»

Era sul punto di alzarsi, ma a quanto pareva le sue gambe preferivano tornare a letto, poiché Tas si ritrovò di nuovo seduto.

«Questo non va bene!» esclamò il kender, fissando con furore le parti disobbedienti del suo corpo.

«Senza di me non siete niente! Ricordatevelo! Sono io il capo, e quando dico muovetevi, voi vi muovete! Adesso, sto per alzarmi di nuovo,» ribadì, ammonendo severamente le sue gambe. «E mi aspetto un po’ di collaborazione.»

Quel discorso ebbe un certo effetto. Questa volta le sue gambe si comportarono un po’ meglio e il kender, anche se ancora un po’ traballante, riuscì ad attraversare la stanza buia verso il corridoio illuminato dalle torce che poteva vedere al di là della porta.

Raggiunta la porta, Tas sbirciò con cautela lungo il corridoio, nelle due direzioni, ma non c’era nessuno in vista. Strisciando fuori nel corridoio, vide soltanto celle buie e sbarrate, come quella in cui si era trovato lui, e ad una estremità una scala che conduceva in alto. Guardando verso l’altra estremità, vide soltanto ombre cupe.

«Chissà dove mi trovo?» Tas s’incamminò lungo il corridoio in direzione della scala, essendo, da quello che poteva vedere, l’unica via che conduceva di sopra. «Oh, be’,» rifletté il kender con filosofia, «non credo che abbia importanza. L’essere stato nell’Abisso ha di buono che qualunque altro posto, non importa quanto squallido, al confronto sembra simpatico.» Dovette fermarsi un momento per una breve discussione con le sue gambe, che parevano ancora assai tentate di tornarsene a letto, ma quella momentanea debolezza passò, e il kender raggiunse la base della scala.

Tendendo l’orecchio, potè udire delle voci.

«Maledizione,» borbottò, fermandosi e arretrando in mezzo alle ombre. «C’è qualcuno, lassù. Guardie, immagino. Sembrano nani. Quei, come li chiamano, Dewar.» Tas rimase immobile in silenzio, cercando di capire cosa stessero dicendo quelle voci profonde. «Una lingua che la gente possa capire... Però sembrano eccitati.»

Finalmente, sopraffatto dalla curiosità, Tas salì furtivo la prima rampa di gradini di pietra e sbirciò da dietro l’angolo. Si ritrasse rapidamente con un sospiro. «Sono in due. Bloccano la scala e non c’è modo di aggirarli.»

Non aveva più le borse con gli utensili e le armi, erano rimaste nella segreta della montagna di Thorbardin. Ma aveva ancora il suo coltello. «Non che serva a molto contro quelle!» rifletté Tas, richiamando alla mente le enormi asce da guerra che aveva visto impugnare ai nani.

Attese qualche altro momento, sperando che i nani se ne andassero. Una cosa era certa: apparivano eccitati, ma sembrava anche che avessero messo radici in quel punto.

«Non posso restare qui tutto il giorno, o la notte, qualunque cosa sia,» mugugnò il kender. «Be’, come diceva papà, “cerca sempre di parlare prima di scassinare la serratura.” Suppongo che il peggio che possano farmi, a parte uccidermi, sia di mettermi di nuovo sotto chiave. E se so giudicare le serrature, probabilmente sarei di nuovo fuori in meno di mezz’ora.» Ricominciò a salire le scale. «È stato papà a dirlo,» rifletté mentre saliva, «oppure lo zio Trapspringer?»

Girò l’angolo e affrontò i due Dewar, i quali parvero considerevolmente sorpresi di vederlo. «Ehi voi!» esclamò il kender con allegria. «Mi chiamo Tasslehoff Burrfoot.» Porse loro la mano. «E voi, come vi chiamate? Oh, non volete dirmelo. Comunque, è probabile che non riuscirei comunque a pronunciare i vostri nomi. Ecco, sono un prigioniero e sto cercando il tipo che mi teneva chiuso a chiave in quella cella laggiù. Forse lo conoscete, un fruitore di magia vestito di nero. Mi stava interrogando quando qualcosa che ho detto lo ha colto di sorpresa, credo, poiché ha avuto una specie di scatto ed è corso fuori della stanza. E si è dimenticato di chiudere la porta alle sue spalle. Qualcuno di voi ha visto da quale parte... Be’!» Tas sbatté le palpebre. «Che maleducati.»

Questo in risposta alla reazione dei Dewar che, dopo aver fissato il kender con crescente espressione di allarme sul viso, avevano urlato una parola, si erano girati ed erano scappati a gambe levate.

«Antarax,» ripetè Tas, seguendoli perplesso con lo sguardo. «Vediamo. Sembra nanesco per... per... Oh, naturalmente! La morte che brucia. Ah... pensano che io abbia ancora la peste! Mmm... è comodo. O no?»

Il kender si ritrovò solo in un altro lungo corridoio, desolato e squallido, in tutto e per tutto simile a quello che aveva appena lasciato. «Non so ancora dove mi trovo, e non c’è nessuno che sembri propenso a dirmelo. L’unica via d’uscita è quella scala laggiù, e quei due sono scappati appunto da quella parte, perciò la cosa migliore da fare, credo, sia quella di seguirli. Caramon deve per forza trovarsi da qualche parte qua dentro.»

Ma le gambe di Tas, che avevano già manifestato la loro avversione a camminare, informarono il kender in termini espliciti che mettersi a correre era fuori questione. Seguì perciò i nani quanto più rapidamente possibile con passo incespicante, ma i due nani erano sfrecciati su per le scale ed erano scomparsi alla sua vista quando arrivò a metà corridoio. Ansimando, sentendosi un po’ stordito ma deciso a trovare Caramon, Tas li seguì su per la scala. Quando girò l’angolo si fermò di colpo.

«Ups!» esclamò, e si affrettò a nascondersi in mezzo alle ombre. Tappandosi la bocca con una mano, si rimproverò severamente. «Chiudi il becco, Burrfoot! C’è l’intero esercito dei Dewar!»

E pareva proprio che fosse così. I due che aveva seguito avevano incontrato una ventina di nani.

Rannicchiato nell’ombra, Tas li sentì vociare tutti eccitati, e si aspettò di vederseli arrivare addosso con passo cadenzato da un momento all’altro... ma non successe nulla.

Aspettò, ascoltando la conversazione. Poi, rischiando una sbirciata, vide che alcuni dei nani presenti non avevano l’aspetto dei Dewar. Erano puliti, con la barba pettinata, ed erano rivestiti di armature sfavillanti. E non apparivano soddisfatti. Fissavano trucemente uno dei Dewar, come se avessero voluto scuoiarlo vivo.

«Nani delle montagne!» borbottò Tas fra sé, in preda allo stupore, riconoscendo le armature. «E da quello che Raistlin ha detto, sono il nemico. Il che significa che dovrebbero essere nella loro montagna, non nella nostra. Sempre che noi siamo in una montagna, naturalmente, cosa che comincio a considerare probabile, a giudicare dall’aspetto. Ma, mi chiedo...»

Quando uno dei nani della montagna cominciò a parlare, Tas s’illuminò. «Finalmente qualcuno che si fa capire!» Il kender sospirò di sollievo. A causa della mescolanza delle razze, il nano stava parlando una rozza mescolanza di comune e nanesco.

Il succo della conversazione, da quello che Tas riuscì a seguire, era che al nano della montagna non importava una pietra crepata dello stregone matto o di un kender errabondo infestato dalla peste.

«Siamo venuti qui per prendere la testa del generale Caramon,» ringhiò il nano delle montagne.

«Hai detto che lo stregone ha promesso di organizzare la cosa. Bene, allora, adesso tocca a noi. E, comunque, preferisco fare a meno di trattare con una Veste Nera. E adesso rispondi a questo, Argat. I tuoi sono pronti ad attaccare l’esercito dall’interno? Siete pronti a uccidere questo generale? Oppure era soltanto un trucco? Se è così, scoprirete che si ripercuoterà duramente sul vostro popolo a Thorbardin!»

«Non trucco!» ringhiò Argat, serrando il pugno. «Noi pronti agire. Il generale è in Stanza di Guerra. Lo stregone detto che assicurato che lui solo con guardia del corpo e basta. Nostra gente spingerà nani colline ad attaccare. Quando voi manterrete vostra parte accordo, quando esploratori daranno segnale che grandi porte di Thorbardin sono aperte...»

«Il segnale sta già suonando mentre parliamo,» sbottò il nano delle montagne. «Se fossimo al di sopra del livello del suolo, potresti sentire le trombe. L’esercito sta avanzando!»

«Allora andremo!» disse Argat. Facendo un inchino, aggiunse, con una risata di scherno: «Se Vostra Signoria osa venire con noi, prendiamo testa di generale Caramon, adesso, subito!»

«Mi unirò a voi,» disse, gelido, il nano delle montagne. Non fosse altro per essere sicuro che non macchiniate qualche altro tradimento!»

Tas, che si era appoggiato alla parete, perse qualunque altra cosa che i due si stessero dicendo.

Aveva le gambe formicolanti e gli ronzavano gli orecchi.

«Caramon!» bisbigliò, stringendosi la testa, cercando di pensare. «Lo uccideranno! Ed è stato Raistlin a far questo!» Tas rabbrividì. «Povero Caramon. Il suo gemello. Se lo sapesse, probabilmente ci resterebbe secco. I nani non avrebbero bisogno delle asce.»

D’un tratto il kender sollevò la testa di scatto. «Tasslehoff Burrfoot!» esclamò, infuriato. «Cosa stai facendo, te ne stai fermo come un nano dei fossi con un piede nel fango? Devi salvarlo! Dopotutto, non hai promesso a Tika che ti saresti preso cura di lui?»

«Salvarlo? E come, pomolo di porta che non sei altro?» tuonò una voce dentro di lui, che assomigliava in modo molto sospetto a quella di Flint. «Devono esserci almeno venti nani! E tu sei armato di quell’ammazza conigli!»

«Penserò a qualcosa,» replicò Tas. «Tu resta seduto sotto il tuo albero e basta!»

Udì un suono, come di qualcuno che sbuffava. Ignorandolo con fredda decisione, il kender si rizzò in tutta la sua altezza, sfoderò il suo piccolo pugnale, e cominciò a strisciare avanti in completo silenzio, come possono farlo soltanto i kender, lungo il corridoio.

Capitolo quattordicesimo.

Aveva i capelli scuri e ricciuti e il sorriso truffaldino che più tardi gli uomini avrebbero trovato così affascinante in sua figlia. Aveva la semplice, ingenua onestà che avrebbe caratterizzato uno dei suoi figli, e aveva un dono, un raro e meraviglioso potere, che avrebbe trasmesso all’altro figlio.

Aveva la magia nel sangue come l’aveva suo figlio. Ma era debole: debole di volontà, debole di spirito. Così, aveva lasciato che la magia prendesse il controllo di lei, e così, alla fine, era morta.

Né Kitiara dall’anima forte, né Caramon dal fisico robusto, erano rimasti molto colpiti dalla morte della loro madre. Kitiara odiava sua madre di un’amara gelosia, mentre Caramon, pur volendo bene a sua madre, era assai più vicino al suo fragile gemello. Inoltre, le bizzarre farneticazioni e le trance mistiche di sua madre ne facevano un completo enigma per il giovane guerriero.

Ma la sua morte aveva devastato Raistlin. L’unico dei suoi figli che veramente la capiva, provava pietà per la sua debolezza pur disprezzandola allo stesso tempo. Ed era furioso con lei perché era morta, furioso perché l’aveva lasciato solo al mondo, solo con il suo dono. Era arrabbiato e, nel suo intimo, era pieno di paura, poiché Raistlin vedeva in lei la propria condanna.

In seguito alla morte di suo padre, sua madre per il profondo dolore era entrata in una trance dalla quale non era mai più riemersa. Raistlin era stato impotente. Non aveva potuto far nulla se non assistere al suo graduale decadimento. Rifiutando ostinatamente il cibo, era andata alla deriva, smarrendosi in piani magici che soltanto lei poteva vedere. E il mago, suo figlio, ne era rimasto scosso fin nel profondo del suo intimo.

Quell’ultima notte era rimasto seduto accanto a lei. Tenendole la mano devastata nella propria, l’aveva osservata mentre i suoi occhi infossati e febbricitanti fissavano le meraviglie evocate dalla sua forsennata magia.

Quella notte, Raistlin aveva giurato nel profondo della sua anima che nessuno e niente avrebbero mai avuto il potere di manipolarlo in quel modo, non suo fratello gemello, non sua sorella, non la magia, non gli dei. Lui, e lui soltanto, sarebbe stato la forza-guida della propria vita.

L’aveva giurato, ed era stato un giuramento amaro e vincolante. Ma lui era ancora un ragazzo, un ragazzo rimasto solo nel buio mentre sedeva là insieme a sua madre, la notte in cui era morta.

L’aveva vista esalare l’ultimo, tremante respiro. Tenendole la mano sottile dalle dita delicate (così simili alle sue!), aveva implorato sommessamente in mezzo alle lacrime: «Madre, torna a casa... Torna a casa!»

Adesso a Zhaman sentiva di nuovo quelle parole, che lo sfidavano, lo deridevano, lo provocavano.

Risuonavano nelle sue orecchie, riverberavano nel suo cervello con clangori selvaggi e discordanti.

Con la testa che gli scoppiava per il dolore, incespicò contro una parete.

Una volta, Raistlin aveva visto Lord Ariakas torturare un cavaliere fatto prigioniero chiudendo l’uomo dentro la torre campanaria. Quella notte, per tutta la notte, i chierici scuri avevano suonato le campane in lode alla loro Regina. Il mattino seguente l’uomo era stato trovato morto, con un’espressione di orrore sul suo viso così profonda e spaventevole che perfino coloro che solitamente traevano il loro perverso piacere dalla crudeltà si sbarazzarono in tutta fretta del cadavere.

Raistlin ebbe l’impressione di essere imprigionato nella sua personale torre campanaria, con le sue stesse parole che gli riecheggiavano la condanna dentro il cranio. Barcollando, stringendosi la testa, cercò disperatamente di cancellarne il suono.

«Torna a casa... Torna a casa...»

Stordito e accecato dal dolore, il mago cercò di sfuggirlo. Andò in giro vacillando, senza nessuna chiara idea di dove si trovasse, cercando solamente una via di scampo. I suoi piedi intorpiditi persero l’equilibrio. Inciampando sull’orlo della veste nera, cadde sulle ginocchia.

Un oggetto schizzò fuori da una tasca delle sue vesti e rotolò sul pavimento di pietra. Nel vederlo, Raistlin ruggì per la rabbia e la paura. Era un altro segno del suo fallimento, il globo dei draghi, crepato, oscurato, inutile. Cercò spasmodicamente di afferrarlo, ma il globo slittò via come una biglia di vetro sui mattoni del pavimento, eludendo la sua stretta artigliante.

Disperato, strisciò dietro al globo che, alla fine, smise di rotolare. Con un gemito di rabbia Raistlin fece per impadronirsene, poi si arrestò. Sollevando la testa, sgranò gli occhi. Vide dov’era, e arretrò, tremando.

Davanti a lui si profilava il Grande Portale.

Era esattamente come quello nella Torre della Grande Stregoneria a Palanthas. Una gigantesca porta ovale che si ergeva su una piattaforma, decorata e custodita dalle teste di cinque draghi. I loro colli sinuosi si dipanavano serpeggiando sul pavimento, le cinque teste erano rivolte verso l’interno, le cinque bocche aperte urlavano il silenzioso tributo alla loro Regina.

Nella Torre di Palanthas, la porta che dava sul Portale era chiusa. Nessuno poteva aprirla salvo che dall’interno dello stesso Abisso, venendo dalla direzione opposta, un’uscita da un luogo dal quale nessuno usciva mai. Anche se quella porta era chiusa, vi era chi poteva entrarvi: insieme, un Chierico dalle Vesti Bianche d’Infinita Bontà, e un Arcimago dalle Vesti Nere d’Infinita Malvagità.

Era un’improbabile combinazione. Così i grandi maghi avevano sperato di sigillare per sempre quel terribile ingresso su un piano immortale.

Un comune mortale che avesse guardato dentro il Portale, non poteva veder nulla, soltanto un’oscurità totale e gelida.

Ma Raistlin non era più un comune mortale. Avvicinandosi sempre più alla sua Regina, rivolgendo le sue energie e i suoi studi verso quel singolo oggetto, l’arcimago si trovava adesso in una condizione sospesa fra entrambi i mondi. Guardando dentro quella porta chiusa, poteva quasi penetrare quell’oscurità! Essa vibrava e ondeggiava davanti alla sua vista. Strappando lo sguardo dal Portale, riportò la sua attenzione sul Globo dei draghi, cercando di riafferrarlo.

Come ha fatto a sfuggirmi? si chiese con rabbia. Aveva chiuso il globo in una borsa nascosta in fondo a una delle tasche segrete delle sue vesti... Ma subito si fece beffe di se stesso, poiché conosceva la risposta. Ogni Globo dei draghi era dotato d’un profondo senso di autoconservazione.

Quello presente a Istar era sfuggito al Cataclisma ingannando il re degli elfi, Lorac, inducendolo a rubarlo e a portarlo a Silvanesti. Quando il Globo non aveva più potuto servirsi del folle Lorac, si era attaccato a Raistlin. Aveva sorretto la vita di Raistlin, quando questi si era trovato morente nella biblioteca di Astinus. Aveva cospirato con Fistandantilus per portare il giovane dalla Regina delle Tenebre. Adesso, avvertendo il più grande pericolo che avesse minacciato la sua esistenza, stava cercando di sfuggirgli.

No, lui non l’avrebbe permesso! Allungò il braccio e la sua mano si chiuse con fermezza sul Globo dei draghi.

Vi fu un urlo stridente...

Il Portale si aprì.

Raistlin levò lo sguardo. Non si era aperto per farlo entrare. No, si era aperto per ammonirlo, per mostrargli la punizione per l’insuccesso.

Prostrato sulle ginocchia, stringendo il Globo al petto, Raistlin sentì la presenza e la maestà di Takhisis, Regina delle Tenebre, levarsi davanti a lui. Colto dallo sgomento, si rannicchiò tremante ai piedi della Regina Tenebrosa.

Questa è la tua condanna! Le sue parole gli sibilarono nella mente. il destino di tua madre sarà il tuo. Inghiottito dalla tua magia, sarai tenuto per sempre nell’incanto, e neppure la dolce consolazione della morte porrà fine alle tue sofferenze!

Raistlin crollò. Sentì il suo corpo accartocciarsi. Così aveva visto il corpo avvizzito di Fistandantilus accartocciarsi al tocco dell’ematite.

Con la testa appoggiata sul pavimento di pietra, così com’era stata appoggiata sul ceppo del boia del suo incubo, il mago stava per ammettere la sconfitta...

Ma c’era un nucleo di forza nell’intimo di Raistlin. Molto tempo addietro, a Par-Salian, capo dell’ordine delle Vesti Bianche, era stato affidato un compito dagli dei. Avevano bisogno di un fruitore di magia abbastanza forte da aiutarli a sconfiggere il male crescente della Regina delle Tenebre. Par-Salian aveva cercato a lungo e alla fine aveva scelto Raistlin poiché aveva visto dentro al giovane mago quel nucleo interiore di forza. Era stata una massa fredda e informe di ferro, quanto Raistlin. Ma Par-Salian aveva sperato che il fuoco rovente della sofferenza, del dolore, della guerra, e dell’ambizione, avrebbe forgiato quella massa nel miglior acciaio temprato.

Raistlin sollevò la testa dalla fredda pietra.

Il calore della furia della Regina si abbatteva intorno a lui. Il sudore gli colava dal corpo. Non riusciva a respirare mentre il fuoco gli ustionava i polmoni. La Regina lo tormentava, lo beffeggiava usando le sue stesse parole, le sue stesse visioni. Rideva di lui, così come molti altri avevano riso di lui in passato. Eppure, perfino mentre il suo corpo tremava di una paura diversa da qualunque altra avesse mai conosciuto prima, l’anima di Raistlin cominciò ad esultare.

Perplesso, cercò di analizzare questo fatto. Tentò di riprendere il controllo e, dopo uno sforzo che lo lasciò debole e tremante, bandì il suono echeggiante della voce di sua madre dalle sue orecchie.

Chiuse gli occhi al sorriso canzonatorio della sua Regina.

L’oscurità l’avvolse e vide, nella fresca, dolce oscurità, la paura della Regina.

Aveva paura... paura di lui!

Lentamente, Raistlin si alzò in piedi. Venti roventi soffiavano dal Portale, gonfiando le vesti nere intorno a lui, fino a quando gli parve d’essere avvolto da nubi tempestose. Adesso poteva guardare direttamente dentro il Portale. I suoi occhi si strinsero. Guardò la temuta porta con un ghigno truce e contorto. Poi, sollevando la mano, Raistlin scagliò il Globo dei draghi dentro il Portale.

Colpendo quell’invisibile parete, il Globo s’infranse. Vi fu un grido quasi impercettibile. Oscure ali d’ombra svolazzarono intorno alla testa del mago, poi, con un gemito, le ali si dissolsero in fumo e vennero soffiate via.

Una forza percorse il corpo di Raistlin, una forza quale non aveva mai conosciuto prima. La consapevolezza della debolezza del suo nemico lo colpì come un liquore intossicante. Sentì il magico flusso scorrere dalla sua mente nel suo cuore e da qui nelle vene. Il potere di secoli di apprendimento, accumulato e assorbito, era suo, suo e di Fistandantilus.

E poi lo sentì, il limpido squillo d’una tromba, la sua musica, fredda come l’aria che soffiava dalle montagne coperte di neve delle terre dei nani visibili in distanza. Il richiamo della tromba echeggiò puro e terso nella sua mente, scacciando le voci che lo distraevano, chiamandolo nell’oscurità, dandogli il potere sulla morte stessa.

Raistlin fece una pausa. Non aveva avuto l’intenzione di varcare così presto il Portale. Gli sarebbe piaciuto aspettare un po’ di più. Ma adesso sarebbe andato bene lo stesso, se fosse stato necessario.

L’arrivo del kender significava che il tempo poteva venir alterato. La morte dello gnomo garantiva che non ci sarebbe stata nessuna interferenza da parte del congegno magico, l’interferenza che aveva causato la morte di Fistandantilus.

Il momento era venuto.

Raistlin rivolse al Portale un’ultima, lunga occhiata. Poi, gratificando la sua Regina di un inchino, si girò e si allontanò con passo deciso lungo il corridoio.

Crysania era inginocchiata a pregare nella propria stanza.

Era stata sul punto di coricarsi, dopo essere ritornata dalla stanza del kender, ma l’aveva colta uno strano, sinistro presentimento. C’era qualcosa nell’aria che rendeva difficile respirare. Una sensazione di attesa l’aveva fatta esitare. Il sonno non voleva venire. Era vigile, sveglia, più sveglia di quanto lo fosse stata in tutta la sua vita.

Il cielo era pieno di luce, la fredda luce delle stelle che ardeva nel buio; la luna d’argento, Solinari, risplendeva come un pugnale. Poteva vedere ogni singolo oggetto nella sua stanza con una chiarezza soprannaturale. Ognuno di essi pareva vivo, intento a osservare, ad aspettare insieme a lei.

Come pietrificata fissava le stelle, tracciando le linee delle costellazioni: Gilean, il Libro, i Piatti della Bilancia; Takhisis, La Regina delle Tenebre, il Drago dai Molti Colori e Nessuno; Paladine, il Guerriero Coraggioso, il Drago di Platino. Le lune: Solinari, l’Occhio di Dio; Lunitari, la Candela della Notte. Al di là di tutto questo, schierati nei cieli, gli dei minori, e fra essi i pianeti.

E da qualche parte la Luna Nera, la luna che soltanto i suoi occhi potevano vedere.

Restando così immobile, fissando la notte, Crysania sentì le sue dita diventare fredde quando le appoggiò sulla gelida pietra. Si rese conto che stava rabbrividendo e si girò, dicendosi che era giunto il momento di dormire...

Ma c’era ancora quel tremulo respiro della notte. «Aspetta,» le bisbigliava. «Aspetta...»

E poi udì la tromba. Pura e tersa, la sua musica le penetrò il cuore, urlando un peana di vittoria che le elettrizzò il sangue.

In quel preciso istante, la porta della sua stanza si aprì.

Non fu sorpresa di vederlo. Era come se si fosse aspettata il suo arrivo, e si girò con calma a fronteggiarlo.

Raistlin si stagliava sulla soglia, i suoi contorni risaltavano contro la luce delle torce che avvampavano nel corridoio e risaltavano anche per la luce che sgorgava tenebrosa da sotto le sue vesti, una luce empia che veniva da dentro.

Attirata da una strana forza, Crysania sollevò di nuovo lo sguardo al cielo e vide Nuitari, la Luna Nera, che brillava di quella stessa luce tenebrosa.

Per un attimo chiuse gli occhi, sopraffatta da quell’improvviso afflusso di sangue che la stordiva, dal battito del proprio cuore. Poi, sentendo che le forze le tornavano, li aprì di nuovo e trovò Raistlin in piedi davanti a lei.

Trattenne il fiato. L’aveva visto nell’estasi della magia, l’aveva visto combattere contro la sconfitta e la morte. Adesso lo vedeva nel pieno delle sue forze, nella maestà del suo tenebroso potere. Una saggezza e un’intelligenza antiche erano incise nel suo volto, un volto che Crysania stentò a riconoscere come suo.

«È giunto il momento, Crysania,» le disse, tendendole le mani.

Lei le prese. Le sue dita erano gelide, il tocco di Raistlin le fece bruciare. «Ho paura,» bisbigliò Crysania.

Lui le si avvicinò.

«Non c’è bisogno che tu abbia paura,» le disse. «Il tuo dio è con te. Lo vedo con chiarezza. È la mia dea che ha paura, Crysania. Percepisco la sua paura! Insieme, tu ed io attraverseremo le frontiere del tempo ed entreremo nel regno della morte. Insieme combatteremo contro la Tenebra. Insieme metteremo in ginocchio Takhisis!»

Le sue mani l’attirarono vicino al proprio petto, le sue braccia l’avvolsero. Le sue labbra si chiusero sopra quelle di lei, rubandole il respiro con il suo bacio.

Crysania chiuse gli occhi e lasciò che il fuoco magico, il fuoco che consumava i corpi dei morti, consumasse il suo corpo, consumasse quel guscio freddo, spaventato, vestito di bianco, che aveva tenuto nascosto durante tutti quegli anni.

Raistlin si tirò indietro, tracciandole i contorni della bocca con il dito, sollevandole il mento in modo che lei potesse guardarlo negli occhi. E là, riflesso nello specchio della sua anima, Crysania vide se stessa, che ardeva di un’aura fiammeggiante di luce radiosa, pura e bianca. Vide se stessa bella, amata, adorata. Vide se stessa che portava al mondo verità e giustizia, bandendo per sempre il dolore, la paura e la disperazione.

«Sia benedetto Paladine,» bisbigliò Crysania.

«Sempre sia benedetto,» rispose Raistlin. «Ancora una volta ti darò un amuleto. Come ti ho protetto quando hai attraversato il Bosco di Shoikan, così sarai difesa quando varcheremo il Portale.»

Crysania tremò. Attirandola a sé, stringendola un’ultima volta, le premette le labbra sulla fronte.

Crysania sussultò ma non gridò. Lui le sorrise.

«Vieni.»

Sulle parole bisbigliate di un incantesimo alato, lasciarono la stanza uscendo nella notte, proprio mentre i raggi rossi di Lunitari si riversavano nell’oscurità, il sangue tratto dal coltello luccicante di Solinari.

Capitolo quindicesimo.

«Ed i carri dei rifornimenti?» chiese Caramon con voce misurata e tranquilla, la voce di chi conosce già la risposta.

«Nessuna notizia, signore,» rispose Garic, evitando lo sguardo fermo di Caramon. «Ma... li stiamo aspettando...»

«Non arriveranno. Sono caduti in un’imboscata. Tu lo sai bene.» Caramon dette in uno stanco sorriso.

«Per lo meno abbiamo trovato l’acqua,» disse Garic, poco convinto, facendo uno sforzo coraggioso per apparire allegro e fallendo miseramente. Tenendo lo sguardo fisso sulla mappa allargata sul tavolo davanti a lui, tracciò nervosamente un piccolo cerchio intorno a un minuscolo punto verde sulla pergamena.

Caramon sbuffò. «Una pozza che sarà vuota entro mezzogiorno. Oh, sicuro, si riempie di nuovo durante la notte, ma il mio sudore ha un gusto migliore. Quella dannata roba dev’essere inquinata dall’acqua del mare.»

«Comunque è potabile. La stiamo razionando, naturalmente, e abbiamo messo delle sentinelle tutt’intorno. Ma non sembra che stia per inaridirsi.»

«Oh, insomma. Fra un po’ non dovremo più preoccuparci perché non rimarranno più uomini per berla,» disse Caramon, passandosi la mano con un sospiro attraverso i capelli ricciuti.

Nella stanza faceva caldo e l’aria era soffocante. Qualche servitore troppo zelante aveva buttato della legna sul fuoco prima che Caramon, abituato a vivere all’aperto, potesse fermarlo. L’omone aveva spalancato una finestra per lasciar entrare l’aria fresca e frizzante, ma le fiamme che ruggivano alle sue spalle lo tostavano ugualmente per benino. «Oggi, qual è il totale dei disertori?»

Garic si schiarì la gola. «Circa... circa un centinaio, signore,» disse con riluttanza.

«Dove vanno? Pax Tharkas?»

«Sì, signore. Così crediamo.»

«Che altro?» chiese Caramon, cupo in volto, studiando la faccia di Garic. «Tu mi nascondi qualcosa.»

Il giovane cavaliere arrossì. In quel momento, Garic provò il vivo desiderio che mentire non fosse contro ogni codice d’onore. Così come avrebbe dato la sua vita per risparmiare a quell’uomo un dolore, allo stesso modo era quasi pronto a mentire. Esitò, poi, guardando Caramon, vide che non sarebbe stato necessario. Il generale lo sapeva già.

Caramon annuì con estrema lentezza. «Gli uomini delle pianure?»

Garic abbassò lo sguardo sulle mappe.

«Tutti? »

«Sì, signore.»

Caramon chiuse gli occhi. Sospirando sommessamente prese una delle piccole figure di legno che erano state disposte sulla mappa per rappresentare la posizione e lo schieramento delle sue truppe.

Girandola fra le dita, divenne pensieroso. Poi, all’improvviso, con un’amara imprecazione, si girò e scagliò la figurina in mezzo al fuoco. Un istante dopo si prese fra le mani la testa dolorante.

«Suppongo di non poter biasimare Darknight. Non sarà facile per lui e per i suoi uomini, neppure adesso. Senza dubbio i nani delle montagne hanno occupato i passi alle nostre spalle, è questo che è successo ai carri dei rifornimenti. Dovrà combattere per aprirsi la strada fino a casa. Possano gli dei essergli vicini.»

Caramon rimase silenzioso un momento, poi serrò i pugni. «Maledizione a mio fratello!» imprecò.

«Maledizione a lui!»

Garic si spostò, innervosito. Fece dardeggiare lo sguardo intorno a sé, timoroso che la figura abbigliata di nero potesse materializzarsi dalle ombre. .«Bene,» esclamò Caramon, raddrizzandosi e studiando ancora una volta le mappe. «Questo non ci condurrà da nessuna parte. Ora, la nostra sola speranza, da come la vedo io, è tenere quello che è rimasto del nostro esercito qui sui Pianori. Dobbiamo attirare fuori i nani, costringerli a combattere all’aperto, così da poter utilizzare la nostra cavalleria. Non riusciremo mai ad aprirci una strada dentro la montagna,» aggiunse, ed una nota di amarezza s’insinuò nella sua voce, «ma per lo meno possiamo ritirarci con la speranza di riconquistare Pax Tharkas con le nostre forze ancora intatte. Una volta là, potremo fortificarla e...»

«Generale.» Una delle sentinelle alla porta entrò nella stanza, arrossendo per il fatto di aver dovuto interrompere. «Ti prego di scusarmi, signore, ma è arrivato un messaggero.»

«Fallo entrare.»

Un giovane entrò nella stanza. Coperto di polvere, con le guance arrossate dal freddo, lanciò al fuoco un’occhiata piena di desiderio, ma venne avanti per consegnare il suo messaggio.

«No, vai a riscaldarti,» lo invitò Caramon, facendo segno all’uomo di avvicinarsi al caminetto.

«Sono contento che qualcuno possa apprezzarlo. Ho comunque la sensazione che la tua notizia sarà ben poco appetibile.»

«Grazie, signore,» disse l’uomo con gratitudine. In piedi accanto al fuoco protese le mani verso il calore. «La mia notizia è questa... i nani delle colline se ne sono andati.»

«Andati?» ripetè Caramon, del tutto sbalordito, alzandosi in piedi. «Andati dove? Non saranno certo tornati...»

«Stanno marciando su Thorbardin.» Il messaggero esitò. «E, signore, i Cavalieri sono andati con loro.»

«È una follia» Il pugno di Caramon si abbatté sul tavolo, facendo schizzare in tutte le direzioni i segnalini di legno mentre le mappe si arrotolavano ai bordi. Il suo volto s’incupì. «Mio fratello...»

«No, signore. A quanto pare sono stati i Dewar. Mi è stato detto di consegnarti questo.» Tirò fuori un rotolo di pergamena dalla borsa e lo porse a Caramon, che si affrettò a srotolarlo.

Generale Caramon, ho appena appreso dalle spie dei Dewar che le porte della montagna si apriranno quando squillerà la tromba. Progettiamo di coglierli di sorpresa. Muovendoci all’alba, arriveremo là al calar della notte. Mi spiace che non ci sia stato il tempo d’informarti. Stai certo che riceverai la parte del bottino che ti è dovuta, anche se arriverai in ritardo. Che la luce di Reorx risplenda sulle nostre asce.

Reghar Fireforge

La mente di Caramon riandò al pezzo di pergamena macchiato di sangue che aveva stretto in mano non molto tempo prima. Lo stregone ti ha tradito...

«Dewar!» Caramon aggrottò le sopracciglia. «Spie dei Dewar. Spie, certo, ma non per noi! Traditori, certo, ma non della loro gente!»

«Una trappola,» esclamò Garic, alzandosi in piedi anche lui.

«E ci siamo cascati dentro come un branco di dannati conigli!» borbottò Caramon, pensando a un altro coniglio preso in trappola, vedendo con l’occhio della mente suo fratello che lo metteva in libertà. «Pax Tharkas cade. Non è una gran perdita. Può sempre venir riconquistata, specialmente se i difensori sono morti. La nostra gente che diserta a branchi. Gli uomini delle pianure che se ne vanno. E adesso i nani delle colline che marciano su Thorbardin, e i Dewar che marciano con loro. E quando la tromba squillerà...»

Risuonò lo squillo limpido e terso della tromba. Caramon sussultò. Lo sentiva, oppure era un sogno, portato sulle ali d’una terribile visione? Quasi lo vedeva recitato davanti ai suoi occhi... i Dewar che, lentamente, impercettibilmente si sparpagliavano in mezzo ai nani delle colline, infiltrandosi fra i loro ranghi. Con le mani che protendevano verso le asce, i martelli...

La maggior parte della gente di Reghar non avrebbe mai saputo cosa li aveva colpiti, non avrebbe mai avuto una sola possibilità di colpire.

Caramon poteva udire le urla, i tonfi degli stivali di ferro, il cozzare delle armi, e le grida aspre e discordanti. Era vero, talmente vero...

Smarrito nella sua visione, Caramon fu solo vagamente consapevole dell’improvviso pallore sul volto di Garic. Sfoderando la spada, il giovane cavaliere balzò verso la porta con un urlo che riportò Caramon di colpo alla realtà. Girandosi di scatto, vide una marea nera di nani scuri avanzare fuori della porta. C’era un bagliore d’acciaio.

«Un’imboscata!» urlò Garic.

«Ritiratevi!» tuonò Caramon. «Non uscite là fuori! I Cavalieri se ne sono andati, siamo i soli qui dentro! Restate dentro le stanze, sbarrate la porta!» Balzando su Garic, afferrò il cavaliere e lo trascinò indietro. «Voi guardie, ritiratevi!» urlò ai due che erano ancora fuori della porta e adesso stavano combattendo per la loro vita.

Caramon afferrò il braccio di una delle guardie per trascinarla dentro, calando nello stesso tempo la propria spada sulla testa di un Dewar che stava attaccando. L’elmo del nano s’infranse. Il sangue schizzò su Caramon, ma lui non vi prestò la minima attenzione. Spingendo la guardia dietro di sé, Caramon si scagliò con tutto il proprio peso addosso all’orda dei nani scuri che si accalcavano nel corridoio e la sua spada saettò scavando una corsia di sangue in mezzo a loro.

«Ritirati, pazzo!» urlò senza voltarsi alla seconda guardia, che esitò solo un attimo e poi fece come gli veniva ordinato. La feroce carica di Caramon ebbe l’effetto voluto di cogliere i Dewar impreparati: questi arretrarono incespicando, in preda a un momentaneo panico alla vista dei suo furore bellico. Ma, appunto, fu soltanto un panico momentaneo. Già Caramon potè vedere che stavano recuperando morale e coraggio.

«Generale! Attento!» urlò Garic, in piedi sulla soglia, con la spada ancora in pugno. Voltandosi, Caramon fece per rientrare nella sicurezza della stanza delle mappe. Ma il suo piede scivolò sulle pietre coperte di sangue e l’omone cadde a terra, slogandosi dolorosamente il ginocchio.

Con un urlo selvaggio, un Dewar gli balzò addosso.

«Entrate! Sbarrate la porta, voi...!» Il resto delle parole di Caramon andò perduto mentre scompariva sotto una massa ribollente di nani.

«Caramon!»

Provando un tuffo al cuore, maledicendosi per essersi tirato indietro, Garic si lanciò nella mischia.

Un colpo di martello gli si abbatté sul braccio, e sentì l’osso scricchiolare. La sua mano sinistra divenne flaccida. Be’, pensò, dimentico del dolore, per fortuna non è il braccio con cui impugno la spada... La sua lama roteò, un nano scuro stramazzò al suolo decapitato. La lama di un’ascia sibilò, ma colui che la brandiva mancò il bersaglio. Il nano venne colpito alle spalle da una delle guardie della porta.

Malgrado fosse incapace di reggersi in piedi, Caramon combatteva ancora. Un calcio della sua gamba sana fece barcollare all’indietro due nani, mandandoli a schiantarsi contro i loro compagni.

Torcendosi su un lato, l’omone fracassò con l’elsa della sua spada il volto di un altro nano, facendosi schizzare il sangue fino ai gomiti. Poi, con un colpo di ritorno, affondò la lama nel ventre di un altro nano. La carica di Garic gli aveva risparmiato la vita per un istante... ma parve davvero l’ultimo.

«Caramon! Sopra di te!» urlò Garic, combattendo ferocemente.

Rotolandosi sulla schiena, Caramon sollevò lo sguardo e vide Argat che si ergeva sopra di lui con l’ascia alzata. Caramon sollevò la propria spada, ma in quel momento quattro nani scuri gli balzarono addosso, inchiodandolo sul pavimento.

Quasi piangendo per la rabbia, incurante delle armi che balenavano intorno a lui, Garic cercò disperatamente di salvare Caramon. Ma c’erano troppi nani fra lui e il suo generale. Già l’ascia del Dewar stava calando...

L’ascia calò... ma cadde da mani inerti. Garic vide gli occhi di Argat che si spalancavano per il profondo stupore. L’ascia del nano cadde sulle pietre rese viscide dal sangue con un sonoro sferragliare mentre lo stesso nano scuro crollava addosso a Caramon. Fissando il corpo di Argat, Garic vide un piccolo coltello che sporgeva dalla nuca del nano.

Sollevò lo sguardo per vedere chi fosse l’uccisore del nano, e restò a bocca aperta per lo stupore.

Fra tutte le cose possibili, in piedi sul corpo del traditore morto, c’era un kender.

Garic sbatté le palpebre, pensando che forse la paura e il dolore avevano giocato uno strano tiro alla sua mente, inducendolo a vedere fantasmi. Ma non ebbe il tempo di capire quello straordinario avvenimento. Il giovane cavaliere era finalmente riuscito ad arrivare al fianco del suo generale.

Poteva sentire, alle sue spalle, le guardie che urlavano e respingevano i Dewar i quali, visto cadere il loro capo, avevano smarrito tutt’a un tratto il loro entusiasmo per un combattimento che avrebbe dovuto essere un facile massacro.

I quattro nani che stavano impegnando Caramon si affrettarono a battere in ritirata incespicando mentre l’omone si contorceva per tirarsi fuori da sotto il corpo di Argat. Abbassando la mano, Garic tirò su con uno strattone il nano morto per il rovescio dell’armatura, e buttò di lato il corpo, poi aiutò Caramon ad alzarsi in piedi. L’omone barcollò, gemendo, quando il ginocchio storpiato cedette sotto il suo peso.

«Dateci una mano!» gridò Garic, senza che ce ne fosse bisogno, alle guardie che erano già al suo fianco. Mezzo trascinando mezzo trasportando Caramon, aiutarono l’omone zoppicante a rientrare nella stanza delle mappe.

Voltandosi per seguirli, Garic lanciò una rapida occhiata lungo il corridoio. I nani scuri li stavano fissando, chiaramente incerti. Garic intravide altri nani alle loro spalle, la sua mente registrò il fatto che si trattava di nani delle montagne.

E là, dando l’impressione di essere inchiodato nel punto in cui si trovava, c’era lo strano kender che era sbucato dal nulla, all’apparenza per salvare la vita a Caramon. Il volto del kender era cinereo e le sue labbra erano verdognole. Non sapendo che altro fare, Garic avvolse il braccio buono intorno alla vita del kender e, tirandolo su da terra, lo trasportò dentro la stanza delle mappe. Non appena anche loro furono dentro, chiusero la porta con un tonfo e la sbarrarono.

Il volto di Caramon era coperto di sangue e di sudore, ma guardò Garic sogghignando, poi assunse un’espressione severa.

«Dannato pazzo d’un cavaliere,» urlò. «Ti avevo dato un ordine preciso e tu l’hai disobbedito! Dovrei...»

Ma la sua voce s’interruppe quando il kender, dimenandosi nella stretta di Garic, sollevò la testa.

«Tas!» bisbigliò Caramon, stupefatto.

«Ciao, Caramon,» disse Tas con un filo di voce. «Sono... sono tremendamente contento di rivederti. Mi sono smarrito, per venirtelo a dire, ed è molto importante, e in effetti dovrei dirtelo adesso, ma... ma penso... sto... per svenire.»

«E così ecco tutto,» concluse Tas con voce sommessa, gli occhi offuscati dalle lacrime, mentre fissava il volto pallido e senza espressione di Caramon. «Mi ha mentito su come far funzionare il congegno magico. Quando ci ho provato, mi si è sfasciato fra le mani. Ma sono riuscito a vedere la montagna di fuoco che cadeva,» aggiunse, «e questo è valso tutto il fastidio. Forse sarebbe valsa anche la pena di morire, pur di vederla. Non ne sono sicuro, dal momento che non sono ancora morto, anche se per un po’ ho pensato di esserlo. Però, non ne varrebbe certo la pena se dovessi passare nell’Abisso la vita dopo la morte, non è un posto simpatico. Non riesco a immaginare perché lui voglia andarci.»

Tas sospirò, poi riprese: «Ma, comunque, per questo potrei anche perdonarlo,» la voce del kender s’indurì e puntò in avanti la sua piccola mascella, in un gesto volitivo, «ma non per quello che ha fatto al povero Gnimsh e per quello che ha cercato di farti...»

Tasslehoff si morse la lingua. Non aveva avuto intenzione di dirlo.

Caramon lo fissò. «Vai avanti, Tas,» gli ingiunse. «Cos’è che ha cercato di farmi?»

«N... niente,» balbettò Tas, rivolgendo a Caramon un sorriso smorto. «Tu mi conosci, sai che faccio sempre un sacco di discorsi sconnessi.»

«Cos’è che ha cercato di farmi?» Caramon ebbe un amaro sorriso. «Non pensavo che rimanesse ancora qualcosa che potesse farmi.»

«Farti uccidere,» borbottò Tas.

«Ah, sì.» L’espressione di Caramon non cambiò. «Certo. Così era questo il significato del messaggio del nano.»

«Ti ha venduto ai... ai Dewar,» disse Tas, infelice. «Avrebbero portato la tua testa a re Duncan. Raistlin ha mandato via tutti i Cavalieri che si trovavano nella fortezza, dicendo loro che avevi ordinato che partissero per Thorbardin.» Tas indicò con una mano Garic e le due guardie. «Ha detto ai Dewar che avresti avuto con te soltanto le tue guardie del corpo.»

Caramon non disse niente. Non provava niente, né dolore, né rabbia, né sorpresa. Si sentiva vuoto.

Poi, una grande ondata di nostalgia per la sua casa, per Tika, per i suoi amici, per Tanis, Laurana, per Riverwind e Goldmoon, arrivò impetuosa, riempiendo quell’enorme vuoto.

Come se avesse letto i suoi pensieri, Tas appoggiò la piccola testa sulla spalla di Caramon.

«Possiamo tornare al nostro tempo, adesso?» chiese, sollevando su Caramon uno sguardo pieno di desiderio. «Sono terribilmente stanco. Senti, pensi che potrei rimanere con te e con Tika per un po’? Soltanto fino a quando mi sentirò meglio. Non vi darò nessun fastidio, lo prometto...»

Con gli occhi offuscati per le lacrime, Caramon cinse il kender con un braccio e lo tenne stretto a sé. «Fino a quando vorrai Tas.» gli disse. Sorridendo con tristezza, fissò le fiamme. «Completerò la casa. Non ci vorranno più di un paio di mesi. Poi andremo a trovare Tanis e Laurana. Avevo promesso che l’avremmo fatto, ma pareva proprio che non ci arrivassi mai. Tika ha sempre voluto vedere Palanthas, sai. E forse potremo andare tutti a visitare la tomba di Sturm. Non ho mai avuto la possibilità di dirgli addio.»

«E potremo andare a trovare Elistan e... oh!» Il volto di Tas divenne allarmato. «Crysania! Dama Crysania! Ho cercato di dirle di Raistlin, ma non mi crede! Non possiamo lasciarla!» Balzò in piedi, stringendosi le mani. «Non possiamo permettere che la porti in quell’orribile posto!»

Caramon scosse la testa. «Cercheremo di parlarle di nuovo, Tas. Non credo che ascolterà, ma per lo meno possiamo provare.» Si alzò in piedi ancora sofferente. «Adesso saranno già al Portale.

Raistlin non può aspettare ancora a lungo. La fortezza cadrà ben presto nelle mani dei nani delle montagne.

«Garic,» disse ancora Caramon, avvicinandosi zoppicando al punto in cui sedeva il cavaliere.

«Come va?»

Un altro cavaliere aveva appena finito di sistemare il braccio rotto di Garic. Gli avevano messo una rudimentale benda ad armacollo, legando il braccio sul lato in modo che rimanesse immobile. Il giovane sollevò lo sguardo su Caramon, serrando i denti per il dolore ma riuscendo tuttavia a sorridere.

«Starò bene, signore,» rispose in tono esausto. «Non preoccuparti.»

Sorridendo, Caramon trascinò una sedia vicino a lui e vi si sedette. «Te la senti di viaggiare?»

«Certo, signore.»

«Bene. In realtà immagino che tu non abbia molta scelta. Questo posto tra poco verrà invaso. Dovrai cercare di uscire adesso.» Caramon si sfregò il mento. «Reghar mi ha detto che c’erano delle gallerie che correvano sotto i Pianori, gallerie che conducevano da Pax Tharkas a Thorbardin. Il mio consiglio è di trovarle. Non dovrebbe essere troppo difficile. Quei tumuli là fuori conducono ad esse. Dovreste essere in grado di usare quelle gallerie quanto meno per allontanarvi da qui sani e salvi.»

Garic non rispose. Lanciando un’occhiata alle altre due guardie, replicò poi con calma: «Hai detto il “tuo consiglio”, signore. E tu? Non vieni con noi?»

Caramon si schiarì la gola e fece per rispondere, ma non riuscì a parlare. Abbassò lo sguardo sui propri piedi. Quello era il momento che aveva temuto e, adesso che era arrivato, il discorso che aveva preparato con tanta cura gli venne soffiato fuori dalla testa come avrebbe fatto il vento con una foglia.

«No, Garic,» alla fine parlò. «Non verrò.» Vedendo lampeggiare gli occhi del cavaliere e immaginando quello che stava pensando, l’omone sollevò la mano. «No, non sarò così sciocco da sacrificare la mia vita per qualche stupida e nobile causa, come ad esempio quella di salvare il mio ufficiale comandante!»

Garic arrossì imbarazzato mentre Caramon lo guardava sogghignando.

«No,» proseguì l’omone con voce ancora più cupa, «io non sono un cavaliere, grazie agli dei. Ho abbastanza buon senso per scappare quando so di essere stato battuto.» Si passò la mano fra i capelli. «Non posso spiegartelo così da farti capire. Neppure io sono sicuro di capirlo, per lo meno non del tutto. Ma... diciamo che il kender ed io abbiamo una via magica per tornare a casa.»

Garic fece passare una rapida occhiata dall’uno all’altro. «Non tuo fratello?» replicò, corrugando la fronte e oscurandosi in volto.

«No,» rispose Caramon, «non mio fratello. Qui, lui ed io ci separiamo. Lui ha la sua vita da vivere e, me ne sono finalmente accorto, io ho la mia.» Appoggiò la mano sulla spalla di Garic.

«Raggiungi Pax Tharkas. Tu e Michael fate quanto potete per aiutare quelli che riusciranno ad arrivare fin là sani e salvi a sopravvivere all’inverno.»

«Ma...»

«È un ordine, Sir Cavaliere,» l’interruppe Caramon, con asprezza.

«Sì, signore.» Garic distolse lo sguardo da Caramon, passandosi rapidamente la mano sugli occhi.

Caramon, un’espressione gentile sul volto, mise un braccio sulle spalle del giovane. «Che Paladine sia con te, Garic,» disse stringendolo a sé. Guardò gli altri, lì vicino. «Possa essere con tutti voi.»

Garic sollevò lo sguardo stupito su di lui, le lacrime gli luccicavano sulle guance. «Paladine?» chiese con voce amara. «Il dio che ci ha abbandonati?»

«Non perdere la tua fede, Garic,» lo ammonì Caramon, alzandosi in piedi con una smorfia di dolore. «Anche se non puoi credere nel dio riponi la fiducia nel tuo cuore. Ascolta la sua voce al di sopra del Codice della Misura. E un giorno capirai.»

«Sì, signore,» mormorò Garic. «E... possa qualsiasi divinità in cui credi essere con te, signore.»

«Credo che lo siano state,» disse Caramon, sorridendo mesto, «e lo sono state per tutta la mia vita. Soltanto, sono stato troppo testardo e non ho voluto ascoltare. Adesso sarà meglio che andiate.»

Ad uno ad uno salutò gli altri giovani cavalieri, fingendo d’ignorare i loro virili tentativi di nascondere le lacrime. Rimase profondamente commosso nel vedere il loro dolore al momento del commiato, un dolore che condivideva con loro ad un punto tale che avrebbe potuto accasciarsi e mettersi a piangere lui stesso come un bambino.

Con cautela, i Cavalieri aprirono la porta e sbirciarono fuori nel corridoio. Era vuoto, salvo per i cadaveri. I Dewar se n’erano andati e Caramon non aveva alcun dubbio che quella tregua sarebbe durata quel tanto che bastava per permetter loro di riorganizzarsi. Forse stavano aspettando l’arrivo di rinforzi. Poi avrebbero attaccato la stanza delle mappe e finito quei pochi umani.

Con la spada in pugno, Garic condusse i suoi Cavalieri fuori nel corridoio chiazzato di sangue, con l’intenzione di seguire le indicazioni piuttosto confuse di Tas sul modo in cui raggiungere i livelli più bassi della fortezza magica. (Tas si era anche offerto di disegnare per loro una mappa, ma Caramon aveva dichiarato che non ce n’era il tempo.)

Quando, infine, i Cavalieri se ne furono andati, e l’ultima eco dei passi si fu spenta in distanza, Tas e Caramon s’incamminarono a loro volta, ma nella direzione opposta. Prima di avviarsi, comunque, Tas recuperò il proprio coltello dal corpo di Argat.

«E tu, una volta, mi avevi detto che un pugnale come questo sarebbe servito soltanto ad uccidere dei conigli rabbiosi,» esclamò Tas, con orgoglio, ripulendo la lama dal sangue prima d’infilarselo alla cintura.

«Non parlare di conigli, adesso,» disse Caramon, con una voce strana e piena di tensione tale che Tas lo guardò, e rimase sorpreso nel constatare come il suo volto fosse diventato d’un pallore mortale.

Capitolo sedicesimo.

Questo era il suo momento, il momento che era venuto per affrontare. Il momento per il quale aveva sopportato il dolore, le umiliazioni, l’angoscia della sua vita. Il momento per il quale aveva studiato, combattuto, si era sacrificato... aveva ucciso.

Lo assaporò, lasciando che il potere scorresse su di lui e attraverso lui, lasciando che lo circondasse, lo sollevasse. Nessun altro suono, nessun altro oggetto, nient’altro al mondo esisteva per lui in quel momento, salvo il Portale e la magia.

Ma già mentre esultava per quel momento, la sua mente era intenta al lavoro. I suoi occhi studiarono il Portale, studiarono con attenzione ogni singolo particolare, anche se realmente non era necessario. L’aveva visto una miriade di volte nei suoi sogni, sia quando dormiva sia da sveglio. Gli incantesimi per aprirlo erano semplici, niente di troppo elaborato o complesso. Ognuna delle cinque teste di drago che circondavano e sorvegliavano il Portale doveva esser propiziata con l’esatta frase.

A ognuna bisognava rivolgersi nel corretto ordine. Ma, una volta che ciò fosse stato fatto e il chierico dalle vesti bianche avesse esortato Paladine a intercedere e a tenere aperto il Portale, sarebbero entrati. E il Portale si sarebbe richiuso alle loro spalle.

E lui si sarebbe trovato ad affrontare la sua più grande sfida.

Il pensiero lo eccitava. Il cuore che gli batteva rapido gli faceva montare il sangue nelle vene, gli faceva pulsare le tempie, palpitare la gola. Guardando Crysania, annuì. Il momento era giunto.

Il chierico, la faccia arrossata per l’accresciuta eccitazione e con gli occhi che già le brillavano per la radiosità dell’estasi generata dalle sue preghiere, prese posto direttamente all’interno del Portale, di fronte a Raistlin. Questa mossa esigeva che riponesse la più totale, completa, ferma fiducia in lui.

Una sillaba pronunciata male, il respiro sbagliato nel momento sbagliato, il minimo lapsus linguale, o un gesto errato della mano, sarebbero stati fatali a lei, e a lui stesso.

Così gli antichi (escogitando dei sistemi per sorvegliare quella temuta porta che, a causa della loro follia, non potevano chiudere) avevano cercato di proteggerla. Che uno stregone dalle Vesti Nere, il quale aveva commesso le orrende azioni che essi sapevano che dovevano venir commesse per arrivare a quel punto, e un chierico di Paladine, puro nella fede e nell’anima, si fidassero implicitamente l’uno dell’altro, era per loro una supposizione ridicola.

Eppure era successo una volta: vincolati dal falso fascino dell’uno e dalla perduta fede dell’altro, Fistandantilus e Denubis avevano raggiunto quel punto. E a quanto pareva, adesso sarebbe successo di nuovo, con due vincolati da qualcosa che gli antichi, malgrado tutta la loro saggezza, non avevano previsto: un amore strano, sacrilego.

Entrando nel Portale, guardando Raistlin per l’ultima volta in questo mondo, Crysania gli sorrise. E lui le sorrise in risposta già mentre le parole del primo incantesimo si formavano nella sua mente.

Crysania sollevò le braccia. Adesso i suoi occhi guardavano al di là di Raistlin, fissando il brillante, bellissimo regno dove dimorava il suo dio. Crysania aveva sentito le ultime parole del Gran Sacerdote, conosceva l’errore che lui aveva commesso: un errore d’orgoglio, esigendo dal dio, nella sua arroganza, ciò che invece avrebbe dovuto chiedere in umiltà.

In quel momento Crysania era arrivata a capire per quale motivo gli dei avevano, nella loro giusta collera, inflitto al mondo la distruzione. E aveva altresì saputo nel suo cuore che Paladine avrebbe risposto alle sue preghiere, mentre non aveva risposto a quelle del Gran Sacerdote. Quello era il momento della grandezza per Raistlin, ma era anche il suo.

Come il Santo Cavaliere, Huma, lei aveva superato le prove. La prova del fuoco, dell’oscurità, della morte e del sangue. Era pronta. Era preparata.

«Paladine, Drago di Platino, la tua fedele servitrice viene davanti a te e t’implora di concederle la tua benedizione. I suoi occhi sono aperti alla tua luce. Infine ella comprende ciò che tu, nella tua saggezza, hai cercato d’insegnarle. Ascolta le sue preghiere, Radioso. Sii con lei. Apri questo Portale, in modo che lei possa entrare e avanzare reggendo la tua torcia. Cammina con lei mentre cerca di bandire per sempre l’oscurità.»

Raistlin trattenne il fiato. Tutto dipendeva da questo! Aveva avuto ragione, su di lei? Possedeva la forza, la saggezza, la fede? Era davvero la prescelta di Paladine?...

Crysania cominciò a risplendere di una luce pura e santa. I suoi capelli neri brillarono, le sue vesti bianche rifulsero come nubi illuminate dal sole, i suoi occhi sfolgorarono come la luna d’argento. La sua bellezza, in quel momento, era sublime.

«Grazie per aver esaudito le mie preghiere, Dio della Luce,» mormorò Crysania, chinando la testa.

Le lacrime scintillavano come stelle sul suo pallido volto. «Sarò degna di te!»

Guardandola, incantato dalla sua bellezza, Raistlin dimenticò la sua grande meta. Potè soltanto fissarla, ammaliato. Perfino i pensieri della sua magia, per un battito di cuore, gli sfuggirono.

Poi esultò. Niente... adesso, niente avrebbe potuto fermarlo!

«Oh, Caramon!» bisbigliò Tas sgomento. «Siamo arrivati troppo tardi,» disse Caramon.

I due, dopo aver trovato la strada attraverso le segrete fino nel più profondo della fortezza magica, si fermarono di colpo con gli occhi fissi su Crysania. Avvolta in un alone di luce d’argento, era immobile al centro del Portale, le braccia protese, il volto levato al cielo. La sua bellezza ultraterrena trafisse il cuore di Caramon.

«Troppo tardi? No!» gridò Tas in preda all’angoscia. «Non è possibile!» «Guarda, Tas,» disse Caramon con tristezza. «Guarda i suoi occhi. È cieca. Cieca! Cieca proprio come lo ero io nella Torre della Grande Stregoneria. Non può vedere attraverso la luce...»

«Dobbiamo cercare di parlarle, Caramon!» Tas lo strinse freneticamente. «Non possiamo lasciarla andare. È... è colpa mia! Sono stato io a dirle di Bupu! Forse non sarebbe venuta se non fosse stato per me! Le parlerò!»

Il kender balzò in avanti, agitando le braccia. Ma venne all’improvviso trascinato indietro da Caramon, il quale lo afferrò per il ciuffo dei capelli. Tas lanciò uno strillo di dolore e di protesta, e a quel suono Raistlin si voltò.

L’arcimago fissò il suo gemello e il kender per un istante, senza dare l’impressione di riconoscerli.

Poi il riconoscimento albeggiò nei suoi occhi. Non era piacevole.

«Zitto, Tas,» bisbigliò Caramon. «Non è colpa tua. Adesso stai fermo!» Caramon spinse il kender dietro a un massiccio pilastro di granito. «Rimani qua,» gli ordinò l’omone. «Tieni al sicuro il ciondolo, e anche te.»

Tas aprì la bocca per ribattere. Poi vide la faccia di Caramon e, sbirciando in fondo al corridoio, vide Raistlin. Qualcosa s’impadronì del kender. Riconobbe la stessa sensazione che aveva provato nell’Abisso: infelicità e spavento. «Sì, Caramon,» disse con un filo di voce. «Rimarrò qui. Lo... lo prometto...»

Appoggiandosi al pilastro, tutto tremante, Tas poteva vedere nella sua mente il povero Gnimsh accartocciato sul pavimento della cella.

Rivolgendo al kender un’ultima occhiata di avvertimento, Caramon si girò e, zoppicando, avanzò lungo il corridoio verso suo fratello.

Stringendo in mano il Bastone di Magius, Raistlin continuò a tenergli gli occhi addosso, circospetto. «Così, sei sopravvissuto,» commentò.

«Grazie agli dei, non a te,» replicò Caramon.

«Grazie a un dio, mio caro fratello,» ribadì Raistlin, con un lieve sorriso contorto. «La Regina delle Tenebre. È stata lei a rimandare qui il kender, ed è stato lui, presumo, ad alterare il tempo permettendo che la tua vita venisse risparmiata. Ti irrita, Caramon, sapere che devi la vita alla Regina Tenebrosa?»

«Ti irrita sapere che devi a lei la tua anima?»

Gli occhi di Raistlin lampeggiarono, la loro superficie simile a uno specchio si crepò giusto per un istante. Poi, con un sorriso sardonico, girò loro le spalle. Rivolto verso il Portale, sollevò la mano destra con il palmo verso l’esterno, lo sguardo sulla testa di drago all’estremità inferiore destra dell’ingresso a forma di ovale.

«Drago nero,» la sua voce era morbida, carezzevole, «dall’oscurità all’oscurità la mia voce echeggia nel vuoto.»

Mentre Raistlin pronunciava quelle parole, un’aura di tenebra cominciò a formarsi intorno a Crysania, un’aura di luce nera come il gioiello della notte, nera come la luce della luna scura...

Raistlin sentì la mano di Caramon chiudersi sopra il suo braccio. Rabbiosamente cercò di scuotersi di dosso la stretta di suo fratello, ma la morsa di Caramon era troppo forte.

«Portaci a casa, Raistlin...»

Raistlin si girò di scatto e lo fissò. Il suo stupore era tale che dimenticò la propria collera. «Cosa?» chiese con voce rotta.

«Portaci a casa,» ripetè Caramon con fermezza.

Raistlin dette in una risata sprezzante.

«Sei uno sciocco... uno sciocco debole e piagnucoloso, Caramon!»

Caramon si protese verso il fratello e lo afferrò per il polso proteso e l’arcimago trasecolò per la meraviglia.

Ma lo stupore lasciò, presto, spazio alla collera e Raistlin cercò di liberarsi dalla presa dell’omone che, però, resistette. A questo punto il mago latrò. Irritato, cercò di nuovo di scuotersi di dosso la stretta del suo gemello. Sarebbe stato lo stesso se avesse cercato di scuotersi di dosso la morte. «Di certo, ormai saprai quello che ho fatto! Il kender deve averti detto dello gnomo. Sai che ti ho tradito. Ti avrei lasciato morire in questo luogo sciagurato. Eppure ti aggrappi ancora a me!»

«Mi aggrappo a te perché le acque si stanno chiudendo sopra la tua testa, Raistlin,» disse Caramon.

Abbassò lo sguardo sulla propria mano robusta, arsa dal sole, che serrava il polso sottile del fratello, con le ossa fragili come quelle di un uccello, la pelle bianca, quasi trasparente. Caramon immaginò di poter vedere il sangue che pulsava in quelle vene azzurrognole.

«La mia mano sul tuo braccio. È tutto quello che abbiamo.» Caramon ristette ed emise un profondo sospiro.

Poi, con la voce resa profonda dal dolore, continuò: «Niente potrà cancellare ciò che hai fatto, Raist. Fra noi non potrà mai più esserci la stessa cosa. Mi sono stati aperti gli occhi. Adesso ti vedo per quello che sei.»

«Eppure mi preghi di venire con te!» lo beffeggiò Raistlin.

«Potrei imparare a vivere con la consapevolezza di ciò che sei e di ciò che hai fatto.» Guardando intensamente dentro gli occhi di suo fratello, Caramon continuò con voce sommessa: «Ma devi vivere con te stesso, Raistlin. E ci sono momenti nella notte quando ciò deve riuscirti quasi dannatamente insopportabile.»

Raistlin non rispose. Il suo volto era una maschera impenetrabile.

Caramon deglutì: la gola gli doleva. La sua stretta sul braccio del gemello si serrò ancora di più.

«Pensa a questo, comunque. Hai fatto del bene nella tua vita, Raistlin, forse meglio della maggior parte di noi. Oh, io ho aiutato della gente. È facile aiutare qualcuno, quando quell’aiuto è apprezzato. Ma tu hai aiutato coloro che, poi, ti sputavano in faccia. Hai aiutato coloro che non lo meritavano. Hai prestato aiuto perfino quando sapevi che non ci poteva essere speranza, gratitudine.» La mano di Caramon tremava. «C’è ancora del bene che potresti fare... per compensare il male. Lascia perdere. Torna a casa.»

Torna a casa... torna a casa.

Raistlin chiuse gli occhi, il dolore nel suo cuore era quasi insopportabile. La sua mano sinistra si agitò, si sollevò. Le sue dita delicate si librarono sopra la mano di suo fratello, sfiorandola per un istante con un tocco morbido come le zampe di un ragno. Ai limiti della realtà poteva udire la voce sommessa di Crysania che pregava Paladine. Quell’adorabile luce bianca tremolò sulle sue palpebre.

Torna a casa...

Quando Raistlin parlò di nuovo, la sua voce era morbida come il suo tocco.

«Non puoi neppure cominciare a immaginare i crimini tenebrosi che macchiano la mia anima, fratello. Se lo sapessi, mi volteresti le spalle per l’orrore e la ripugnanza.» Sospirò, con un leggero brivido. «E, hai ragione, talvolta, di notte, perfino io volto le spalle a me stesso.»

Raistlin aprì gli occhi e fissò quelli di suo fratello. «Ma sappi questo, Caramon: ho commesso questi crimini intenzionalmente, volontariamente. E sappi anche questo: mi aspettano crimini ancora più tenebrosi, e li commetterò intenzionalmente, volontariamente...» Il suo sguardo andò a Crysania, immobile, senza nulla vedere, sulla soglia del Portale, smarrita nelle sue preghiere, rilucendo di bellezza e di potere.

Caramon la guardò e il suo volto s’incupì.

Raistlin, osservandolo, sorrise. «Sì, fratello mio. Entrerà con me nell’Abisso. Mi precederà e combatterà le mie battaglie. Affronterà i chierici scuri, gli scuri fruitori di magia, gli spiriti dei morti condannati a vagare in quella terra maledetta, oltre agli incredibili tormenti che la mia Regina può congegnare. Tutto questo la ferirà nel corpo, divorerà la sua mente e farà a brandelli la sua anima.

Infine, quando non potrà più sopportarlo, si accascerà al suolo per giacere ai miei piedi... sanguinante, infelice, morente.

«Con le sue ultime forze, tenderà la mano verso di me a cercare conforto. Non mi chiederà di salvarla. È troppo forte per questo. Darà la sua vita per me con gioia, volontariamente. Mi chiederà soltanto di rimanere con lei mentre muore.»

Raistlin tirò un profondo sospiro, poi scrollò le spalle. «Ma io camminerò oltre, Caramon. L’oltrepasserò senza degnarla di uno sguardo, di una parola. Perché? Perché non avrò più bisogno di lei. Proseguirò verso la mia meta, e la mia forza crescerà già mentre il sangue scorrerà fuori dal suo cuore trafitto.»

Voltandosi a metà, sollevò ancora una volta la mano sinistra, con il palmo rivolto all’infuori.

Fissando la testa del drago sulla sommità del Portale, pronunciò sommessamente la seconda salmodia: «Drago Bianco. Da questo mondo al prossimo la mia voce grida di vita.»

Lo sguardo di Caramon era sul Portale, su Crysania. La sua mente era invasa dall’orrore e dalla ripugnanza. Però continuava a stringere suo fratello. Pensava ancora di rivolgergli un’ultima implorazione. Poi sentì il braccio sottile contorcersi all’improvviso sotto la sua mano. Vi fu un lampo, un rapido movimento, e la lama luccicante del pugnale d’argento premette contro la carne della sua gola, proprio dove il sangue della vita gli pulsava sul collo.

«Lasciami andare, fratello mio,» disse Raistlin.

E malgrado non l’avesse colpito col pugnale, gli tolse lo stesso il sangue; glielo tolse non dalla carne, ma dall’anima. Rapido e preciso, recise l’ultimo legame spirituale che esisteva ancora fra i gemelli. Caramon sussultò leggermente per il dolore fulmineo e lancinante che avvertì al cuore. Ma il dolore non durò. Il legame era troncato. Finalmente libero, Caramon lasciò il braccio di suo fratello senza dire una parola.

Si voltò e tornò indietro zoppicando, là dove Tas lo stava aspettando, sempre nascosto dietro il pilastro.

«Come ultimo suggerimento ti invito alla cautela, fratello mio,» disse Raistlin, con voce gelida, reinserendo il pugnale nella cinghia che portava al polso.

Caramon non rispose. Non smise di camminare, né si voltò.

«Stai attento a quel magico congegno del tempo,» continuò Raistlin con una risata di scherno. «Sua Maestà Tenebrosa lo ha riparato. È stata lei a mandare indietro il kender. Se lo userai, potresti trovarti in un luogo estremamente sgradevole!»

«Oh, ma non è stata lei ad aggiustarlo!» gridò Tas, schizzando fuori dal riparo del pilastro. «È stato Gnimsh a farlo! Il mio amico Gnimsh. Lo gnomo che hai assassinato. Io...»

«Usalo, allora,» replicò Raistlin, gelido. «Porta fuori da qui lui e te stesso, Caramon. Ma ricordati che ti ho avvertito.»

Caramon afferrò l’arrabbiatissimo kender. «Calma, Tas. Basta così. Adesso non ha più importanza.»

Caramon si voltò e fronteggiò il suo gemello. Anche se il volto del guerriero era tirato per il dolore e la stanchezza, la sua espressione era calma, e piena di pace, l’espressione di qualcuno che finalmente conosce se stesso. Accarezzando il ciuffo di capelli di Tas con una mano, per tranquillizzarlo disse: «Vieni, Tas. Andiamo a casa. Addio, fratello mio.»

Raistlin non lo sentì. Rivolto al Portale, era ancora una volta smarrito nella sua magia. Ma con la coda dell’occhio, proprio mentre iniziava la terza salmodia, Raistlin vide il suo gemello che prendeva il ciondolo dalla mano di Tas, dando inizio alla sua manipolazione che avrebbe tramutato la sua forma da ciondolo a congegno magico per i viaggi nel tempo.

Che vadano pure. Una sospirata liberazione! pensò Raistlin. Finalmente mi sono sbarazzato di quell’idiota rozzo e goffo!

Riportando lo sguardo sul Portale, Raistlin sorrise. Un cerchio di luce fredda, come l’aspro bagliore del sole sulla neve, circondava Crysania. L’ordine che l’arcimago aveva impartito al drago bianco era stato ascoltato.

Sollevando la mano, rivolto alla testa del terzo drago nella parte inferiore sinistra del Portale, Raistlin recitò il suo canto.

«Drago Rosso. Dalla tenebra alla tenebra io urlo sotto i miei piedi tutto si consolida.»

Linee rosse sprizzarono fuori dal corpo di Crysania attraverso la luce bianca, attraverso l’alone nero. Rosse e brucianti come il sangue, coprirono lo spazio da Raistlin fino al Portale, un ponte verso il più oltre.

Raistlin alzò la voce. Voltandosi a destra, chiamò il quarto drago: «Drago Azzurro. Il tempo che scorre/mantieni sul tuo corso.»

Fiotti azzurri di luce corsero sopra Crysania, poi cominciarono a vorticare. Come se stesse galleggiando sull’acqua, Crysania protese la testa all’indietro, tendendo le braccia, con le vesti che le svolazzavano intorno in mezzo al turbinio della luce, i suoi capelli neri andarono alla deriva sulle correnti del tempo.

Raistlin sentì fremere il Portale. Il campo magico cominciava ad attivarsi ed a reagire ai suoi ordini! La sua anima vibrò d’una gioia che Crysania condivise. Gli occhi di lei luccicarono di lacrime estatiche, le sue labbra si dischiusero in un dolce sospiro. Le sue mani si allargarono e, a un suo tocco, il Portale si aprì!

Raistlin sentì il respiro mozzarglisi in gola. L’ondata di potere e di estasi che gli percorse il corpo quasi lo soffocò. Adesso poteva vedere attraverso il Portale. Poteva vedere il piano, là oltre, il piano proibito ai mortali.

Da qualche parte, udita a malapena, gli giunse la voce di suo fratello che stava attivando il congegno magico: «Il tuo tempo è il tuo, anche se ci viaggi attraverso... Afferra saldamente l’inizio e la fine... il destino sia sopra la tua testa...»

A casa. Torna a casa...

Raistlin cominciò la quinta salmodia. «Drago Verde. Poiché dal destino persino gli dei vengono abbattuti/piangete tutti con me.»

La voce di Raistlin esitò, si spezzò. Qualcosa non andava! La magia che pulsava attraverso il suo corpo rallentò, divenne pigra. Raistlin tartagliò le ultime parole, ma ogni singolo respiro era uno sforzo. Per un istante, il suo cuore cessò di battere, poi cominciò di nuovo con un grande balzo che scosse la sua fragile ossatura.

Stravolto e confuso, Raistlin fissò spasmodicamente il Portale. L’incantesimo finale aveva funzionato? No! La luce intorno a Crysania cominciava a ondeggiare. Il campo si stava formando?

Disperato, Raistlin gridò di nuovo le parole dell’ultimo canto. Ma la sua voce cedette, gli si ritorse addosso come una frusta, pungendolo. Cosa stava succedendo? Poteva sentire la magia sgusciar via dal suo pugno. Stava perdendo il controllo... Torna a casa...

La voce della sua Regina che rideva, lo beffeggiava. La voce di suo fratello, implorante, addolorata... E poi, un’altra voce, la voce acuta di un kender, udita debolmente, smarrita tra le sue faccende più importanti. Adesso lampeggiò attraverso il suo cervello con una luce accecante. È stato Gnimsh ad aggiustarlo... Lo gnomo, il mio amico... Nell’identico modo in cui la lama del nano aveva penetrato le carni di Raistlin che cercava di sottrarvisi, adesso il ricordo delle parole lette nelle Cronache di Astinus gli trafisse l’anima:

«Nel medesimo istante uno gnomo, che era stato tenuto prigioniero dai nani di Thorbardin, attivava un congegno per i viaggi nel tempo... In qualche modo il congegno dello gnomo interagì con gli incantesimi potenti e delicati intessuti da Fistandantilus... Vi fu un’esplosione di tali proporzioni che i Pianori di Dergoth vennero completamente distrutti...» Raistlin strinse i pugni per la rabbia.

Uccidere lo gnomo era stato inutile! Quella disgraziata creatura aveva pasticciato con il congegno prima della sua morte. La storia si sarebbe ripetuta! Le orme nella sabbia...

Guardando dentro il Portale, Raistlin vide il boia uscirne fuori. Vide la propria mano sollevare il cappuccio nero, vide il lampo della lama dell’ascia che scendeva, le sue stesse mani che la calavano sul proprio collo! Il campo magico cominciò a spostarsi con violenza. Le teste di drago che circondavano il Portale dettero in uno stridente urlo di trionfo. Uno spasimo di dolore e di terrore contorse il volto di Crysania. Guardando dentro i suoi occhi, Raistlin vide l’identica espressione che aveva colto negli occhi di sua madre mentre fissavano senza vederlo un lontanissimo piano d’esistenza. Torna a casa...

All’interno dello stesso Portale le luci turbinanti cominciarono follemente a vorticare. Turbinando fuori controllo, si levarono sopra e intorno al corpo infiacchito del chierico, così come le fiamme magiche si erano levate intorno a lei nella città della peste. Crysania gridò per il dolore. La sua carne cominciò ad avvizzire alla luce splendida e micidiale della magia incontrollata.

Quasi accecato da quel fulgore, le lacrime scorsero fuori dagli occhi di Raistlin mentre fissava quell’incredibile vortice. E poi vide... che il Portale si stava chiudendo.

Scagliando il suo Bastone magico sul pavimento, Raistlin scatenò la sua collera con un urlo amaro e folle di dolore.

In risposta, fuori dal Portale giunse una risata beffarda e gorgheggiante.

Torna a casa...

Una sensazione di calma s’impadronì di Raistlin, la fredda calma della disperazione. Aveva fallito.

Ma lei non l’avrebbe mai visto strisciare. Se lui doveva morire, sarebbe morto all’interno della sua magia...

Sollevò la testa. Si alzò in piedi. Usando tutti i suoi grandi poteri, i poteri degli antichi, i suoi poteri, i poteri che non aveva neanche idea di possedere, i poteri che sorsero da qualche parte buia e nascosta perfino a lui. Raistlin sollevò le braccia e la sua voce urlò di nuovo. Ma questa volta non era un urlo incoerente di disperazione frustrante. Questa volta le sue parole erano chiare. Questa volta urlò parole di comando... parole di comando che mai prima di allora erano state pronunciate su quel mondo.

E questa volta, le sue parole vennero sentite e capite.

Il campo tenne. Lui l’aveva tenuto. Poteva sentire se stesso che si teneva aggrappato ad esso. Al suo ordine, il Portale fremette e smise di chiudersi.

Raistlin tirò un profondo, tremante sospiro. Poi, con la coda dell’occhio, da qualche parte alla sua destra, vide un lampo. Il magico congegno per viaggiare nel tempo era stato attivato!

Il campo sobbalzò e ondeggiò impetuoso. A mano a mano che il congegno magico cresceva e si diffondeva, le sue potenti vibrazioni indussero a cantare le rocce stesse della fortezza. Come un’onda devastante i loro canti montarono intorno a Raistlin. Giunsero in risposta le urla stridenti e rabbiose dei draghi. Le voci senza tempo delle rocce e le voci senza tempo dei draghi lottarono, fluttuarono insieme, e alla fine si unirono in una cacofonia discordante capace di annientare la mente.

Il suono era assordante, penetrante. La forza dei due potenti incantesimi frantumò il suolo. La terra sotto i piedi di Raistlin tremò. Le rocce che cantavano si spalancarono. Le teste metalliche dei draghi si creparono...

Lo stesso Portale cominciò a sbriciolarsi.

Raistlin cadde sulle ginocchia. Il campo magico si stava lacerando, spaccandosi con le pietre stesse del mondo. Si stava rompendo, scheggiando e, poiché Raistlin si teneva ancora aggrappato ad esso, cominciò a lacerare anche lui.

Il dolore gli trafisse la testa. Il suo corpo fu colto dalle convulsioni, si contorse per le insopportabili sofferenze.

Quella che si trovava ad affrontare era una scelta terribile. Se l’avesse lasciato andare, sarebbe precipitato, precipitato verso la sua condanna, sarebbe precipitato in un nulla al quale la tenebra più abbietta sarebbe stata preferibile. Eppure, si tenne aggrappato ad esso, sapeva che sarebbe stato lacerato, il suo corpo smembrato dalle forze della magia che aveva generato e che non riusciva più a controllare.

I muscoli gli si strapparono dalle ossa, i nervi si sbriciolarono, i tendini si spezzarono.

«Caramon!» gemette Raistlin, ma Caramon e Tas erano svaniti. Il congegno magico, riparato dall’unico gnomo le cui invenzioni funzionavano, aveva veramente funzionato. Se n’erano andati.

Non c’era nessuna possibilità di aiuto.

Raistlin aveva pochi istanti di vita, pochi momenti per agire. Ma quel dolore era straziante al punto da impedirgli di pensare.

Le articolazioni gli venivano strappate dalle loro sedi, gli occhi divelti dal viso, il cuore sradicato dal suo petto, il cervello risucchiato via dal cranio.

Poteva udire se stesso urlare e seppe che era il suo grido di morte. Tuttavia, continuò a combattere come aveva combattuto durante tutta la sua vita.

Io... prenderò... il controllo... Le parole sgorgarono dalla sua mente, macchiate di sangue...

Prenderò il controllo...

Allungò il braccio, la sua mano si chiuse sul Bastone di Magius. Io lo farò!

E poi venne scaraventato in avanti in mezzo a un’onda accecante e turbinante di luci multicolori che tutto schiantava...

Torna a casa... torna a casa...