Il destino dei gemelli
Margaret Weis e Tracy Hickman
A Samuel G e Alta Hickman.
Ringraziamenti.
Mio nonno che mi buttava sul letto alla sua maniera tutta speciale e la tata di mia nonna che è sempre così saggia. Grazie per tutte le favole, la vita, l’amore e le storie che mi avete raccontato prima che mi addormentassi. Voi vivrete per sempre.
Questo libro sui legami fisici e spirituali che uniscono i fratelli può essere dedicato a una sola persona: mia sorella. A Terry Lynn Weis Wilhelm, con amore.
Desideriamo esprimere la nostra gratitudine per il lavoro svolto alle seguenti persone:
Michael Williams, per le splendide poesie e la calorosa amicizia.
Steve Sullivan, per le sue meravigliose mappe (adesso sai dove ti trovi, Steve!).
Patrick Price, per i suoi costruttivi consigli e le sue critiche meditate.
Jean Black, il nostro curatore, che ha avuto fede in noi sin dall’inizio.
Valerie Valusek, per la sua abile penna e i disegni a inchiostro.
Ruth Hoyer, per il progetto della copertina e dell’interno.
Roger Moore, per gli articoli su DRAGON® e la storia di Tasslehoff e del mammuth peloso.
La compagine di DRAGONLANCE™: Harold Johnson, Laura Hickman, Douglas Niles, Jeff Grubb, Michael Dobson, Michael Breault, Bruce Heard.
Gli artisti del DRAGONLANCE CALENDAR 1987: Clyde Caldwell, Larry Elmore, Keith Parkinson e Jeff Easley.
L’incontro.
Una figura solitaria avanzava con passo leggero verso la luce lontana. Camminava senza farsi sentire, il trepestio dei suoi passi veniva risucchiato dalla vasta oscurità tutt’intorno. Bertrem si concesse un raro volo pindarico quando lanciò un’occhiata alle file in apparenza interminabili di volumi e di rotoli di pergamena che facevano parte delle Cronache di Astinus e descrivevano nei particolari la storia di quel mondo, la storia di Krynn.
«È come venir risucchiati dentro il tempo,» pensò, sospirando, mentre guardava quelle file immobili e silenziose. Per un breve istante desiderò di venir risucchiato via da qualche parte, così da non dover affrontare il difficile compito che aveva davanti.
«Tutto il sapere del mondo si trova in questi libri,» aggiunse fra sé con nostalgia. «E non ho mai trovato una sola cosa che rendesse più facile comparire, non richiesti, alla presenza dei loro autori.»
Bertrem si fermò fuori della porta per fare appello a tutto il suo coraggio. Le sue fluttuanti vesti di estetico gli si riadagiarono intorno, ricadendo in pieghe decorose e ordinate. Il suo stomaco, però, si rifiutò di seguire l’esempio delle vesti e cominciò a trabalzare come impazzito. Bertrem si passò una mano sulla sommità del cranio, un istintivo gesto di nervosismo che risaliva ad una più giovane età, prima che la professione da lui scelta gli fosse costata i capelli.
Cos’era mai che lo angustiava? si chiese, cupo - salvo il fatto che stava per entrare e incontrare il Maestro, naturalmente, qualcosa che non aveva più fatto da... da... Rabbrividì. Sì, da quando il giovane mago era quasi morto sui gradini della loro biblioteca durante l’ultima guerra.
La guerra, il cambiamento, ecco cos’era. Come le sue vesti, il mondo era parso infine stabilizzarsi intorno a lui, ma sentiva che il cambiamento stava per arrivare ancora una volta, proprio come l’aveva sentito due anni prima. Quanto avrebbe bramato poterlo fermare... Bertrem sospirò. «Certamente non fermerò un bel niente standomene in piedi qui fuori nel buio,» borbottò. Comunque si sentiva a disagio, come se fosse circondato da fantasmi. Una vivida luce filtrava da sotto la porta, diffondendosi nel corridoio. Lanciando una rapida occhiata alle spalle verso le ombre dei libri, cadaveri pacifici che riposavano nelle loro tombe, l’estetico aprì senza far rumore la porta ed entrò nello studio di Astinus di Palanthas.
Malgrado fosse lì, nello studio, Astinus non parlò, neppure sollevò lo sguardo.
Camminando con passo leggero e misurato sul ricco tappeto di lana di pecora che copriva il pavimento di marmo, Bertrem si fermò davanti alla grande scrivania di legno lucido. Per alcuni lunghi istanti non disse nulla, osservando assorto la mano dello storico che guidava la penna d’oca con tratti fermi e costanti.
«Allora, Bertrem?» Astinus non smise di scrivere.
Bertrem, immobile davanti ad Astinus, lesse le parole che, perfino capovolte, erano nitide, chiare, facilmente decifrabili:
Questo giorno, come sopra Scuraveglia ascendendo il 29, Bertrem è entrato nel mio studio.
«Crysania della Casa di Tarinius è qui per incontrarti, Maestro. Dice che l’aspettavi...». La voce di Bertrem si dissolse in un sussurro, già aveva dovuto far ricorso ad una grande dose del suo coraggio di estetico per arrivare fino a quel punto.
Astinus continuò a scrivere.
«Maestro,» continuò Bertrem con un filo di voce, tremante per ciò che stava osando, «io-noi non sapevamo che fare. Dopotutto è una Reverenda Figlia di Paladine e io-noi abbiamo trovato impossibile rifiutarle l’accesso. Cosa do...»
«Conducila nelle mie camere private,» disse Astinus, continuando a scrivere senza neppure alzare gli occhi.
Bertrem sentì la lingua appiccicarglisi al palato, lasciandolo per un lungo istante senza parole. E intanto altre parole continuavano a fluire dalla penna d’oca di Astinus sulla pergamena bianca:
Questo giorno, come sopra Scuraveglia ascendendo 28, Crysania di Tarinius è arrivata per il suo appuntamento con Raistlin Majere.
«Raistlin Majere!» esclamò Bertrem, restando a bocca spalancata, lo shock e l’orrore gli ridisciolsero la lingua. «Dobbiamo ammettere il...»
Adesso Astinus sollevò lo sguardo, il fastidio e l’irritazione gl’increspavano la fronte. Quando la penna cessò il suo eterno raschiare sulla pergamena, un profondo e innaturale silenzio calò nella stanza. Bertrem impallidì. La faccia dello storico avrebbe potuto esser giudicata scultorea 8 in una maniera senza tempo e senza età. Ma nessuno che avesse visto con i propri occhi quella faccia riusciva a ricordarla. Ricordavano soltanto gli occhi - scuri, assorti, consapevoli, in costante movimento, occhi che vedevano tutto. Quegli occhi potevano anche comunicare immensi universi d’impazienza, ricordando a Bertrem che il tempo stava scorrendo. Anche mentre si stava svolgendo quel colloquio, interi minuti di storia stavano passando, senza venir documentati.
«Perdonami, Maestro!» Bertrem fece un profondissimo, reverente inchino, poi arretrò, uscendo a precipizio dallo studio e chiudendo silenziosamente la porta. Una volta fuori, si asciugò il cranio pelato che luccicava di sudore, poi si affrettò lungo i silenziosi corridoi di marmo della Grande Biblioteca di Palanthas.
Astinus si soffermò sulla soglia della sua residenza privata, il suo sguardo si appuntò sulla donna seduta all’interno.
Situata nell’ala orientale della Grande Biblioteca, la residenza dello storico era piccola e, come ogni altra stanza nella biblioteca, era piena di libri d’ogni genere e dalle più svariate rilegature; gli scaffali alle pareti ne rigurgitavano, esalando, anche lì nel soggiorno, un debole odore di muffa, come un mausoleo che fosse rimasto chiuso per secoli. La mobilia era poca, e antica. Le seggiole, di legno meravigliosamente scolpito, erano dure e scomode. Un tavolo basso, accanto a una finestra, era assolutamente libero da qualsiasi ornamento e oggetto e rifletteva la luce del sole al tramonto con la sua liscia superficie nera. Ogni cosa nella stanza era disposta in un ordine perfetto. Perfino la legna per il fuoco serale nel camino - le notti della tarda primavera erano fresche, anche lì nel profondo nord - era disposta in file così ordinate da assomigliare a una pira funeraria.
Eppure, per quanto fresca, pura e schietta fosse quella camera privata dello storico, essa sembrava soltanto rispecchiare la bellezza fredda, pura, con un sentore d’antico, della donna, che se ne stava con le mani ripiegate in grembo, in attesa.
Crysania di Tarinius aspettava paziente. Non giocherellava con le dita in preda al nervosismo, né sospirava, e neppure lanciava frequenti occhiate al congegno ad acqua che, in un angolo, segnava il tempo. Non leggeva, anche se Astinus era sicuro che Bertrem doveva averle offerto un libro. Non camminava su e giù per la stanza, né esaminava i pochi, rari ornamenti che si trovavano nelle nicchie in ombra all’interno degli scaffali. Sedeva eretta sulla scomoda seggiola di legno, gli occhi limpidi e luminosi fissi sulle frange tinte di rosso delle nuvole sopra le montagne, come se stesse osservando il tramonto del sole forse per la prima volta - o l’ultima - sopra Krynn.
Era talmente assorta nello spettacolo al di fuori della finestra che Astinus entrò senza attirare la sua attenzione. La guardò con intenso interesse. Non era insolito che lo storico ispezionasse ogni creatura di Krynn con lo stesso sguardo imperscrutabile e penetrante. Cosa insolita, invece, l’espressione di pietà e di profondo dolore che per un attimo attraversò il volto dello storico.
Astinus documentava la storia. L’aveva documentata sin dall’inizio del tempo, osservandola scorrere davanti ai suoi occhi e trasferendola poi nei suoi libri. Non poteva prevedere il futuro, quella era la provincia degli dei. Ma poteva percepire tutti i segni del cambiamento, quegli stessi segni che avevano tanto turbato Bertrem. Lì, in piedi, immobile, poteva sentire le gocce dell’acqua che cadevano nel misuratore del tempo. Ponendo la mano sotto di esse, poteva interrompere il flusso delle gocce, ma il tempo avrebbe continuato a scorrere.
Sospirando, Astinus rivolse la propria attenzione alla donna della quale aveva sentito parlare ma che non aveva mai incontrato. I suoi capelli erano neri, blu-neri, come l’acqua d’un mare tranquillo durante la notte. Li portava lisci, pettinati all’indietro, partendo da una scriminatura centrale, tenuti insieme dietro la testa da un semplice pettine di legno privo di ornamenti. Quello stile severo non s’intonava con i suoi lineamenti pallidi e delicati, ma accentuava ancor di più il suo pallore. I suoi occhi erano grigi e apparivano troppo grandi. Perfino le sue labbra erano esangui.
Alcuni anni prima, quand’era giovane, i servi avevano intrecciato e attorcigliato quei folti capelli neri secondo gli ultimissimi stili della moda, fermandoli con spilloni d’argento e d’oro, decorando quelle sfumature cupe con luccicanti gioielli. Avevano tinto le sue guance con succhi di bacche spremute e l’avevano vestita con abiti sontuosi, dai rosa più pallidi e dagli azzurri più impalpabili.
Un tempo era stata bellissima, un tempo i suoi corteggiatori avevano fatto la fila per lei.
L’abito che adesso indossava era bianco, come si confaceva a un chierico di Paladine, ed era semplice anche se confezionato con un raffinato tessuto. Fra privo di ornamenti, salvo per la cintura d’oro che le cingeva la vita. Il suo unico vero ornamento era quello di Paladine: il medaglione del Drago di Platino. I suoi capelli erano coperti da un bianco cappuccio che metteva in risalto la levigatezza e l’algido aspetto marmoreo della sua carnagione.
«Devo ringraziarti di aver rinunciato al tuo tempo prezioso per fungere da parte neutrale in questo incontro,» disse Crysania con freddezza. «So quanto ti riesce sgradito sottrarre del tempo ai tuoi studi.»
«Fintanto che non è tempo sprecato non m’importa,» rispose Astinus, prendendole la mano e fissandola intensamente. «Devo comunque ammettere che me ne risento.»
«Perché?» Crysania scrutò il volto senza età dell’uomo mostrandosi sinceramente perplessa. Poi, con una comprensione improvvisa, sorrise, un sorriso freddo che non portò altra luce al suo volto, più di quanta avrebbe fatto il chiarore lunare sulla neve. «Tu non credi che lui verrà, non è vero?»
Astinus sbuffò. Lasciando ricadere la mano della donna, come se avesse perduto ogni interesse anche nella sua sola esistenza. Si voltò e raggiunse la finestra, e guardò fuori, la città di Palanthas, i cui risplendenti edifici bianchi ardevano alla radiosità del sole, sprigionando una bellezza che lasciava senza fiato, con una sola eccezione. Uno degli edifici non veniva toccato dalla luce del sole, neppure dal pieno fulgore del mezzogiorno.
E su questo edificio si fissò lo sguardo di Astinus. Pur ergendosi al centro della città bella e sfavillante, le sue torri di pietra nera parevano agitarsi e contorcersi, i suoi minareti restaurati di recente, innalzati dai poteri della magia, si rivestivano d’una tinta rosso sangue al bagliore del sole calante, dando l’impressione di dita putride, scheletrite, striscianti su da qualche remoto cimitero.
«Due anni or sono lui è entrato nella Torre della Grande Stregoneria,» disse Astinus con voce calma e spassionata, quando Crysania lo raggiunse accanto alla finestra. «È entrato al buio nel cuore della notte, l’unica luna nel cielo era la luna che non emana luce. Ha attraversato il Boschetto di Shoikan, una macchia di querce maledette, alla quale nessun mortale osa avvicinarsi. Ha raggiunto i cancelli sui quali era ancora conficcato il corpo del mago malvagio che, nell’estremo rantolo della sua morte, aveva lanciato la maledizione sulla Torre saltando poi dalle finestre più alte e andando a impalarsi sulle sbarre acuminate: era rimasto là in basso quasi fosse un temibile guardiano. Ma quando lui è arrivato là, il guardiano si è inchinato a lui, i cancelli si sono aperti al suo tocco, e poi si sono rinchiusi alle sue spalle. E non si sono più aperti in questi ultimi due anni. Lui non se n’è andato e, se qualcuno è stato fatto entrare, nessuno l’ha mai visto. E tu... tu ti aspetti che lui... venga qui?»
«Il maestro del passato e del presente.» Crysania scrollò le spalle. «Lui è venuto come è stato predetto.» Astinus la fissò vagamente stupito. «Conosci la sua storia?»
«Certamente,» rispose con calma la chierica, levando per un istante lo sguardo su di lui, per poi rivolgere di nuovo i suoi limpidi occhi in direzione della Torre, che già si era ammantata delle incombenti ombre della notte. «Un buon generale studia sempre il nemico prima d’impegnarsi in battaglia. Conosco Raistlin Majere molto bene, molto bene davvero. E so che verrà stanotte.»
Crysania continuò a fissare la spaventevole Torre, il suo mento si sollevò, le sue labbra esangui divennero una linea dritta ed uniforme; teneva le mani serrate dietro la schiena.
D’un tratto il volto di Astinus divenne grave e pensieroso, i suoi occhi erano turbati, anche se la sua voce suonò fredda come sempre. «Sembri molto sicura di te stessa, Reverenda Figlia. Come fai a saperlo?»
«Paladine mi ha parlato,» rispose Crysania, senza mai distogliere lo sguardo dalla Torre. «In un sogno il Drago di Platino è apparso davanti a me e mi ha detto che il male, un tempo bandito dal mondo, era tornato nella persona di questo stregone dalle vesti nere, Raistlin Majere. Ci troviamo a dover fronteggiare un pericolo tremendo, ed è stato affidato a me il compito di prevenirlo.» A mano a mano che parlava, la faccia marmorea di Crysania parve divenire liscia come il cristallo, gli occhi grigi erano limpidi e luminosi. «Sarà la prova della mia fede che ho invocato nelle mie preghiere!»
Lanciò un’occhiata ad Astinus. «Vedi, ho saputo sin dall’infanzia che il mio destino era quello di compiere qualche grande impresa, qualche grande servizio per il mondo e il suo popolo. Questa è la mia possibilità.»
Il volto di Astinus diventava sempre più grave a mano a mano che ascoltava, e perfino più severo.
«È stato Paladine a dirtelo?» chiese a un tratto.
Crysania, forse avvertendo l’incredulità dello storico, increspò le labbra. Ma soltanto una linea sottile comparsa fra le sue sopracciglia fu il segno della sua collera; questo, e una calma ancora più studiata nella sua risposta.
«Mi rincresce di averne parlato, Astinus, perdonami. È stato fra il mio dio e me stessa, e di cose tanto sacre non si dovrebbe discutere. Ho tirato fuori il discorso soltanto per dimostrarti che quest’uomo malvagio verrà. Non potrà farne a meno. Paladine lo condurrà qui.»
Le sopracciglia di Astinus si sollevarono talmente che quasi scomparvero tra i suoi capelli ingrigiti.
«Quest’uomo malvagio, come tu lo chiami, Reverenda Figlia, serve una dea potente almeno quanto Paladine: Takhisis, la Regina delle Tenebre! O forse non dovrei dire serve,» precisò Astinus, con un sorriso amaro. «Non è da lui...»
La fronte di Crysania ridivenne liscia. «Il bene redime i suoi,» rispose con dolcezza. «Il male si rivolge contro se stesso. Il bene trionferà di nuovo, come ha fatto nella Guerra delle Lance contro Takhisis e i suoi draghi malvagi. Con l’aiuto di Paladine, io trionferò su questo male come l’eroe, Tanis Mezzelfo, ha trionfato sulla stessa Regina delle Tenebre.»
«Tanis Mezzelfo ha trionfato con l’aiuto di Raistlin Majere,» disse Astinus, imperturbabile.
«Oppure è una parte della leggenda che hai scelto d’ignorare?»
Neppure la più piccola increspatura emotiva alterò la superficie tranquilla e immobile dell’espressione di Crysania. Il suo sorriso rimase fisso, lo sguardo sempre puntato fuori della finestra, sulla strada. «Guarda, Astinus,» disse con voce sommessa. «Ecco che arriva.»
Il sole affondò dietro le lontane montagne, il cielo, illuminato dagli ultimi bagliori del tramonto, risplendeva purpureo simile a una gemma. I servi entrarono in silenzio, accendendo il fuoco nella piccola stanza di Astinus. Perfino il fuoco ardeva silenzioso come se lo storico avesse insegnato alle fiamme medesime come mantenere la tranquillità e il riposo nella grande biblioteca. Crysania sedeva ancora una volta sulla scomoda sedia, con le mani ancora una volta raccolte in grembo.
Esteriormente il suo volto era calmo e freddo come sempre. Interiormente, il suo cuore batteva per l’eccitazione che traspariva soltanto da un illuminarsi dei suoi occhi grigi.
Nata dalla nobile e ricca famiglia dei Tarinius di Palanthas, una famiglia antica quanto la città stessa, Crysania aveva ricevuto ogni conforto e ogni beneficio che il denaro e il rango potevano concederle. Intelligente, volitiva, avrebbe potuto facilmente diventare una donna cocciuta e caparbia. Ma i suoi genitori, saggi e amorosi, avevano attentamente nutrito e potato il forte spirito della loro figlia, facendolo sbocciare in una profonda e decisa fiducia in se stessa. In tutta la sua vita Crysania aveva fatto una sola cosa che aveva addolorato i suoi affezionatissimi genitori. Aveva voltato le spalle a un matrimonio ideale con un nobiluomo giovane e bello dedicando la propria vita al servizio di dei da tempo dimenticati.
Prima aveva ascoltato il chierico Elistan quand’era giunto a Palanthas alla fine della Guerra delle Lance. La sua nuova religione, o forse avrebbe dovuto esser chiamata l’antica religione, si stava diffondendo come un incontrollabile incendio per tutto Krynn, poiché la neonata leggenda dava credito a questa credenza, che gli antichi dei avessero contribuito a sconfiggere i draghi del male e i loro padroni, i Signori dei Draghi.
Quando era andata a sentir parlare Elistan per la prima volta, Crysania era rimasta scettica. La giovane donna, aveva venticinque anni allora, nella sua infanzia era cresciuta ascoltando le storie sul modo in cui gli dei avevano inflitto il cataclisma a Krynn, scagliando giù la montagna infuocata che aveva spaccato il suolo facendo precipitare la sacra città di Istar nel Mare di Sangue. Dopo questo, così aveva riferito la gente, gli dei avevano voltato le spalle agli uomini, rifiutandosi di avere ancora qualcosa a che fare con loro. Crysania era più che disposta ad ascoltare Elistan con cortesia, ma disponeva di gran copia di argomenti per confutare le sue affermazioni.
Quando l’aveva incontrato, era rimasta favorevolmente impressionata. Flistan a quell’epoca era nella pienezza dei suoi poteri. Bello, forte, perfino nei suoi anni di mezzo, pareva uno dei chierici di un tempo che avevano guidato la battaglia, così dicevano le leggende, insieme al poderoso cavaliere, Huma. Crysania già all’inizio della serata aveva trovato motivi per ammirarlo. L’aveva finita inginocchiata ai suoi piedi, piangendo in umiltà e gioia: la sua anima aveva trovato l’ancora che le mancava.
Gli dei non avevano voltato le spalle agli uomini, questo era il messaggio. Erano stati gli uomini a farlo, esigendo nel loro orgoglio ciò che Huma aveva cercato con umiltà. Il giorno seguente Crysania aveva lasciato la sua casa, la sua ricchezza, i suoi servi, i suoi genitori, e il suo fidanzato, per trasferirsi nella piccola casa gelida destinata ad essere il primo nucleo del nuovo tempio che Elistan aveva progettato di edificare a Palanthas.
Adesso, due anni più tardi, Crysania era una Reverenda Figlia di Paladine, una dei pochi eletti che erano stati trovati degni di guidare la chiesa durante le doglie della sua giovinezza. Era stato un bene che la chiesa avesse quel sangue forte e giovane, ed Elistan vi aveva dedicato senza risparmio tutta la sua vita e tutte le sue energie. Adesso pareva che gli dei che lui aveva servito con tanta fedeltà avrebbero presto chiamato il loro chierico al proprio fianco. E quando quel triste evento si fosse verificato, erano in molti a credere che Crysania avrebbe portato avanti la sua opera.
Certo, Crysania sapeva di essere pronta ad accettare la guida della chiesa, ma era sufficiente? Come aveva detto ad Astinus, la giovane chierica aveva da tempo sentito che il suo destino era quello di rendere qualche grande servigio al mondo. Guidare la chiesa attraverso la sua quotidiana routine adesso che la guerra era finita le era parso troppo monotono e mondano. Ogni giorno aveva pregato Paladine perché le assegnasse qualche arduo compito. Aveva promesso d’esser pronta a sacrificare qualsiasi cosa, anche la vita stessa, al servizio del suo amato dio.
E poi era arrivata la sua risposta.
Adesso aspettava in preda a un desiderio talmente ardente da riuscire a malapena a trattenerlo. Non aveva paura, neppure d’incontrare quell’uomo, che si diceva fosse la più potente forza del male che adesso vivesse sulla faccia di Krynn. Se la sua educazione glielo avesse permesso, il suo labbro si sarebbe arricciato in un sorriso sdegnoso. Quale male poteva mai resistere alla potente spada della sua fede? Quale male poteva penetrare la sua splendente armatura?
Come un cavaliere che cavalcasse in un torneo, con la ghirlanda del suo amore al collo, sapendo che era impossibile patire una sconfitta con quei simboli che fluttuavano al vento, Crysania teneva gli occhi fissi sulla porta, aspettando con ansia il primo squillo di tromba. Quando la porta si aprì le sue mani, fino a quel momento ripiegate tranquille, si serrarono per l’eccitazione.
Bertrem entrò, il suo sguardo andò ad Astinus, che sedeva immobile come un pilastro di pietra su una sedia dura e scomoda accanto al fuoco.
«Raistlin Majere, il mago,» annunciò Bertrem. La sua voce cedette sull’ultima sillaba. Forse stava pensando all’ultima volta che aveva annunciato quel visitatore... il giorno in cui Raistlin era stato trovato morente, vomitando sangue sui gradini della Grande Biblioteca. Astinus corrugò la fronte nel constatare la mancanza di autocontrollo di Bertrem, e l’estetico scomparve attraverso la porta con tutta la rapidità concessagli dalle sue vesti svolazzanti.
Inconsciamente, Crysania trattenne il fiato. Dapprima non vide nulla, soltanto un’ombra, una chiazza d’oscurità sulla soglia, come se la notte stessa avesse preso forma plasmandosi all’interno dell’ingresso. Per lunghi istanti l’ombra restò lì, immobile.
«Entra, vecchio amico,» disse Astinus impassibile con voce profonda. L’ombra era delineata da un tremolio di calore - la luce del fuoco si attardava sulle vesti nere, vellutate - e da minuscole scintille, quando il bagliore si rifletteva sulle rune intessute con fili d’argento intorno al cappuccio di velluto.
L’ombra divenne una figura, le vesti nere avvolgevano completamente un corpo. Per un breve istante l’unica appendice umana visibile della figura fu una mano sottile, quasi scheletrica, che stringeva un bastone di legno. Il bastone stesso era sormontato da una sfera di cristallo, stretta nella morsa dell’artiglio scolpito di un drago dorato.
Quando la figura entrò nella stanza, Crysania avvertì il brivido gelido della delusione. Aveva chiesto a Paladine un compito difficile... Ma quale grande forza malefica poteva esserci mai da combattere in quella creatura? Adesso che poteva vederla con chiarezza, vedeva un uomo esile, fragile, con le spalle leggermente ricurve, che si teneva appoggiato al bastone mentre camminava, come se fosse troppo debole per muoversi senza il suo aiuto. Crysania conosceva la sua età, adesso doveva avere all’incirca ventotto anni. Ma si muoveva come un essere umano di novant’anni, i suoi passi erano lenti e misurati, perfino esitanti.
Quale prova della mia fede può mai esserci nella conquista di questa disgraziata creatura? Crysania interrogò con amarezza Paladine fra sé. Non ho nessuna necessità di combatterlo. È divorato all’interno dal suo stesso male.
Rivolto verso Astinus, voltando la schiena a Crysania, Raistlin ripiegò all’indietro il suo cappuccio nero.
«Ancora una volta salute a te, Immortale,» disse ad Astinus con voce sommessa.
«Salute a te, Raistlin Majere,» rispose Astinus senza alzarsi. La sua voce aveva una lieve nota sarcastica, come se spartisse una battuta privata con il mago. Fece quindi un gesto. «Posso presentarti Crysania della Casa di Tarinius?» Raistlin si voltò. Crysania rantolò, un terribile dolore al petto costrinse la sua gola a chiudersi, e per un attimo fu incapace di respirare. Spilli aguzzi le trafiggevano crudelmente le punte delle dita e il suo corpo fu colto da gelide convulsioni.
Inconsciamente si ritrasse sulla sua seggiola, serrando le mani, affondando le unghie nella pelle divenuta insensibile.
Tutto ciò che poteva vedere davanti a sé erano due occhi dorati che scintillavano dalle profondità del buio. Gli occhi erano come uno specchio dorato, piatti, riflettènti, non rivelavano nulla dell’anima all’interno. Le pupille... Crysania fissò quelle pupille tenebrose rapita nell’orrore. Le pupille all’interno degli occhi dorati avevano la forma di clessidre! E il volto del mago - stirato per la sofferenza, segnato dal dolore d’una esistenza torturata che quel giovane aveva condotto per sette anni, sin da quando le crudeli prove nella Torre della Grande Stregoneria avevano infranto il suo corpo e tinto d’oro la sua pelle - era diventato una maschera metallica, impenetrabile, insensibile, come l’artiglio del drago dorato sul suo bastone.
«Reverenda Figlia di Paladine,» disse con voce piena di rispetto e, perfino, di reverenza.
Crysania trasalì, fissandolo con stupore. Certo, questo non era ciò che lei si era aspettata.
Però non riusciva ancora a muoversi. Lo sguardo di Raistlin la immobilizzava, e si chiese in preda al panico se non le avesse lanciato un incantesimo. Dando l’impressione di percepire la sua paura, Raistlin attraversò la stanza fermandosi davanti a lei in un atteggiamento che era allo stesso tempo condiscendente e rassicurante. Levando lo sguardo, potè vedere il bagliore del fuoco nel caminetto tremolare nei suoi occhi dorati.
«Reverenda Figlia di Paladine,» disse di nuovo Raistlin. La sua voce suadente avvolse Crysania come l’oscurità vellutata delle sue vesti. «Ti trovo in buona salute... spero.» Ma adesso percepì in quella voce un sarcasmo cinico e amaro. Questo se l’era aspettato, a questo era preparata. Il suo iniziale tono di rispetto l’aveva colta di sorpresa, ammise con se stessa con rabbia, ma il suo primo istante di debolezza era passato. Alzandosi in piedi, levando gli occhi allo stesso livello dei suoi, strinse inconsciamente con la mano il medaglione di Paladine. Il contatto con quel freddo metallo le diede coraggio.
«Non credo che siamo obbligati a scambiarci inutili amenità sociali,» dichiarò Crysania chiaro e tondo, il suo volto aveva riacquistato la sua gelida calma. «Stiamo impedendo ad Astinus di occuparsi dei suoi studi. Astinus apprezzerà molto se concluderemo la nostra faccenda con alacrità.»
«Sono più che d’accordo,» disse il mago impaludato di nero con una leggera contorsione del suo labbro sottile che avrebbe anche potuto essere un sorriso. «Sono venuto in risposta alla tua richiesta. Che cosa vuoi da me?»
Crysania sentì che stava ridendo di lei. Abituata sempre al massimo rispetto nei suoi confronti, questo aumentò la sua collera. Lo fissò con occhi grigi e gelidi. «Sono venuta ad avvertirti, Raistlin Majere, che i tuoi disegni malvagi sono ben conosciuti da Paladine. Fai attenzione, altrimenti ti distruggerà...»
«Come?» chiese Raistlin d’un tratto, e i suoi strani occhi avvamparono d’una intensa, strana luce.
«Come farà Paladine a distruggermi?» ripetè. «Saette? Inondazioni e fiamme? Forse un’altra montagna di fuoco?»
Fece un altro passo verso di lei.
Crysania si scostò freddamente da lui, arretrando fino alla sua sedia. Aggrappandosi con forza al dorso di duro legno, girò intorno ad essa, poi tornò a voltarsi verso di lui.
«È la tua stessa condanna che beffeggi,» gli rispose con calma.
Il labbro di Raistlin si torse ancora di più, ma continuò a parlare come se non avesse udito le sue parole. «Elistan?» La voce di Raistlin divenne un bisbiglio sibilante. «Manderà Elistan a distruggermi?» Il mago scrollò le spalle. «Ma no, certamente no. Stando a tutti i rapporti, il grande e santo chierico di Paladine è stanco, debole e morente...»
«No!» gridò Crysania, poi si morse le labbra, infuriata perché quell’uomo l’aveva pungolata inducendola a esternare i propri sentimenti. Tacque per qualche istante, tirando un profondo sospiro.
«I modi di Paladine non vanno discussi o dileggiati,» aggiunse poi, con gelida calma, ma non potè fare a meno che la sua voce si addolcisse in maniera quasi impercettibile. «E la salute di Elistan non ti riguarda.»
«Forse m’interesso alla sua salute più di quanto tu ti renda conto,» replicò Raistlin con quello che parve a Crysania un sorriso di scherno.
Crysania sentì il sangue pulsarle alle tempie. Nel momento stesso in cui parlava, il mago aveva a sua volta girato intorno alla sedia, avvicinandosi ancor più alla giovane donna. Adesso era talmente vicino a lei che Crysania poteva sentire uno strano, innaturale calore irradiarsi dal suo corpo attraverso le vesti nere. Poteva sentire un profumo lievemente nauseante ma non del tutto spiacevole aleggiare intorno a lui. Un sentore di spezie... d’un tratto si rese conto che si trattava di componenti del suo incantesimo. Il pensiero la fece star male e la disgustò. Stringendo il medaglione di Paladine nella propria mano, i suoi bordi lisci e cesellati che le mordevano la pelle, tornò a scostarsi da lui. «Paladine mi è apparso in sogno,» dichiarò altera. Raistlin rise.
Pochi erano coloro che avevano udito ridere il mago, e quei pochi che l’avevano udito lo ricordavano per sempre, echeggiante nei loro sogni più tenebrosi. Era sottile, acuto e tagliente come una lama. Negava ogni bontà, si faceva beffe di tutto ciò che era giusto e veritiero, e in quell’istante trafisse l’anima di Crysania.
«Molto bene,» lei disse fissandolo con uno sdegno che indurì i suoi luminosi occhi grigi facendoli diventare d’un azzurro acciaio. «Ho fatto del mio meglio per distoglierti da questa strada. Ti ho dato un avvertimento leale. Adesso la tua distruzione è nelle mani degli dei.»
D’un tratto, forse rendendosi conto dell’ardimento con cui lei l’affrontava, la risata di Raistlin cessò. Fissandola intensamente, i suoi occhi dorati si strinsero. Poi Raistlin sorrise, un segreto sorriso d’una gioia così strana che Astinus, seguendo la conversazione fra i due, si alzò in piedi. Il corpo dello storico bloccò la luce del fuoco. La sua ombra cadde su entrambi. Raistlin trasalì, quasi allarmato. Accennò a girarsi, lanciando ad Astinus un’occhiata bruciante e minacciosa.
«Attento, vecchio amico,» l’ammonì il mago. «Oppure vuoi interferire con la storia?»
«Io non interferisco,» rispose Astinus, «come tu ben sai. Sono un osservatore, un documentatore. In ogni cosa sono neutrale. Conosco le tue trame, i tuoi piani, così come conosco le trame e i piani di tutti coloro che hanno respirato quest’oggi. Perciò ascoltami, Raistlin Majere, e fai attenzione al mio ammonimento. Costei è amata dagli dei, come implica il suo nome.»
«Amata dagli dei? Ma lo siamo tutti, non è così, Reverenda Figlia?» chiese Raistlin, voltandosi ancora una volta verso Crysania. La sua voce era morbida come il velluto delle sue vesti. «Non sta forse scritto nei dischi di Mishakal? Non è forse questo che insegna il divino Elistan?»
«Sì,» sillabò Crysania, fissandolo con sospetto, aspettandosi altri dileggi. Ma il suo volto metallico era serio, d’un tratto aveva l’aspetto d’un erudito, intelligente, saggio. «Così sta scritto.» Crysania esibì un freddo sorriso. «Mi fa piacere sentire che hai letto i sacri dischi, anche se è ovvio che non hai appreso nulla da essi. Non ricordi quello che viene detto nel...»
Fu interrotta da una sbuffata di Astinus.
«Sono stato distolto dai miei studi per anche troppo tempo.» Lo storico attraversò il pavimento di marmo fino alla porta dell’anticamera. «Suonate per chiamare Bertrem quando sarete pronti ad andarvene. Arrivederci, Reverenda Figlia. Arrivederci... vecchio amico.»
Astinus aprì la porta. Il pacifico silenzio della biblioteca fluì dentro la stanza, avvolgendo Crysania d’una corroborante frescura. Sentì che recuperava il controllo di sé e si rilassò. La sua mano lasciò andare il medaglione. Rivolse un inchino graziosamente formale ad Astinus, così come fece Raistlin. Poi, la porta si chiuse dietro lo storico. I due furono soli.
Per lunghi istanti nessuno dei due parlò. Poi Crysania, sentendo il potere di Paladine scorrerle attraverso il corpo, si voltò verso Raistlin. «Avevo dimenticato che sei stato tu e quelli che erano con te a recuperare i sacri dischi. È naturale che tu li abbia letti. Vorrei discuterli ulteriormente con te ma, d’ora in avanti, in qualunque futuro rapporto possa esserci tra noi, Raistlin Majere,» gli disse con la sua fredda voce, «ti chiederò di parlare di Elistan con maggior rispetto. Egli...»
S’interruppe stupefatta, osservando allarmata il corpo del mago che pareva sbriciolarsi davanti ai suoi occhi.
Scosso da accessi di tosse, stringendosi il petto, Raistlin annaspò per riuscire a respirare. Barcollò, e se non fosse stato per il bastone a cui si appoggiava, sarebbe caduto sul pavimento. Dimenticando la sua avversione e il disgusto, reagendo d’istinto, Crysania tese le braccia e, appoggiandogli le mani sulle spalle, mormorò una preghiera guaritrice. Sotto le sue mani le vesti nere erano morbide e calde. Potè sentire i muscoli di Raistlin contorcersi in preda agli spasimi, avvertì il suo dolore e le sue sofferenze. La pietà riempì il suo cuore.
Raistlin si sottrasse al suo tocco con uno scatto, spingendola via. Gradualmente la sua tosse si calmò. In grado di respirare di nuovo liberamente, la guardò con disprezzo.
«Non sprecare le tue preghiere per me, Reverenda Figlia,» disse in tono amaro. Tirò fuori dalle sue vesti un morbido panno, si sfregò le labbra, e Crysania vide che si macchiava di sangue. «Non c’è cura per la mia malattia. Questo è il sacrificio, il prezzo che ho pagato per la mia magia.»
«Non capisco,» lei mormorò. Le sue mani si contrassero ricordando vividamente la levigatezza morbida e vellutata delle vesti nere e, inconsapevolmente serrò le dita dietro la schiena.
«Davvero non capisci?» le chiese Raistlin, fissandola nelle profondità della sua anima con i suoi strani occhi dorati. «Qual è stato il sacrificio che hai fatto per il tuo potere?»
Un debole rossore, appena distinguibile alla luce del fuoco morente, tinse le guance di Crysania di sangue, proprio come ne erano tinte le labbra del mago. Allarmata da questa invasione del suo essere, Crysania distolse lo sguardo dal mago volgendo ancora una volta gli occhi verso la finestra.
La notte era scesa sopra Palanthas. La luna d’argento, Solinari, era un gancio luminoso nel cielo buio. La luna rossa, la sua gemella, non era ancora sorta. La luna nera - si sorprese a chiedersi Crysania - dov’è? Lui riesce davvero a vederla?
«Devo andare,» disse Raistlin, il respiro gli usciva raschiante. «Questi spasimi m’indeboliscono. Ho bisogno di riposo.»
«Certo.» Crysania si sentiva di nuovo calma. Con tutti i fili delle sue emozioni non più aggrovigliati ma disposti in bell’ordine, tornò a voltarsi per affrontarlo. «Ti ringrazio per essere venuto...»
«Ma la nostra faccenda non è conclusa,» disse Raistlin con voce sommessa. «Vorrei una possibilità per dimostrarti che queste paure dei tuoi sono senza fondamento. Ho un suggerimento. Vieni a farmi visita nella Porre della Grande Stregoneria. Là mi vedrai in mezzo ai miei libri e XXXX Mi nel X Quando l’avrai fatto, la tua mente si tranquillizzerà. Come inscenato dai Disci, noi temiamo soltanto ciò che ignoria - avvicinò a lei di un altro passo.
rillu da quella proposta, Crysania spalancò gli occhi. Cercò di irsi da lui ma, inavvertitamente, si era lasciata intrappolare o alla finestra. «Non posso venire... nella Torre,» disse balbettando mentre la sua vicinanza la soffocava, rubandole il respiro. Cercò di fargli intorno, ma lui mosse leggermente il proprio bastone, bloccandole la strada. Freddamente, lei continuò: «Gli incantesimi lanciati sopra di essa tengono tutti fuori... »
«Salvo coloro che io scelgo di far entrare,» bisbigliò Raistlin. Ripiegando il panno chiazzato di sangue, tornò a infilarlo in una tasca segreta della sua veste. Poi allungando un braccio prese la mano di Crysania.
«Come sei coraggiosa, Reverenda Figlia,» commentò. «Non tremi al mio tocco malefico.»
«Paladine è con me, » rispose Crysania, sprezzante.
Raistlin sorrise, un sorriso caldo, tenebroso e segreto... un sorriso per loro due soltanto. Ciò affascinò Crysania. Lui l’attirò vicino a sé, poi lasciò cadere la sua mano. Appoggiò il bastone alla sedia, tese le braccia e le prese la testa fra le esili mani, appoggiando le dita sul suo bianco cappuccio. Adesso Crysania tremò al suo tocco, ma non poteva muoversi, non poteva parlare o fare qualunque altra cosa se non fissarlo in preda a un’incontrollabile paura che non poteva né reprimere né capire.
Tenendola con mano ferma, Raistlin si sporse in basso e sfregò le proprie labbra chiazzate di sangue sulla sua fronte. Mentre lo faceva, farfugliò strane parole. Poi la lasciò andare.
Crysania inciampò e quasi cadde per terra. Si sentiva debole e stordita. Portò la mano alla fronte dove il tocco delle sue labbra le penetrava bruciante nella pelle causandole un dolore lancinante.
«Che cos’hai fatto?» gridò con voce rotta. «Non puoi lanciare un incantesimo su di me! La mia fede protegge...»
«Naturalmente.» Raistlin ebbe uno stanco sospiro, con un’espressione di dolore nel suo viso e nella sua voce, il dolore di qualcuno che viene sempre sospettato, frainteso. «Ti ho soltanto dato un incantesimo che ti permetterà di passare attraverso il Boschetto di Shoikan. Il percorso non sarà facile.» Il suo sarcasmo tornò. «Ma indubbiamente la tua fede ti sosterrà!»
Riabbassandosi il cappuccio sugli occhi, il mago rivolse in silenzio un inchino a Crysania, la quale riuscì soltanto a fissarlo, poi s’incamminò verso la porta con passi lenti ed esitanti. Allungando una mano scheletrica, tirò il cordone del campanello. La porta si aprì e Bertrem comparve così in fretta e all’improvviso da far intuire a Crysania che doveva aver sostato fino ad allora appena fuori della porta. Le sue labbra si strinsero. Lanciò all’estetico un’occhiata così furente e imperiosa che l’uomo impallidì visibilmente, anche se del tutto inconsapevole del crimine che aveva commesso, e si asciugò la fronte luccicante con la manica della sua veste.
Raistlin fece per andarsene, ma Crysania lo fermò. «Mi... mi scuso per non essermi fidata di te, Raistlin Majere,» disse con voce sommessa. «E, ancora una volta, ti ringrazio per essere venuto.»
Raistlin si voltò. «Ed io mi scuso per la mia lingua tagliente,» rispose. «Arrivederci, Reverenda Figlia. Se davvero non temi il sapere, allora vieni alla Torre, due notti da questa notte, quando Lunitari farà la sua prima comparsa nel cielo.»
«Ci sarò,» dichiarò Crysania con voce ferma, osservando con piacere l’espressione di orrore e di shock di Bertrem. Facendo un cenno di saluto con la testa, appoggiò leggera la mano sullo schienale della seggiola scolpita.
Rimasta sola nella stanza calda e silenziosa, Crysania si genuflesse davanti alla sedia. «Oh, grazie, Paladine!» bisbigliò sommessa. «Accetto la tua sfida. Non ti deluderò! Non ti deluderò!».
Libro Primo.
Capitolo primo.
Alle sue spalle poteva udire il rumore di piedi artigliati che raschiavano in mezzo alle foglie della foresta. Tika divenne tesa, ma cercò di comportarsi come se non avesse udito, inducendo la creatura ad avanzare ancora verso di lei. Con fermezza serrò la spada nel pugno. Il suo cuore batteva. Il rumore di passi si avvicinava sempre più, poteva udire l’aspro respiro. Una mano artigliata le cadde sulla spalla. A quel tocco minaccioso, Tika si girò di scatto, fece roteare la propria spada e... un vassoio pieno di boccali cadde sul pavimento con uno schianto.
Dezra strillò e balzò indietro allarmata. I clienti seduti al bancone esplosero in rauche risate. Tika sapeva che la sua faccia doveva essere rossa come i suoi capelli. Il cuore le batteva. Le mani le tremavano.
«Dezra,» disse Tika, con freddezza, «hai tutta la grazia e il cervello di un nano dei burroni. Tu e Raf dovreste scambiarvi i posti. Tu porterai fuori la spazzatura e lascerò che sia lui a servire ai tavoli!»
Dezra sollevò lo sguardo da dove si era inginocchiata, intenta a raccogliere i pezzi dei boccali frantumati, che galleggiavano in un mare di birra. «Forse dovrei!» gridò piangendo la cameriera, buttando di nuovo i pezzi sul pavimento. «Servi tu stessa ai tavoli... oppure è al di sotto di te, adesso, Tika Majere, Eroina delle Lance?»
Lanciando a Tika un’occhiata ferita, Dezra si alzò in piedi, scostò con un calcio il vasellame rotto, e uscì di corsa dalla locanda.
Quando la porta d’ingresso si spalancò con un colpo secco, urtò con forza il telaio, strappando una smorfia a Tika la quale immaginò i graffi sul legno. Parole taglienti le salirono alle labbra, ma si morse la lingua, sapendo che se lo avesse fatto più tardi se ne sarebbe rincresciuta.
La porta rimase aperta, lasciando che la vivida luce del pomeriggio morente inondasse la locanda.
Il bagliore rossastro del sole calante susci in riflessi dal legno lucidato di fresco del bancone, sfavillando sui bicchieri. Danzò perfino sulla superficie della pozzanghera sul pavimento.
Accarezzò stuzzicante i fiammeggianti riccioli rossi di Tika, come la mano di un amante, inducendo parecchi degli ilari clienti a soffocare le loro risate e a fissare quella donna aggraziata con desiderio.
Non che Tika non se ne accorgesse. Ma adesso, vergognandosi della propria collera, sbirciò fuori dalla finestra e vide Dezra che si stava asciugando gli occhi con il grembiule. Un cliente entrò dalla porta aperta, tirandosela dietro e chiudendola. La luce esterna scomparve, lasciando la locanda ancora una volta immersa nella fresca semioscurità.
Tika si sfregò la mano sugli occhi. «Che razza di mostro sto diventando?» si chiese, piena di rimorsi. «Dopotutto non è stata colpa di Dezra. È questa orribile sensazione che provo dentro di me. Vorrei quasi che ci fossero dei draconici contro cui combattere. Per lo meno, allora sapevo cosa temevo, per lo meno allora potevo combattere con le mie stesse mani! come posso combattere, qui, contro qualcosa che non riesco neppure a nominare?»
Delle voci irruppero nei suoi pensieri, reclamando birra, cibo. Le risate tornarono a innalzarsi.
E’ questo che sono tornata a cercare. Tika tirò su con il naso e se lo pulì con lo straccio del bancone. Questa è casa mia. Questa gente è bella, calda e al posto giusto, come quel sole calante.
Sono circondata dalle voci dell’amore: le risate, la buona compagnia, un cane adorante...
Un cane adorante! Tika cacciò un gemito e uscì di corsa da dietro il bancone.
«Raf!» esclamò orripilata, fissando disperata il nano dei burroni.
«Birra rovesciata. Me pulire,» disse Raf, guardandola e passandosi allegramente la mano sulla bocca per asciugarsela.
Parecchi dei clienti abituali scoppiarono a ridere, ma ce n’erano alcuni, giunti per la prima volta nella locanda, che stavano fissando con disgusto il nano dei burroni.
«Usa questo straccio per pulire!» sibilò Tika dall’angolo della bocca, rivolgendo un pallido sorriso ai clienti per scusarsi. Lanciò a Raf lo straccio del bancone e il nano dei burroni l’agguantò al volo.
Ma si limitò a tenerlo in mano, fissandola con un’espressione perplessa.
«Cosa fare me con questo?»
«Pulisci quello che è stato rovesciato!» lo rimproverò Tika cercando, senza riuscirci, di nasconderlo alla vista dei clienti con la sua lunga camicia svolazzante.
«Oh, me niente bisogno questo,» dichiarò Raf in tono solenne. «Me non sporcare bello straccio.»
Restituito lo straccio a Tika, il nano dei burroni tornò a mettersi a quattro zampe e riprese a leccare la birra rovesciata, adesso mescolata al fango portato dentro la locanda dalle scarpe dei clienti.
Con le guance che le bruciavano per il rossore, Tika allungò una mano con uno scatto, afferrò Raf e lo trascinò in piedi, scrollandolo energicamente. «Adopera lo straccio!» gli bisbigliò furibonda. «I clienti stanno perdendo l’appetito! E quando avrai finito voglio che tu pulisca quel grande tavolo vicino al camino. Sto aspettando degli amici e...» Tika s’interruppe.
Raf la stava fissando con gli occhi spalancati, cercando di assimilare quelle complicate istruzioni.
In verità, per essere un nano dei burroni era eccezionale. Si trovava lì da tre settimane soltanto, e Tika gli aveva già insegnato a contare fino a tre (pochi nani dei burroni riuscivano a superare il due) ed era finalmente riuscita ad eliminare la sua puzza. Quella nuova prodezza intellettuale avrebbe fatto di lui un re nel regno dei nani, ma Raf non aveva nessuna ambizione del genere. Sapeva che nessun re viveva come viveva lui, pulendo la birra rovesciata per terra (se era veloce) e portando fuori la spazzatura. Ma c’erano limiti al talento di Raf, e Tika li aveva appena scoperti.
«Sto aspettando alcuni amici e...» cominciò a dire un’altra volta, poi ci rinunciò. «Oh, non ha importanza. Basterà che tu pulisca qui, con lo straccio,» aggiunse in tono severo, «poi vieni da me e ti dirò che cosa devi fare ancora.»
«Me niente bere?» cominciò a dire Raf, poi colse l’occhiata furibonda di Tika. «Me fare.»
Sospirando deluso, il nano dei burroni riprese lo straccio e lo passò sul pavimento, borbottando «Spreco buona birra...» Poi raccolse uno per uno i pezzi dei boccali rotti, e dopo averli fissati per qualche istante, sogghignò e se li cacciò nelle tasche della camicia.
Per un breve istante Tika si chiese che cosa avesse intenzione di farci, ma sapeva che era più saggio non chiederlo. Tornata al bancone ghermì altri boccali e li riempì, cercando di non badare a Raf che si era tagliato con alcuni dei frammenti più affilati e adesso si era accovacciato sui calcagni, osservando con vivo interesse il sangue che gli gocciolava dalla mano.
«Hai... uhm... visto Caramon?» chiese Tika al nano dei burroni in tono disinvolto.
«No.» Raf si pulì la mano insanguinata sui capelli. «Ma me sapere dove guardare.» Balzò in piedi con foga. «Me andare a trovare?»
«No!» scattò Tika, corrugando la fronte. «Caramon è a casa.»
«Me pensa di no,» disse Raf scuotendo la testa. «Non dopo che sceso sole...»
«È a casa!» sbottò Tika con tanta rabbia che il nano dei burroni si ritrasse da lei impaurito.
«Vuoi fare scommessa?» borbottò Raf, ma a voce molto bassa. In quei giorni l’umore di Tika era infiammato come i suoi avvampanti capelli rossi.
Per sua fortuna Tika non lo sentì. Terminò di riempire i boccali di birra, poi portò il vassoio a un tavolo accanto alla porta dove sedeva un numeroso gruppo di elfi.
Sto aspettando degli amici, ripetè fra sé, fiaccamente. Cari amici. Un tempo sarebbe stata così eccitata, così desiderosa di rivedere Tanis e Riverwind. Adesso, invece... Sospirò, distribuendo i boccali di birra senza quasi accorgersi di ciò che stava facendo. In nome dei veri dei, pregò, che arrivino e se ne vadano in fretta! Se rimanessero... se scoprissero...
A questo pensiero Tika provò un tuffo al cuore. Il labbro inferiore le tremò. Se fossero rimasti, quella sarebbe stata la fine. Pura e semplice. La sua vita sarebbe finita. D’un tratto l’intensità del dolore fu più di quanto potesse sopportare. Affrettandosi a metter giù l’ultimo boccale di birra, Tika si allontanò dagli elfi sbattendo più volte le palpebre. Non notò lo sguardo perplesso che si scambiarono gli elfi mentre fissavano i boccali di birra, e non si ricordò affatto che tutti avevano ordinato del vino.
Semiaccecata dalle lacrime, l’unico pensiero di Tika era quello di fuggire in cucina dove poter piangere senza esser vista. Gli elfi si guardarono intorno cercando un’altra cameriera e Raf, con un sospiro di contentezza, tornò a mettersi carponi e leccò felice il resto della birra.
Tanis Mezzelfo si trovava ai piedi di una piccola altura con lo sguardo fisso sulla strada fangosa, lunga e dritta, che si stendeva davanti a lui. La donna che scortava e le loro cavalcature erano a una certa distanza dietro di lui. La donna aveva avuto bisogno di riposarsi, così come i loro cavalli.
Nonostante il suo orgoglio l’avesse trattenuta dal dire anche una sola parola in proposito, Tanis aveva visto che la sua faccia era grigia e tirata per la fatica. In effetti quel giorno, a un certo punto, si era addormentata in sella con la testa ciondoloni, e sarebbe caduta se non fosse stato per il robusto braccio di Tanis. Perciò, malgrado fosse ansiosa di raggiungere la sua destinazione, non aveva protestato quando Tanis aveva dichiarato di voler esplorare da solo la strada che si stendeva davanti a loro. L’aveva aiutata a scendere da cavallo e l’aveva sistemata in un boschetto nascosto.
Tanis aveva dei dubbi sul fatto di lasciarla incustodita, ma sentiva che le creature di tenebra che li inseguivano erano rimaste molto indietro. La sua insistenza nel voler procedere veloci si era rivelata pagante, malgrado ora sia lui sia la donna fossero doloranti ed esausti. Tanis sperava di mantenere il vantaggio su quelle creature fino a quando non avesse consegnato la sua compagna all’unica persona su Krynn che avrebbe potuto essere in grado di aiutarla.
Avevano cavalcato fin dagli albori del giorno, fuggendo davanti ad un essere che li aveva seguiti sin da quando avevano lasciato Palanthas. Cosa fosse esattamente, malgrado tutta l’esperienza fatta durante le guerre, Tanis non avrebbe saputo dirlo. È ciò rendeva la cosa ancora più spaventevole.
Non era mai là quando lo si affrontava, era possibile intravederlo soltanto con la coda dell’occhio quando questo era intento a guardare qualcos’altro. Anche la sua compagna l’aveva percepito, questo l’aveva capito, anche se, com’era sua caratteristica, era troppo orgogliosa per ammettere di avere paura.
Allontanandosi dal boschetto, Tanis si sentiva colpevole. Sapeva che non avrebbe dovuto lasciarla sola. Non avrebbe dovuto sprecare del tempo prezioso. Tutti i suoi sensi di guerriero protestavano.
Ma c’era una cosa che doveva fare, e doveva farla da solo. Fare altrimenti sarebbe parso un sacrilegio.
E così Tanis si trovava ai piedi della collina, facendo appello a tutto il suo coraggio per andare avanti. Chiunque l’avesse visto avrebbe potuto pensare che stesse avanzando per combattere contro un orco. Ma non era questo il caso. Tanis Mezzelfo stava tornando a casa. E allo stesso tempo bramava e temeva quel primo momento in cui l’avrebbe vista.
Il sole del pomeriggio stava cominciando il suo viaggio all’ingiù verso la notte. Sarebbe stato buio prima che avesse raggiunto la locanda, e temeva di viaggiare lungo le strade di notte. Ma una volta arrivato là, quel viaggio d’incubo sarebbe finito. Avrebbe affidato la donna a mani capaci e avrebbe proseguito per Qualinesti. Ma prima, c’era questo che doveva affrontare. Con un profondo sospiro, Tanis Mezzelfo si tirò il cappuccio verde sopra la testa e cominciò ad arrampicarsi.
Arrivato in cima all’altura, il suo sguardo cadde sopra un grande macigno coperto di muschio. Per un attimo i suoi ricordi lo sopraffecero. Chiuse gli occhi sentendo il pizzicore delle lacrime che gli sgorgavano veloci da sotto le palpebre.
«Stupida cerca,» sentì la voce del nano echeggiare nella sua memoria. «La cosa più sciocca che abbia mai fatto!»
Flint! Mio vecchio amico!
Non posso proseguire, pensò Tanis. Questo è troppo doloroso. Perché mai ho accettato di tornare?
Non rappresenta più niente per me adesso, salvo il dolore delle vecchie ferite. Finalmente la mia vita è buona, finalmente sono in pace, sono felice. Perché... perché gli ho detto che sarei venuto?
Emettendo un tremante sospiro, Tanis aprì gli occhi e fissò il macigno. Due anni prima - sarebbero stati tre questo autunno - era salito in cima a quell’altura e aveva incontrato Flint Fireforge il Nano, suo amico da tanto tempo, seduto su quel macigno intento a scolpire una scheggia di legno, e a lamentarsi, come al solito. Quell’incontro aveva messo in moto eventi che avevano scosso il mondo, culminando nella Guerra delle Lance, la battaglia che aveva riscagliato nell’Abisso la Regina delle Tenebre, infrangendo la potenza dei Signori dei Draghi.
Adesso sono un eroe, pensò Tanis, lanciando una mesta occhiata alla sgargiante panoplia che indossava: il pettorale di cavaliere di Solamnia; una fascia di seta verde, il segno dei Corridori Selvaggi di Silvanesti, la legione più onorata degli elfi; il medaglione di Kharas, la più alta onorificenza dei nani; e altri innumerevoli distintivi. Nessuno - umano, elfo o mezzelfo ora mai stato tanto onorato. Era ironico. Lui che odiava le armature, che odiava le cerimonie, adesso era costretto a indossare un abbigliamento consono alla sua posizione. Adesso il vecchio nano sarebbe scoppiato a ridere. «Tu, un eroe!» Poteva quasi udire la sbuffata del nano. Ma Flint era nell’oblio.
Era morto due anni prima, in primavera, fra le braccia di Tanis.
«Perché la barba?». Avrebbe potuto giurare ancora una volta di aver udito la voce di Flint, le prime parole che aveva detto quando aveva visto il mezzelfo per strada. «Eri già abbastanza brutto...»
Tanis sorrise e si grattò la barba che nessun elfo su Krynn poteva farsi crescere, la barba che era il segno visibile del suo retaggio semiumano. Flint conosceva benissimo il perché di quella barba, pensò Tanis, fissando con affetto quel macigno riscaldato dal sole.
Flint mi conosceva meglio di quanto io conoscessi me stesso. Conosceva il caos che infuriava dentro la mia anima. Sapeva che c’era una lezione che dovevo imparare.
«l’ho imparata,» bisbigliò Tanis all’amico che era con lui soltanto in spirito. «L’ho imparata, Flint. Ma, oh... quanto è stato amaro!»
L’odore d’un fuoco di legna arrivò fino a Tanis. Quello, e i raggi obliqui del sole, e il gelo nell’aria primaverile gli ricordarono che doveva percorrere ancora una certa distanza. Voltandosi, Tanis Mezzelfo guardò giù verso la valle dove aveva trascorso gli anni agrodolci della sua prima Virilità.
Voltandosi, Tanis Mezzelfo abbassò lo sguardo su Solace. Era autunno quando aveva visto per l’ultima volta la piccola città, e gli alberi della valle, i vallenwood, avevano brillato dei fiammeggianti colori della stagione, ma adesso i rossi e le sfumature dorate si erano dissolti nella muraglia purpurea dei Monti Kharolis; più oltre, l’azzurro profondo del cielo si specchiava nelle acque immobili del lago Crystalmir. Una leggera nebbia aleggiava sopra la valle, creata dal fumo dei fuochi delle case che ardevano nella pacifica città che un tempo era appollaiata sopra i vallenwood come uno stormo di uccelli soddisfatti, lui e Flint avevano visto accendersi le luci ad una ad una nelle case al riparo delle fronde di quegli alberi giganteschi. Solace, la città sugli alberi, una delle bellezze e delle meraviglie di Krynn.
Per un attimo Tanis vide l’immagine con l’occhio della sua mente... Era come lui l’aveva vista due anni prima. Poi la visione si dissolse. Allora era autunno. Adesso era primavera. Il fumo era ancora lì, il fumo dei fuochi delle case. Ma adesso proveniva per la maggior parte da case costruite sul terreno. C’era il verde delle creature vive che crescevano e rinascevano, ma ciò, nella mente di Tanis, pareva dare ancora più rilievo alle cicatrici nere sul terreno, cicatrici che non avrebbero mai potuto venir totalmente cancellate, anche se qua e là poteva vedere che erano solcate dai segni degli aratri.
Tanis scosse la testa. Tutti pensavano che con la distruzione dell’immondo tempio della Regina a Neraka la guerra fosse finita. Tutti erano desiderosi di arare quel suolo annerito e riarso, bruciato dal fuoco dei draghi, e scordare il proprio dolore.
I suoi occhi andarono all’immane cerchio nero che spiccava al centro della città. Lì non cresceva nulla. Nessun aratro poteva rivoltare il suolo devastato dal fuoco dei draghi e inzuppato dal sangue degli innocenti, assassinati dalle truppe dei Signori dei Draghi.
Tanis ebbe un cupo sorriso. Poteva ben immaginare quale pugno nell’occhio dovesse essere l’irritare coloro che lavoravano per dimenticare. Era lieto di trovarsi là. Sperava di poterci rimanere per sempre.
Con voce sommessa ripetè le parole che aveva sentito pronunciare a Elistan, quando il chierico aveva dedicato, con una solenne cerimonia, la Torre del Sommo Chierico al ricordo di quei cavalieri che vi erano morti:
«Dobbiamo ricordare, altrimenti cadremo nell’autocompiacimento, come abbiamo fatto in precedenza, e il male tornerà una volta ancora...»
Se non ci è già addosso, pensò Tanis, cupo in volto. E con questo in mente, si girò e si affrettò a ridiscendere la collina.
Quella sera la Locanda dell’Ultima Casa era affollata.
Malgrado la guerra avesse portato devastazione e distruzioni agli abitanti di Solace, la fine dei combattimenti aveva portato una tale prosperità che qualcuno stava già dicendo che non era poi andata «tanto male». Solace era stata per lungo tempo un crocevia per i viaggiatori che passavano attraverso le terre di Abanasinia. Ma nei giorni antecedenti la guerra il numero dei viaggiatori era sempre stato piuttosto scarso. I nani, salvo per pochi rinnegati come Flint Fireforge, si erano chiusi nel loro regno montagnoso di Thorbardin oppure si erano barricati tra le colline, rifiutandosi di aver qualcosa a che fare con il resto del mondo. Gli elfi avevano fatto lo stesso, abbarbicandosi nel fascinoso territorio di Qualinesti a sudovest, e di Silvanesti sul bordo orientale del continente di Ansalon.
La guerra aveva cambiato tutto questo. Adesso gli elfi, i nani e gli umani viaggiavano in lungo e in largo, le loro terre e i loro regni erano aperti a tutti. Ma c’era voluto un annientamento quasi totale per arrivare a questa fragile condizione di fratellanza.
La Locanda dell’Ultima Casa - a motivo delle sue raffinate bevande e delle famose patate speziate di Otik - era diventata ancora più popolare. Le bevande erano buone e le patate eccellenti come sempre - anche sé, Otik si era ritirato - ma la vera ragione dell’aumento della popolarità della locanda stava nel fatto che aveva acquistato una notevole notorietà poiché era risaputo che gli Eroi delle Lance, come adesso venivano chiamati, l’avevano un tempo frequentata.
In effetti, Otik prima di ritirarsi aveva preso in seria considerazione la possibilità di mettere una targa sopra il tavolo accanto al caminetto con scritto qualcosa come «Qui bevvero Tanis Mezzelfo e compagni». Ma Tika si era opposta al progetto con tanta veemenza (il solo pensiero di ciò che Tanis avrebbe detto se avesse visto una cosa del genere faceva bruciare le guance di Tika) che Otik aveva lasciato perdere. Ma il rotondo oste non si era mai stancato di raccontare ai propri clienti la storia della notte in cui la donna barbara aveva cantato la sua strana canzone e guarito Hederick il Teocrate col suo bastone di cristallo azzurro, fornendo la prima prova dell’esistenza degli antichi, veri dei.
Tika, che aveva preso la direzione della locanda quando Otik si era ritirato, e sperava di mettere da parte un gruzzoletto sufficiente per comperare l’azienda, si augurava con fervore che Otik si astenesse dal raccontare di nuovo quella storia stasera. Ma avrebbe potuto impiegare la sua speranza in cose migliori. C’erano parecchi gruppi di elfi che avevano fatto tutto il percorso da Silvanesti per prender parte al funerale di Solostaran - Portavoce del Sole e sovrano delle terre degli elfi di Qualinesti. Non soltanto sollecitavano Otik a raccontare la sua storia, ma, per di più, ne raccontavano alcune di proprie, sulla visita fatta dagli Eroi alla loro terra e su come l’avevano liberata dal drago malefico, Cyan Bloodbane. Tika vide che Otik, nell’udire ciò, lanciava occhiate nostalgiche nella sua direzione. dopotutto Tika era stata uno dei membri del gruppo che era stato a Silvanesti. Ma lei lo azzittì scuotendo furibonda i suoi riccioli fulvi. Quella era una parte del loro viaggio che si rifiutava sempre di raccontare , o anche soltanto di discutere. In effetti pregava ogni notte di più, di dimenticare gli orrendi incubi di quella terra torturata.
Tika chiuse gli occhi per un attimo, augurandosi che gli elfi lasciassero cadere il discorso. Adesso lei aveva i suoi propri incubi. Non aveva alcun bisogno che quelli del passato l’ossessionassero.
«Fai che vengano e se ne vadano in fretta,» disse con voce sommessa, rivolta a qualunque dio potesse ascoltarla.
Era appena passato il tramonto. I clienti entravano in numero sempre maggiore chiedendo cibo e bevande. Tika si era scusata con Dezra, le due amiche avevano versato qualche lacrima insieme, e adesso erano impegnate a correre dalla cucina al bancone e ai tavoli. Tika sussultava tutte le volte che la porta si apriva, e corrugava la fronte irritata tutte le volte che udiva la voce di Otik levarsi sopra il baccano dei boccali e delle lingue: «una bellissima notte d’autunno, a quanto ricordo, ed ero, naturalmente, più affaccendato di un sergente draconico durante le esercitazioni.» Ciò causava immancabilmente una risata. Tika serrò i denti. Otik aveva un pubblico adorante ed era lanciato in pieno. Adesso non ci sarebbe stato nessun modo per fermarlo. «Allora la locanda era appesa tra gli alberi di vallen, come il resto della nostra adorabile città prima che i draghi la distruggessero. Ah, com’era bella ai vecchi tempi.» Sospirò - a questo punto sospirava sempre - e si asciugò una lacrima. Un mormorio di solidarietà si levò dalla folla. «Dov’ero rimasto?» Si soffiò il naso, un’altra parte della recita. «Ah, sì. Ero là dietro il bancone quando la porta si aprì...»
La porta si aprì, avrebbe potuto esser concertato come una battuta ad effetto, talmente perfetta fu la sincronizzazione. Tika si scostò dalla fronte sudata una ciocca di capelli rossi e lanciò un’occhiata nervosa in quella direzione. Un improvviso silenzio calò nella sala. Tika s’irrigidì, le unghie affondarono nelle sue mani.
Un uomo alto, così alto che dovette chinarsi per varcare la porta, si stagliò sulla soglia. I suoi capelli erano scuri, il suo volto tetro e severo. Malgrado fosse avvolto in pellicce, era ovvio dalla sua camminata e dal suo portamento che il suo corpo era forte e muscoloso. Lanciò una rapida occhiata alla locanda affollata soppesando coloro che erano presenti, circospetto e attento ai pericoli.
Ma era stata soltanto un’azione istintiva, poiché quando il suo sguardo cupo e penetrante si fissò su Tika, il suo volto severo si rilassò in un sorriso, e l’uomo spalancò le braccia.
Tika esitò, ma la vista del suo amico la riempì d’una gioia improvvisa e di una strana ondata di nostalgia. Facendosi largo a gomitate tra la folla, venne avvolta nel suo abbraccio.
«Riverwind, amico mio,» mormorò con voce rotta.
Stringendo la giovane donna fra le braccia, Riverwind la sollevò da terra senza sforzo come se fosse una bambina. La folla cominciò ad acclamare, picchiando i boccali sui tavoli. La maggior parte degli avventori non riusciva a credere alla propria fortuna. Là c’era un Eroe delle Lance in persona, come se fosse stato evocato dalla storia di Otik. E perfino corrispondeva alla descrizione!
Erano tutti incantati.
Poiché nell’abbracciare Tika l’uomo si era buttato il mantello dietro le spalle, adesso tutti erano in grado di riconoscere il Manto del Capo che indossava, le sezioni di pelliccia alternate, in un disegno a V, a cuoio lavorato, ognuna delle quali rappresentava una delle tribù delle pianure sulle quali lui regnava. Il suo bel volto, anche se più vecchio e segnato da quando Tika l’aveva visto l’ultima volta, era bruciato dal sole e dalle intemperie che gli avevano dato un colore bronzeo, e c’era una gioia interiore negli occhi dell’uomo, che aveva trovato nella sua vita la pace che in precedenza aveva cercato per anni.
Tika avvertì una sensazione di soffocamento alla gola e subito si girò, ma non abbastanza in fretta.
«Tika,» disse Riverwind, il suo accento si era ispessito per essere vissuto nuovamente tra quelli del suo popolo, «fa piacere vederti ancora bella e in salute. Dov’è Caramon? Non vedo l’ora di... ebbene Tika, cosa c’è che non va?»
«Niente, niente,» rispose Tika con vivacità, scuotendo i riccioli rossi e sbattendo le palpebre.
«Vieni, ti ho riservato un posto accanto al fuoco. Devi essere esausto e affamato.»
Lo condusse attraverso la folla, parlando senza interruzione, senza mai dargli la possibilità di dire una parola. Inavvertitamente la folla l’aiutò, tenendo occupato Riverwind mentre gli si raccoglievano intorno meravigliandosi del suo mantello di pelliccia, oppure cercando di stringergli la mano (un’usanza che gli Uomini delle Pianure giudicavano barbarica) o di porgergli boccali pieni.
Riverwind accettò tutto stoicamente, mentre seguiva Tika attraverso la folla eccitata, stringendo la bellissima spada di fattura elfa che gli pendeva al fianco. La sua faccia severa divenne d’una sfumatura più cupa, e guardava spesso fuori delle finestre, come se già ardesse dal desiderio di uscire dai confini di quella stanza rumorosa e calda per tornare agli spazi liberi che amava. Ma Tika spinse via con destrezza i clienti più esuberanti e ben presto fece sedere il suo amico vicino al fuoco a un tavolo isolato accanto alla porta della cucina.
«Torno subito,» disse scoccandogli uno smagliante sorriso e scomparve dentro la cucina prima che lui potesse aprire bocca.
Il suono della voce di Otik si levò di nuovo, accompagnato da un forte picchiare. Poiché la sua storia era stata interrotta, Otik stava usando il suo bastone, una delle armi più temute a Solace, per ripristinare l’ordine. Adesso, l’oste era infermo a una gamba, e gli piaceva raccontare anche quella storia, su come era rimasto ferito durante la caduta di Solace quando, stando al suo resoconto, aveva respinto da solo le armate degli invasori draconici.
Afferrando un tegame pieno di patate speziate e affrettandosi a tornare da Riverwind, Tika lanciò un’occhiata furiosa a Otik. Lei conosceva la Vera storia, su come era rimasto ferito alla gamba quand’era stato trascinato fuori dal suo nascondiglio sotto il pavimento. Ma non l’aveva mai raccontata a nessuno. Nel profondo del suo animo amava il vecchio come un padre. Lui l’aveva accolta e l’aveva allevata quando suo padre era scomparso, offrendole un lavoro onesto quando a lei non restava che il ladrocinio. Inoltre, ricordargli ogni tanto che lei sapeva la verità serviva a impedire che le storie esagerate di Otik arrivassero a nuove vette.
La folla si era abbastanza calmata quando Tika tornò, dandole la possibilità di parlare con il suo vecchio amico.
«Come stanno Goldmoon e tuo figlio?» gli chiese con vivacità, vedendo che Riverwind la guardava, studiandola con attenzione.
«Goldmoon sta bene e ti manda tutto il suo affetto,» rispose Riverwind con voce bassa da baritono.
«Mio figlio,» i suoi occhi s’illuminarono d’orgoglio, «ha soltanto due anni ma è già alto così, e sta in groppa al cavallo meglio di tanti guerrieri.»
«Avevo sperato che Goldmoon venisse con te,» disse Tika con un timro che non aveva avuto intenzione di far sentire a Riverwind.
L’alto uomo delle pianure mangiò il proprio cibo in silenzio per qualche istante, prima di rispondere.
«Gli dei ci hanno benedetti con altri due bambini,» disse infine, fissando Tika con una strana espressione negli occhi scuri.
«Due?» Tika parve perplessa. «Oh, gemelli!» gridò con gioia. «Come Caramon e Rais...»
S’interruppe di colpo, mordendosi il labbro.
Riverwind corrugò la fronte e tracciò nell’aria il segno che allontanava il male. Tika arrossì e guardò altrove. C’era un rombo nelle sue orecchie. Il calore e il rumore la stordivano. Inghiottendo l’amaro che aveva in bocca, si costrinse a chiedere altre notizie di Goldmoon e, dopo un po’, riuscì perfino ad ascoltare la risposta di Riverwind.
«... ancora troppo pochi chierici nella nostra terra. Ci sono molti convertiti, ma i poteri degli dei arrivano con lentezza. Goldmoon lavora duramente, troppo duramente secondo me, ma diventa ogni giorno più bella. E le bambine, le nostre figlie, hanno entrambe i capelli argento-dorati.»
Bambini... Tika ebbe un triste sorriso. Vedendo il suo viso Riverwind si azzittì, finì di mangiare e spinse da parte il piatto. «Niente mi piacerebbe di più che prolungare questa visita, disse lentamente, ma non posso rimanere lontano per troppo tempo dal mio popolo. Tu conosci l’urgenza della mia missione. Dov’è Cara...?»
«Devo andare a controllare la tua stanza,» disse Tika, alzandosi così in fretta che urtò il tavolo, facendo traboccare il boccale di Riverwind. «Quel nano dei burroni dovrebbe preparare il letto. È probabile che lo trovi addormentato come un ghiro...»
Si affrettò ad allontanarsi. Ma non salì di sopra nelle stanze. In piedi, fuori della porta della cucina, mentre il vento della notte raffreddava le sue guance febbricitanti, fissò il buio. «Fate che se ne vada!» bisbigliò. «Per favore...»
Capitolo secondo.
Forse, ciò che Tanis temeva di più era la vista della Locanda dell’Ultima Casa. Qui tutto era cominciato tre anni prima, in autunno. Qui, lui, Flint e l’irrefrenabile kender, Tasslehoff Burrfoot, erano giunti quella notte per incontrare dei vecchi amici. Qui il suo mondo si era capovolto, per non raddrizzarsi mai più.
Ma mentre cavalcava verso la locanda, Tanis sentì alleviarsi le sue paure. Era cambiata talmente che era come arrivare in un luogo estraneo, un luogo che non ospitava ricordi. Si ergeva sul terreno invece che fra i rami di un grande vallenwood. C’erano state nuove aggiunte, altre stanze erano state costruite per far fronte all’afflusso dei viaggiatori, aveva un nuovo tetto, assai più moderno nel disegno. Era stata purgata da tutte le cicatrici della guerra, insieme ai ricordi.
Poi, proprio mentre Tanis cominciava a rilassarsi, la porta principale della locanda si aprì. La luce ne uscì a fiotti, formando un dorato sentiero di benvenuto, l’odore delle patate speziate e il rimbombare delle risate gli giunsero insieme alla brezza della sera. I ricordi tornarono impetuosi, e Tanis chinò la testa, sopraffatto.
Ma, forse per sua fortuna, non ebbe il tempo di rivangare il passato. Quando lui e la sua compagna si avvicinarono alla locanda, uno stalliere corse fuori e afferrò le redini dei cavalli.
«Cibo e acqua,» disse Tanis, scivolando stanco giù dalla sella e lanciando una moneta al ragazzo.
Si stiracchiò per alleviare i crampi muscolari. «Ho mandato un messo perché mi fosse preparato un cavallo riposato. Il mio nome è Tanis Mezzelfo.»
Il ragazzo sgranò gli occhi. Già era rimasto con lo sguardo puntato sulla sfavillante armatura e sul ricco mantello che Tanis indossava. Adesso alla sua curiosità si sostituirono l’ammirazione e la soggezione.
«S... sì, signore,» balbettò, imbarazzato nel sentirsi rivolgere la parola da un così grande eroe. «I... il cavallo è pronto, devo portartelo a... adesso, signore?»
«No.» Tanis sorrise. «Prima mangerò qualcosa. Portalo fra due ore.»
«D... due ore. Sì, signore. Grazie, signore.» Ciondolando la testa il ragazzo prese le redini che Tanis gli schiacciava dentro la mano intorpidita, poi rimase là, immobile, a bocca aperta, dimenticandosi del tutto del suo compito fino a quando il cavallo impaziente non lo spinse facendolo quasi cadere per terra.
Mentre il ragazzo si affrettava ad allontanarsi, conducendo via il cavallo di Tanis, il mezzelfo si girò per aiutare la sua compagna a scendere di sella.
«Devi essere fatto di ferro,» lei commentò, fissandolo, mentre lui l’aiutava a smontare. «Davvero intendi proseguire il tuo viaggio stanotte stessa?»
«A dire il vero non c’è osso del mio corpo che non mi faccia spasimare,» cominciò a dire Tanis, poi tacque, sentendosi a disagio. Semplicemente, era incapace di sentirsi a suo agio quand’era vicino a quella donna.
Tanis scorgeva il suo viso al riflesso della luce che s’irradiava dalla locanda. Vide fatica e dolore. I suoi occhi erano infossati nelle guance pallide e scavate. Barcollò, quando mise piede al suolo, e Tanis fu svelto a porgerle il braccio perché potesse appoggiarvisi. Lei si appoggiò, ma solo per un attimo. Poi, drizzandosi, lo spinse via, gentile ma ferma, e rimase lì, sola, lanciando un’occhiata intorno a sé senza mostrare alcun interesse.
Il minimo movimento provocava fitte di sofferenza a Tanis, il quale poteva ben immaginare come doveva sentirsi quella donna, per nulla abituata alle fatiche fisiche e alle privazioni, e sia pure riluttante si trovò ad ammirarla. Non si era lamentata una sola volta durante il loro lungo e spaventevole viaggio. Era rimasta al passo con lui senza mai restare indietro, e obbedendo alle sue istruzioni senza discutere.
Perché mai allora, si chiedeva, non riusciva a provare niente per lei? Che cosa c’era in lei che lo irritava e lo infastidiva? Guardando il suo volto Tanis trovò la risposta. L’unico calore in esso era quello riflesso dalla luce della locanda. Perfino adesso che appariva esausta, il suo volto era freddo, impassibile, privo di... che cosa? Così era stata per tutto quel lungo, pericoloso viaggio. Oh, era stata gelidamente cortese, gelidamente grata, gelidamente distante, remota. Con tutta probabilità mi avrebbe sepolto con altrettanta freddezza, pensò Tanis, cupo. Poi, come per rimproverarsi di aver avuto simili pensieri irriverenti, il suo sguardo venne attratto dal medaglione che la donna portava al collo, il Drago di Platino di Paladine. Ricordò le parole di commiato di Elistan, dette in privato poco prima dell’inizio del viaggio.
«È opportuno che tu la scorti, Tanis,» aveva detto il chierico ormai fragile nel corpo. «Sotto molti aspetti lei inizia un viaggio molto simile al tuo di tanti anni fa... alla ricerca dell’autocoscienza. No, hai ragione, lei non lo sa ancora.» Questo in risposta all’espressione dubbiosa di Tanis. «Lei cammina con lo sguardo fisso al cielo.» Elistan aveva avuto un triste sorriso. «Lei non ha ancora imparato che, così facendo, si finisce inevitabilmente per inciampare. A meno che non impari, la sua caduta potrebbe essere dolorosa.» Scuotendo la testa, aveva mormorato una sommessa preghiera. «Ma noi dobbiamo riporre la nostra fiducia in Paladine.»
Allora Tanis aveva corrugato la fronte, e la corrugò anche adesso, nel ricordare tutto questo. Anche se era arrivato ad avere una robusta fede nei veri dei - per l’amore e la fede che Laurana aveva in essi più che per qualsiasi altra cosa - si sentiva a disagio nel dover affidare la propria vita a loro, e diventava insofferente con quelli come Elistan che, a quanto pareva, addossavano agli dei un fardello troppo grande. Che l’uomo fosse responsabile di sé, tanto per cambiare, pensò Tanis, irritato. «Che cosa c’è, Tanis?» gli chiese Crysania con freddezza. Rendendosi conto di aver continuato a fissarla per tutto quel tempo, Tanis tossì imbarazzato, si schiarì la gola e guardò altrove. Per fortuna il giovane stalliere tornò in quel momento per prendere il cavallo di Crysania, risparmiando a Tanis la necessità di rispondere. Tanis indicò Con un gesto la locanda, e s’incamminò con Crysania verso di essa.
«A dire il vero,» disse Tanis quando il silenzio cominciò a farsi imbarazzante, «niente mi piacerebbe di più che rimanere qui e far visita ai miei amici. Ma devo essere a Qualinesti dopodomani, e soltanto cavalcando senza sosta riuscirò ad arrivare in tempo. I miei rapporti con mio cognato non sono tali da potermi permettere di offenderlo mancando al funerale di Solostaran.»
Poi aggiunse con un tetro sorriso: «Sia politicamente che personalmente, se capisci quello che voglio dire.» Crysania sorrise a sua volta ma, Tanis se ne avvide, non era un sorriso di comprensione. Era un sorriso di tolleranza, come se quel discorso non fosse al suo livello.
Avevano raggiunto la porta della locanda. «Inoltre,» aggiunse Tanis con voce sommessa, «sento la mancanza di Laurana. È strano, vero? quando mi è vicina e siamo impegnati a svolgere i nostri compiti, talvolta passano giorni in cui ci rivolgiamo soltanto un rapido sorriso od una carezza, e poi torniamo a scomparire nei nostri mondi. Ma quando sono stato lontano da lei, è come se mi svegliassi all’improvviso scoprendo che mi hanno reciso il braccio destro. Potrei anche non andare a letto pensando al mio braccio destro, ma una volta che non c’è più...» Tanis si azzittì di colpo sentendosi sciocco, timoroso di apparire come un adolescente ammalato d’amore. Ma si avvide che, con ogni apparenza, Crysania non gli prestava la minima attenzione. Il suo liscio volto di marmo era diventato, semmai, ancora più freddo, fino a far apparire calda, al suo confronto, la luce della luna.
Scuotendo la testa, Tanis aprì la porta, spingendola.
Non invidio Caramon o Riverwind, pensò, cupo.
I suoni e gli odori caldi e familiari della locanda investirono Tanis e, per lunghi istanti, ogni cosa fu una macchia confusa. Lì c’era Otik, ancora più vecchio e più grasso se mai era possibile, appoggiato a un bastone, e gli batteva una mano sulla schiena. Lì c’era gente che lui non vedeva da anni, che non aveva avuto molto a che fare con lui prima, che adesso gli stringeva la mano e riaffermava la più calda amicizia. Qui c’era il vecchio bancone ancora lucidato a specchio, e lui, in qualche modo, riuscì a inciampare su un nano dei burroni...
E poi c’era un uomo alto, avvolto in pellicce, e Tanis si trovò stretto all’interno del caldo abbraccio dell’amico.
«Riverwind,» bisbigliò con voce rauca, tenendosi saldamente stretto all’uomo delle pianure.
«Fratello mio,» disse Riverwind in queshu, la lingua del suo popolo. La folla della locanda applaudiva come impazzita, ma Tanis non la sentì perché una donna dai fiammeggianti capelli rossi e con una spruzzata di lentiggini gli aveva appoggiato la mano sul braccio. Allungando a sua volta una mano, sempre tenendo stretto Riverwind, Tanis accolse Tika nel loro abbraccio e per lunghi momenti i tre amici si tennero stretti l’uno all’altro - legati dal dolore, dalla sofferenza e dalla gloria.
Riverwind li riportò alla realtà. Per nulla abituato a simili, pubbliche esibizioni di emozioni, l’alto uomo delle pianure riprese la sua compostezza con un poderoso colpo di tosse e si tirò indietro, ammiccando più volte e guardando il soffitto, corrugando al tempo stesso la fronte fino a quando non fu di nuovo padrone di sé. Tanis, con la barba rossa inumidita dalle proprie lacrime, strinse in un ultimo, rapido abbraccio Tika, poi si guardò intorno.
«Dov’è quello zoticone di tuo marito?» chiese con allegria. «Dov’è Caramon?»
Era una semplice domanda e Tanis era del tutto impreparato alla reazione. La folla si azzittì del tutto; pareva che qualcuno avesse chiuso i presenti in un barile. Il volto di Tika avvampò d’un cupo rossore, poi borbottò qualcosa d’inintelligibile e, chinandosi, tirò su di peso dal pavimento il nano dei burroni e lo scosse tanto da fargli sbattere violentemente i denti.
Stupefatto, Tanis guardò Riverwind, ma l’uomo delle pianure si limitò a scrollare le spalle e a sollevare le scure sopracciglia. Il mezzelfo si voltò per chiedere a Tika cosa stesse succedendo, ma proprio allora sentì un tocco freddo sul suo braccio. Crysania! Si era completamente dimenticato di lei!
Arrossendo anche lui, fece le sue tardive presentazioni.
«Vi presento Crysania di Tarinius, Reverenda Figlia di Paladine,» disse in tono ufficiale. «Dama Crysania, Riverwind, capo degli Uomini delle Pianure, e Tika Waylan Majere.»
Crysania sciolse il suo mantello da viaggio e gettò indietro il cappuccio. Quando l’ebbe fatto, il medaglione di platino che portava appeso al collo balenò alla vivida luce delle candele della locanda. Le vesti di pura lana bianca d’agnello s’intravidero fra le pieghe del suo mantello. Un mormorio, allo stesso modo riverente e rispettoso, attraversò la folla.
«Un sacro chierico!»
«Hai afferrato il suo nome? Crysania! Prossima in linea di successione...»
«Il successore di Elistan...»
Crysania piegò leggermente la testa. Riverwind si esibì in un inchino profondo: il suo volto era solenne. Tika, il volto ancora tanto arrossato da apparire febbricitante, spinse frettolosamente Raf dietro il bancone, poi anche lei eseguì un inchino riverente.
Nell’udire il cognome da sposata di Tika, Majere, Crysania fissò Tanis con aria interrogativa e ne ricevette in risposta un cenno affermativo del capo.
«Sono onorata,» disse Crysania, con la sua voce ricca e fredda, «d’incontrare coloro le cui imprese e il cui coraggio hanno, brillato vividi come un esempio per tutti noi.»
Compiaciuta, Tika arrossì per l’imbarazzo. Il volto severo di Riverwind non cambiò espressione, ma Tanis vide quanto significato avevano le lodi per quell’uomo profondamente religioso. In quanto alla folla, gli applausi si levarono fragorosi per l’onore che tutti traevano dall’esser presenti, e continuarono a lungo. Otik, con le dovute cerimonie, condusse i suoi ospiti a un tavolo che li aspettava, contemplando raggiante gli eroi come se fosse stato lui a organizzare tutta quella guerra a loro esclusivo beneficio.
Sulle prime, nel sedersi, Tanis si sentì turbato da tutta quella confusione e da quel frastuono, ma ben presto decise che era una buona cosa. Per lo meno, avrebbe potuto parlare a Riverwind senza timore di venir ascoltato da orecchi indiscreti. Ma, prima, doveva scoprire dove si trovava Caramon.
Ancora una volta fece per chiederlo, ma Tika, dopo essersi assicurata che si fossero tutti accomodati e accudendo Crysania come una chioccia, lo vide sul punto di aprire bocca e, voltandosi di scatto, scomparve in cucina.
Tanis scosse la testa, perplesso, ma prima che potesse pensarci ulteriormente, Riverwind cominciò a fargli delle domande. I due furono ben presto immersi nella conversazione.
«Tutti sono convinti che la guerra sia finita,» disse Tanis con un sospiro. «Ma questo ci pone in un pericolo ancora peggiore del precedente. Le alleanze tra gli elfi e gli umani che erano solide quando i tempi erano bui hanno cominciato a sciogliersi al sole. Adesso Laurana è a Qualinesti per partecipare al funerale di suo padre e anche per cercare di raggiungere un accordo con quel testardo di suo fratello, Porthios, e i Cavalieri di Solamnia. L’unico raggio di speranza che ci resta sta nella moglie di Porthios, Alhana Starbreeze.» Tanis sorrise. «Non avrei mai creduto che sarei riuscito a vivere fino al giorno in cui avrei visto quella donna elfa non soltanto tollerare gli umani e le altre razze, ma perfino sostenerli con calore contro il suo intollerante marito.»
«Uno strano matrimonio,» commentò Riverwind, e Tanis annuì, d’accordo con lui. I pensieri di entrambi gli uomini andarono al loro amico, Sturm Brightblade, che adesso giaceva morto - eroe della Torre del Sommo Chierico. Entrambi sapevano che il cuore di Alhana era rimasto sepolto là nel buio insieme a Sturm.
«Sì, certo, non un matrimonio d’amore,» disse Tanis, scrollando le spalle. «Ma potrebbe essere un matrimonio che aiuterà a riportare ordine nel mondo. Ora, cosa mi dici di te, amico mio? Il tuo volto è buio e teso, a causa delle nuove preoccupazioni, oltre che irradiare una nuova gioia. Goldmoon ha mandato a Laurana la notizia delle gemelle.»
Riverwind ebbe un lieve sorriso. «Hai ragione, rimpiango ogni minuto che passo lontano da lei,» dichiarò l’uomo delle pianure con la sua voce profonda. «Anche se tornando a rivederti, fratello mio, sento alleggerirsi il fardello del mio cuore. Ma ho lasciato due tribù sull’orlo della guerra. Finora sono riuscito a fare in modo che continuassero a parlare, e non c’è stato ancora nessuno spargimento di sangue. Ma il malcontento opera contro di me, dietro la mia schiena. Ogni minuto che trascorro lontano concede loro la possibilità di ridestare antiche faide.»
Tanis gli strinse il braccio. «Mi spiace, amico mio, e sono contento che tu sia venuto.» Poi sospirò di nuovo e lanciò un’occhiata a Crysania, rendendosi conto di avere nuovi problemi. «Avevo sperato che tu fossi in grado di offrire a questa dama la tua guida e la tua protezione.» La sua voce divenne un mormorio. «Si sta recando alla Torre della Grande Stregoneria nella Foresta di Wayreth.»
Gli occhi di Riverwind si spalancarono per l’allarme e la disapprovazione. L’uomo delle pianure diffidava dei maghi.
Tanis annuì. «Vedo che ricordi le storie di Caramon, di quando lui e Raistlin viaggiarono fin là. E loro erano stati invitati. Questa dama si reca laggiù senza nessun invito per cercare il consiglio dei maghi su...»
Crysania gli scoccò un’occhiata tagliente e imperiosa. Corrugando la fronte, la donna scosse la testa. Tanis, mordendosi il labbro, aggiunse a bassa voce: «Avevo sperato che tu potessi scortarla...»
«È quello che ho temuto quando ho ricevuto il tuo messaggio,» replicò Riverwind, «ed è per questo che ho sentito di dover venire, per offrirti qualche spiegazione per il mio rifiuto. Se fosse stato qualunque altro momento, sai che sarei stato lieto di aiutarti e, in particolare, sarei stato onorato di offrire i miei servigi ad una persona così riverita.» Rivolse un lieve inchino a Crysania, la quale accettò il suo omaggio con un sorriso che subito svanì quando riportò lo sguardo su Tanis. Un piccolo, profondo solco di collera era comparso fra le sue sopracciglia.
Riverwind continuò: «Ma c’è troppo in gioco. La pace che ho stabilito fra le tribù, molte delle quali erano in guerra da anni, è fragile. La nostra sopravvivenza come nazione e come popolo dipende dalla nostra unione e dal comune lavoro per ricostruire le nostre terre e le nostre vite.»
«Capisco,» disse Tanis, commosso dall’evidente infelicità di Riverwind per dover rifiutare la sua richiesta di aiuto. Ma il mezzelfo colse anche l’occhiata dispiaciuta di Dama Crysania e si rivolse a lei con cupa cortesia. «Tutto andrà a posto, Reverenda Figlia,» disse, parlando con elaborata pazienza. «Caramon ti guiderà, e lui vale tre di noi comuni mortali, giusto, Riverwind?»
L’uomo delle pianure sorrise, i vecchi ricordi gli tornarono alla memoria. «Può mangiare quanto tre normali mortali, certo. Ed è forte come tre di loro o anche di più. Ricordi, Tanis, quando sollevava da terra quel gagliardo Faccia-di-Porco William, quando abbiamo messo su quello spettacolo a... dov’era... Flotsam?»
«E quella volta che ha ammazzato due draconici picchiando insieme le loro zucche?» Tanis rise, sentendo d’un tratto sollevarsi l’oscurità del mondo nello spartire quei tempi con il suo amico. «E ti ricordi di quella volta quando ci siamo trovati nel regno dei nani e Caramon è sgusciato alle spalle di Flint e...» sporgendosi in avanti, Tanis bisbigliò qualcosa all’orecchio di Riverwind. Il volto dell’uomo delle pianure s’imporporò per le risate. Lui raccontò un’altra storia e i due uomini continuarono, rievocando esempi della forza di Caramon, la sua abilità con la spada, il suo coraggio e il suo senso dell’onore.
«E la sua gentilezza,» aggiunse Tanis, dopo un momento di silenziosa riflessione. «Ancora riesco a vederlo che accudisce Raistlin con tanta pazienza, tenendo suo fratello tra le braccia quando quegli accessi di tosse facevano quasi a pezzi il mago...»
Venne interrotto da un urlo soffocato, uno schianto e un tonfo. Voltandosi di scatto in preda allo stupore, Tanis vide Tika che lo fissava, il suo volto era bianco, i suoi occhi verdi luccicavano per le lacrime.
«Andate via, adesso!» lei li implorò attraverso le pallide labbra. «Ti prego, Tanis! Non fare nessuna domanda! Vai via e basta!» Lo afferrò per un braccio. Le sue unghie gli si affondarono dolorosamente nella pelle. «Ascoltami, in nome dell’Abisso, cosa sta succedendo, Tika?» chiese Tanis in preda all’esasperazione, alzandosi in piedi e fronteggiandola.
In risposta, vi fu uno schianto di legno scheggiato. La porta della locanda si spalancò di colpo, colpita dall’esterno da una forza tremenda. Tika balzò indietro, il suo volto distorto da una tale paura e da un orrore così intenso, mentre fissava la porta, che Tanis si affrettò a girarsi, la mano sulla spada, e Riverwind balzò in piedi.
Una grande ombra riempì la porta dando l’impressione di diffondere una nuvola tempestosa nella sala. L’allegria e le risate della folla s’interruppero di colpo, trasformandosi in borbottii sordi e rabbiosi.
Ricordando le creature tenebrose e malefiche che li avevano inseguiti, Tanis sfoderò la spada interponendosi fra l’ombra e Dama Crysania. Avvertì, anche se non la vide, la vigorosa presenza di Riverwind alle sue spalle, pronto ad appoggiarlo.
Così ci hanno raggiunto, pensò Tanis, accogliendo quasi con sollievo la possibilità di combattere quel vago e sconosciuto terrore. Cupo in volto, squadrò la porta mentre una figura rigonfia e grottesca accedeva alla luce.
Tanis vide che era un uomo, un uomo gigantesco, ma nel guardarlo con maggiore attenzione vide che era un uomo la cui enorme circonferenza era ridotta a carne floscia. Un ventre enfiato penzolava sopra stretti gambali di cuoio, una camicia sudicia era aperta all’ombelico, essendoci troppo poca camicia per coprire così tanta carne. La faccia dell’uomo, in parte oscurata da una barba di tre giorni, era arrossata e chiazzata in modo innaturale, i suoi capelli unti e scarmigliati. Gli indumenti che portava, seppur ben fatti e in origine anche eleganti, erano sporchi e avevano un intenso odore di vomito e del liquore grezzo noto come «spirito dei nani».
Tanis abbassò la spada sentendosi sciocco. Era soltanto un povero disgraziato ubriaco, con ogni probabilità il bullo del paese, che sfruttava le sue grandi dimensioni per intimorire la cittadinanza.
Fissò l’uomo con pietà e disgusto pensando, mentre lo faceva, che in lui c’era qualcosa di stranamente familiare. Con ogni probabilità, era qualcuno che aveva conosciuto quand’era vissuto a Solace tanto tempo addietro, qualche poveraccio che era incappato in tempi duri.
Il mezzelfo fece per voltarsi quando notò, con suo vivo stupore, che tutti nella locanda lo stavano guardando come se si aspettassero qualcosa da lui.
Che cosa vogliono da me? si chiese Tanis con improvvisa, fulminea rabbia. Che lo attacchi?
Bell’eroe che sarei a picchiare l’ubriacone della città!
Poi udì un singhiozzo lì accanto. «Ti avevo detto di andartene,» gemette Tika, accasciandosi su una sedia. Nascondendosi il volto tra le mani cominciò a piangere come se il suo cuore stesse per spezzarsi.
Sempre più sconcertato, Tanis lanciò un’occhiata a Riverwind, ma era ovvio che l’uomo delle pianure brancolava nella stessa oscurità del suo amico. Nel frattempo l’ubriaco era venuto avanti barcollando e si stava guardando intorno incollerito.
«Cos-sc’è quesc-ta? Una fesc-ta?» ringhiò. «E nesc-sciuno ha in-in-invitato-tato il loro vecchio... in-invitato me?»
Nessuno rispose. Gli avventori tenevano, nel più completo silenzio, gli sguardi puntati su Tanis, e adesso perfino l’attenzione dell’ubriaco si concentrò sul mezzelfo. Sforzandosi di metterlo a fuoco, l’ubriaco fissò Tanis con una specie di rabbia perplessa, come per biasimarlo di essere la causa di tutti i suoi guai. Poi, d’un tratto l’ubriaco sgranò gli occhi, la sua faccia si spaccò in un sorriso sciocco, e prese ad avanzare brancolando con le braccia tese. «Tanisc... amico a...»
«In nome degli dei,» bisbigliò Tanis che finalmente l’aveva riconosciuto.
Il gigante venne avanti vacillando e inciampò in una sedia. Per un istante rimase in piedi, oscillando incerto, come un albero tagliato e ormai pronto a cadere. Arrovesciò gli occhi, la gente corse via per scansarsi. Poi, con un tonfo che fece tremare l’intera locanda, Caramon Majere, Eroe delle Lance, perse i sensi ai piedi di Tanis.
Capitolo terzo.
«In nome degli dei,» ripetè Tanis addolorato chinandosi sopra il guerriero in stato comatoso.
«Caramon...»
«Tanis...». La voce di Riverwind indusse il mezzelfo a sollevare rapidamente lo sguardo. L’uomo delle pianure stringeva Tika fra le braccia. Sia lui che Dezra stavano cercando di confortare la giovane donna sconvolta. Ma la gente si stava accalcando tutt’intorno cercando di far domande a Riverwind o chiedendo a Crysania una benedizione. Altri esigevano a gran voce dell’altra birra oppure ciondolavano lì intorno a bocca spalancata. Tanis si alzò in piedi. «Per stanotte la locanda è chiusa!» urlò. Grida di scherno si levarono dalla folla, salvo per qualche applauso sparso in fondo alla sala dove parecchi avventori avevano creduto che intendesse offrire da bere a tutti.
«No. Dico sul serio,» ribadì Tanis con fermezza, sovrastando il baccano con la propria voce. «Vi ringrazio tutti per questo benvenuto. Voi non sapete cosa significhi per me tornare nella mia patria. Ma adesso i miei amici ed io vorremmo essere lasciati soli. Per favore, è già tardi...» Si levarono mormorii di solidarietà e alcuni applausi benevoli. Soltanto pochi si accigliarono e bofonchiarono commenti sul fatto che più grande era il cavaliere più la sua armatura lo abbagliava (un vecchio detto risalente ai giorni in cui i Cavalieri di Solamnia venivano derisi). Riverwind, lasciando che Dezra si occupasse di Tika, si fece avanti per pungolare quei pochi sbandati i quali avevano supposto che Tanis intendesse tutti fuorché loro. Il mezzelfo vegliava su Caramon che russava beatamente disteso sul pavimento, impedendo che la gente calpestasse l’omone. Scambiò alcune occhiate con Riverwind quando l’uomo delle pianure gli passò accanto, ma nessuno dei due ebbe tempo di parlare fino a quando la locanda non fu vuota.
Otik Sandeth era in piedi accanto alla porta intento a ringraziare tutti per essere venuti e assicurandoli che la locanda sarebbe stata nuovamente aperta l’indomani sera. Quando tutti se ne furono andati, Tanis si avvicinò al proprietario in pensione, sentendosi impacciato e imbarazzato.
Ma Otik lo fermò prima che potesse parlare.
Stringendo la mano nella sua, l’anziano bisbigliò: «Sono lieto che tu sia tornato. Chiudi a chiave quando avrai finito.» Lanciò un’occhiata a Tika, poi con un’espressione da cospiratore fece cenno al mezzelfo di venire avanti. «Tanis,» proseguì in un sussurro, «se ti dovesse capitare di vedere Tika che sottrae qualcosa dalla cassetta dei soldi, non badarci. Un giorno li ripagherà. Io fingo di non accorgermene.» Il suo sguardo andò a Caramon, e scosse tristemente la testa. «So che sarai in grado di dare aiuto,» mormorò, poi annuì e si allontanò nella notte con andatura rigida e passo pesante, appoggiandosi al suo bastone.
Aiuto! pensò Tanis, furibondo. Lui era venuto a cercare il suo aiuto. Caramon, russando in maniera particolarmente rumorosa, emerse in parte dai fumi dell’alcool, ruttò pestilenziali zaffate dello spirito dei nani, poi si riadagiò per dormire. Tanis rivolse un’occhiata desolata a Riverwind, poi scosse la testa disperato.
Crysania fissava Caramon con pietà mista a disgusto. «Pover’uomo,» disse con voce sommessa. Il medaglione di Paladine risplendeva alla luce delle candele. «Forse io...»
«Non c’è niente che tu possa fare per lui!» gridò Tika con amarezza, piangendo. «Non ha bisogno di essere curato. È ubriaco, non riesci a vederlo? Ubriaco marcio!»
Stupita, Crysania volse lo sguardo su Tika, ma prima che il chierico potesse dire qualcosa, Tanis si affrettò a tornare da Caramon. «Aiutami, Riverwind,» disse. «Portiamolo a cas...»
«Oh, lasciatelo stare!» sbottò Tika, asciugandosi gli occhi con l’angolo del grembiule. «Ha passato abbastanza notti sul pavimento qua fuori. Un’altra non farà differenza.» Si rivolse a Tanis. «Volevo dirtelo, davvero, ma pensavo... ho continuato a sperare... era eccitato quand’è arrivata la tua lettera. Era...be’, più simile a se stesso di quanto l’avessi visto da lungo tempo a questa parte. Pensavo che forse questo potesse servire. Che potesse cambiare. Così vi ho lasciato venire.» Piegò la testa. «Mi spiace...»
Tanis si era fermato accanto al grande guerriero, indeciso sul da farsi. «Non capisco. Da quanto tempo...»
«È per questo che non abbiamo potuto venire al tuo matrimonio, Tanis» disse Tika, torcendo il grembiule e facendone tanti nodi. «Avrei tanto voluto venirci. Ma...» Ricominciò a piangere. Dezra le mise le braccia al collo.
«Siediti, Tika,» mormorò Dezra, aiutandola a sedersi in uno scomparto di legno con sgabelli dall’alto schienale.
Le gambe mancarono all’improvviso a Tika, che si accasciò, nascondendosi la testa fra le braccia.
«Sediamoci tutti quanti,» disse Tanis con fermezza, «e cerchiamo di capire quello che sta succedendo. Tu, là,» il mezzelfo fece segno al nano dei burroni, che li stava sbirciando da sotto il bancone di legno, «portaci una brocca di birra e dei boccali, del vino per Dama Crysania e delle patate speziate...»
Tanis ristette; il nano dei burroni lo stava fissando in preda alla confusione, gli occhi sgranati, la bocca spalancata e penzolante per lo sconcerto.
«Meglio che vada a prenderli io, Tanis,» si offrì Dezra, sorridendo. «È probabile che ti ritroveresti con una brocca di patate, se fosse Raf a occuparsene.»
«Me aiutare!» protestò Raf, indignato.
«Tu porta fuori la spazzatura!» gli intimò Dezra.
«Me grande aiuto...» borbottò Raf sconsolato mentre usciva strascicando i piedi, tirando un calcio alle gambe del tavolo per alleviare la sua sensibilità ferita.
«Le vostre stanze sono nella parte nuova della locanda,» mormorò Tika. «Ve le faccio vedere...»
«Le troveremo più tardi,» disse Riverwind con severità, ma quando guardò Tika i suoi occhi erano pieni di cortese comprensione. «Siediti e parla con Tanis, deve partire al più presto.»
«Maledizione, il mio cavallo!» esclamò Tanis, balzando in piedi all’improvviso. «Avevo chiesto al ragazzo di portarlo fuori...»
«Vado io,» si offrì Riverwind.
«No, faccio io. Mi ci vorrà soltanto un momento...»
«Amico mio,» disse Riverwind con voce sommessa passandogli accanto, «ho bisogno di stare all’aria aperta! Tornerò per aiutarti a...» Indicò con un cenno del capo Caramon che russava.
Tanis tornò a sedersi, sollevato. L’uomo delle pianure se ne andò. Crysania si sedette accanto a Tanis sul lato opposto della stanza, fissando perplessa Caramon. Tanis continuò a parlare con Tika di questioni di poco conto, fino a quando lei non fu in grado di risollevarsi a sedere e perfino di accennare a un sorriso. Quando Dezra ritornò con le bevande, Tika parve più rilassata, anche se il suo volto era ancora tirato e teso. Tanis notò che Crysania quasi non toccava il suo vino. Si limitava a starsene seduta, lanciando delle occasionali occhiate a Caramon. Il solco scuro era riapparso ancora una volta fra le sue sopracciglia. Tanis sapeva che avrebbe dovuto spiegarle quello che stava accadendo, ma voleva che prima qualcuno lo spiegasse a lui.
«Quand’è cominciata questa...» iniziò a dire con esitazione.
«Cominciata?» Tika sospirò. «Circa sei mesi dopo che eravamo ritornati qui.» Il suo sguardo andò a Caramon. «Era così felice, nei primi tempi. La città era un caos, Tanis. L’inverno era stato terribile per i sopravvissuti. La maggior parte di loro stava morendo di fame, i soldati draconici e i goblin avevano portato via tutto. Quelli le cui case erano state distrutte vivevano in qualunque rifugio fossero riusciti a trovare: caverne, catapecchie. Quando tornammo, i draconici avevano già abbandonato la città, e la gente aveva cominciato a ricostruire. Accolsero Caramon come un eroe: i bardi erano già passati di qua cantando le loro canzoni sulla sconfitta della Regina.»
Gli occhi di Tika si riempirono di lacrime luccicanti e del ricordo dell’orgoglio di allora.
«Per un po’ è stato così felice, Tanis. La gente aveva bisogno di lui. Lavorava giorno e notte tagliando alberi, trasportando il legname dalle montagne, erigendo case. Si era messo perfino a lavorare come fabbro, dal momento che Theros non c’era più. Oh, non era molto bravo!» Tika esibì un triste sorriso. «Ma era felice e nessuno ci badava. Fabbricava chiodi e ferri di cavallo e ruote per i carri. Quel primo anno fu buono per noi... davvero buono. Ci eravamo sposati e Caramon pareva essersi dimenticato di... di...» Tika deglutì. Tanis le batté sulla mano e, dopo aver mangiato un po’ e bevuto un po’ di vino in silenzio, Tika fu in grado di continuare:
«Ma un anno fa, in primavera, ogni cosa cominciò a cambiare. A Caramon successe qualcosa. Non sono sicura di cosa fosse. Aveva qualcosa a che fare con...» s’interruppe, scosse la testa. «La città era prospera. Un fabbro che era stato tenuto prigioniero a Pax Tharkas si trasferì qui e rilevò il suo lavoro. Oh, la gente aveva ancora bisogno che venissero costruite case, ma non c’era fretta. Io presi in mano la gestione della locanda.» Tika scrollò le spalle. «Immagino che Caramon si sia trovato con troppo tempo a sua disposizione.»
«Nessuno aveva bisogno di lui,» commentò Tanis, scuro in volto.
«Neppure io...» disse Tika, deglutendo e asciugandosi gli occhi. «Forse è colpa mia...»
«No,» replicò Tanis, i suoi pensieri e i suoi ricordi erano molto lontani. «Non colpa tua, Tika. Credo che sappiamo di chi è la colpa.»
«Comunque,» Tika tirò un profondo respiro, «ho cercato di aiutarlo, ma avevo talmente da fare qui... Ho suggerito ogni genere di cose in cui poteva impegnarsi, e lui ci ha provato, ci ha provato sul serio. Ha aiutato il poliziotto del posto a braccare i draconici rinnegati. Per un po’ ha fatto da guardia del corpo, facendosi assoldare dalla gente che viaggiava fino ad Haven. Ma nessuno lo ha mai assunto due volte.» Abbassò la voce. «Poi, un giorno, lo scorso inverno, il gruppo che lui avrebbe dovuto proteggere tornò indietro trascinandolo su una slitta. Era ubriaco fradicio. Avevano finito per essere loro a proteggere lui! Da allora ha passato tutto il suo tempo a dormire, o a mangiare, o a trovarsi con alcuni ex mercenari al Trough, quel sudicio locale all’altro capo della città.»
Desiderando ardentemente che Laurana si trovasse là a discutere di quella faccenda, Tanis suggerì a bassa voce: «Forse un... uhm... un bambino?»
«Ero incinta, l’estate scorsa,» replicò Tika con voce atona, appoggiando la testa sulla mano. «Ma non per molto. Ho abortito. Caramon non l’ha neppure mai saputo. Da allora...» abbassò lo sguardo sulla superficie di legno del tavolo, «... be’, non abbiamo più dormito nella stessa stanza.»
Arrossendo per l’imbarazzo, Tanis non potè fare altro che accarezzarle la mano e cambiare in fretta argomento. «Un momento fa hai detto che aveva qualcosa a che fare con... con che cosa?»
Tika rabbrividì. Poi trangugiò un altro sorso di vino. «Le voci cominciarono allora, Tanis,» riprese a voce bassa. «Voci tenebrose. Puoi indovinare a chi si riferivano!»
Tanis annuì.
«Caramon gli scrisse, Tanis. Ho visto la lettera. Era... mi ha lacerato il cuore. Non una sola parola di biasimo o di rimprovero. Era piena d’amore! Pregava il suo fratellino di tornare, di venire a vivere con noi. Lo implorava di voltare le spalle all’oscurità.»
«E cosa successe?» chiese Tanis, anche se aveva già indovinato la risposta.
«La lettera tornò indietro,» bisbigliò Tika. «Non era stata aperta. Il sigillo non era stato neppure strappato. E all’esterno era scritto: “Non ho nessun fratello. Non conosco nessuno che si chiami Caramon”. Ed era firmata Raistlin.»
«Raistlin!» Crysania guardò Tika, come se la vedesse per la prima volta, i suoi occhi grigi si erano spalancati per la sorpresa mentre passavano dalla giovane donna dai capelli rossi a Tanis, e poi al gigantesco guerriero sul pavimento, che ruttava, a proprio agio nel suo sonno di ubriaco.
«Caramon... Costui è Caramon Majere! Questo è suo fratello? Il gemello di cui mi parlavi? L’uomo che poteva condurmi...»
«Mi spiace, Reverenda Figlia,» disse Tanis, arrossendo. «Non avevo nessuna idea che lui...»
«Ma Raistlin è così... intelligente, potente. Pensavo che il suo gemello gli somigliasse. Raistlin è sensibile, esercita un controllo così forte su se stesso e su quelli che lo servono! È un perfezionista, mentre costui...» Crysania fece un gesto. «Questo patetico relitto, pur meritando la nostra pietà e le nostre preghiere, è...»
«Il tuo “sensibile e intelligente perfezionista” ha posto mano nel trasformare quest’uomo nel “patetico relitto” che tu vedi, Reverenda Figlia,» replicò Tanis, in tono acido, facendo attenzione a tenere la collera sotto controllo.
«Forse è stato il contrario,» disse Crysania, fissando Tanis con freddezza. «Forse è stato per mancanza di amore che Raistlin ha voltato le spalle alla luce per incamminarsi nel buio.»
Tika sollevò lo sguardo su Crysania. C’era una strana espressione nei suoi occhi. «Mancanza di amore?» ripetè con gentilezza. Caramon gemette nel sonno e cominciò a dimenarsi sul pavimento.
Tika balzò in piedi.
«Faremo meglio ad accompagnarlo a casa.» Sollevò lo sguardo, vide l’alta figura di Riverwind comparire sulla soglia, poi si rivolse a Tanis. «Ti rivedrò domattina, vero? Non potresti rimanere, anche soltanto per questa notte?»
Tanis guardò i suoi occhi imploranti e gli venne voglia di troncarsi la lingua con un morso prima di rispondere. Ma non c’era niente che potesse fare. «Mi spiace, Tika,» disse, afferrandole le mani.
«Vorrei poterlo fare, ma devo andare. È una lunga cavalcata da qui fino a Qualinost, e non oso arrivare in ritardo. Forse il destino di due regni dipende dalla mia presenza laggiù.»
«Capisco,» disse Tika con voce sommessa. «Comunque, questo non è il tuo problema. Me la caverò.»
Tanis avrebbe voluto strapparsi la barba per la frustrazione. Smaniava dal desiderio di rimanere e di aiutarla, sempre che avesse potuto aiutarla. Per lo meno avrebbe potuto parlare a Caramon per cercare di far entrare un po’ di buon senso in quel suo craniaccio. Ma Porthios l’avrebbe preso per un affronto personale se lui non fosse intervenuto al funerale, il che non avrebbe influenzato soltanto il suo rapporto personale con il fratello di Laurana, ma avrebbe proiettato un’ombra sul trattato di alleanza il cui negoziato era in corso fra Qualinesti e Solamnia.
E poi, quando i suoi occhi si posarono su Crysania, Tanis si rese conto di avere un altro problema.
Gemette dentro di sé. Non poteva condurla a Qualinost. Porthios non sapeva che farsene dei chierici umani.
«Ascolta,» disse Tanis all’improvviso, facendosi venire un’idea. «Tornerò dopo il funerale.» Gli occhi di Tika s’illuminarono. Si voltò verso Dama Crysania. «Ti lascerò qui, Reverenda Figlia,» continuò Tanis. «Sarai al sicuro in questa città, nella locanda. Poi ti scorterò nuovamente fino a Palanthas, dal momento che il tuo viaggio è fallito...»
«Il mio viaggio non è fallito,» dichiarò Crysania in tono risoluto. «Continuerò come ho cominciato. Intendo raggiungere la Torre della Grande Stregoneria a Wayreth, per tener consiglio colà, con Par-Salian delle Vesti Bianche.»
Tanis scosse la testa. «Io non posso portarti fin là,» disse. «Ed è ovvio che Caramon ne è incapace. Perciò suggerisco...»
«Sì,» lo interruppe Crysania, condiscendente. «È chiaro che Caramon è inabile. Perciò aspetterò che quel vostro amico kender arrivi qui, per incontrarmi con la persona che è stato mandato a cercare, poi continuerò il viaggio da sola.»
«Assolutamente no!» urlò Tanis. Riverwind sollevò le sopracciglia per ricordare a Tanis con chi stava parlando. Con uno sforzo, il mezzelfo recuperò il controllo. «Mia signora, non hai nessuna idea dei pericoli. Oltre a quelle creature tenebrose che ci hanno inseguito - e credo che tutti noi sappiamo chi le ha mandate - ho ascoltato le storie di Caramon sulla Foresta di Wayreth. È ancora più buia! Torneremo a Palanthas, troverò dei cavalieri...»
Per la prima volta Tanis vide una pallida macchia di colore disegnarsi sulle guance di marmo di Crysania. Le sue nere sopracciglia si contrassero mentre sembrava riflettere. Poi il suo volto si schiarì. Sollevando lo sguardo su Tanis, sorrise.
«Non c’è nessun pericolo,» disse. «Io sono nelle mani di Paladine. Le creature delle tenebre potranno anche essere state mandate da Raistlin, ma non hanno alcun potere di far del male a me! Sono servite soltanto a rafforzare la mia decisione.» Vedendo il volto di Tanis che s’incupiva sempre più, sospirò. «Ti prometto questo. Ci penserò. Forse hai ragione. Forse il viaggio è troppo pericoloso...»
«È una perdita di tempo,» mormorò Tanis, il dolore e la fatica lo inducevano a dire con franchezza ciò che aveva provato sin dall’inizio del folle piano di quella donna. «Se Par-Salian avesse potuto distruggere Raistlin, l’avrebbe fatto già da molto tempo...»
«Distruggere!» Crysania guardò Tanis scioccata, i suoi occhi grigi erano di ghiaccio. «Non cerco la sua distruzione.»
Tanis la fissò sbalordito.
«Sto cercando di recuperarlo» proseguì Crysania. «Adesso andrò nelle mie stanze, se qualcuno vuol essere così gentile da condurmici.»
Dezra si affrettò a farsi avanti. Con calma, Crysania augurò a tutti loro la buona notte, poi seguì Dezra fuori della sala. Tanis la seguì con lo sguardo, del tutto incapace di spiccicar parola. Sentì Riverwind borbottare qualcosa in queshu. Poi Caramon gemette di nuovo. Riverwind diede una gomitata a Tanis. Insieme si chinarono sull’addormentato Caramon e, con uno sforzo, sollevarono in piedi l’omone.
«In nome dell’Abisso, se pesa!» Tanis rantolò, barcollando sotto il peso morto mentre le braccia flaccide di Caramon gli penzolavano da sopra le spalle. Il fetore dello spirito dei nani semidigerito lo fece quasi vomitare.
«Come può bere quella roba?» chiese Tanis a Riverwind, mentre trascinavano l’ubriaco fino alla porta. Tika li seguiva piena d’ansia.
«Dovrei rimanere...» mormorò Tanis.
«Non puoi combattere un’altra battaglia, amico mio,» dichiarò con fermezza Riverwind.
«Specialmente quando è fra un uomo e la propria anima.»
Era passata mezzanotte quando Tanis e Riverwind finalmente riuscirono a portare a casa Caramon, scaricandolo senza tante cerimonie sul suo letto. Tanis non si era mai sentito tanto stanco in vita sua. Le spalle gli facevano male per aver trasportato il peso morto del gigantesco guerriero. Era esausto e si sentiva svuotato, i suoi ricordi del passato - un tempo piacevoli - adesso erano come vecchie ferite, aperte e sanguinanti. E doveva cavalcare ancora per ore prima dell’alba.
«Vorrei poter rimanere,» ripetè di nuovo a Tika, mentre sostavano insieme a Riverwind fuori della porta, contemplando la pacifica e sonnacchiosa città di Solace. «Mi sento responsabile...»
«No, Tanis,» disse Tika in tono pacato. «Riverwind ha ragione. Non puoi combattere questa guerra. Adesso devi vivere la tua vita. Inoltre non c’è niente che tu possa fare. Puoi soltanto peggiorare le cose.»
«Suppongo di sì.» Tanis corrugò la fronte. «Tornerò fra una settimana. Allora ne parlerò a Caramon.»
«Questo sarebbe simpatico,» sospirò Tika. Poi, dopo una pausa, cambiò argomento. «A proposito, che cosa voleva dire Dama Crysania quando ha accennato all’arrivo di un kender? Tasslehoff?»
«Sì,» disse Tanis, grattandosi la barba. «Ha qualcosa a che fare con Raistlin, anche se non sono sicuro di che cosa si tratti. Abbiamo incontrato Tas a Palanthas. Ha cominciato a raccontarci una delle sue storie - ho avvertito Crysania che soltanto la metà di quello che dice è vero, e anche quella metà sono insensatezze, ma è probabile che lui sia riuscito a convincerla a mandarlo alla ricerca di una persona che lei pensa possa aiutarla a recuperare Raistlin!»
«Quella donna potrà anche essere un sacro chierico di Paladine,» dichiarò Riverwind con severità,
«e possano gli dei perdonarmi se parlo male di uno dei loro prescelti, ma io penso che sia matta.»
Fatta che ebbe questa dichiarazione, si mise l’arco a tracolla e si apprestò a partire.
Tanis scosse la testa. Mettendo un braccio sulla spalla di Tika, la baciò. «Temo che Riverwind abbia ragione,» le disse con voce sommessa. «Tieni d’occhio Dama Crysania mentre è ospite qui da noi. Farò una chiacchierata su di lei con Elistan, quando torneremo. Mi chiedo quanto in realtà sapesse di questo suo piano avventato. Oh, e se Tasslehoff si farà vivo, trattienilo qui, per favore. Non voglio che mi compaia a Qualinost! Già senza di lui avrò abbastanza problemi con Porthios e gli elfi!»
«Certo, Tanis,» rispose Tika con voce sommessa. Per qualche istante si strinse a lui, lasciandosi confortare dalla sua forza e dalla compassione che poteva percepire nel suo tocco e nella sua voce.
Tanis esitò, tenendola a sé, riluttante a lasciarla andare. Lanciando un’occhiata all’interno della piccola casa, poteva sentire Caramon che piagnucolava nel sonno.
«Tika...» cominciò a dire.
Ma lei lo spinse via. «Vai, Tanis,» gli disse con voce ferma. «Ti attende una lunga cavalcata.»
«Tika, vorrei...». Ma non c’era niente che lui potesse dire per aiutarla, e lo sapevano tutti e due.
Voltandosi lentamente, Tanis si avviò con passo pesante dietro a Riverwind.
Seguendolo con lo sguardo mentre si allontanava, Tika sorrise.
«Sei molto saggio, Tanis Mezzelfo. Ma questa volta ti sbagli,» disse fra sé mentre era lì sola, sulla veranda. «Dama Crysania non è matta. È innamorata.».
Capitolo quarto.
Un esercito di nani stava marciando nella camera da letto, i loro stivali dalle suole d’acciaio facevano TONF TONF TONF. Ognuno dei nani aveva un martello in mano e, passando accanto al letto, lo picchiava sulla testa di Caramon. Caramon gemette e sbatté le mani in aria, debolmente.
«Andate via!» borbottò. «Andate via!»
Ma i nani si limitarono a rispondere sollevando il letto sulle loro spalle robuste e facendolo ruotare sempre più veloce, mentre continuavano a marciare, sbattendo i loro stivali sull’assito, TONF
TONF TONF.
Caramon si sentì afferrare da un conato di vomito. Dopo parecchi tentativi disperati riuscì a balzar fuori dal letto turbinante e a precipitarsi con movimenti goffi verso il vaso da notte che si trovava in un angolo della Camera. Dopo aver vomitato, si sentì meglio. Gli si erano schiarite le idee. i nani erano scomparsi, anche se sospettò che si fossero nascosti sotto il letto in attesa che lui tornasse a coricarsi.
Invece aprì un cassetto del minuscolo comodino dove teneva la sua fiaschetta di spirito dei nani.
Scomparsa! Caramon corrugò la fronte, così, Tika aveva ricominciato con quel gioco, vero?
Sorridendo compiaciuto, Caramon raggiunse barcollando la grande cassapanca sull’altro lato della stanza. Sollevò il coperchio e frugò in mezzo alle tuniche, ai calzoni e alle camicie che non erano più in grado di contenere il suo corpo inflaccidito. Eccola là, ficcata dentro un vecchio stivale.
Caramon tirò fuori la fiaschetta con amore, inghiottì un sorso di quel liquore di fiamma, ruttò ed esalò un sospiro. Ecco, il martellio nella sua testa era scomparso. Lanciò un’occhiata tutt’intorno.
Che i nani restassero pure sotto il letto. Non gliene importava.
Dall’altra stanza giunse un tintinnio di vasellame. Tika! In fretta e furia Caramon trangugiò un altro sorso, poi chiuse la piccola fiasca e la ricacciò dentro lo stivale. Chiuse il coperchio della cassapanca senza fare il minimo rumore, si raddrizzò, si passò una mano tra i capelli arruffati, e fece per uscire nella zona del soggiorno. Poi s’intravide nello specchio mentre passava.
«Devo cambiarmi la camicia,» borbottò con voce impastata.
Dopo essersi dimenato a lungo e aver tirato a tutto spiano, si sfilò la camicia sudicia che aveva addosso e la buttò in un angolo. Forse avrebbe dovuto lavarsi? Bah! Che cos’era... una donnicciola?
D’accordo, puzzava - era un odore di maschio. Un mucchio di donne lo trovavano attraente! Loro non si lamentavano né lo rimbrottavano mai, non come Tika. Perché lei non poteva prenderlo così com’era? Lottando per infilarsi la camicia pulita che aveva trovato ai piedi del letto, Caramon si sentì dispiaciuto per se stesso. Nessuno lo capiva... la vita era dura... adesso stava passando un brutto momento... ma le cose sarebbero cambiate... bastava aspettare... un giorno, domani, forse...
Uscendo dalla stanza con passo barcollante, cercando di apparire indifferente, Caramon attraversò con passo incerto il soggiorno pulito e ordinato e crollò su una sedia della sala da pranzo. La sedia scricchiolò sotto il suo corpo massiccio. Tika si voltò.
Cogliendo il suo sguardo, Caramon sospirò. Tika era pazza, di nuovo. Cercò di sorriderle, ma fu un sorriso malato e non servì. Con i riccioli rossi che rimbalzavano per la collera, Tika si girò di scatto e scomparve attraverso una porta che dava sulla cucina. Caramon sussultò quando udì uno sbatacchiare di pesanti pentole di ferro. Quel frastuono fece ritornare i nani e i martelli. Qualche istante dopo Tika ricomparve portando un gigantesco piatto di bacon sfrigolante, focaccine di granoturco fritte, e uova. Gli mise davanti il piatto sbattendolo giù con tanta forza che le focaccine schizzarono in aria fino a un’altezza di tre pollici.
Caramon sussultò di nuovo. Si chiese per un breve istante se fosse il caso di mangiare, vista la nausea che provava alla bocca dello stomaco poi, di malumore, ricordò al suo stomaco chi era il capo. Si sentiva morire dalla fame, non riusciva a ricordare quando avesse mangiato l’ultima volta.
Tika si lasciò cadere su una sedia accanto a lui. Sollevando lo sguardo, Caramon vide lampeggiare i suoi occhi verdi. Le lentiggini risaltavano con chiarezza sullo sfondo della sua pelle, un segno certo del suo furore.
«D’accordo,» grugnì Caramon, cacciandosi il cibo a palate in bocca. «Adesso che cosa debbo fare?»
«Non te lo ricordi.» Era un’affermazione.
Caramon scandagliò frettolosamente le regioni nebbiose della sua mente. Qualcosa si agitò incerto.
La sera prima avrebbe dovuto essere da qualche parte. Era rimasto a casa tutta la giornata per prepararsi. L’aveva
promesso a Tika... ma aveva cominciato ad avere sete. La sua fiasca era vuota. Era andato giù al Trough per un rapido bicchierino, poi a... dove... perché...
«Dovevo occuparmi di una faccenda,» disse Caramon, evitando lo sguardo di Tika.
«Sì, abbiamo visto la tua faccenda», sbottò Tika con amarezza. «La faccenda che ti ha fatto perdere i sensi proprio ai piedi di Tanis!»
«Tanis.» Caramon lasciò cadere la forchetta. «Tanis, ieri sera...». Con un gemito affranto, l’omone lasciò cadere fra le mani la testa dolorante.
«Hai dato proprio un bello spettacolo di te stesso,» continuò Tika, con voce soffocata. «Davanti a tutta la città, più la metà degli elfi di Krynn. Per non parlare dei nostri vecchi amici.» Adesso piangeva sommessamente. «I nostri migliori amici...»
Caramon gemette di nuovo. Adesso piangeva anche lui. «Perché? Perché?» piagnucolò. «Tanis, più di tutti...». Le sue autorecriminazioni vennero interrotte da un bussare alla porta d’ingresso.
«Adesso che cosa c’è?» borbottò Tika, alzandosi e asciugandosi le lacrime con la manica della camicetta. «Forse è Tanis, malgrado tutto.» Caramon sollevò la testa. «Cerca per lo meno di apparire come l’uomo che eri un tempo,» disse Tika fra i denti mentre si affrettava verso la porta.
Tirando il saliscendi, l’aprì. «Otik!» esclamò, stupefatta. «Cosa... Per chi è quel cibo?»
L’anziano e panciuto locandiere era in piedi sulla soglia, con un piatto di cibo fumante in mano.
Sbirciò al di là di Tika.
«Lei non è qui?» chiese, sorpreso.
«Chi?» rispose Tika, confusa. «Qui non c’è nessuno.»
«Oh, cielo.» Il volto di Otik si fece solenne. Con aria assente cominciò a mangiare le pietanze sul piatto. «Allora immagino che lo stalliere “vesse ragione. Se n’è andata. E io che le avevo preparato questa bella colazione.»
«Chi se n’è andata?» insistè Tika, esasperata chiedendosi se non intendesse Dezra.
«Dama Crysania. Non è nella sua stanza. E non ci sono neppure le sue cose. E lo stalliere ha detto che era venuta, stamattina, gli aveva detto di sellare il cavallo, e poi se n’era andata. Pensavo...»
«Dama Crysania!» rantolò Tika. «È partita, da sola. Certo che lo avrebbe fatto...»
«Cosa?» chiese Otik, sempre masticando.
«Niente,» disse Tika, pallida in volto. «Niente, Otik. Uh, farai meglio a tornare alla locanda. Io... io farò un po’ tardi, oggi.»
«Sicuro, Tika,» replicò Otik con gentilezza, avendo visto Caramon Curvo sopra il tavolo. «Vieni quando puoi.» Poi si allontanò, continuando a mangiare mentre camminava. Tika chiuse la porta alle sue spalle.
Vedendo Tika che tornava e sapendo di doversi aspettare una predica, Caramon balzò in piedi con movimenti impacciati. «Non mi sento troppo bene,» dichiarò. Attraversando la stanza con passo barcollante entrò in camera da letto, sbattendosi la porta dietro le spalle. Tika potè udire, proveniente dall’interno, il suono di laceranti singhiozzi.
Si sedette al tavolo, riflettendo. Dama Crysania se n’era andata. Avrebbe trovato da sola la Foresta di Wayreth. O meglio, era andata a cercarla. Nessuno la trovava mai, stando alla leggenda. Era la Foresta che ti trovava! Tika rabbrividì, ricordando le storie di Caramon. La temuta foresta appariva sulle mappe ma, confrontandole fra loro, non c’erano due mappe che fossero d’accordo sulla sua posizione. E accanto ad essa c’era sempre il simbolo del pericolo. Al suo centro s’innalzava la Torre della Grande Stregoneria di Wayreth, dove tutto il potere dei maghi di Ansalon si trovava adesso concentrato. Be’, quasi tutto...
Prendendo una decisione improvvisa, Tika balzò in piedi e aprì di colpo la porta della camera da letto. Entrando, trovò Caramon lungo disteso sul letto, che singhiozzava e piagnucolava come un bambino. Indurendo il proprio cuore per resistere a quella scena pietosa, Tika raggiunse con passo fermo la grande cassapanca dei vestiti. Dopo che ebbe sollevato il coperchio, cominciando a frugare tra gli indumenti, trovò la fiasca, ma si limitò a buttarla in un angolo della stanza. Poi, proprio in fondo, trovò quello che aveva cercato.
L’armatura di Caramon.
Sollevando un cosciale per la sua cinghia di cuoio, Tika si alzò in piedi e, voltandosi, buttò il metallo lucido addosso a Caramon.
Il cosciale lo colpì alla spalla, rimbalzò e cadde sul pavimento con un rumoroso sferragliare.
«Ouch!» gridò l’omone, rizzandosi a sedere. «In nome dell’Abisso, Tika! Lasciami solo per...»
«Tu le andrai dietro,» disse Tika con fredda decisione, tirando fuori un altro pezzo di armatura e sollevandolo in alto. «Le andrai dietro, anche se mi trovassi costretta a portarti fuori di qui con una carriola!»
«Uh, voglia scusarmi,» disse un kender a un uomo che stava oziando vicino al bordo della strada alla periferia di Solace. L’uomo strinse all’istante la mano sulla propria borsa. «Sto cercando la casa di un mio amico. Oh, in effetti si tratta di due miei amici. Uno dei due è una donna graziosa, con i riccioli rossi. Si chiama Tika Waylan...»
Fissando furibondo il kender, l’uomo sollevò di scatto un pollice. «Laggiù, da quella parte.»
Tas guardò. «Laggiù?» disse, indicando a sua volta, impressionato. «Quella magnifica casa sul nuovo albero di vallen?»
«Cosa?». L’uomo se ne uscì in una breve risata tagliente. «Com’è che la chiami? Magnifica? Questa sì che è buona.» Sempre ridacchiando, si allontanò, contando allo stesso tempo in fretta e furia le monete nella sua borsa.
Maleducato! pensò Tas, infilando distrattamente il coltello da tasca dell’uomo in qualche segreto ricettacolo dei propri indumenti. Poi, dimenticando subito l’incidente, il kender si avviò verso la casa di Tika. Il suo sguardo si soffermò con amorevolezza su ogni particolare della bella casa saldamente annidata in mezzo ai rami del vallen ancora in crescita.
«Sono così contento per Tika,» osservò Tas a quello che sembrava un mucchio di cenci dotato di piedi che camminava al suo fianco. «E anche per Caramon,» aggiunse. «Ma Tika non ha mai avuto per davvero una casa tutta sua. Come dev’essere orgogliosa! »
Quando si avvicinò alla casa, Tas vide che era una delle migliori costruzioni della città. Era stata costruita secondo il tradizionale stile di Solace. Le delicate volte dei frontoni erano sagomate così da apparire parte dell’albero medesimo. Ciascuna stanza si protendeva fuori dal corpo principale della casa, il legno delle pareti era scolpito e lucidato così da assomigliare al tronco di un albero. La struttura stessa si rifaceva, nel suo complesso, alla forma di un albero, una pacifica armonia esisteva tra l’opera dell’uomo e quella della natura, creando un insieme piacevole. Tas sentì un gradevole calore nel proprio cuore, nel pensare ai suoi due amici che lavoravano e vivevano in un’abitazione così bella. Poi...
«È strano,» disse Tas, parlando tra sé, «chissà perché non c’è il tetto.»
Mentre si avvicinava, guardando la casa con maggior attenzione, si accorse che mancavano non poche cose - fra queste un tetto, appunto. In effetti i grandi frontoni a volta non formavano altro che l’intelaiatura per un tetto che non c’era. Le pareti delle stanze si stendevano soltanto in parte lungo il perimetro dell’edificio. Il pavimento era soltanto una piattaforma spoglia.
Fermandosi subito sotto di essa, Tas sbirciò verso l’alto, chiedendosi Cosa mai stesse succedendo.
Poteva vedere martelli, asce e seghe sparpagliati lì all’aperto, lasciati ad arrugginire. Dal loro aspetto si deduceva che non venivano usati da mesi. La struttura stessa mostrava gli effetti di una lunga esposizione alle intemperie. Tas si tirò pensierosamente il ciuffo, quell’edifìcio aveva tutte le qualifiche per essere la più bella struttura di Solace, semmai fosse stato finito!
Poi Tas si ravvivò. Una sezione della casa era finita. Tutti i vetri erano Stati accuratamente installati nei telai delle finestre, le pareti erano intatte, un tetto proteggeva la stanza dagli elementi atmosferici. Per lo meno Tika aveva una stanza tutta sua, pensò il kender. Ma, non appena ebbe studiata la stanza con maggior attenzione, il suo sorriso scomparve. Poteva infatti vedere con chiarezza che sopra la porta, malgrado le intemperie lo avessero un po’ appannato, spiccava il marchio accuratamente lavorato che denotava la residenza di uno stregone.
«Avrei dovuto saperlo,» disse Tas, scuotendo la testa. Lanciò un’occhiata intorno. «Insomma, Tika e Caramon non possono certo abitare qui. Ma quell’uomo ha detto... Oh.»
Mentre camminava intorno al gigantesco vallen, Tas s’imbattè in una casetta quasi smarrita in mezzo alle erbacce troppo cresciute, nascosta dalla grande ombra dell’albero. Era ovvio che era stata costruita soltanto come abitazione temporanea, ma aveva l’aria di essere diventata fin troppo permanente. Se mai c’era un edificio che poteva apparire squallido, rifletté Tas, era proprio quello. I suoi frontoni erano afflosciati al punto da apparire accigliati. La pittura era crepata e scrostata.
Comunque, c’erano ancora fiori nelle cassette alle finestre e tendine di trine. Il kender sospirò. Così, era quella la casa di Tika, costruita all’ombra di un sogno.
Si avvicinò alla casetta e si fermò fuori dalla porta, ascoltando con attenzione. All’interno si udiva il più orrendo subbuglio. Poteva udire una serie ininterrotta di tonfi e il rumore di vetri che andavano in frantumi, e passi rimbombanti.
«Credo che farai meglio ad aspettare qua fuori,» disse Tas al fagotto di cenci.
Il fagotto grugnì e si accovacciò comodamente sulla strada fangosa, accanto alla casetta. Tas lo fissò incerto, poi scrollò le spalle e tornò ad avvicinarsi alla porta. Mise una mano sulla maniglia, la girò e fece un passo avanti, fiducioso di poter entrare. Invece andò a sbattere il naso contro il legno.
La porta era chiusa a chiave.
«È strano,» mormorò Tas, facendo un passo indietro e guardandosi intorno. «Cos’è venuto in mente a Tika? Mettersi a chiudere le porte a chiave... che barbarie! E un catenaccio per giunta. Sono sicuro che mi aspettavano...». Fissò con aria cupa la serratura. All’interno le urla e le grida non erano cessate. Gli parve di udire la voce profonda di Caramon.
«Pare che stia davvero succedendo qualcosa d’interessante là dentro.» Tas si guardò intorno, e si sentì subito incoraggiato. «La finestra! Naturalmente!»
Ma, nel l’affrettarsi verso la finestra, Tas scoprì che anche quella era chiusa! «Non mi sarei mai aspettato una cosa del genere da parte di Tika, fra tutte le persone che conosco,» commentò fra sé con tristezza il kender. Studiando la serratura notò che era di tipo semplice: sarebbe stato facile aprirla. Dalla serie di arnesi che aveva in borsa, Tas tirò fuori lo scassinaserrature che appartiene a ogni kender per diritto di nascita. Lo inserì, poi lo torse con mano esperta ed ebbe la soddisfazione di sentire la serratura che faceva clic. Sorridendo felice aprì con una spinta il pannello di vetro e strisciò dentro. Cadde sul pavimento senza produrre il benché minimo rumore. Sbirciando dietro di sé attraverso la finestra vide il fagotto informe appisolato nel rigagnolo.
Confortato su quel punto, Tasslehoff ristette per dare un’occhiata alla casa, i suoi occhi acuti videro ogni cosa, le sue mani toccarono ogni cosa.
«Cielo, questo sì che è interessante,» disse Tas, proseguendo il suo interminabile commento mentre si avvicinava a una porta chiusa da oltre la quale giungevano gli schianti. «A Tika non dispiacerà se lo studio per un momento. Lo rimetterò subito al suo posto.» L’oggetto ruzzolò come per volontà propria dentro la sua borsa. «E guarda questo! Uh-oh, è crepato. Tika mi ringrazierà quando glielo dirò.» L’oggetto scivolò dentro un’altra delle sue tasche. «E cosa ci fa qua, il piatto del burro? Sono sicuro che Tika lo terrebbe nella dispensa. Farò meglio a rimetterlo nel posto che gli si addice.» Il burro finì in una terza tasca.
A questo punto Tas aveva raggiunto la porta chiusa. Girò la maniglia (provò una viva gratitudine nello scoprire che Tika non aveva chiuso a chiave anche quella porta) ed entrò.
«Ehi!» esclamò in tono allegro. «Vi ricordate di me? Ah, questo sembra divertente. Posso giocare anch’io? Dai qualcosa anche a me da tirargli addosso, Tika. Ciao, Caramon.» Tas entrò nella camera da letto e si avvicinò a Tika che, con un pettorale in mano, lo stava fissando con profondo stupore.
«Che cosa avete?... siete spaventosi, proprio spaventosi! Dimmi, perché stiamo buttando addosso a Caramon l’armatura, Tika?» chiese Tas, prendendo in mano una cotta di maglia e girandosi verso il grosso guerriero che si era barricato dietro il letto. «È qualcosa che voi due fate regolarmente? Ho sentito dire che le coppie sposate fanno cose strane, ma questo mi pare davvero bizzarro...»
«Tasslehoff Burrfoot!» Tika aveva recuperato la favella. «In nome degli dei, che cosa ci fai, qui?»
«Diamine, sono sicuro che Tanis deve averti detto che sarei venuto,» disse Tas, scagliando la cotta di maglia addosso a Caramon. «Ehi! Questo sì che è divertente! Ho trovato la porta d’ingresso chiusa a chiave.» Tas le lanciò un’occhiata di rimprovero. «In effetti ho dovuto entrare dalla finestra, Tika,» le disse in tono severo. «Credo che dovresti avere più considerazione per la gente. Comunque, dovrei incontrare Dama Crysania qui da voi e...»
Con vivo stupore di Tas, Tika lasciò cadere il pettorale, esplose in lacrime e si accasciò sul pavimento. Il kender guardò in direzione di Caramon, il quale si stava risollevando da dietro il letto come uno spettro che sorgesse dalla tomba. Caramon se ne stette là immobile a fissare Tika con un’espressione smarrita e nostalgica. Poi si fece strada in mezzo ai vari pezzi di armatura che giacevano sparpagliati sul pavimento e s’inginocchiò accanto a lei.
«Tika,» bisbigliò patetico, battendole una mano sulla spalla. «Mi spiace. non intendevo dire tutte queste cose che ho detto, lo sai. Ti amo! Ti ho sempre amata. È soltanto che... non so che cosa fare!»
«TU sai che cosa fare!» urlò Tika, staccandosi da lui. Balzò in piedi. «Te l’ho appena detto! Dama Crysania è in pericolo. Devi raggiungerla!»
«Chi è questa Dama Crysania?» gridò Caramon in risposta. «Perché dovrebbe importarmi se è in pericolo oppure no?»
«Ascoltami una volta tanto in vita tua,» sibilò Tika a denti stretti. La rabbia le prosciugò le lacrime.
«Dama Crysania è un potente chierico di Paladine, uno dei più potenti al mondo, dopo Elistan. È stata avvertita in un sogno che il male di Raistlin potrebbe distruggere il mondo. Sta andando alla Torre della Grande Stregoneria a Wayreth per parlare a Par-Salian e...»
«... e ottenere l’aiuto necessario a distruggerlo, non è vero?» ringhiò Caramon.
«E se anche fosse questo?» avvampò Tika. «Merita forse di vivere? Ti ucciderebbe senza pensarci una seconda volta!»
Gli occhi di Caramon lampeggiarono pericolosamente, il suo volto s’imporporò. Tas deglutì, vedendo serrarsi il pugno dell’omone, ma Tika si avvicinò, fermandosi proprio davanti a lui.
Malgrado la sua testa arrivasse a malapena al mento di Caramon, a Tas parve che l’omone si facesse piccolo piccolo davanti alla sua collera. La sua mano si aprì, floscia.
«Ma no, Caramon,» disse Tika, con voce cupa. «È pazza tanto quanto lo sei tu. Ama tuo fratello, che gli dei la aiutino. Vuole salvarlo, vuole fargli voltare le spalle al male.»
Caramon fissò Tika in preda allo stupore. La sua espressione si ammorbidì.
«Davvero?» chiese.
«Sì, Caramon,» confermò Tika con stanchezza. «È per questo che è venuta qui ad incontrarti. Ha pensato che tu potessi essere in grado di aiutarla. Poi, ieri sera, quando ti ha visto...»
Caramon abbassò la testa. I suoi occhi si riempirono di lacrime. «Una donna, un’estranea, vuole aiutare Rais. E rischia la sua vita per farlo.» Ricominciò a piagnucolare.
Tika lo fissò esasperata. «Oh, per l’amore di... valle dietro, Caramon!» gridò, picchiando il piede sul pavimento. «Non raggiungerà mai da sola la Torre, lo sai! Tu hai attraversato la foresta di Wayreth.»
«Sì,» disse Caramon, tirando su col naso. «Ci sono stato con Rais. L’ho accompagnato là, in modo che potesse trovare la Torre e affrontare la Prova. Quella malefica Prova! Io l’ho protetto, aveva bisogno di me... allora.»
«E Crysania ha bisogno di te adesso!» esclamò Tika, ancora cupa. Caramon appariva tuttora indeciso, immobile, e Tas vide il volto di Tika irrigidirsi in linee dure e ferme. «Non hai molto tempo da perdere, se vuoi raggiungerla. Ricordi la strada?»
«Io la ricordo!» grido Tas tutto eccitato. «Vale a dire, ho una mappa.» E Tika e Caramon si voltarono a fissare il kender con stupore: entrambi si erano dimenticati della sua esistenza.
«Non so,» disse Caramon, fissando, scuro in volto, Tas. «Ricordo le tue mappe. Una ci ha condotto in un porto di mare che non aveva nessun mare!»
«Quella non è stata colpa mia!» gridò Tas indignato. «Perfino Tanis lo disse. La mia mappa era stata disegnata prima che arrivasse il Cataclisma e si portasse via il mare. Ma tu devi portarmi con te, Caramon! Devo incontrarmi con Dama Crysania. Mi aveva mandato a fare una cerca, ed io l’ho completata. Ho trovato...» un improvviso movimento attrasse l’attenzione di Tas, «oh, eccola qua.»
Agitò la mano e Tika e Caramon si girarono e videro l’informe fagotto di cenci in piedi sulla soglia della loro camera da letto. Soltanto che adesso al fagotto erano spuntati due occhi neri e sospettosi.
«Me affamata,» disse il fagotto rivolto a Tas, in tono di accusa. «Quando mangiamo?»
«Sono andato a cercare Bupu,» spiegò con orgoglio Tasslehoff Burrfoot.
«Ma in nome dell’abisso, cosa può volere Dama Crysania da una nana dei burroni?» esclamo Tika, completamente sconcertata. Condotta Bupu in cucina, le aveva dato un po’ di pane raffermo e mezzo formaggio, poi l’aveva mandata fuori: l’odore di una nana dei burroni non contribuiva per nulla a rendere una casa più confortevole. Bupu era tornata felice nel rigagnolo, dove aveva arricchito il suo pasto bevendo l’acqua d’una pozzanghera in mezzo alla strada.
«Oh, ho promesso che non l’avrei rivelato,» dichiarò Tas con aria d’importanza. Il kender stava aiutando Caramon ad affibbiarsi l’armatura: un compito piuttosto impegnativo, dal momento che l’omone era considerevolmente più grasso dell’ultima volta che l’aveva indossata. Sia Tika sia Tas finirono col trovarsi inzuppati di sudore, tirando cinghie, spingendo e pungolando i cuscinetti di grasso per convincerli a starsene al loro posto sotto il metallo.
Caramon grugnì e gemette, quasi il ritratto d’un uomo che venisse stirato sulla ruota della tortura.
L’omone si leccò le labbra e rivolse più d’una volta lo sguardo colmo di desiderio verso la camera da letto e la fiaschetta che con tanta indifferenza Tika aveva buttato in un angolo.
«Oh, suvvia, adesso, Tas,» lo blandì Tika, ben sapendo che il kender non sarebbe riuscito a mantenere un segreto neppure per salvarsi la vita. «Sono sicura che Dama Crysania non avrebbe niente da ridire...»
Il volto di Tas si contorse per l’angoscia. «Mi... mi ha fatto promettere e giurare su Paladine, Tika!». La faccia del kender divenne solenne. «E tu sai che Fizban, voglio dire Paladine, ed io siamo amici intimi.» Il kender fece una pausa. «Succhiati dentro la pancia, Caramon.» ordinò, irritato. «Ma come hai fatto a ridurti in queste condizioni?»
Appoggiando un piede sulla coscia dell’omone, Tas tirò. Caramon uggiolò per il dolore.
«Sono in forma,» borbottò rabbioso l’omone. «È l’armatura. Si è ristretta o qualcosa del genere.»
«Non sapevo che questo tipo di metallo si restringesse,» dichiarò Tas, con interesse. «Scommetto che bisogna scaldarlo! Come ci sei riuscito? Oppure da queste parti ha fatto caldo, ma caldo davvero?»
«Oh, chiudi il becco!» ringhiò Caramon.
«Cercavo soltanto di esserti di aiuto» disse Tas offeso. «Comunque... oh, a proposito di Dama Crysania.» Il suo volto assunse un’espressione altera. «Ho fatto il mio giuramento più sacro. Tutto quello che posso dire è che ha voluto che le raccontassi tutto quello che riuscivo a raccontare su Raistlin. E l’ho fatto. E ciò ha a che fare con questo. Dama Crysania è davvero una persona meravigliosa, Tika,» continuò Tas, con voce solenne. «Potresti non averlo notato, ma io non sono molto religioso. Di regola i kender non lo sono. Ma non c’è bisogno di essere religiosi per sapere che c’è qualcosa di davvero buono in Dama Crysania. Ed è anche sveglia. Forse anche più sveglia di Tanis.»
Gli occhi di Tas erano pieni d’importanza e di mistero. «Credo di potervi dire questo,» disse in un sussurro. «Ha un piano! Un piano per riuscire a salvare Raistlin! Bupu fa parte del piano. La sto portando da Par-Salian!»
Nell’udire questo, perfino Caramon parve dubbioso, e Tika cominciava a pensare fra sé e sé che forse Riverwind e Tanis avevano ragione. Forse Dama Crysania era pazza. Comunque, qualunque cosa potesse aiutare Caramon, che potesse servire a dargli una speranza...
Ma a quanto pareva Caramon aveva già elaborato le cose nella propria mente. «Sapete. È tutta colpa di questo Fis-Fistandudle o qualunque fosse il suo nome,» dichiarò, tirando con un certo disagio le cinghie di cuoio là dove mordevano la sua carne flaccida. «Sapete, quello che il mago, Fizban - ehm - Paladine ci ha raccontato. E anche Par-Salian ne sa qualcosa!». La sua faccia s’illuminò. «Sistemeremo tutto. Riporteremo qui Raistlin come abbiamo progettato, Tika! Potrà andare a vivere nella stanza che gli abbiamo preparato. Ci prenderemo cura di lui, tu ed io, nella nostra nuova casa. Starà benissimo, benissimo!». A Caramon luccicavano gli occhi. Tika non ce la faceva a guardarlo. Assomigliava così tanto al vecchio Caramon, il Caramon che lei aveva amato...
Mantenendo severa la propria espressione, Tika si girò di scatto e andò verso la camera da letto.
«Vado a prendere il resto delle tue cose...»
«Aspetta!» Caramon la fermò. «No... uh... grazie, Tika. Posso farcela da solo. Che ne diresti di, uh, di prepararci qualcosa da mangiare, da portar via?»
«Ti aiuto,» si offrì Tas, dirigendosi con slancio verso la cucina.
«Molto bene,» disse Tika. Allungando una mano, afferrò il kender per il ciuffo di capelli che gli ricadevano lungo la schiena. «Soltanto un momento, Tasslehoff Burrfoot. Non andrai da nessuna parte fino a quando non ti metterai seduto e non svuoterai ciascuna delle tue borse!»
Tas gemette una protesta. Approfittando della confusione, Caramon corse in camera da letto e chiuse la porta. Senza fermarsi, andò dritto all’angolo e recuperò la fiaschetta. Scuotendola, vide che era piena per più della metà. Sorridendo fra sé per la soddisfazione, la ficcò in fondo al suo zaino, poi in fretta e furia vi pigiò sopra altri indumenti.
«Adesso sono pronto a partire!» gridò a Tika con allegria.
«Sono pronto,» ripetè Caramon, fermandosi sconsolato sulla veranda.
Era, in verità, uno spettacolo ridicolo. L’armatura rubata che aveva indossato durante gli ultimi mesi della campagna era stata completamente rimessa a nuovo dal grosso guerriero quando aveva fatto ritorno a Solace. Caramon aveva lisciato le ammaccature, martellandole, aveva ripulito la superficie, l’aveva lucidata e rimodellata in modo così completo che non assomigliava più all’originale. Vi aveva profuso la massima cura, poi aveva impacchettato l’armatura e l’aveva messa via con molto amore. Era ancora in condizioni eccellenti. Soltanto che adesso, per sfortuna, c’era un grande spazio vuoto fra la scintillante cotta nera che copriva il petto e la grande cintura che cingeva la sua vita rotonda. Né lui né Tas erano stati capaci di affibbiare le piastre metalliche che proteggevano le sue gambe intorno alle cosce flaccide. Le aveva riposte nello zaino. Gemette quando sollevò il suo scudo e lo guardò insospettito, come se fosse certo che qualcuno l’avesse riempito di piombo durante gli ultimi due anni. La cintura della sua spada non voleva adattarsi al ventre cascante. Arrossendo furioso, si mise a tracolla la spada dentro il fodero logoro.
A questo punto Tas fu costretto a guardare da qualche altra parte. Il kender era convinto che sarebbe scoppiato a ridere, invece si scoprì sul punto di piangere.
«Sembro un imbecille,» borbottò Caramon, vedendo Tas che si affrettava a distogliere lo sguardo.
Bupu lo stava fissando con occhi grandi come tazze da tè e la bocca spalancata.
«Lui sembra come mio Highbulp, Phudge!» Poi sospirò.
Un vivo ricordo del grasso e trasandato re del clan dei nani dei burroni in Xak Tsaroth, si affacciò alla mente di Tas. Agguantando la nana dei burroni, le cacciò un pezzo di pane in bocca per farla stare zitta. Ma ormai il danno era fatto. A quanto pareva, anche Caramon se lo ricordava.
«Questo liquida la faccenda,» ringhiò, imporporandosi e scagliando lo scudo sul legno della veranda, dove sbatté e sferragliò rumorosamente. «Non andrò! Questa era comunque un’idea stupida!». Fissò Tika con sguardo accusatore poi, voltandosi, si diresse verso la porta. Ma Tika si mosse e gli si parò davanti.
«No,» disse con calma. «Non rientrerai in casa mia, Caramon, fino a quando non sarai tornato ad essere un uomo intero!»
«Lui molto più uguale a due uomini interi,» biascicò Bupu con voce soffocata. Tas le cacciò dell’altro pane in bocca.
«Quello che dici non ha senso!» sbottò Caramon, inferocito, calandole una mano sulla spalla.
«Togliti dalla mia strada, Tika! »
«Ascoltami, Caramon,» disse Tika. La sua voce era sommessa, ma penetrante; i suoi occhi colsero e trattennero l’attenzione dell’omone. Mettendogli la mano sul petto, sollevò lo sguardo ardente su di lui. «Una volta ti eri offerto di seguire Raistlin nella tenebra. Te ne ricordi?»
Caramon deglutì. Poi annuì in silenzio, pallido in volto.
«Lui rifiutò» continuò Tika con gentilezza, «dicendo che avrebbe significato la tua morte. Ma non capisci, Caramon... tu lo hai seguito nella tenebra! E stai morendo, lentamente, un po’ per volta!
Raistlin stesso ti aveva detto d’incamminarti per il tuo sentiero, e lasciare che lui percorresse il suo.
«Ma tu non l’hai fatto! Tu stai cercando di percorrere entrambi i sentieri, Caramon. Metà di te vive nella tenebra, e l’altra metà sta dimenticando con il bere l’orrore e il dolore che vedi in quel luogo.»
«È colpa mia!» cominciò a piagnucolare Caramon, con voce rotta. «È colpa mia se è diventato una Veste Nera. Sono stato io a spingerlo! È quello che Par-Salian ha cercato di farmi capire...»
Tika si morse un labbro. Tas potè vedere il suo volto incupirsi e irrigidirsi per la collera, ma riuscì a tenersela dentro. «Forse,» fu tutto quello che replicò. Poi tirò un profondo respiro. «Ma non tornerai da me come marito, o anche soltanto come amico, fino a quando non sarai di nuovo in pace con te stesso.»
Caramon la fissò, dando l’impressione di vederla per la prima volta. Il volto di Tika era fermo e risoluto, i suoi occhi verdi erano limpidi e freddi. D’un tratto Tas la ricordò mentre combatteva contro i draconici nel Tempio di Neraka durante quell’ultima orribile notte della guerra. Allora, gli era apparsa com’era adesso.
«Forse non succederà mai,» disse Caramon, scontroso. «Ci hai mai pensato... uh... mia bella signora?»
«Sì,» replicò Tika con voce ferma. «Ci ho pensato. Addio, Caramon.»
Voltando le spalle a suo marito, Tika riattraversò la porta della propria casa e la chiuse a chiave.
Tas sentì il catenaccio che s’incastrava al suo posto con un clic. Anche Caramon lo sentì e trasalì a quel suono. Strinse gli enormi pugni e per un attimo Tas temette che potesse sfondare la porta. Poi lasciò cadere le mani. Rabbiosamente, cercando di salvare parte della sua dignità infranta, Caramon scese dalla veranda pestando i piedi.
«Gliela farò vedere,» borbottò, allontanandosi a grandi passi, con l’armatura che sbatacchiava e sferragliava. «Tornerò fra tre o quattro giorni insieme a Dama Crysle... qualsiasi cosa sia. Poi parleremo di questa storia. Non può farmi questo! No, per tutti gli dei! Fra tre o quattro giorni m’implorerà di tornare. Ma forse lo farò, e forse no...»
Tas rimase là, indeciso. Alle sue spalle, all’ingresso della casa, le sue acute orecchie di kender potevano sentire dei singhiozzi colmi di dolore. Sapeva che Caramon, tra i suoi brontolii di autocommiserazione e lo sferragliare della sua armatura, non poteva sentire niente. Ma cosa poteva fare?
«Mi occuperò io di lui, Tika!» urlò. Poi, agguantando saldamente Bupu si mise a seguire l’omone.
Tas sospirò. Fra tutte le avventure che aveva vissuto fino a quel giorno, quella stava senza dubbio cominciando con il piede sbagliato.
Capitolo quinto
Palanthas, città favoleggiata per la sua bellezza. Una città che aveva voltato le spalle al mondo e se n’era rimasta seduta a guardarsi nel proprio specchio con occhi ammirati.
Chi l’aveva descritta così? Kitiara, seduta sul dorso del suo drago azzurro, Skie, rifletteva oziosamente mentre volava in vista delle mura della città. Forse il defunto, e per nulla compianto, Signore dei Draghi Ariakas. Sembrava abbastanza pretenzioso, come qualsiasi cosa che lui avrebbe detto. Ma Kit era costretta ad ammettere che aveva avuto ragione sui palanthani. Erano rimasti talmente terrorizzati al pensiero di veder devastata la loro amata città, che avevano negoziato una pace separata con i Signori dei Draghi. Soltanto appena prima della fine della guerra, quando era ormai ovvio che non avevano più nulla da perdere, seppure con riluttanza si erano uniti agli altri per combattere contro la potenza della Regina delle Tenebre.
Per merito dell’eroico sacrificio dei Cavalieri di Solamnia, alla città di Palanthas era stata risparmiata la devastazione che aveva portato alla distruzione di altre città come Solace e Tharsis.
Kit, volando a portata di freccia dalle mura, sorrise ironica. Adesso, ancora una volta, Palanthas avrebbe rivolto gli occhi al suo specchio, utilizzando la nuova ondata di prosperità per dare ulteriore enfasi al suo fascino già leggendario.
Pensando a questo, Kitiara scoppiò in una sonora risata quando vide l’agitazione sulle mura della Città Vecchia. Erano passati due anni da quando un drago azzurro aveva volato sopra le mura.
Poteva immaginarsi il caos, il panico. Fioco, nell’immobile aria della notte, poteva udire il rullare dei tamburi e i limpidi appelli delle trombe.
Anche Skie poteva udirli. Il suo sangue ribolliva ai rumori della guerra: volse un avvampante occhio rosso a Kitiara, pregandola di ripensarci.
«No, cucciolotto mio,» gli gridò Kitiara, abbassando il braccio per accarezzargli il collo e tranquillizzarlo. «Adesso non è il momento, ma ben presto, se avremo successo! Ben presto, te lo prometto!»
Skie fu costretto ad accontentarsi di questo. Tuttavia, si tolse una bella soddisfazione alitando una saetta dalle sue fauci spalancate, annerendo il muro di pietra mentre vi passava accanto al volo, tenendosi immediatamente fuori portata delle frecce. I soldati si sparpagliarono come formiche al suo arrivo. La paura del drago li aveva investiti come tante onde impetuose.
Kitiara volava lenta, prendendosela con comodo. Nessuno osava toccarla, una situazione di pace esisteva fra i suoi eserciti a Sanction e i palanthani, anche se c’era qualcuno fra i cavalieri che stava cercando di convincere i liberi popoli di Ansalon a unirsi e ad attaccare Sanction, dove Kitiara si era ritirata dopo la guerra. Ma i palanthani non erano disposti a scomodarsi. La guerra era finita, la minaccia non c’era più.
«E ogni giorno che passa aumentano la mia forza e la mia potenza,» disse Kit rivolta a loro, mentre volava sopra la città, assimilando tutto, immagazzinandolo nella propria mente a futura memoria.
Palanthas è costruita come una ruota: tutti gli edifici importanti, i palazzi dei signori regnanti, gli uffici governativi e le antiche dimore dei nobili, si ergono al centro. La città ruota intorno a questo mozzo. Nel cerchio successivo sorgono le case dei ricchi uomini delle gilde, i «nuovi» ricchi, e le dimore estive di coloro che vivono fuori delle mura della città. Qui si trovano inoltre i centri educativi, compresa la Grande Biblioteca di Astinus.
E infine, accanto alle mura della Città Vecchia, si trova la piazza del mercato con negozi d’ogni tipo e descrizione.
Otto grandi viali conducono fuori dal centro della Città Vecchia, come i raggi di una ruota. Questi viali sono bordati da alberi, alberi bellissimi, le cui foglie sono come un merletto dorato tutto l’anno.
I viali conducono al porto sul mare al nord e alle sette porte del Muro della Città Vecchia.
Attorno alle mura Kit vide la Città Nuova, costruita proprio come la Città Vecchia, con lo stesso modello circolare. Non c’erano mura intorno alla Città Nuova, poiché le mura «sminuivano il progetto d’insieme», come aveva affermato uno dei signori.
Kitiara sorrise. Lei non vedeva la bellezza della città. Gli alberi non erano niente per lei.
Contemplava l’abbacinante meraviglia delle sette porte senza provare nessun nodo in gola... be’, forse uno, ma piccolo piccolo. Come sarebbe stato facile, pensò con un sospiro, impadronirsene!
Altri due edifici attirarono il suo interesse. Un edificio nuovo, costruito al centro della città: un Tempio dedicato a Paladine. L’altro edificio era la sua destinazione. E su questo il suo sguardo si posò pensieroso.
Risaltava contrastando in maniera così vivida con la bellezza della città tutt’intorno che perfino lo sguardo gelido e insensibile di Kitiara lo notò. Ergendosi fuori dalle ombre che lo circondavano come l’osso calcinato di un dito, era intriso di tenebra e d’una contorta bruttura, cosa ancora più orribile poiché un tempo doveva essere stato l’edificio più splendido di Palanthas, l’antica Torre della Grande Stregoneria.
Le ombre la circondavano di giorno e di notte, poiché era protetta da un bosco di querce gigantesche, gli alberi più grandi che crescessero su Krynn, bisbigliavano sgomenti alcuni dei viaggiatori più navigati. Nessuno lo sapeva per certo, poiché nessuno, neppure della razza dei kender, riusciva a incamminarsi in mezzo alla temuta oscurità di quegli alberi.
«Il Bosco di Shoikan,» mormorò Kitiara a un invisibile compagno. «Nessun essere umano di qualsivoglia razza ha mai osato entrarvi. Nessuno, fino a quando non è arrivato lui: il padrone del passato e del presente.» Lo disse a se stessa con una nota di derisione nella voce, una nota che tremolò quando Skie cominciò a girare in cerchi sempre più stretti vicino a quella chiazza di oscurità.
Il drago azzurro si posò sulle strade deserte e abbandonate vicino al Bosco di Shoikan. Kit aveva sollecitato Skie con ogni possibile mezzo, dalle lusinghe alle minacce, perché volasse sopra il bosco fino alla Torre medesima. Ma Skie, benché solitamente disposto a versare fino all’ultima goccia del suo sangue per la sua padrona, gliel’aveva rifiutato. Era al di là del suo potere. Nessun essere mortale, neppure un drago, avrebbe potuto entrare in quell’anello maledetto di querce guardiane.
Skie se ne rimase là a fissare il bosco con odio, gli occhi rossi che ardevano, mentre i suoi artigli smuovevano nervosamente le piastrelle della pavimentazione stradale. Avrebbe impedito alla sua padrona di entrare, ma conosceva molto bene Kitiara. Una volta che avesse deciso di fare qualcosa, niente avrebbe potuto distoglierla. Così Skie ripiegò intorno al proprio corpo le grandi ali coriacee e fissò quella città bella e opulenta mentre pensieri di fiamme, fumo e fuoco lo riempivano di desiderio.
Kitiara scese lentamente dalla sella del suo drago. La luna d’argento, Solinari, era una pallida testa recisa nel cielo. La sua gemella, la luna rossa Lunitari, era appena spuntata e adesso tremolava all’orizzonte come il lucignolo d’una candela morente. La debole luce di entrambe le lune traeva riflessi dall’armatura di scaglie di drago di Kitiara, facendola apparire d’uno spettrale color sangue.
Kit studiò il bosco con attenzione, fece un passo verso di esso, poi si fermò innervosita. Alle sue spalle poteva udire un fruscio - le ali di Skie che le davano un tacito consiglio: Lasciamo questo luogo di morte, Signora! Fuggiamo fintanto che siamo ancora vivi!
Kitiara deglutì. Si sentiva la lingua secca e ingrossata. I muscoli del suo stomaco si annodavano dolorosamente. Vivi ricordi della sua prima battaglia le tornavano alla memoria, la prima volta che aveva affrontato Un nemico sapendo di dover uccidere quell’uomo, altrimenti sarebbe Stata lei a morire. Poi, aveva vinto con gli abili colpi della sua spada. Ma questo?
«Ho camminato per molti luoghi bui in questo mondo,» disse Kit al suo invisibile compagno con voce bassa e profonda, «e non ho mai conosciuto la paura. Ma qui non posso entrare.»
«Semplicemente tieni alto il gioiello che lui ti ha dato,» disse il suo compagno, materializzandosi dalla notte. «I Guardiani del Bosco saranno impotenti, non potranno farti alcun male.»
Kitiara aguzzò lo sguardo dentro il folto cerchio di quegli alberi altissimi. I loro enormi rami che si protendevano in tutte le direzioni oscuravano la luce delle lune e delle stelle, la notte, e il bagliore del sole di giorno. Intorno alle loro radici scorreva la notte perpetua. Nessuna brezza delicata sfiorava le loro braccia vetuste, nessun vento di tempesta smuoveva i loro arti massicci. Si diceva che perfino durante le orrende giornate del Cataclisma, quando tempeste quali non si erano mai viste prima su Krynn spazzavano la terra, soltanto gli alberi del Bosco di Shoikan non si fossero piegati alla collera degli dei.
Ma si diceva che ancora più orribile della loro perpetua oscurità fosse l’eco della vita eterna che pulsava dalle loro profondità, una vita eterna, ,una eterna infelicità e un eterno tormento...
«Quello che la mia testa dice, lo crede,» rispose Kitiara, rabbrividendo, «ma non il mio cuore, Lord Soth.»
«Gira la schiena, allora,» rispose il cavaliere della morte, scrollando le spalle. «Mostragli che il più potente Signore dei Draghi al mondo è un codardo.» Kitiara fissò Lord Soth dalle fessure degli occhi dell’elmo di drago. I suoi occhi castani luccicarono, la sua mano si chiuse spasmodica sull’elsa della spada. Soth le restituì l’occhiata, la fiamma arancione che tremolava tra le sue occhiaie arse di una luce più vivida, orrenda e beffarda. E se i suoi occhi ridevano di lei, che cosa avrebbero rivelato quegli occhi dorati del mago? Non risate... trionfo!
Serrando con forza le labbra, Kitiara afferrò la catena che aveva intorno al collo, dalla quale pendeva il talismano che Raistlin le aveva mandato. La strinse e le diede un fulmineo strattone, spezzandola con facilità. Poi tenne il gioiello fra le mani guantate.
Nero come il sangue di drago, il gioiello dava una sensazione di gelo al tatto, irradiandolo perfino attraverso i suoi pesanti guanti di cuoio.
Tutt’altro che gradevole, smorto, giaceva pesante nel palmo della sua mano.
«Come possono vederlo questi Guardiani?» volle sapere Kitiara, sollevandolo alla luce delle lune.
«Guarda, non luccica né sfavilla. Mi sembra di reggere in mano soltanto un pezzo di carbone.»
«Non puoi vedere la luna che non risplende sul gioiello della notte, né esiste qualcuno che possa vederla se non coloro che la venerano,» rispose Lord Soth. «Quelli... e i morti che, come me, sono stati condannati alla vita eterna. Noi possiamo vederla! Per noi risplende con più fulgore di qualsiasi altra luce nel cielo. Tienilo alto, Kitiara, tienilo alto e incamminati. I Guardiani non ti fermeranno. Togliti l’elmo, in modo che possano vedere la luce del gioiello riflettersi nei tuoi occhi.»
Kitiara esitò un momento ancora. Poi - al pensiero della risata beffarda di Raistlin che le riecheggiava nelle orecchie - la Signora dei Draghi si tolse l’elmo cornuto. Tuttavia, rimase ancora là ferma a guardarsi intorno. Nessun alito di vento le scarmigliava le ciocche scure. Sentiva un sudore freddo colarle lungo le tempie. Con un rabbioso colpo della mano guantata lo asciugò via.
Alle sue spalle sentiva ancora il drago che uggiolava, uno strano suono che mai prima di allora aveva sentito uscire da Skie. La sua determinazione vacillò. La mano con la quale reggeva il gioiello tremò.
«Si nutrono di paura, Kitiara,» le disse Lord Soth con voce sommessa. «Tieni alto il gioiello, fai che lo vedano riflesso nei tuoi occhi!»
Fagli vedere che sei una codarda! Queste parole echeggiarono nella sua mente. Stringendo il gioiello della notte, alzandolo sopra la sua testa, Kitiara entrò nel Bosco di Shoikan.
L’oscurità scese, calando così all’improvviso che Kitiara pensò, per un orribile, paralizzante momento, di essere stata accecata. Soltanto la vista degli occhi fiammeggianti di Lord Soth che tremolavano all’interno del suo pallido viso scheletrico la rassicurò.
Si costrinse a rimanere calma, lasciando che quel debilitante momento di paura svanisse. E poi osservò per la prima volta un luccichio emanare dal gioiello. Non assomigliava a nessun’altra luce che avesse mai visto. Non illuminava l’oscurità, piuttosto permetteva a Kitiara di distinguere tutto quello che viveva dentro l’oscurità dall’oscurità stessa.
Grazie al potere del gioiello, Kitiara poteva cominciare a distinguere i tronchi degli alberi viventi.
E adesso poteva scorgere un sentiero formarsi ai suoi piedi. Come un fiume di notte, scorreva davanti a lei in mezzo agli alberi, e Kitiara provò l’arcana sensazione di scorrere insieme ad esso.
Affascinata osservò i propri piedi che si muovevano, trasportandola avanti senza l’intervento della sua volontà. Con vivo orrore, si rese conto che, se prima il bosco aveva tentato di tenerla fuori, adesso la stava attirando dentro!
Disperatamente tentò di riguadagnare il controllo del proprio corpo. Finalmente l’ebbe vinta - o così suppose. Per lo meno, aveva smesso di muoversi. Ma adesso non poteva fare più nulla, se non rimanere in piedi in mezzo a quell’oscurità avvolgente e rabbrividire, il corpo squassato dagli spasimi della paura. Sopra di lei i rami crepitavano, ridacchiando per quello scherzo. Le foglie le sfioravano il viso. Kit tentò freneticamente di allontanarle colpendole con le mani, poi smise di farlo. Il loro Contatto era gelido ma non sgradevole. Era quasi una carezza, un gesto di rispetto. Era stata riconosciuta, accettata per una di loro. Kit riprese subito il controllo di sé. Sollevando la testa s’indusse a guardare il sentiero.
Non si stava muovendo: quella era stata un’illusione nata dal suo stesso terrore. Kit fece un cupo sorriso. Gli alberi si muovevano! Si facevano da parte per lasciarla passare. La fiducia di Kitiara crebbe. Percorse il Sentiero con passo fermo e perfino si voltò per guardare con aria di trionfo Lord Soth, il quale camminava a pochi passi dietro di lei. Però il cavaliere della morte non parve accorgersi del suo sguardo.
«È probabile che sia in comunione con gli spiriti suoi confratelli,» disse fra sé Kit con una risata che all’improvviso sfociò in uno strillo di puro terrore.
Qualcosa l’aveva afferrata alla caviglia! Un gelo da congelarle le ossa Stava filtrando lentamente attraverso il suo corpo, trasformando in ghiaccio il suo sangue e i suoi nervi. Il dolore era intenso.
Urlò in preda all’angoscia. Stringendosi la gamba, Kitiara vide cosa l’aveva ghermita: una mano bianca! Protendendosi fuori dal suolo, le sue dita ossute si erano avvolte saldamente intorno alla sua caviglia. Nel sentire il calore che abbandonava il suo corpo, Kit si rese conto che quella mano la stava prosciugando della vita. E ancora, in preda a un crescente orrore, vide il suo piede che cominciava a scomparire nel terreno melmoso.
Il panico s’impadronì della sua mente. Freneticamente tirò un calcio la mano, cercando di spezzare la sua morsa raggelante. Ma la mano continuò a stringerla saldamente, e un’altra mano ancora sorse dal nero sentiero e l’afferrò per l’altra caviglia. Urlando per il terrore, Kitiara perse l’equilibrio e cadde.
«Non lasciar cadere il gioiello!» le giunse la voce senza vita di Lord Soth. «Ti trascineranno sotto!»
Kitiara tenne stretto il gioiello, serrandolo tra le mani mentre si contorceva e lottava, cercando di sfuggire alla stretta mortale che la stava lentamente trascinando giù per farle condividere la propria tomba.
«Aiutami!» gridò Kitiara, cercando Lord Soth con lo sguardo, in preda al terrore.
«Non posso farlo,» rispose tetro il cavaliere della morte. «Qui la mia magia non può funzionare. Adesso tutto ciò che può salvarti è la forza della tua volontà, Kitiara. Ricordati del gioiello...»
Per un lungo istante Kitiara giacque del tutto immobile, rabbrividendo a quel tocco raggelante. E poi la rabbia percorse il suo corpo. Come godrà a farmi questo? pensò, vedendo ancora una volta quegli irridenti occhi dorati che si godevano la sua tortura. La sua rabbia fuse il gelo della paura e bruciò via il panico. Adesso era calma. Sapeva quello che doveva fare. Lentamente si spinse fuori dal suolo poi, con fredda deliberazione, abbassò la mano nella quale stringeva il gioiello, avvicinandolo alla mano scheletrica e, rabbrividendo, toccò con esso quella pallida carne.
Un’imprecazione soffocata uscì con un sordo rimbombo dalle profondità del terreno. La mano tremò, poi allentò la stretta, tornando a scivolare dentro le foglie marce accanto al sentiero.
Con uguale decisione Kitiara toccò con il gioiello l’altra mano che la stringeva. Anche questa scomparve. La Signora dei Draghi si risollevò e si guardò intorno. Poi tenne di nuovo in alto il gioiello.
«Avete visto questo, maledette creature della morte vivente?» gridò con voce stridula. «Non mi fermerete! Io passerò! Mi avete sentito? Io passerò!»
Non vi fu risposta. I rami non scricchiolavano più, le foglie penzolavano flosce. Dopo essere rimasta là in silenzio per qualche altro istante, sempre stringendo il gioiello in mano, Kitiara riprese a percorrere il sentiero, maledicendo Raistlin fra i denti. Era consapevole della presenza di Lord Soth accanto a lei.
«Non manca ancora molto,» disse questi. «Ancora una volta, Kitiara, ti sei guadagnata la mia ammirazione.»
Kitiara non rispose. La rabbia era scomparsa lasciandole un vuoto alla bocca dello stomaco che si stava riempiendo un’altra volta, e rapidamente, di paura. Non si fidava di parlare, ma continuava a camminare con gli occhi truci puntati sul sentiero davanti a sé. Adesso, tutt’intorno a lei, poteva vedere le dita che scavavano attraverso il terreno, cercando la carne vivente che allo stesso tempo odiavano e bramavano. Pallidi volti incavati la fissavano dagli alberi, informi creature nere le svolazzavano intorno, riempiendo l’aria fredda e appiccicosa dell’immondo puzzo della morte e della putredine. Ma, malgrado la mano guantata che reggeva il gioiello tremasse, mai una volta mostrò esitazione. Le dita scarnificate non la fermarono, così come le facce con le loro bocche spalancate che ululavano invano per avere il suo sangue caldo. Con lentezza, le grandi querce cominciarono a dischiudersi davanti a Kitiara, i rami s’incurvarono all’indietro scostandosi dal suo percorso.
Là, immobile, dove il sentiero finiva, c’era Raistlin.
«Dovrei ucciderti, dannato bastardo!» disse Kitiara attraverso le labbra irrigidite, con la mano sull’elsa della spada.
«Anch’io sono sopraffatto dalla gioia di rivederti, sorella mia,» rispose Raistlin con voce sommessa.
Era la prima volta che fratello e sorella s’incontravano, dopo più di due anni. Adesso che era uscita dall’oscurità degli alberi, Kitiara potè scorgere suo fratello là in piedi, illuminato dalla pallida luce di Solinari. Indossava paludamenti del più raffinato velluto nero. Ricadendo dalle sue spalle sottili, leggermente ricurve, formavano una serie di morbide pieghe intorno al suo corpo esile. Rune d’argento erano cucite sul cappuccio che gli copriva la testa, lasciando tutto in ombra salvo i suoi occhi dorati. La runa più grande era al centro: una clessidra. Altre rune d’argento luccicavano alla luce della luna sui polsini delle maniche ampie e capaci. Raistlin si appoggiava al Bastone di Magius, il cui cristallo, che fiammeggiava di luce soltanto a un ordine di Raistlin, era serrato, adesso scuro e freddo, nell’artiglio d’un drago dorato.
«Dovrei ucciderti!» ripetè Kitiara e, prima di essere del tutto consapevole di ciò che faceva, lanciò un’occhiata al cavaliere della morte, il quale pareva prender forma dall’oscurità del bosco. Era un’occhiata, non un ordine... un invito, una tacita sfida.
Raistlin sorrise, quel raro sorriso che pochi avevano visto, il quale però si smarrì fra le ombre del suo cappuccio.
«Lord Soth,» disse, voltandosi per salutare il cavaliere della morte.
Kitiara si morse il labbro mentre gli occhi a clessidra di Raistlin studiavano l’armatura del cavaliere non morto. Qui erano ancora incisi i simboli di Cavaliere di Solamnia: la Rosa, il Martin Pescatore e la Spada, ma erano tutti anneriti come se l’armatura fosse stata arsa in un incendio.
«Il Cavaliere della Rosa Nera,» continuò Raistlin, «che morì tra le fiamme del Cataclisma prima che la maledizione della fanciulla elfa a cui aveva fatto torto lo ritrascinasse ad una vita amara.»
«Tale è la mia storia,» disse il cavaliere della morte senza muoversi. «E tu sei Raistlin, padrone del passato e del presente, colui che è stato predetto.»
I due rimasero là a fissarsi, dimentichi entrambi di Kitiara la quale, percependo la silenziosa, micidiale contesa ingaggiata dai due, dimenticò la propria rabbia, trattenendo il fiato per assistere al risultato.
«La tua magia è forte,» commentò Raistlin. Un leggero vento agitò i rami delle querce, accarezzando le pieghe delle nere vesti del mago.
«Sì,» disse Lord Soth con calma. «Posso uccidere con una singola parola. Posso scagliare una palla di fuoco in mezzo ai miei nemici. Comando uno squadrone di guerrieri scheletrici, che possono uccidere al solo tocco. Posso innalzare un muro di ghiaccio per proteggere coloro che servo. I miei occhi possono discernere l’invisibile. Gli incantesimi della comune magia si sgretolano in mia presenza.»
Raistlin annuì, le pieghe del suo cappuccio si mossero lentamente.
Lord Soth fissò il mago senza parlare. Avvicinandosi a Raistlin, si fermò soltanto a pochi centimetri dal suo fragile corpo. Il respiro di Kitiara accelerò.
Poi, con un gesto regale, il cavaliere maledetto di Solamnia appoggiò una mano su quella parte della sua anatomia che un tempo aveva contenuto il suo cuore.
«Ma m’inchino in presenza d’un maestro,» dichiarò infine. Kitiara si morse il labbro, soffocando un’esclamazione. Raistlin le lanciò una rapida occhiata. C’era una nota divertita nei suoi balenanti occhi dorati a forma di clessidra. «Delusa, mia cara sorella?».
Ma Kitiara era ben abituata ai venti mutevoli del destino. Aveva esplorato il nemico, scoperto ciò che le serviva sapere. Adesso poteva procedere con la battaglia. «Naturalmente no, fratellino,» rispose con quel tono furfantesco che tanti avevano trovato così affascinante. «Dopotutto sei tu che sono venuta a trovare. È passato troppo tempo da quando ci siamo fatti visita l’ultima volta. Sembri in buona salute.»
«Oh, lo sono, cara sorella,» rispose Raistlin. Facendosi avanti appoggiò la mano sottile sul braccio di lei. Kitiara trasalì al suo tocco, sentì la pelle che le si scaldava, come se bruciasse per la febbre.
Ma, vedendo i suoi occhi fissi su di lei, che osservavano ogni sua reazione, non si mosse. Raistlin sorrise, e proseguì: «È passato così tanto tempo da quando ci siamo visti per l’ultima volta. Quanto, due anni? Due anni fa, in primavera, in effetti,» continuò Raistlin, loquace, stringendo il braccio di Kitiara nella sua mano. La sua voce era colma di sarcasmo. «È stato nel Tempio della Regina delle Tenebre a Neraka, la fatidica notte in cui la mia regina andò incontro alla sua caduta e venne bandita da questo mondo...»
«Grazie al tuo tradimento,» disse Kitiara con voce dura, cercando, senza riuscire, di liberarsi dalla sua stretta. Raistlin continuava a tenere la mano sul suo braccio. Nonostante fosse più alta e più forte del fragile mago, e in apparenza capace di spezzarlo in due a mani nude, Kitiara si scoprì desiderosa di sottrarsi a quel tocco bruciante, ma allo stesso tempo smise di agitarsi. Raistlin rise e, sempre tirandola per il braccio, le fece strada fino alla porta esterna della Torre della Grande Stregoneria.
«Dobbiamo parlare di stregoneria, cara sorella? Non ti eri forse rallegrata quando ho usato la mia magia per distruggere lo scudo protettivo di lord Ariaka concedendo a Tanis Mezzelfo la possibilità di affondare la sua spada nel corpo del tuo signore e padrone? Non fui forse io, grazie a quell’azione, a fare di te il più potente dei Signori dei Draghi di Krynn?»
«Proprio a tanto mi è servito!» replicò Kitiara con amarezza. «Tenuta quasi prigioniera a Sanction dagli immondi Cavalieri di Solamnia, che regnano su tutte le terre circostanti! Sorvegliata giorno e notte da draghi dorati, ogni mia singola mossa scrutata. I miei eserciti dispersi, ridotti a vagare in lungo e in largo...»
«Eppure sei venuta qua,» disse Raistlin con semplicità. «I draghi dorati ti hanno forse fermata? I Cavalieri hanno forse saputo della tua partenza?»
Kitiara si fermò lungo il sentiero che conduceva alla Torre, fissando stupefatta suo fratello. «Opera tua?»
«Naturalmente!» Raistlin scrollò le spalle. «Ma parleremo di queste faccende più tardi, cara sorella,» aggiunse mentre riprendevano ad avanzare. «Hai freddo e sei affamata. Il bosco di Shoikan scuote anche i nervi più saldi. Soltanto un’altra persona ha valicato con successo i suoi confini, con il mio aiuto, naturalmente. Mi aspettavo che tu te la cavassi bene, ma devo ammettere di essere rimasto un po’ sorpreso dal coraggio dimostrato da Dama Crysania...»
«Dama Crysania» ripetè Kitiara, ancora più stupita. «Una Reverenda Figlia di Paladine! Le hai permesso di venire... qui?»
«Non soltanto gliel’ho permesso, l’ho invitata,» rispose Raistlin imperturbabile. «Senza quell’invito e un talismano protettivo non sarebbe mai passata, naturalmente.»
«Ed è venuta?»
«Oh, con molto slancio, posso assicurartelo.» Adesso fu Raistlin a fare una pausa. Erano fermi fuori dell’ingresso della Torre della Grande Stregoneria. La luce delle torce che usciva dalle finestre illuminava il volto di Raistlin. Kitiara poteva vederlo con chiarezza. Le labbra erano contorte in un sorriso, i suoi piatti occhi dorati luccicavano freddi e sottili come la luce del sole d’inverno. «Con molto slancio,» ripetè con voce sommessa.
Kitiara scoppiò a ridere.
Quella notte sul tardi, dopo che le due lune erano tramontate, nelle ore buie e immobili prima dell’alba, Kitiara sedeva nello studio di Raistlin con un bicchiere di vino rosso in mano, le sopracciglia corrugate.
Lo studio era confortevole, o così sembrava a guardarlo. Sedie grandi e comode della stoffa migliore e ottimamente lavorate sopra tappeti tessuti a mano che soltanto le persone più ricche di Krynn potevano permettersi di possedere. Intessute nei tappeti, immagini di bestie fantastiche e fiori variopinti attiravano l’occhio, tentando l’osservatore a smarrirsi per lunghe ore nella loro bellezza.
Qua e là c’erano tavoli di legno scolpito e oggetti rari e bellissimi, oppure rari e orrendi, decoravano la stanza.
Ma la caratteristica predominante erano i libri. Le pareti della stanza scomparivano dietro profondi scaffali di legno che contenevano centinaia e centinaia di volumi. Molti erano simili nell’aspetto, tutti con una rilegatura blu-notte, decorati con rune d’argento. Era una stanza confortevole ma, malgrado il fuoco che ruggiva in un gigantesco caminetto a un’estremità dello studio, che pareva un’immensa bocca spalancata, c’era nell’aria un freddo che faceva raggelare le ossa. Kitiara non ne era sicura, ma aveva la sensazione che provenisse dai libri.
Lord Soth si teneva lontano dal bagliore del fuoco, nascosto fra le ombre. Kit non poteva vederlo, ma era ben conscia della sua presenza, come lo era Raistlin. Il mago sedeva dirimpetto alla sua sorellastra su un grande scranno dietro ad un gigantesco tavolo di legno nero, scolpito con tanta destrezza che le creature che lo decoravano parevano osservare Kitiara con i loro occhi di legno.
Kitiara, a disagio, si agitò e bevve il vino troppo in fretta. Malgrado fosse avvezza alle bevande forti, cominciava a sentirsi stordita, e odiava questa sensazione. Significava che stava perdendo il controllo. Con rabbia spinse via il bicchiere, decisa a non bere più.
«Questo tuo piano è folle!» disse a Raistlin con irritazione. Poiché non le piaceva lo sguardo di quegli occhi dorati puntati su di lei, Kitiara si alzò in piedi e prese a camminare su e giù per la stanza. «È insensato! Una perdita di tempo. Con il tuo aiuto potremmo dominare Ansalon, tu ed io. In effetti...» Kitiara si voltò all’improvviso: la sua faccia ardeva letteralmente per la foga, «... con il tuo potere potremmo dominare il mondo! Non abbiamo bisogno di Dama Crysania o del nostro grosso e goffo fratello...»
«“Dominare il mondo”,» ripetè Raistlin con voce sommessa, gli occhi ardenti. «Governare il mondo? Tu non capisci ancora, mia cara sorella. Lascia che ti chiarisca questo con l’identica chiarezza con cui conosco te.» Adesso fu il suo turno di alzarsi in piedi. Premendo le mani sottili sulla superficie del tavolo, si sporse verso di lei come un serpente. «Non me ne importa un dannato niente del mondo!» disse con voce sommessa. «Potrei dominarlo domani, se volessi! Non voglio.»
«Non vuoi il mondo.» Kit scrollò le spalle, la sua voce suonò amara per il sarcasmo. «Allora questo lascia soltanto...»
Kitiara si morse la lingua. Fissò Raistlin con meraviglia. In mezzo alle ombre della stanza, gli occhi fiammeggianti di Lord Soth avvampavano più luminosi della fiamma.
«Adesso capisci.» Raistlin sorrise soddisfatto e tornò a sedersi. «Adesso capisci l’importanza di questa Reverenda Figlia di Paladine! È stato il destino a condurla da me, proprio quando mi stavo avvicinando alla fine del mio viaggio.»
Kitiara non potè fare altro che fissarlo, atterrita. Alla fine ritrovò la propria voce. «Come... come fai a sapere che ti seguirà? Certamente non gliel’avrai detto!»
«Soltanto quel che basta per piantare il seme nel suo petto.» Raistlin sorrise, riandando con la memoria a quell’incontro. Abbandonandosi contro lo schienale si portò le dita alle labbra sottili.
«Ad esser franco, la mia recita è stata una delle migliori. Ho mostrato riluttanza nel parlare, le parole sgorgavano dalla mia bocca attirate dalla sua bellezza e purezza. Sono uscite tinte di sangue e lei è stata mia... smarrita a causa della sua stessa compassione.» Ritornò al presente con un sussulto. «Verrà,» lui disse con freddezza, mettendosi ancora una volta a sedere e sporgendosi in avanti. «Lei e quel buffone di nostro fratello. Caramon mi servirà, in modo inconsapevole, naturalmente. Ma d’altronde è così che fa ogni cosa.»
Kitiara si portò una mano alla testa, saggiando il pulsare del sangue. Non era il vino, adesso era fredda e sobria. Erano il furore e la frustrazione. Avrebbe potuto aiutarmi! pensò con rabbia. È davvero potente come dicevano. Anche di più! Ma è folle. Ha perso la testa... Poi, spontanea, una voce le parlò da qualche punto nelle profondità del suo intimo. E se non fosse folle? E se davvero avesse intenzione di andare fino in fondo?
Con freddezza Kitiara valutò il suo piano, esaminandolo con attenzione sotto ogni angolatura. Ciò che vide le fece orrore. No. Non poteva vincere! E, cosa ancora peggiore, l’avrebbe trascinata giù insieme a lui!
Questi pensieri passarono rapidamente attraverso la mente di Kit, senza minimamente trasparire sul suo volto. E, al contrario, il suo sorriso divenne ancora più incantevole. Molti uomini erano morti con quel sorriso come ultima immagine nei loro occhi.
Era possibile che Raistlin stesse valutando proprio quel sorriso mentre la guardava attentamente.
«Puoi essere dalla parte del vincitore tanto per cambiare, sorella mia.»
La convinzione di Kitiara vacillò. Ventotto anni prima era stato un neonato, debole e malato, un fragile alter ego di suo fratello gemello, forte e robusto.
«Lasciatelo morire. Sarà meglio così per il futuro,» aveva detto la levatrice. Allora Kitiara era un’adolescente. Sgomenta, aveva sentito che sua madre accondiscendeva piangendo.
Ma Kitiara aveva rifiutato. Qualcosa dentro di lei era pronto ad accettare quella sfida. Il bambino sarebbe vissuto! L’avrebbe fatto vivere, che lui lo volesse o no. «La mia prima lotta,» diceva, «è stata con gli dei. E ho vinto!»
E adesso? Kitiara lo studiò. Vide l’uomo. Vide, con l’occhio della sua mente, quel bambino lagnoso che vomitava a tutto spiano. D’un tratto si voltò.
«Devo tornare,» disse, infilandosi i guanti. «Ti metterai in contatto con me al tuo ritorno?»
«Se avrò successo non ci sarà bisogno che mi metta in contatto con te,» disse Raistlin con voce sommessa. «Lo saprai!»
Kitiara fu quasi sul punto di sogghignare, ma riuscì a imporsi di non farlo. Lanciando un’occhiata a Lord Soth, si preparò a lasciare la stanza. «Arrivederci, allora, fratello mio.» Per quanto la controllasse, non riuscì a impedire che una punta di rabbia trasparisse dalla sua voce. «Mi spiace che tu non condivida il mio desiderio per le cose buone di questa vita! Avremmo potuto fare molto, insieme, tu ed io!»
«Arrivederci Kitiara,» la salutò Raistlin, chiamando a se con la sua mano sottile le forme d’ombra di coloro che lo servivano perché accompagnassero i suoi ospiti alla porta. «Oh, a proposito,» aggiunse, mentre Kit era in piedi sulla soglia, «ti devo la vita, cara sorella. Per lo meno così mi è stato detto. Volevo soltanto farti sapere che, con la morte di Lord Ariakas, il quale indubbiamente ti avrebbe uccisa, considero pagato il mio debito. Non ti devo nulla!»
Kitiara fissò gli occhi dorati del mago, cercandovi una minaccia, una promessa... o cosa? Ma non c’era niente. Assolutamente niente. Poi, in un fuggevole istante, Raistlin pronunciò una parola magica e scomparve alla sua vista.
La via per uscire dal Bosco di Shoikan non fu difficile. Ai guardiani non importava nulla di coloro che lasciavano la Torre. Kitiara e Lord Soth camminarono insieme, il cavaliere della morte si muoveva in silenzio attraverso il Bosco, i suoi piedi non lasciavano nessuna impronta sulle foglie che giacevano morte e putrescenti sul terreno. La primavera non giungeva mai nel Bosco di Shoikan.
Kitiara non parlò fino a quando non ebbero oltrepassato il perimetro esterno delle querce e non ebbero rimesso piede ancora una volta sulle solide pietre della pavimentazione della città di Palanthas. Il sole si stava levando. Il cielo si stava rischiarando, passando dal profondo azzurro notturno a un pallido grigio. Qua e là quei palanthani le cui occupazioni richiedevano che si alzassero presto si stavano svegliando. In fondo alla strada, al di là degli edifici abbandonati che circondavano la Torre, Kitiara poteva udire un rumore di passi in marcia: il cambio della guardia.
Era di nuovo in mezzo ai vivi.
Tirò un profondo sospiro, poi disse rivolta a Lord Soth: «Bisogna fermarlo.»
Il cavaliere della morte non fece alcun commento, né in un senso né nell’altro.
«Non sarà facile, lo so,» disse Kitiara, calandosi sulla testa l’elmo di drago e camminando a rapidi passi verso Skie, il quale aveva inalberato la testa in un gesto di trionfo al suo avvicinarsi.
Accarezzando amorevolmente il drago sulla testa, Kitiara si voltò verso il cavaliere della morte.
«Ma non dobbiamo affrontare Raistlin direttamente. Il suo piano ruota intorno a Dama Crysania. Eliminiamo lei, e l’avremo fermato. In effetti, non sarà mai necessario che sappia che io ho avuto mano in questo. Molti sono morti mentre tentavano di entrare nella Foresta di Wayreth. Non è così?»
Lord Soth annuì, i suoi occhi fiammeggianti ebbero un fugace sprazzo di luce.
«Occupatene tu. Fai in modo che sembri... il destino,» disse Kitiara. «A quanto pare il mio fratellino ci crede.» Salì in groppa al drago. «Quand’era piccolo gli insegnai che rifiutarsi di obbedire ai miei ordini significava venir frustati. Ora, pare che debba imparare di nuovo quella lezione!»
A un suo ordine, le poderose zampe posteriori di Skie affondarono nel terreno, crepando e frantumando le pietre. Il drago balzò in aria, allargò le ali e si levò in alto nel cielo del mattino. Gli abitanti di Palanthas sentirono un’ombra sollevarsi dai loro cuori, ma fu tutto quello che seppero.
Pochi videro il drago andarsene con il suo cavaliere.
Lord Soth rimase immobile ai margini del Bosco di Shoikan.
«Anch’io credo nel destino, Kitiara,» mormorò il cavaliere della morte. «Il destino che un uomo si crea con le proprie mani.»
Lanciando un’occhiata verso le finestre della Torre della Grande Stregoneria, Soth vide la luce spegnersi nella stanza dov’erano stati poco prima. Per un breve istante la Torre fu riavvolta dall’oscurità perpetua che pareva attardarsi intorno ad essa, un’oscurità che la luce del sole non poteva penetrare. Poi baluginò una luce, da una stanza in cima alla Torre.
Il laboratorio del mago, la stanza buia e segreta dove Raistlin operava le sue magie.
«Chi imparerà questa lezione?» mormorò fra sé Lord Soth. Scomparve scrollando le spalle, fondendosi con le ombre sempre più pallide a mano a mano che la luce del giorno si avvicinava.
Capitolo sesto
«Proviamo là,» disse Caramon, avviandosi verso una costruzione sgangherata che sembrava acquattarsi lontano dal sentiero, in agguato nella foresta come una bestia imbronciata. «Forse si è fermata in quella...»
«Ne dubito,» replicò Tas, squadrando con occhio dubbioso l’insegna appesa ad una catena sopra la porta. «Il “Boccale Rotto” non mi sembra proprio il posto...»
«Sciocchezze,» ringhiò Caramon, come aveva già ringhiato più volte di quante Tas ne potesse contare, nel corso del viaggio. «Deve pur mangiare. O forse qualcuno, là dentro, può aver visto qualche sua traccia lungo il sentiero. Finora, non abbiamo avuto un briciolo di fortuna.»
«No,» borbottò Tasslehoff fra i denti, «ma potremmo avere più fortuna se esplorassimo le strade, non le taverne.»
Erano per strada da tre giorni, e le peggiori apprensioni di Tas su quest’impresa si erano rivelate azzeccate.
Di solito i kender sono viaggiatori entusiasti. Tutti i kender vengono colti dalla bramosia del meraviglioso in prossimità del loro ventesimo anno. In quest’epoca partono gioiosamente per luoghi sconosciuti, con il solo intento di cercare avventure e qualsiasi oggetto orribile o curioso che possa per caso cadere dentro le loro borse rigonfie. Completamente immuni da quell’istinto di conservazione che ha nome paura, afflitti da una curiosità insaziabile, gli abitatori kender di Krynn non erano, poi, tanto numerosi, cosa per la quale la maggior parte di Krynn provava una devota gratitudine.
Tasslehoff Burrfoot, adesso prossimo ai trent’anni (per lo meno stando a ciò che riusciva a ricordare), sotto molti aspetti era un kender atipico. Aveva viaggiato in lungo e in largo per l’intero continente di Ansalon, all’inizio con i suoi genitori, prima che si stabilissero a Kenderhome.
Dopo aver raggiunto l’età adulta, aveva vagato per conto proprio fino a quando non aveva incontrato Flint Fireforge, il fabbro dei nani, e il suo amico, Tanis Mezzelfo. Dopo che Sturm Brightblade, Cavaliere di Solamnia, e i gemelli Caramon e Raistlin si furono uniti a loro, Tas si era trovato coinvolto nella più bella avventura della sua vita: La Guerra delle Lance.
Ma sotto certi aspetti, Tasslehoff non era un kender tipico, anche se lui l’avrebbe prontamente negato se gli fosse stato detto. La perdita di due persone che amava moltissimo, Sturm Brightblade e Flint, l’aveva toccato in profondità. Era arrivato a conoscere l’emozione della paura, non per se stesso, ma per coloro che amava. Paura e preoccupazione. In questo momento, era molto preoccupato per Caramon.
E lo era ogni giorno di più.
Dapprima il viaggio era stato divertente. Una volta superati da Caramon gli attacchi di cattivo umore a causa della crudeltà di Tika e dell’incapacità di capirlo del mondo in genere, gli era bastato trangugiare qualche sorso dalla sua fiasca e si era subito sentito meglio. Dopo parecchie altre sorsate, aveva cominciato a raccontare storie sui giorni che aveva passato a dare una mano a braccare i draconici. Tas aveva trovato la cosa divertente e spassosa e, anche se doveva sorvegliare Bupu in continuazione per accertarsi che non venisse messa sotto da un carro o finisse dentro a qualche buco nascosto da una pozzanghera, si era goduto la mattinata.
Prima che il pomeriggio fosse finito, la fiasca si era vuotata, e Caramon era di umore talmente buono da essere disposto ad ascoltare perfino alcune delle storie di Tas, che il kender non si stancava mai di raccontare. Sfortunatamente, proprio nel momento migliore, quando lui stava scappando con un mammuth lanoso alle calcagna e gli stregoni che gli scagliavano dietro saette, Caramon era arrivato a una taverna.
«Riempio soltanto la fiasca,» aveva borbottato, ed era entrato.
Tas aveva accennato a seguirlo, poi aveva visto Bupu fissare a bocca spalancata per la meraviglia la forgia arroventata del fabbro sull’altra parte della strada. Rendendosi conto che Bupu avrebbe appiccato il fuoco a se stessa o alla città o a tutte e due le cose, e sapendo che non avrebbe potuto portarla dentro la taverna (per la maggior parte rifiutavano di servire i nani dei burroni), Tas aveva deciso di rimanere fuori a tenerla d’occhio. Dopotutto Caramon sarebbe rimasto dentro soltanto pochi minuti...
L’omone uscì due ore più tardi.
«Per l’Abisso, dove sei stato?» volle sapere Tas, saltando addosso a Caramon come un gatto.
«Sciol...scioltanto un po’... un po’...» Caramon ondeggiò incerto sulle gambe, «... uno scioltanto per... per la ssstrada.»
«Sto effettuando una ricerca!» urlò Tas, esasperato. «La mia prima ricerca, affidatami da una Persona Importante, che potrebbe trovarsi in pericolo. Sono rimasto incastrato per due ore qui fuori con una nana dei burroni!». Tas indicò Bupu che si era addormentata in un fosso. «Non mi sono mai annoiato tanto in vita mia, e tu te ne stavi là dentro a inzupparti di spirito dei nani!».
Caramon lo fissò furibondo, le sue labbra si contrassero facendo il broncio. «S... sai una cosh...» borbottò l’omone mentre si allontanava barcollando lungo la strada, «tu co... cominci ad asciomigliare molto a Tika...».
Da quel punto le cose erano peggiorate parecchio.
Quella sera erano giunti all’incrocio.
«Andiamo da quella parte,» aveva detto Tas, indicando. «È sicuro che Dama Crysania sa che dovrà affrontare gente che cercherà di fermarla. Prenderà una strada non molto frequentata cercando di scrollarsi di dosso gli inseguitori. Credo che dovremmo prendere Io stesso sentiero che abbiamo percorso due anni fa quando abbiamo lasciato Solace...»
«Sciocchezze!» sbuffò Caramon. «È una donna, e un chierico per giunta. Prenderà la strada più facile. Seguiremo la via di Haven.»
Tas aveva avuto dei dubbi su quella decisione, e questi si erano dimostrati ben fondati. Avevano percorso soltanto poche miglia quand’erano arrivati a un’altra taverna.
Caramon era entrato per scoprire se qualcuno aveva visto una persona che corrispondesse alla descrizione di Dama Crysania, lasciando Tas, ancora una volta, con Bupu. Un’ora più tardi, l’omone era emerso, il volto paonazzo e tutto ilare.
«Be’, qualcuno l’ha vista?» aveva chiesto Tas al colmo dell’irritazione.
«Visto chi? Oh... lei... io...»
E adesso, due giorni più tardi, erano soltanto a metà strada da Haven. Ma il kender avrebbe potuto scrivere un libro per descrivere le taverne lungo la strada.
«Ai vecchi tempi,» esplose Tas, furibondo, «avremmo potuto camminare fino a Tharsis e ritorno in tutto questo tempo!»
«Allora ero più giovane e immaturo. Adesso il mio corpo è maturo, e devo ricostituire le mie energie,» dichiarò Caramon con alterigia, «... a poco a poco.»
«Sta ricostituendo qualcosa a poco a poco,» bofonchiò Tas tra sé, cupamente, «ma non sono le energie!»
Caramon non riusciva a camminare per più di un’ora, senza trovarsi costretto a sedersi per riposare.
Spesso crollava del tutto, gemendo per il dolore, con il sudore che gli colava dal corpo. Ci volevano Tas, Bupu e la fiasca di spirito dei nani per rimetterlo di nuovo in piedi. Si lamentava amaramente e in continuazione. La sua armatura lo soffocava, aveva fame, il sole era troppo caldo, aveva sete... Al calar della notte insisteva perché si fermassero in qualche miseranda taverna. E là dentro Tas rinnovava l’emozione di osservare l’omone che si ubriacava fino a perdere i sensi. Tas e il barista lo trascinavano fino alla sua stanza dove lui dormiva fino a quando mezza mattina se n’era andata.
Dopo il terzo giorno di quella storia (e la loro ventesima taverna) e ancora nessun segno di Dama Crysania, Tasslehoff stava pensando seriamente di far ritorno a Kenderhome, comperarsi una bella casetta e ritirarsi da qualsiasi avventura.
Era circa mezzogiorno quando arrivarono al “Boccale Rotto”. Caramon scomparve subito all’interno. Tirando un sospiro che salì su dentro di lui partendo dalle sue nuove e lucide scarpe verdi, Tas rimase con Bupu, fissando in cupo silenzio l’esterno di quel luogo squallido.
«Me non piacere più questo,» annunciò Bupu. Fissò Tas con occhi furenti e accusatori. «Tu detto noi andare a trovare bell’uomo in vesti rosse. Tutto quello che trovato è uno ubriaco grasso. Io torno a casa, a Highbulp, Phudge I.»
«No, non andar via! Non ancora!» gridò Tas, disperato. «Troveremo, ehm, l’uomo bello. O per lo meno una bella signora che vuole aiutare l’uomo bello. Forse... forse qui verremo a sapere qualcosa.»
Era ovvio che Bupu non gli credeva. Neanche Tas credeva a se stesso.
«Ascolta,» disse, «aspettami qui. Non ci metterò molto. Lo so... ti porterò qualcosa da mangiare. Prometti che non te ne andrai?»
Bupu si leccò le labbra, squadrando Tas con occhi dubbiosi. «Me aspettare,» disse, lasciandosi cadere con un plop in mezzo al fango della strada. «Per lo meno fin dopo pranzo.»
Tas, protendendo all’infuori con fermezza il mento appuntito, seguì Caramon dentro la taverna.
Avrebbe fatto volentieri una chiacchieratina con l’omone...
Ma risultò che non era necessario.
«Alla vostra salute, signori,» disse Caramon, sollevando un bicchiere per brindare alla folla trasandata raccolta al bancone. Non c’era molta gente là dentro, un paio di nani viaggiatori seduti accanto alla porta, e un gruppo di umani vestiti come rangers, che sollevarono i loro bicchieri in risposta al saluto.
Tas si sedette accanto a Caramon, depresso al punto da restituire una borsa che le sue mani (senza che lui lo sapesse) avevano sfilato dalla cintura di uno dei nani mentre gli passava davanti.
«Credo che ti sia caduta,» mormorò Tas restituendola al nano, che lo fissò stupito.
«Stiamo cercando una giovane donna,» annunciò Caramon, sistemandosi per il pomeriggio. Recitò la sua descrizione come aveva fatto in ogni taverna da Solace in avanti. «Capelli neri, un volto piccolo e delicato, vesti bianche. E un chierico...»
«Sì, l’abbiamo vista,» disse uno dei rangers.
La birra schizzò fuori dalla bocca di Caramon. «L’avete vista?» riuscì a dire con voce soffocata.
Tas drizzò di scatto la testa. «Dove?» chiese frenetico.
«Stava vagando per i boschi a est di qui,» spiegò il ranger.
«Sì?» chiese Caramon, con sospetto. «E voi cosa ci facevate là fuori nei boschi?»
«Davamo la caccia ai goblin. C’è una taglia su di loro ad Haven.»
«Tre pezzi d’oro per gli orecchi d’un goblin,» spiegò il suo amico, con un sorriso sdentato, «... se volete tentare la fortuna.»
«Che mi dite della donna?» incalzò Tas.
«È una matta, credo.» Il ranger scosse la testa. «Le abbiamo detto che il territorio qui intorno pullula di goblin e che non avrebbe dovuto andare in giro là fuori da sola. Ha risposto soltanto che era nelle mani di Paladine, o qualcosa di simile, e che lui si sarebbe occupato di lei.»
Caramon tirò un sospiro e si portò il bicchiere alle labbra. «Pare sia proprio lei...»
Balzando in piedi, Tas strappò il bicchiere dalla mano dell’omone.
«Cosa diavolo...» Caramon lo fissò furente.
«Su, vieni» gli disse Tas, tirandolo. «Dobbiamo andare! Grazie per l’aiuto,» disse ansimando, spingendo Caramon verso la porta. «Dove avete detto di averla vista?»
«Circa dieci miglia a est da qui. Troverete una pista dietro la taverna. Si biforca dalla strada principale. Seguitela e vi porterà attraverso la foresta. Una volta era una scorciatoia per Gateway, prima che diventasse troppo pericolosa per viaggiarci.»
«Grazie di nuovo!». Tas spinse Caramon, che ancora protestava, fuori della porta.
«Maledizione, cos’è tutta questa fretta?» ringhiò Caramon rabbiosamente, sottraendosi con uno scatto alle mani pungolanti di Tas. «Potremmo per lo meno cenare...»
«Caramon!» esclamò Tas, frenetico, ballandogli intorno. «Pensa! Ricorda! Non ti rendi conto di dove si trova Dama Crysania? Dieci miglia a oriente da qui! Guarda...». Spalancando una delle sue borse, Tas tirò fuori un intero fascio di mappe. Le scorse in fretta, buttandole via via per terra nella foga. «Guarda,» ripetè alla fine, dispiegandone una e cacciandola sotto il naso di Caramon, il quale si era imporporato per la collera.
L’omone la fissò cercando di metterla a fuoco.
«Uh?»
«Oh, per... Guarda, qui ci troviamo noi, con la maggior precisione che riesco a immaginare. Qui c’è Haven, ancora più a sud rispetto a noi. Su questo lato c’è Gateway. Qui c’è la pista di cui parlavano, e qui...» le dita di Tas gliel’indicarono.
Caramon socchiuse gli occhi. «Bos-Bos-Bosco Scuro,» borbottò. «Bosco Scuro. Mi sembra familiare...».
«Certo che ti sembra familiare! Ci abbiamo quasi rimesso le penne in quel posto!» urlò Tas agitando le braccia. «C’è voluto Raistlin per salvarci...»
Vedendo che Caramon si accigliava, Tas si affrettò a proseguire: «Che cosa accadrebbe se lei dovesse addentrarsi là dentro da sola?» chiese con voce supplichevole.
Caramon guardò in mezzo alla foresta, i suoi occhi annebbiati scrutarono lo stretto sentiero coperto di vegetazione. Il suo cipiglio s’incupì. «Suppongo che tu ti aspetti che io la fermi,» brontolò.
«Be’, è naturale che dobbiamo fermarla!» cominciò a dire Tas, poi si arrestò di botto. «Non ne hai mai avuto l’intenzione,» disse il kender con voce sommessa, fissando Caramon. «Per tutto il tempo non hai mai avuto l’intenzione di andare a cercarla. Volevi soltanto girovagare qui intorno, farti un po’ di bevute, qualche risata, e poi tornare da Tika per dirle che sei un miserando fallimento, calcolando che ti avrebbe ripreso, come sempre...»
«E cosa ti aspettavi che facessi?» ringhiò Caramon, distogliendo gli occhi dallo sguardo di rimprovero di Tas. «Come posso aiutare questa donna a trovare la Torre della Grande Stregoneria, Tas?». Caramon cominciò a piagnucolare. «Non voglio trovare la Torre! Ho giurato che io non mi sarei mai più avvicinato a quel luogo immondo! Lì lo hanno distrutto, Tas. Quando ne uscì, la sua pelle aveva quello strano colore dorato. Gli hanno dato quegli occhi maledetti, cosicché tutto ciò che vede è morte. Gli hanno infranto il corpo. Non poteva più tirare un respiro senza tossire. E lo hanno indotto... lo hanno indotto a uccidermi!» Caramon si sentì soffocare e affondò il volto tra le mani, singhiozzando per il dolore, tremando per il terrore.
«Ma... ma non ti ha ucciso, Caramon,» disse Tas, provando una sensazione d’impotenza. «Me l’ha detto Tanis. Era soltanto una tua immagine. E lui soffriva ed era spaventato e, dentro, gli faceva davvero male. Non sapeva quello che stava facendo...»
Ma Caramon si limitò soltanto a scuotere la testa. E il kender, che era tenero di cuore, non poteva biasimarlo. Non c’è da stupirsi che non voglia tornare laggiù, pensò Tas in preda al rimorso. Forse dovrei ricondurlo a casa. Certamente non può essere utile a nessuno in questo stato. Ma poi Tas si ricordò di Dama Crysania, là fuori, tutta sola, che vagava alla cieca nel Bosco Scuro...
«Là in mezzo una volta ho parlato con uno spirito,» mormorò Tas, «ma non sono sicuro che si ricordino di me. E ci sono i goblin là fuori. E, anche se non ho paura di loro, non credo che riuscirei mai a combatterne più di tre o quattro per volta.»
Tasslehoff non sapeva cosa fare. Se soltanto Tanis fosse stato lì con lui! Il mezzelfo sapeva sempre cosa dire, cosa fare. Avrebbe indotto Caramon ad ascoltare la voce della ragione. Ma Tanis non è qui, disse una voce severa dall’intimo del kender che talvolta assomigliava in modo sospetto a quella di Flint. Tocca a te, testone!
Non voglio che tocchi a me! Tas gemette, poi aspettò un momento per vedere se la voce rispondeva. Non rispose. Era solo.
«Caramon,» disse allora, cercando d’incupire quanto più possibile la propria voce e cercando con tutte le forze di farla apparire come quella di Tanis, «ascolta, vieni con noi soltanto fino ai bordi della Foresta di Wayreth. Poi potrai tornartene a casa. Dopo quel punto è probabile che saremo al sicuro...».
Ma Caramon non lo stava ascoltando. In preda all’alcool e all’autocommiserazione, crollò al suolo.
Appoggiandosi con la schiena a un albero, farfugliò frasi incoerenti su orrori senza nome, implorando Tika di riportarlo a casa.
Bupu si alzò in piedi e si avvicinò al grosso guerriero. «Me andare via,» disse, disgustata. «Me non volere grasso, ubriaco piagnucolone, trovare tanti a casa.» Annuendo con la testa s’incamminò lungo il sentiero. Tas le corse dietro, l’afferrò e la trascinò con sé.
«No, Bupu! Non puoi! Siamo quasi arrivati!»
D’un tratto Tasslehoff perse la pazienza. Tanis non c’era. Nessuno era là per aiutarlo. Era come quella volta quando aveva rotto il globo dei draghi. Forse quello che stava facendo non era la cosa giusta, ma era l’unica che adesso gli era venuta in mente.
Si avvicinò a Caramon e gli tirò un calcio negli stinchi.
«Ahi!» esclamò Caramon. Deglutì rumorosamente e fissò Tas sorpreso, con un’espressione perplessa e ferita sul viso. «Perché l’hai fatto?»
Come risposta, Tas gli tirò un altro calcio, ancora più forte. Gemendo, Caramon si afferrò la gamba.
«Ehi, adesso sì che ci divertiamo,» disse Bupu. Correndo avanti tutta felice, appioppò un calcio all’altra gamba di Caramon. «Me rimanere adesso. Sì.»
L’omone ruggì. Alzandosi in piedi con movimenti impacciati, fissò Tas con occhi furenti.
«Maledizione, Burrfoot, se è uno dei tuoi giochetti...»
«Non è un giochetto, grosso manzo che non sei altro!» urlò il kender. «Ho deciso di farti entrare in testa un po’ di buonsenso a suon di calci, tutto qui! Ne ho abbastanza dei tuoi piagnistei! Non hai fatto altro che piagnucolare, tutti questi anni! Il nobile Caramon, che si sacrificava tutto per il suo ingrato fratello. L’amorevole Caramon che metteva sempre Raistlin per primo! Be’, forse l’hai fatto, o forse no. Comincio a pensare che tu abbia sempre messo Caramon per primo! E forse Raistlin lo sapeva, nel suo intimo, quello che io soltanto adesso comincio a capire! L’hai fatto soltanto perché ti faceva sentire bene! Raistlin non aveva bisogno di te, eri tu ad aver bisogno di lui! Hai vissuto la sua vita perché avevi troppa paura di vivere una tua vita!»
Gli occhi di Caramon ardevano febbricitanti, il suo volto era impallidito per la rabbia. Lentamente si sollevò in piedi serrando i pugni. «Sei andato troppo oltre, stavolta, piccolo bastardo...»
«Davvero?». Adesso Tas si era messo a urlare, saltando su e giù. «Bene, ascolta questo, Caramon! Hai sempre piagnucolato perché nessuno aveva bisogno di te. Ti sei mai soffermato a pensare che adesso Raistlin ha bisogno di te più di quanto ne abbia mai avuto prima d’ora? E Dama Crysania ha bisogno di te! E tu te ne stai là come un grosso grumo di gelatina tremolante con il cervello tutto inzuppato e ridotto in poltiglia!»
Per un momento Tasslehoff pensò di essersi spinto troppo oltre. Caramon avanzò incerto d’un passo, la sua faccia era chiazzata, sporca e imbruttita. Bupu cacciò un urlo e si rifugiò dietro a Tas.
Il kender tenne duro, proprio come aveva fatto quando i Signori degli elfi, inferociti, erano stati sul punto di tagliarlo in due per aver rotto il globo dei draghi. Caramon si stagliò minaccioso sopra di lui, l’alito dell’omone puzzolente di liquore fece quasi vomitare Tas. Involontariamente chiuse gli occhi. Non per paura ma per la terribile espressione di angoscia e di rabbia sulla faccia di Caramon.
Rimase là fermo, tenendo i piedi saldamente piantati nel terreno, in attesa del colpo che con ogni probabilità gli avrebbe fracassato il naso, facendolo schizzar fuori dall’altro lato della testa.
Ma il colpo non arrivò. Vi fu un fracasso di rami schiantati, di passi giganteschi che si addentravano in mezzo alla folta boscaglia destando sordi rimbombi.
Tas aprì cautamente gli occhi. Caramon se n’era andato, lasciando dietro di sé una scia di vegetazione abbattuta che si perdeva nella foresta. Sospirando, Tas lo seguì con lo sguardo. Bupu strisciò fuori da dietro la sua schiena.
«È divertente,» annunciò. «Dopotutto rimango. Forse giochiamo di nuovo?»
«Non credo, Bupu,» disse Tas con voce infelice. «Vieni, credo che faremo meglio a seguirlo.»
«Oh, be’,» rifletté con filosofia la nana dei burroni. «Altro gioco arriverà, divertente.»
«Sì,» fu d’accordo Tas con aria assente. Voltandosi, timoroso che qualcuno dentro quella disgraziata taverna potesse aver sentito e intendesse creare guai, sgranò gli occhi, allibito.
La Taverna del Boccale Rotto era scomparsa. L’edificio fatiscente, l’insegna appesa alla catena, i nani, i rangers, l’oste, perfino il bicchiere che Caramon aveva portato alle labbra... ogni cosa era scomparsa nell’aria di metà pomeriggio come un sogno malefico scompare nel momento del risveglio.
Capitolo settimo.
Canta, canta mentre gli spiriti ti commuovono,
canta al tuo occhio che vede doppio,
le scialbe Jane diventano le adorabili Linda
quando sei lune risplendono nel cielo.
Canta il coraggio di un marinaio,
canta mentre i gomiti si piegano,
il tuo vino un nettare color rubino,
innalza tre lenzuola ed vento.
Canta mentre il cuore è gonfio d’amicizia,
canta i tuoi affanni all’assenzio,
canta a colui che per la strada ondeggia,
e al cane, a ciascuno dei suoi peli.
Tutte le cameriere ti amano,
ogni cane è amico tuo,
qualunque cosa tu dica è proprio quello che intendi,
così leva tre lenzuola al vento.
Entro sera Caramon era ubriaco fradicio.
Tasslehoff e Bupu raggiunsero l’omone mentre era in piedi in mezzo ad un sentiero, intento a prosciugare le ultime gocce di spirito dei nani dalla fiasca. Aveva spinto la testa indietro così da poter succhiare ogni singola goccia. Quando finalmente abbassò la fiasca, fu per sbirciare al suo interno con disappunto. Oscillando incerto sui piedi, la scosse.
«Tutto finito,» lo sentì borbottare Tas in tono infelice.
Il kender provò un tuffo al cuore.
«Adesso l’ho fatta grossa,» si disse Tas sconsolato. «Non posso dirgli che la locanda è scomparsa. Non quando si trova in queste condizioni! Non farei altro che peggiorare le cose!»
Ma non si era reso conto di quanto effettivamente fossero peggiorate fino a quando non si fu avvicinato a Caramon battendogli una mano sulla spalla. L’omone si girò di scatto, allarmato.
«Cosa ci è? Chi... chi ci è?». Sporse la testa a scrutare la foresta che si stava rapidamente oscurando.
«Io, qua sotto,» rispose Tas con un filo di voce. «Volevo... volevo dirti che mi dispiace, Caramon, e...»
«Uh? Oh...» Caramon lo fissò, barcollando all’indietro. Poi sorrise scioccamente. «Oh, ciao piccoletto. Un kender,» il suo sguardo andò a Bupu, «e un na... nano dei bu... burroni,» terminò d’impeto. Fece un inchino. «Come vi chiamate?»
«Cosa?» fece Tas.
«Cuomevicchiamate?» ripetè Caramon, con estrema dignità. «Tu mi conosci, Caramon,» disse Tas perplesso. «Io sono Tasslehoff.»
«Me Bupu,» rispose la nana dei burroni, illuminandosi in viso. Era ovvio che sperava che quello fosse un gioco. «Chi tu?»
«Ma tu sai chi è...» cominciò a dire Tas, irritato, poi quasi inghiottì la lingua quando Caramon lo interruppe.
«Io sono Raistlin,» dichiarò l’omone, in tono solenne, facendo un altro inchino, barcollando pericolosamente sulle gambe. «Un... uh... grrrande e pos... pos... possente maguo...»
«Uffa, smettila, Caramon!» esclamò Tas, disgustato. «Ho detto che mi dispiace, perciò non...»
«Caramon?» Gli occhi dell’omone si spalancarono, poi si strinsero astutamente. «Caramon è morto. L’ho ucciso. Molto tempo fa nella Tor-tor-tor... nella Tuorre della Grande Stregoneriaaa...»
«Per la barba di Reorx!» alitò Tas.
«Lui non Raistlin!» esclamò Bupu. Poi la nana s’interruppe, osservandolo con occhio dubbioso. «È lui?»
«N... no! Naturalmente no!» ribadì Tasslehoff seccamente. «Questo non gioco divertente!» dichiarò Bupu con estrema decisione. «Me non piace! Lui non grazioso uomo carino con me. Lui grasso ubriaco. Me andare a casa.» Si guardò intorno. «Da che parte casa?»
«Non adesso, Bupu!» Che cosa sta succedendo? si chiese Tas desolato. Stringendosi il ciuffo, diede un energico strattone ai suoi capelli. I suoi occhi s’inumidirono per il dolore, e il kender sospirò di sollievo. Per un momento aveva pensato di essersi addormentato senza saperlo e di trovarsi a camminare in un sogno bizzarro.
Ma a quanto pareva era tutto vero, troppo vero. O per lo meno lo era per lui. Per Caramon era una storia molto diversa. 92
«Guardate,» stava dicendo Caramon, sempre solenne, barcollando avanti e indietro. «Ora lancerò un magico incantesimo.» Sollevando le mani, farfugliò una sfilza d’insensatezze. «Cienerepolverre e nididituopiii! Burrung!». Puntò un dito contro un albero. «Puff,» bisbigliò, barcollando all’indietro.
«Su, in fiamme! Su, su! Brucia, brucia, brucia... proprio cuome ti povverrro Caaramon.» Avanzò barcollando, procedendo a zig zag lungo il sentiero .
«Tuuutte le cammerrierreee ti ammano,» cantò. «Ogni caane è tuo imi... cooo. Qualunque cosa dicci è quello che in-intiendiiii...»
Strizzandosi le mani, Tas gli corse dietro. Bupu li rincorse trotterellando.
«Albero non brucia,» disse Bupu a Tas in tono accusatorio.
«Lo so!» gemette Tas. «È soltanto che... lui lo crede...»
«Lui cattivo mago. Tocca a me.» Frugando nell’enorme borsa che continuava a farla inciampare, Bupu lanciò un grido di trionfo e tirò fuori un grosso topo molto rigido e molto morto.
«Non adesso, Bupu...» cominciò a dire Tas, sentendo che quel poco di salute mentale che ancora gli rimaneva cominciava a sfuggirgli. Caramon davanti a loro aveva smesso di cantare e stava urlando che avrebbe coperto
la foresta di ragnatele.
«Io sto per dire segreta parola magica,» dichiarò Bupu. «Tu non ascoltare. Guastare segreto.»
«Non ascolterò,» disse Tas con impazienza, cercando di raggiungere Caramon il quale, malgrado tutto il suo barcollare, stava procedendo ad una più che discreta velocità.
«Stai ascoltando?» chiese Bupu, ansimando al suo fianco.
«No,» disse Tas con un sospiro.
«Perché no?»
«Me l’hai detto tu di non ascoltare!» urlò Tas esasperato.
«Ma come fai a sapere quando ascoltare se non ascoltare?» volle sape-
Bupu con rabbia. «Tu cerchi rubare segreto parola magica! Me andare casa.»
La nana dei burroni si fermò di colpo, si girò e cominciò a ripercorrere trotterellando il sentiero.
Tas si arrestò con una brusca frenata. Adesso poteva vedere Caramon, aggrappato a un albero, intento ad evocare un esercito di draghi, a giudicare da quanto stava biascicando ad alta voce.
Sembrava che l’omone dovesse starsene fermo almeno per un po’. Imprecando sottovoce, il kender si voltò e corse dietro alla nana dei burroni.
«Fermati, Bupu!» gridò freneticamente, afferrando una manciata di Stracci sudici che aveva scambiato per la sua spalla. «Giuro che non ruberei mai e poi mai la tua parola magica segreta!»
«L’hai rubata!» strillò Bupu, agitando verso di lui il ratto morto.
«L’hai detta!»
«Detto cosa?» chiese Tasslehoff, del tutto sconcertato. «Parola magica segreta! Tu detto!» urlò Bupu indignata. «Qui! Guarda!» Tenendo il ratto morto davanti a sé, indicò qualcosa più oltre nel sentiero, e gridò: «Io dico parola magica segreta adesso: parola magica segreta! Ecco. Adesso vediamo una magia che brucia.» Tas si portò la mano alla testa. Si sentiva stordito. «Guarda! Guarda!» urlò Bupu puntando un dito incredibilmente sporco. «Visto? Io appiccato fuoco. Parola magica segreta mai fallisce. Umpf. Cattivo sfruttatore magia, lui.»
Tas lanciò un’occhiata in fondo al sentiero, e sbatté le palpebre. C’erano fiamme visibili davanti a loro lungo il sentiero.
«Decisamente, ora me ne torno a Kenderhome,» ponderò Tas in silenzio fra sé e sé. «Mi cercherò una casetta... o forse andrò a vivere con i miei per qualche mese fino a quando non mi sentirò meglio.»
«Chi è là?» gridò una voce limpida e cristallina. Tasslehoff si sentì invadere da una sensazione di sollievo. «È il fuoco di un bivacco!» farfugliò, quasi isterico per la gioia.
Quella voce! Si precipitò avanti, correndo attraverso il buio verso la luce. «Sono io, Tasslehoff Burrfoot! Sono... uumf!»
L’«uumf» era stato causato da Caramon che aveva sollevato il kender da terra, stringendolo fra le braccia robuste e tappandogli la bocca con una mano.
«Sst!» bisbigliò Caramon nell’orecchio di Tas. I fumi del suo alito fecero girar la testa al kender.
«C’è qualcuno laggiù!»
«Mpf... blsxtchscat!» Tas si dimenò freneticamente, cercando di liberarsi dalla stretta di Caramon.
Il kender stava morendo lentamente per soffocamento.
«Proprio chi pensavo,» bisbigliò Caramon fra sé, solennemente, mentre la sua mano si serrava con fermezza ancora maggiore sulla bocca del kender.
Tas cominciò a vedere un turbinio di vivide stelle azzurre. Lottò disperato, cercando di strappar via le mani di Caramon con tutte le sue forze, ma sarebbe stata comunque la fine della sua vita breve ed eccitante se Bupu non fosse comparsa all’improvviso ai piedi di Caramon.
«Parola magica segreta!» gridò la nana con voce stridula, ficcando il ratto morto sotto il naso dell’omone. La lontana luce del bivacco si rifletté sugli occhi neri della carcassa dell’animale e luccicò sui denti aguzzi immobilizzati in un perpetuo sogghigno.
«Ahiii!» urlò Caramon e lasciò cadere il kender. Tas cadde pesantemente al suolo annaspando per respirare.
«Che cosa sta succedendo, là?» chiese una voce gelida.
«Siamo venuti... a salvarti...» balbettò Tasslehoff, tirandosi in piedi con la testa che ancora gli girava.
Una figura abbigliata di bianco e ammantata di pellicce comparve sul sentiero davanti a loro. Bupu sollevò lo sguardo su di essa con un’espressione di profondo sospetto negli occhi.
«Parola magica segreta,» disse ancora la nana dei burroni, agitando il ratto morto in direzione della Reverenda Figlia di Paladine.
«Mi perdonerai se non mi mostro sfrenatamente grata,» disse Dama Crysania a Tasslehoff mentre quella sera sul tardi sedevano davanti al fuoco.
«Lo so. Mi dispiace,» replicò Tasslehoff, tutto rannicchiato sul terreno, e infelice. «Ho fatto un gran pasticcio. Di solito lo faccio, appunto,» continuò addolorato. «Chiedilo a chiunque. Spesso mi dicono che faccio impazzire la gente, ma questa è la prima volta che l’ho fatto per davvero!»
Tirando su con il naso, il kender lanciò un’occhiata ansiosa in direzione di Caramon. L’omone sedeva accanto al fuoco, ravvoltolato nel suo mantello. Ancora sotto l’influenza del potente spirito dei nani, adesso era talvolta Caramon e talvolta Raistlin. In quanto Caramon, mangiava con voracità, ingozzandosi di gusto. Quindi concedeva al suo pubblico parecchie ballate sboccate, con grande delizia di Bupu, la quale batteva le mani fuori tempo e ci dava dentro forte con i ritornelli.
Tas era combattuto tra il forte desiderio di scompisciarsi dalle risate, oppure strisciare sotto una roccia e morire di vergogna.
Ma, decise il kender provando un brivido, lui preferiva di gran lunga il Caramon nudo e crudo, canzoni sboccate e tutto, al Caramon/Raistlin. La trasformazione avvenne all’improvviso, proprio nel mezzo di una canzone. La grande corporatura dell’omone parve afflosciarsi, cominciò a tossire poi, guardandoli con gli occhi ridotti a due fessure, ordinò con freddezza a se stesso di chiudere il becco.
«Non sei stato tu a fargli questo,» disse Dama Crysania a Tas, fissando Caramon con sguardo gelido. «È la bevanda. È volgare, ottuso, ed è ovvio che è privo di autocontrollo. Si è lasciato dominare dai suoi appetiti. Strano, vero, che lui e Raistlin siano gemelli? Suo fratello ha un controllo così completo di se stesso, così disciplinato, intelligente e raffinato.»
Dama Crysania scrollò le spalle. «Oh, non ci sono dubbi che si debba provare molta pietà per questo pover’uomo.» Alzandosi in piedi si avvicinò al suo cavallo impastoiato e cominciò a sciogliere le cinghie del sacco a pelo che teneva dietro la sella. «Lo ricorderò nelle mie preghiere a Paladine.»
«Sono sicuro che le preghiere non gli faranno male,» disse Tas, dubbioso. «Ma credo che in questo momento un po’ di tè speziato sarebbe preferibile.»
Dama Crysania si voltò e lanciò al kender un’occhiata di rimprovero.
«Sono certa che non intendevi nulla di blasfemo. Perciò accetterò la tua dichiarazione nel suo senso letterale. Comunque, sforzati di guardare alle cose con un atteggiamento più serio.»
«Ero serio,» protestò Tas. «A Caramon serve soltanto qualche tazza di buono e sciropposo tè speziato...»
Le scure sopracciglia di Dama Crysania si sollevarono con tale repentinità che Tas si azzittì, anche se non aveva la più pallida idea di cosa avesse detto per scombussolarla a tal punto. Cominciò a preparare il proprio giaciglio, con il morale tanto basso quanto non ricordava di averlo mai avuto prima. Si sentiva proprio come quando aveva cavalcato a dorso di drago con Flint durante la Battaglia delle Pianure di Estwilde. Il drago si era innalzato dentro le nuvole, poi si era tuffato fuori roteando su se stesso. Per lunghi istanti l’alto era stato il basso, il cielo era stato sotto, il suolo sopra, e poi... wuuush!, dentro un’altra nuvola e ogni cosa si era confusa nella nebbia.
La sua mente si sentiva proprio come allora. Dama Crysania ammirava Raistlin e provava pietà per Caramon. Tas non ne era sicuro, ma gli pareva che tutto procedesse alla rovescia. Poi c’era Caramon, che era Caramon e poi non era Caramon. Locande che si trovavano là un minuto prima e non c’erano più in quello successivo. Una parola magica segreta che avrebbe dovuto ascoltare così da sapere quando non ascoltare. Poi aveva dato un suggerimento perfettamente logico circa il tè speziato ed era stato rimproverato per aver detto qualcosa di blasfemo!
«Dopotutto...» borbottò fra sé, lisciando le coperte, «Paladine ed io siamo amici intimi. Lui sapeva quello che volevo dire.»
Sospirando, il kender appoggiò la testa sopra un mantello arrotolato. Bupu, adesso del tutto convinta che Caramon fosse Raistlin, dormiva della grossa, arrotolata su se stessa e con la testa appoggiata in adorazione sul piede dell’omone. Adesso lo stesso Caramon sedeva in silenzio e con gli occhi chiusi, canticchiando una canzone. Di tanto in tanto tossiva, e a un certo punto chiese ad alta voce che Tas gli portasse il suo libro degli incantesimi così da poter studiare la sua magia. Ma pareva abbastanza pacifico. Tas sperò che facesse presto ad addormentarsi ed esaurisse l’effetto dello spirito dei nani.
Il fuoco ardeva basso. Dama Crysania distese le coperte su un letto di aghi di pino che aveva ammucchiato per tener lontana l’umidità. Tas sbadigliò. Non c’era dubbio che se la stesse cavando meglio di quanto lui si era aspettato. Aveva scelto un posto buono e sensato per accamparsi, vicino al sentiero, con un ruscello di acqua limpida che scorreva lì vicino. Era un bene non essere stati costretti ad addentrarsi troppo in quei boschi bui e spettrali...
Boschi spettrali... che cosa gli ricordava questo? Tas si riprese mentre stava per piombare nel sonno. Qualcosa d’importante. Boschi spettrali. Spettri... parla di spettri...
«Il Bosco Cupo!» esclamò allarmato, rizzandosi a sedere di scatto.
«Che cosa?» chiese Dama Crysania, avvolgendosi nel proprio mantello e preparandosi a distendersi.
«Il Bosco Cupo!» ripetè Tas, allarmato. Adesso era completamente sveglio. «Siamo vicini al Bosco Cupo. Siamo venuti per avvertirti! È un luogo orribile. Avresti potuto finirci dentro senza accorgertene. Forse ci siamo già in mezzo...»
«Il Bosco Cupo?» Caramon spalancò di colpo gli occhi. Si guardò intorno, confuso.
«Sciocchezze,» disse Dama Crysania a proprio agio, aggiustandosi sotto la testa un piccolo cuscino da viaggio che aveva portato con sé. «Non siamo nel Bosco Cupo, non ancora. Dista all’incirca cinque miglia. Domani arriveremo a un sentiero che ci condurrà fin là.»
«Tu vuoi... vuoi andarci!» rantolò Tas.
«Certo,» annuì gelida Dama Crysania. «Vado là per cercare l’aiuto del Maestro della Foresta. Impiegherei molti mesi per viaggiare da qui alla Foresta di Wayreth, anche a cavallo. I draghi d’argento abitano nel Bosco Cupo insieme al Maestro della Foresta. Mi porteranno in volo fino alla mia destinazione.»
«Ma gli spettri, l’antico re morto e i suoi seguaci...»
«... sono stati liberati da questo terribile vincolo quando hanno risposto all’appello per combattere contro i Signori dei Draghi,» disse Dama Crysania, con voce un po’ stridula. «Dovresti studiare più seriamente la storia della guerra, Tasslehoff. Soprattutto perché vi hai partecipato. Quando le forze umane e quelle degli elfi si unirono per riconquistare Qualinesti, gli spettri del Bosco Cupo combatterono con loro, spezzando così il tenebroso incanto che li vincolava ad una vita terribile. Hanno lasciato questo mondo e da allora non sono più stati visti.»
«Oh,» disse Tas, stupidamente. Dopo essersi guardato intorno per un momento, tornò a sedersi sul suo sacco a pelo. «Ho parlato con loro,» continuò con nostalgia. «Erano molto cortesi. È triste pensare che...»
«Sono molto stanca,» lo interruppe Dama Crysania. «E domani mi aspetta un lungo viaggio. Prenderò con me la nana dei burroni e proseguirò per il Bosco Cupo. Tu potrai riportare il tuo amico inebetito a casa dove troverà, speriamo, l’aiuto che gli serve. Adesso vai a dormire.»
«Uno di noi non dovrebbe... vegliare?» chiese Tas, esitando. «Quei rangers hanno detto...» Quei rangers che si erano trovati nella locanda che non c’era.
«Sciocchezze. Paladine proteggerà il nostro riposo,» dichiarò Dama Crysania in tono perentorio.
Chiuse gli occhi e cominciò a recitare sommesse parole di preghiera.
Tas deglutì. «Mi chiedo se conosciamo lo stesso Paladine?» si chiese, pensando a Fizban e sentendosi molto solo. Ma lo disse fra i denti, non volendo essere accusato un’altra volta di essere blasfemo. Si coricò e si dimenò tra le coperte non riuscendo a mettersi comodo. Alla fine, ancora sveglio, si rizzò a sedere e si appoggiò contro il tronco di un albero. La notte di primavera era fresca ma non sgradevolmente gelida. Il cielo era limpido e non c’era vento. Dagli alberi si levava il frusciare delle loro conversazioni, sentivano la nuova vita scorrere attraverso tronchi e rami, risvegliandosi dopo il lungo sonno dell’inverno.
Passando la mano sopra il terreno, Tas toccò la nuova erba che faceva capolino in mezzo alle foglie putrescenti.
Il kender sospirò. Era una bella notte. Perché mai si sentiva inquieto? Era un suono quello che aveva sentito? Un ramoscello che si spezzava? Tas trasalì e si guardò intorno, trattenendo il respiro per sentire meglio. Niente. Silenzio. Sollevando lo sguardo al cielo vide la costellazione di Paladine, il Drago di Platino, che ruotava intorno alla costellazione di Gilean, i Piatti della Bilancia. Dalla parte opposta della costellazione di Paladine, ognuno sorvegliando attentamente l’altra, c’era la costellazione della Regina delle Tenebre Takhisis, il Drago a Cinque Teste.
«Sei spaventosamente lontano lassù,» disse Tas al Drago di Platino. «E hai un intero mondo da sorvegliare, non soltanto noi. Sono sicuro che non ti dispiacerà se stanotte veglierà sul nostro riposo. Non intendo mancarti di rispetto, naturalmente. È soltanto che ho la sensazione che anche Qualcun Altro lassù ci stia guardando, stanotte, se capisci quello che voglio dire.» Il kender rabbrividì. «Non so perché tutt’a un tratto mi sento così strano. Forse è il fatto che siamo così vicini al Bosco Cupo e, be’, a quanto pare io sono responsabile per tutti!»
Era un pensiero scomodo per un kender. Tas era abituato ad essere responsabile per se stesso, ma quando aveva viaggiato con Tanis e gli altri, c’era sempre stato qualcun altro responsabile per il gruppo. C’erano stati guerrieri forti e abili...
Stette in silenzio a fissare l’oscurità. C’era silenzio, poi un fruscio, poi...
Uno scoiattolo. Tas emise un sospiro che parve uscirgli dalla punta dei piedi.
«Visto che sono in piedi metterò un altro ciocco sul fuoco,» disse fra sé. Si avvicinò, e così facendo lanciò un’occhiata a Caramon, provando una fitta di dolore. Quanto più facile sarebbe stato far la guardia al buio se avesse saputo di poter contare sul braccio robusto di Caramon! Invece il grosso guerriero era rotolato supino, gli occhi chiusi, la bocca aperta, Tonfando soddisfatto da buon ubriaco. Arricciata sullo stivale di Caramon, la testa appoggiata al suo piede, Bupu mescolava il proprio russare a quello di lui. Dalla parte opposta, il più possibile lontano da loro, Dama Crysania dormiva pacifica, la guancia liscia appoggiata sulle mani ripiegate.
Con un tremulo sospiro, Tas buttò il ciocco sul fuoco. Lo vide avvampare e si sedette per vegliare, aguzzando lo sguardo sugli alberi avvolti dalla notte, le cui parole sussurrate avevano adesso un tono sinistro. Poi lo sentì di nuovo.
«Uno scoiattolo!» bisbigliò Tas risoluto.
C’era qualcosa che si muoveva fra le ombre? Udì un lontano crepitio, come un ramoscello che si spezzasse in due. Nessuno scoiattolo poteva far questo! Tas frugò nella sua borsa fino a quando la mano si chiuse sopra un piccolo pugnale. La foresta si stava muovendo! Gli alberi si stavano richiudendo su di loro!
Tas cercò di lanciare un grido di avvertimento, ma un ramo sottile gli afferrò il braccio...
«Ahiii,» urlò Tas, si contorse per liberarsi e colpì il ramo col suo pugnale.
Vi fu un’imprecazione e un grido di dolore. Il ramo lasciò la presa e Tas dette in un sospiro. Nessun albero da lui incontrato prima aveva mai lanciato grida di dolore. Qualsiasi cosa si trovasse a fronteggiare era viva, respirava...
«Siamo attaccati!» urlò il kender e arretrò barcollando. «Caramon, aiuto! Caramon...»
Due anni prima il grosso guerriero sarebbe balzato in piedi all’istante, la mano stretta sull’elsa della spada, vigile e pronto alla battaglia. Ma Tas, arrancando per volgere le spalle al fuoco del bivacco, con il suo piccolo pugnale come unico mezzo per tenere a bada qualunque cosa li stesse attaccando, vide la testa di Caramon ciondolare da un lato, torpida e beata nella sua ubriachezza.
«Dama Crysania!» urlò Tas a squarciagola, vedendo altre forme scure strisciare fuori dal bosco.
«Svegliati, per favore, svegliati!»
Adesso poteva sentire il calore del fuoco. Tenendo d’occhio quelle ombre minacciose, Tas abbassò una mano e afferrò un ramo fumante per una estremità, sperando che fosse quella fredda. Lo sollevò e spinse in avanti il legno avvampante.
Vi fu un rapido movimento quando una delle creature si lanciò verso di lui. Tas vibrò un colpo davanti a sé con il pugnale, facendo arretrare la creatura. Ma bastò l’istante in cui era stata illuminata a fargliela riconoscere.
«Caramon!» strillò Tas. «Draconici!»
Adesso Dama Crysania era sveglia; Tas vide che si rizzava a sedere, guardandosi intorno con gli occhi confusi dal sonno.
«Il fuoco!» le urlò Tas disperato. «Avvicinati al fuoco!». Inciampando su Bupu, il kender sferrò un calcio a Caramon. «Draconici!» urlò di nuovo.
Uno degli occhi di Caramon si aprì, poi l’altro, guardandosi intorno con sguardo furente e intontito.
«Caramon! Siano ringraziati gli dei!» Tas cacciò un rantolo di sollievo.
Caramon si rizzò a sedere. Sbirciando l’accampamento intorno a sé, completamente disorientato e confuso, era però ancora abbastanza guerriero da esser vagamente consapevole del pericolo.
Alzandosi in piedi con movimenti incerti, strinse l’elsa della spada e ruttò.
«Cuosac’è?» borbottò, cercando di mettere a fuoco la vista.
«Draconici!» strillò Tasslehoff, saltando tutt’intorno come un piccolo demone, agitando il tizzone e il pugnale con tanto vigore da riuscire davvero a tenere a bada i nemici.
«Draconici?» borbottò Caramon, guardandosi intorno incredulo. Poi intravide una faccia contorta da rettile illuminata dal fuoco morente. Spalancò gli occhi. «Draconici!» ringhiò. «Tanis, Sturm, a me! Raistlin... la tua magia! Li prenderemo.»
Strappando la spada dal fodero, Caramon si lanciò avanti con un rombante grido di battaglia... e stramazzò a faccia in giù. Bupu si aggrappò al suo piede.
«Oh, no!» gemette Tas.
Caramon giacque al suolo, sbattendo gli occhi e scuotendo la testa per lo stupore, cercando di capire cosa l’avesse colpito. Bupu, svegliata bruscamente, cominciò a ululare per il terrore e il dolore, poi morse Caramon alla caviglia.
Tas stava per balzare avanti in aiuto del guerriero caduto, per lo meno per strappargli di dosso Bupu, quando udì un grido. Dama Crysania! Dannazione! Si era dimenticato di lei! Girandosi di scatto, vide il chierico intento a lottare con uno dei draconici.
Tas si lanciò in avanti e calò con violenza il pugnale sul draconico. Con un urlo stridulo il mostro lasciò andare Crysania e cadde all’indietro.
Il suo corpo divenne di pietra ai piedi di Tas. Il kender si ricordò appena in tempo di recuperare il pugnale, altrimenti il cadavere di pietra l’avrebbe trattenuto senza remissione.
Tas trascinò indietro Crysania con sé verso il punto in cui Caramon giaceva per terra cercando di scuotersi di dosso la nana dei burroni.
I draconici li stavano circondando, stringendoli dappresso. Guardandosi intorno febbrilmente Tas vide dovunque queste creature. Ma perché non si scagliavano all’attacco? Che cosa stavano aspettando?
«Stai bene?» riuscì a chiedere a Crysania.
«Sì,» lei rispose. Malgrado fosse molto pallida, appariva calma e, se era spaventata, teneva la sua paura sotto controllo. Tas vide che le sue labbra si muovevano, presumibilmente in una silenziosa preghiera. Le labbra del kender si serrarono.
«Ecco, Dama,» disse, mettendole in mano il ramo ardente. «Credo che dovrai combattere e pregare allo stesso tempo.»
«Elistan lo faceva. Allora posso farlo anch’io,» rispose Crysania, con la voce percorsa da un tremito quasi impercettibile.
Degli ordini echeggiarono in mezzo alle ombre. La voce non era draconica. Tas non riuscì a distinguerla. Ma al solo udirla fu scosso da brividi di gelo. Non ebbe però il tempo d’interrogarsi. I draconici, con le lingue che guizzavano fuori dalle bocche, balzarono loro addosso.
Crysania sferrò dei colpi col ramo ardente. Erano movimenti goffi ma sufficienti a far esitare i draconici. Tas stava ancora tentando di strappare Bupu da Caramon. Ma fu un draconico a venire, involontariamente, in loro aiuto. Spingendo indietro Tas, il draconico appoggiò una mano artigliata su Bupu.
I nani dei burroni erano noti in tutto Krynn per la loro estrema codardia e la totale inaffidabilità in battaglia. Ma, quando si trovavano con le spalle al muro, potevano combattere come ratti rabbiosi.
«Glupsludge!» urlò Bupu rabbiosamente e, smettendo di rosicchiare la gamba di Caramon, affondò i denti nella pelle scagliosa della gamba del draconico.
Bupu non aveva molti denti, ma quei pochi che aveva erano aguzzi, e morse la pelle verde del draconico con un entusiasmo dovuto al fatto che non aveva mangiato molto a cena.
Il draconico esplose in un grido orrendo. Sollevò la spada di scatto e stava sul punto di porre fine ai giorni di Bupu su Krynn quando Caramon, incespicando qua e là con la spada in pugno e cercando di vedere quello che stava succedendo, troncò per caso il braccio della creatura. Bupu si sedette per terra, leccandosi le labbra, e si guardò intorno con avidità alla ricerca di un’altra vittima.
«Urrah, Caramon!» esclamò Tas, in preda a un’irresistibile frenesia mentre il suo piccolo pugnale colpiva a destra e a manca con la rapidità di un serpente. Dama Crysania sferrò un colpo col ramo ardente a un draconico, urlando il nome di Paladine. La creatura si abbatté al suolo.
Da quello che Tas poteva vedere, i draconici rimasti in piedi erano due o tre soltanto, e il kender cominciò a sentirsi imbaldanzito. Le creature si tenevano appena fuori del bagliore del fuoco e stavano squadrando circospette il grosso guerriero, Caramon, che si stava rialzando con qualche difficoltà. Vista soltanto in mezzo alle ombre, la sua figura appariva minacciosa come ai vecchi tempi. La lama della sua spada sfavillava sinistra alla luce rossastra delle fiamme.
«Beccali, Caramon!» urlò Tas con voce stridula. «Spaccagli la testa...»
La voce del kender si spense quando Caramon si voltò lentamente verso di lui con una strana espressione sulla faccia.
«Non sono Caramon,» disse con voce sommessa. «Sono il suo gemello Raistlin. Caramon è morto. L’ho ucciso io.» Abbassando lo sguardo sulla spada che stringeva in mano, il grosso guerriero la lasciò cadere come se l’avesse punto. «Cosa faccio con questo freddo acciaio in mano?» chiese con asprezza. «Non posso lanciare incantesimi con una spada e uno scudo!»
Tasslehoff soffocò, lanciando un’occhiata allarmata ai draconici. Poteva vedere che si stavano scambiando delle occhiate astute. Cominciarono ad avanzare lentamente, anche se tutti tenevano lo sguardo fisso sul grosso guerriero, probabilmente sospettando una trappola.
«Non sei Raistlin! Sei Caramon!» gridò Tas in preda alla disperazione, ma non servì. Il cervello dell’omone era ancora inzuppato di spirito dei nani. Col cervello completamente scardinato, Caramon chiuse gli occhi, sollevò le mani e cominciò a cantare.
«Nidi di formiche d’argento...» prese a mugolare, oscillando avanti e indietro.
Il volto ghignante d’un draconico si profilò davanti a Tas. Vi fu un balenare d’acciaio e la testa del kender parve esplodere per il dolore...
Tas era sul terreno. Un liquido caldo gli scorreva sul viso, accecandogli un occhio, gocciolandogli in bocca. Sentì il sapore del sangue. Era stanco... molto stanco...
Ma il dolore era tremendo. Non lo lasciava dormire. Temeva di muovere la testa, temeva che questa si spaccasse in due. E così giacque perfettamente immobile, osservando il mondo da un occhio solo.
Sentì la nana dei burroni che continuava a urlare come un animale torturato, e poi tutt’a un tratto le urla cessarono. Udì un profondo grido di dolore, un gemito soffocato, e un grosso corpo si schiantò al suolo accanto a lui. Era Caramon, con il sangue che gli scorreva dalla bocca, gli occhi spalancati e fissi.
Tas non riusciva a sentirsi triste. Non riusciva a sentire niente se non il terribile dolore alla testa.
Un gigantesco draconico si ergeva sopra di lui, con la spada in pugno. Sapeva che la creatura stava per ucciderlo. Non gli importava. Metti fine al dolore, lo implorò. Fai presto.
Poi vi fu un turbinio di vesti bianche e una limpida voce invocò Paladine. Il draconico scomparve all’improvviso con un trepestio di piedi artigliati che si allontanavano in mezzo alla boscaglia. Le vesti bianche s’inginocchiarono al suo fianco. Tas sentì il tocco di una mano gentile sulla testa, e udì di nuovo il nome di Paladine. Il dolore scomparve. Nel sollevare lo sguardo vide la mano del chierico toccare Caramon, vide le palpebre dell’omone che sbattevano per poi chiudersi in un sonno tranquillo.
Va tutto bene, pensò Tas giubilante. Se ne sono andati ! Siamo salvi. Poi sentì che la mano tremava. Recuperando un po’ i propri sensi a mano a mano che le energie curative del chierico si diffondevano nel suo corpo, il kender sollevò la testa, sbirciando davanti a sé con l’occhio ancora valido.
Stava arrivando qualcuno. Qualcosa aveva richiamato i draconici. Qualcosa stava entrando nella luce del fuoco.
Tas cercò di gridare un avvertimento, ma la gola gli si chiuse. La mente gli si inceppò più e più volte. Per un momento, troppo spaventato e stordito per riuscire a pensare con chiarezza, si convinse che qualcuno avesse mischiato le sue avventure.
Vide Dama Crysania alzarsi in piedi, le vesti bianche spazzarono il terriccio accanto alla sua testa.
Lentamente Dama Crysania cominciò ad arretrare dalla cosa che la guatava. Tas la sentì invocare il nome di Paladine, ma le parole sgorgavano da labbra irrigidite dal terrore.
Lo stesso Tas avrebbe voluto disperatamente chiudere gli occhi. La paura e la curiosità combattevano dentro il suo piccolo corpo. La curiosità l’ebbe vinta. Sbirciando dall’occhio buono, Tas osservò l’orrenda figura che si avvicinava sempre più al chierico. La figura indossava l’armatura d’un Cavaliere di Solamnia ma quell’armatura era bruciata e annerita. Mentre si avvicinava a Crysania la figura tese un braccio che non terminava con una mano. Pronunciò parole che non uscivano da una bocca. I suoi occhi avvamparono d’arancione, le sue gambe trasparenti attraversarono le ceneri fumanti del bivacco. Il gelo delle regioni in cui era costretto a dimorare in eterno scorreva fuori dal suo corpo, congelando il midollo nelle ossa di Tas.
Spaventato, Tas sollevò la testa. Vide Dama Crysania che arretrava. Vide il cavaliere della morte incamminarsi verso di lei con passi lenti e inesorabili.
Il cavaliere sollevò la mano destra e puntò contro Crysania un pallido dito scintillante.
Tas si sentì afferrare da un improvviso, incontrollabile terrore. «No!» gemette, rabbrividendo, anche se non aveva la più pallida idea di quale orrenda cosa stesse per accadere.
Il cavaliere disse una parola:
«Muori!»
In quell’istante, Tas vide Dama Crysania sollevare la mano e stringere il medaglione che portava appeso al collo. Vide un lampo accecante di pura luce bianca sgorgare dalle sue dita; poi Dama Crysania cadde al suolo come se fosse stata trafitta da un dito scarnificato.
«No!» si sentì gridare Tasslehoff. Vide quegli occhi avvampanti di arancione rivolgere la loro attenzione verso di lui, e un’oscurità umida e gelida, come l’oscurità di una tomba, gli sigillò gli occhi e gli chiuse la bocca...
Capitolo ottavo.
Dalamar si avvicinò trepidante al laboratorio del mago, passando un dito nervoso sulle rune protettive cucite sul tessuto delle sue vesti nere mentre frettolosamente ripeteva parecchi incantesimi difensivi della sua mente. Una certa dose di cautela non sarebbe parsa indecorosa da parte di qualsiasi giovane apprendista che si avvicinasse alle camere interne e segrete d’un maestro potente e tenebroso. Ma le precauzioni di Dalamar erano eccezionali. E con buone ragioni. Dalamar aveva propri segreti da nascondere, e non c’era nessuno al mondo che più di lui temesse e paventasse lo sguardo di quegli occhi dorati a forma di clessidra.
Eppure, ancora più in profondità di quella paura, una corrente sotterranea di eccitazione pulsava nel sangue di Dalamar, come sempre accadeva quando si arrestava davanti a quella porta. Aveva visto cose meravigliose dentro quella stanza. Meravigliose... spaventose...
Sollevando la mano destra tracciò un rapido segno nell’aria davanti alla porta e borbottò alcune parole nella lingua della magia. Non vi fu nessuna reazione. Sulla porta non era stato lanciato nessun incantesimo. Dalamar respirò un po’ più facilmente... o forse era un sorriso di delusione. Il suo padrone non era impegnato in nessuna magia potente e intensa, altrimenti Raistlin avrebbe bloccato ermeticamente la porta con un adeguato incantesimo. Lanciando un’occhiata al pavimento, l’elfo scuro non vide filtrare nessuna luce tremolante da sotto la massiccia porta di legno. Non sentì nessun odore, salvo quello consueto delle spezie e della putrefazione. Dalamar appoggiò le cinque punte delle dita della sua mano sinistra sulla porta e aspettò in silenzio.
Nello spazio di tempo che l’elfo scuro impiegò a tirare un sospiro, giunse l’ordine pronunciato con voce sommessa: «Entra, Dalamar.»
Facendosi forza, Dalamar entrò nella stanza quando la porta si spalancò in silenzio davanti a lui.
Raistlin sedeva a un enorme e antico tavolo di pietra, talmente grande che un esemplare della razza dei minotauri, alti e dalle ampie spalle, che vivevano a Mithas, avrebbe potuto distendercisi sopra, allungandosi tutto, e ancora sarebbe avanzato dello spazio. Il tavolo di pietra, e in effetti l’intero laboratorio, facevano parte dell’arredamento originario che Raistlin aveva trovato quando aveva reclamato la Torre della Grande Stregoneria come propria.
La grande camera in ombra pareva assai più grande di quanto avrebbe potuto essere, eppure l’elfo scuro non era mai riuscito a decidere se era la camera stessa ad apparire più grande, o se invece non era lui a sembrare più piccolo quando entrava. Qui, come nello studio del mago, i libri rivestivano le pareti. Rune e scritture filiformi ardevano attraverso la polvere raccolta sui dorsi. Sui tavoli disposti tutt’intorno, sui lati della camera, c’erano bottiglie e vasi di vetro dalle forme contorte e il loro contenuto dai vivaci colori gorgogliava e ribolliva d’una potenza occulta.
Qui, in questo laboratorio, molto tempo addietro, erano state compiute grandi e potenti magie. Qui gli stregoni di tutte e tre le Vesti: il Bianco del Bene, il Rosso della Neutralità, e il Nero del Male, si erano alleati per creare i Globi dei Draghi, uno dei quali era adesso in possesso di Raistlin. Qui le tre Vesti si erano unite in un’ultima disperata battaglia per salvare le loro Torri, i bastioni della loro forza, dal Gran Sacerdote di Istar e dalla plebaglia. Qui avevano fallito, convinti che fosse meglio vivere nella sconfitta piuttosto che combattere, sapendo che la loro magia poteva distruggere il mondo.
I maghi erano stati costretti ad abbandonare quella Torre, portando i loro libri degli incantesimi ed altre cose personali nella Torre della (Grande Stregoneria nascosta nelle profondità della magica Foresta di Wayreth. Era stato quando avevano abbandonato la Torre che era stata andata la maledizione su di essa. Il Bosco di Shoikan era cresciuto per proteggerla da tutti coloro che si avvicinavano fino a quando, come predetto, «il maestro del presente e del passato non fosse tornato con il potere.»
E il maestro era tornato. Adesso sedeva nell’antico laboratorio, rannicchiato sopra il tavolo di pietra che era stato trascinato fuori, molto tempo addietro, dal fondo del mare. Scolpito con rune che respingevano ogni incantesimo, veniva tenuto libero da qualunque influenza esterna potesse condizionare il lavoro del mago. La superficie del tavolo era levigata e lucidata quasi a specchio.
Dalamar poteva vedere le rilegature azzurro-notte dei libri degli incantesimi appoggiati sopra di essa riflettervisi alla luce delle candele.
Anche altri oggetti erano sparpagliati sulla sua superficie: oggetti tremendi e curiosi, terribili e adorabili, i componenti degli incantesimi del mago. Era su questi che adesso Raistlin stava lavorando, scorrendo un libro d’incantesimi, mormorando parole sommesse mentre schiacciava qualcosa fra le dita delicate, lasciandolo sgocciolare dentro una fiala che reggeva in mano.
«Shalafi,» disse Dalamar, a bassa voce, usando la parola elfa per “maestro”.
Raistlin levò lo sguardo.
Dalamar sentì che quegli occhi dorati gli trafiggevano il cuore causandogli un indefinibile dolore.
Un brivido di paura investì l’elfo scuro, le parole: Lo sa! gli ribollirono nel cervello. Ma niente della sua emozione era visibile all’esterno. I lineamenti decisi dell’elfo scuro rimasero fissi, immutati, freddi. I suoi occhi restituirono con fermezza l’occhiata di Raistlin. Le sue mani rimasero ripiegate all’interno delle vesti, così com’era corretto.
Quel lavoro era talmente pericoloso che, quando Loro avevano ritenuto necessario infiltrare una spia fra quelli che servivano il mago, avevano chiesto dei volontari, poiché nessuno fra essi era stato disposto ad assumersi la responsabilità di ordinare a qualcuno, a sangue freddo, di accettare quel micidiale incarico. Dalamar si era fatto subito avanti.
La magia era l’unica dimora possibile per Dalamar. Originario di Silvanesti, adesso non rivendicava né veniva rivendicato da quella nobile razza di elfi. Nato di bassa casta, gli erano stati insegnati soltanto i primissimi rudimenti delle arti magiche. Gli insegnamenti più alti erano riservati soltanto a coloro che avevano sangue reale. Ma Dalamar aveva assaggiato il potere, e questo era diventato la sua ossessione. Lavorava in segreto, studiando le cose proibite, apprendendo meraviglie riservate soltanto ai maghi degli elfi del più alto rango. Le arti tenebrose erano quelle che l’avevano attirato di più. E così, quand’era stato scoperto con addosso le Vesti Nere che nessun vero elfo poteva anche soltanto sopportare di guardare, Dalamar era stato bandito dalla sua casa e dalla sua nazione. Ed era diventato noto come «l’elfo scuro», colui che è fuori dalla luce. Ciò era andato benissimo per Dalamar poiché, sin dall’inizio, aveva appreso che c’era potere nella tenebra.
E così Dalamar aveva accettato la missione. Quando gli era stato chiesto di enunciare le proprie ragioni per le quali era disposto a rischiare volontariamente la propria vita per assolvere quel compito, aveva risposto con freddezza: «Rischierei la mia anima pur di avere la possibilità di studiare con il più grande e potente maestro del nostro ordine che sia mai vissuto!»
«Potresti benissimo finire per far questo,» gli aveva risposto una voce triste.
Il ricordo di quella voce tornava a Dalamar nei momenti più impensati, di solito nel buio della notte, che era così tremendamente scura all’interno della Torre. Adesso, gli ritornò alla mente, ma Dalamar lo respinse con uno sforzo.
«Cosa c’è?» chiese Raistlin in tono gentile.
Il mago parlava sempre con gentilezza e voce sommessa, talvolta senza neppure levare la voce al di sopra d’un sussurro. Dalamar aveva visto spaventevoli tempeste infuriare in quella stanza. La luce avvampante e lo schianto del tuono l’avevano lasciato parzialmente sordo per diversi giorni di seguito. Era stato presente quando il mago aveva evocato creature dai piani superni e dagli inferi perché eseguissero i suoi ordini; le loro grida, i gemiti e le imprecazioni risuonavano ancora nei suoi sogni durante la notte. Eppure, durante tutto questo, non aveva mai sentito una sola volta Raistlin levare la voce. Quel sussurro sommesso e sibilante penetrava sempre il caos e lo portava sotto controllo.
«Shalafi, nel mondo esterno stanno accadendo fatti che richiedono la tua attenzione.»
«Davvero?» Raistlin abbassò di nuovo lo sguardo, assorto nel suo lavoro. «Dama Crysania...»
Raistlin sollevò subito la testa incappucciata. Dalamar, davanti a quel movimento che gli ricordava un serpente pronto ad avventarsi sulla preda, e ;davanti a quello sguardo intenso, fece involontariamente un passo indietro. «Cosa? Parla!» Raistlin sibilò le parole.
«Dovresti... dovresti venire, Shalafi, » balbettò Dalamar. «I Vivi riferiscono...» L’elfo scuro aveva parlato all’aria. Raistlin era scomparso. Emettendo un tremulo sospiro, l’elfo scuro pronunciò le parole che l’avrebbero condotto all’istante al fianco del suo maestro.
Molto al di sotto della Torre della Grande Stregoneria, nelle profondità del terreno, c’era una piccola camera rotonda scavata per forza di magia nella roccia che sosteneva la Torre. In origine quella camera non aveva fatto parte della Torre. Conosciuta come la Camera della Visione, era una creazione di Raistlin.
Giusto al centro della piccola stanza, nella gelida pietra, c’era una pozza perfettamente rotonda di acqua scura e immobile. Dal centro di quello stagno strano e innaturale schizzava un getto di fiamme azzurre. Levandosi fino al soffitto della camera, bruciava in eterno, giorno e notte. E intorno ad esso, in eterno, sedevano i Vivi.
Sventurate creature nate da tragici errori nelle pratiche di magia, venivano tenute in schiavitù in questa camera, al servizio del loro creatore. Qui trascorrevano la loro vita torturata, contorcendosi come masse sanguinolente simili a larve intorno alla pozza fiammeggiante. I loro corpi umidi e luccicanti formavano un orribile tappeto sul pavimento le cui pietre, rese lisce dalle loro trasudazioni, diventavano visibili soltanto quando essi si scostavano per fare spazio al loro creatore.
Eppure, malgrado la loro esistenza di continuo e contorto dolore, i Vivi non pronunciavano nessuna parola per lamentarsi. Stavano assai meglio loro che quelli che vagavano per la Torre, conosciuti come i Morti...
Raistlin si materializzò all’interno della Casa della Visione, un’ombra scura che emerse dal buio. La fiamma azzurra sfavillava sui fili d’argento che decoravano le sue vesti, irradiandosi anche dentro il tessuto nero. Dalamar comparve accanto a lui, e i due si fecero avanti, fermandosi accanto all’acqua nera e immobile.
«Dove?» chiese Raistlin.
«Qui, M...maestro,» farfugliò uno dei Vivi, puntando un’appendice deforme.
Raistlin si portò rapidamente al suo fianco. Dalamar gli camminò accanto. Le loro vesti nere produssero un fruscio morbido e sussurrante sulle pietre viscide del pavimento. Fissando l’acqua, Raistlin fece cenno a Dalamar di fare lo stesso. L’elfo scuro guardò dentro la superficie immobile, e per un istante vi vide soltanto il riflesso del getto fiammeggiante azzurro. Poi la fiamma e l’acqua si fusero, quindi si dischiusero e Dalamar si trovò in una foresta. Un grosso maschio umano, abbigliato con un’armatura del tutto sproporzionata alla sua mole, stava fissando il corpo di una giovane femmina umana abbigliata di bianco. Un kender era inginocchiato accanto al corpo della donna, tenendole la mano nella sua. Dalamar sentì l’omone parlare con la stessa chiarezza come se lui si fosse trovato al suo fianco.
«È morta...»
«Non... non ne sono sicuro, Caramon. Penso...»
«Ho visto la morte tanto spesso quanto basta, credimi. È morta. Ed è tutta colpa mia... colpa mia...»
«Caramon, imbecille!» Raistlin ringhiò un’imprecazione. «Cos’è successo? Cos’è andato storto?»
Mentre il mago parlava, Dalamar vide il kender sollevare rapidamente lo sguardo.
«Hai detto qualcosa?» chiese il kender al grosso umano, che stava scavando il terreno.
«No, è stato il vento.»
«Cosa stai facendo!»
«Sto scavando una tomba. Dobbiamo seppellirla.»
«Seppellirla?» Raistlin se ne uscì in una breve, amara risata. «Oh, naturalmente, idiota pasticcione! È tutto quello che riesci a pensare di fare!» Il mago era furente. «Seppellirla! Devo sapere cos’è accaduto!». Si rivolse al Vivo. «Cos’hai visto?»
«L... loro ac... campati tra gli alberi, M... maestro.» La bava gocciolava dalla bocca. «D... draco uc... ucciso...»
«Draconici?» ripetè Raistlin con stupore. «Vicino a Solace? Da dove sono venuti?»
«N... non so! N... non so!» Il Vivo si ritrasse terrorizzato. «I... io...»
«Sst,» lo ammonì Dalamar, riportando l’attenzione del suo maestro sulla pozza dove il kender stava discutendo.
«Caramon, non puoi seppellirla! E...»
«Non abbiamo altra scelta. So che non è corretto ma Paladine farà in modo che la sua anima viaggi in pace. Non possiamo rischiare di erigere una pira funeraria, non con questi draconici intorno...»
«Ma Caramon, credo proprio che dovresti venire a darle un’occhiata! Non c’è un solo segno sul suo corpo!»
«Non voglio guardarla! È morta! È stata colpa mia! La seppelliremo qui, poi io tornerò a Solace, tornerò per scavare la mia stessa tomba...»
«Caramon!»
«Vai a cercare qualche fiore e lasciami in pace!»
Dalamar vide l’omone strappare dal suolo le zolle umide a mani nude, scagliandole da parte mentre le lacrime gli scorrevano giù per il viso. Il kender rimase accanto al corpo della donna, irresoluto. Il suo volto era coperto di sangue disseccato, la sua espressione era un misto di dolore e di dubbio.
«Nessun segno, nessuna ferita, i draconici sbucati dal nulla...». Raistlin corrugò la fronte pensieroso. Poi, d’un tratto s’inginocchiò accanto al Vivo, che cercò di sgusciare via da lui. «Parla. Dimmi tutto. Devo sapere. Perché non sono stato chiamato prima?»
«I... il d... draco uccide, M... maestro,» farfugliò il Vivo in preda all’angoscia. M... ma an... anche l’o...omone h... ha uc... ucciso. P... poi gr... grande buio v... venuto! O... occhi di f... fuoco. I... io p... paura, ca... cadere in ac... acqua...»
«Ho trovato il Vivo ai bordi dell’acqua,» riferì Dalamar con freddezza, «quando uno degli altri mi ha detto che stava accadendo qualcosa di strano. Ho guardato nell’acqua. Conoscendo il tuo interesse per questa femmina umana, ho pensato che tu...»
«Giusto,» mormorò Raistlin, interrompendo con impazienza la spiegazione di Dalamar. Gli occhi dorati del mago si restrinsero, le sue labbra sottili si stirarono. Percependo la sua collera, il povero Vivo trascinò il proprio corpo quanto più lontano possibile dal mago. Dalamar trattenne il fiato. Ma la collera di Raistlin non era diretta contro di loro.
«“Grande buio, occhi di fuoco”... Lord Soth! Così, sorella mia, mi tradisci,» bisbigliò Raistlin.
«Sento l’odore della tua paura, Kitiara! Vile! Codarda! Avrei potuto farti regina di questo mondo. Avrei potuto darti una ricchezza incalcolabile, un potere sconfinato. Ma no. Dopotutto, sei soltanto un verme!»
Rimase là in silenzio, riflettendo, fissando la pozza immobile. Quando riprese a parlare, la sua voce era sommessa, letale. «Non dimenticherò mai questo, mia cara sorella. Sei fortunata che io abbia faccende più urgenti e incalzanti di cui occuparmi, altrimenti ti troveresti già nell’identica dimora degli inferi insieme al lord fantasma che ti serve!» Raistlin serrò il pugno sottile, poi, con un chiaro sforzo, si costrinse a rilassarsi. «Ma adesso, cosa devo fare in proposito? Devo fare qualcosa prima che mio fratello pianti il chierico in un’aiuola!»
«Shalafi, cos’è successo?» chiese Dalamar, osando molto. «Questa donna... cos’è per te? Non capisco.»
Raistlin lanciò un’occhiata irritata a Dalamar e parve sul punto di rampognarlo aspramente per la sua impertinenza. Poi il mago esitò. I suoi occhi dorati balenarono all’improvviso d’un lampo di luce interiore che fece retrocedere Dalamar per la paura, prima di recuperare la sua espressione fissa e impassibile.
«Naturalmente, apprendista, saprai ogni cosa. Ma prima...»
Raistlin ristette. Un’altra figura era entrata in scena nella foresta che stavano osservando con tanta attenzione. Era una nana dei burroni, infagottata in strati e strati d’indumenti cenciosi e multicolori, che si trascinava dietro una borsa gigantesca.
«Bupu!» bisbigliò Raistlin, il suo raro sorriso gli sfiorò le labbra. «Eccellente. Ancora una volta mi servirai, piccolina.»
Allungando una mano, Raistlin toccò l’acqua immobile. I Vivi intorno alla pozza urlarono di orrore, poiché avevano visto molti della loro specie cadere dentro quell’acqua scura, per poi accartocciarsi e rimpicciolire e diventare null’altro che un filo di fumo che si levava in aria con un grido stridulo. Ma Raistlin si limitò a mormorare delle parole sommesse e poi ritirò la mano. Le sue dita erano bianche come il marmo, uno spasimo di dolore gli attraversò il viso. Raistlin si affrettò a infilare la mano dentro una tasca della sua veste.
«Osserva,» bisbigliò esultante.
Dalamar fissò l’acqua, osservando la nana dei burroni che si avvicinava alla forma immobile e senza vita della donna.
«Me aiutare.»
«No, Bupu!»
«Tu non piacere mia magia? io andare casa. Ma prima me aiutare graziosa dama.»
«Nel nome dell’Abisso, che cosa...» borbottò Dalamar.
«Osserva», gli intimò Raistlin.
Dalamar osservò la manina sudicia della nana dei burroni affondare nella sacca al suo fianco. Dopo aver frugato alla cieca per un paio di minuti, ne emerse con un oggetto ripugnante: una lucertola morta e irrigidita con una cinghia di cuoio intorno al collo. Bupu si avvicinò alla donna e quando il kender cercò di fermarla gli puntò in faccia il piccolo pugno a mo’ di ammonimento. Con un sospiro e un’occhiata in tralice a Caramon, che stava scavando furiosamente, con la faccia ridotta a una maschera di dolore e di sangue, il kender fece un passo indietro. Bupu si lasciò cadere accanto alla forma senza vita della donna e appoggiò con cura la lucertola morta sul suo petto.
Il petto della donna si sollevò, le vesti bianche tremolarono. Cominciò a respirare, profondamente e pacificamente.
Il kender lanciò un grido.
«Caramon! Bupu l’ha guarita! Evviva! Guarda!»
«Cosa dia...» L’omone smise di scavare e si avvicinò incespicando, fissando la nana dei burroni con stupore e paura.
«Lucertola guarisce, » disse Bupu trionfante. «Funziona tutte volte.»
«Sì, piccolina,» disse Raistlin, sempre sorridendo. «Funziona bene anche per la tosse, a quanto ricordo.» Agitò la mano sopra l’acqua immobile. La voce del mago divenne un canto suadente, quasi una ninnananna: «E adesso dormi, fratello mio, prima di fare qualche altra stupidaggine. Dormi, kender, dormi, piccola Bupu. E dormi anche tu, Dama Crysania, nel regno in cui Paladine protegge.»
Sempre salmodiando, Raistlin fece un cenno con la mano. «E adesso vieni avanti, Foresta di Wayreth. Striscia su di loro mentre dormono. Canta loro la magica canzone. Attirali lungo i tuoi segreti sentieri.»
L’Incantesimo era finito. Alzandosi in piedi, Raistlin si rivolse a Dalamar. «E vieni anche tu, apprendista,». C’era una nota di sottilissimo sarcasmo in quella voce, che fece rabbrividire l’elfo scuro, «vieni nel mio studio. È ora che noi due parliamo.».
Capitolo nono.
Dalamar sedeva nello studio del mago, sulla stessa sedia che Kitiara aveva occupato durante la sua visita. L’elfo scuro si sentiva assai meno a proprio agio, assai meno sicuro di quanto lo era stata Kitiara. Eppure le sue paure erano ben controllate. All’esterno appariva rilassato, composto. Un rossore accentuato sui suoi pallidi lineamenti da elfo poteva venir attribuito, forse, alla sua eccitazione per essere stato preso in confidenza dal suo maestro.
Dalamar era stato spesso nello studio, anche se non in presenza del suo maestro. Raistlin passava lì le sue serate da solo, a leggere e a studiare i tomi che rivestivano le pareti. Allora nessuno osava disturbarlo. Dalamar entrava nello studio durante le ore diurne, e anche allora soltanto quando Raistlin era impegnato altrove. In quei periodi all’elfo scuro apprendista era permesso, anzi richiesto, di studiare i libri degli incantesimi, alcuni soltanto, s’intende. Gli era stato proibito di aprire, o anche soltanto di toccare, i libri con la rilegatura azzurro-notte.
Dalamar una volta l’aveva fatto, naturalmente. La rilegatura gli aveva dato una sensazione di freddo intenso, così freddo da bruciargli la pelle. Ignorando il dolore, era riuscito ad aprire la copertina, ma dopo una sola occhiata si era affrettato precipitosamente a chiuderla. Le parole all’interno erano incomprensibili, non era riuscito a trarne alcun senso. E aveva percepito l’incantesimo protettivo lanciato su di esse. Chiunque le avesse guardate troppo a lungo senza la chiave adatta a tradurle sarebbe impazzito.
Vedendo la mano ferita di Dalamar, Raistlin gli aveva chiesto cos’era successo. L’elfo scuro aveva risposto, esibendo tutto il suo sangue freddo, di aver rovesciato dell’acido mentre stava mescolando i componenti di un incantesimo. L’arcimago aveva sorriso senza dir nulla. Non ce n’era stato bisogno. Entrambi avevano capito.
Ma adesso Dalamar si trovava nello studio dietro esplicito invito di Raistlin, e stava seduto là in una posizione più o meno alla pari con il suo maestro. Ancora una volta Dalamar provava l’antica paura corretta dall’ intossicazione dell’eccitazione.
Raistlin sedeva davanti a lui dietro al tavolo di legno scolpito, con una mano appoggiata su un grosso libro d’incantesimi rilegato in azzurro-notte. Le dita dell’arcimago accarezzavano distrattamente il libro, passando sopra le rune d’argento della sua copertina. Gli occhi di Raistlin fissavano Dalamar. L’elfo scuro non si mosse né si spostò sotto quello sguardo intenso e penetrante.
«Eri molto giovane quando hai affrontato la Prova,» disse Raistlin all’improvviso con voce sommessa.
Dalamar sbatté le palpebre. Non era questo che si era aspettato.
«Non giovane quanto te, Shalafi,» rispose l’elfo scuro. «Io sono sui novanta, il che corrisponde a circa venticinque dei vostri anni umani. Tu, credo, ne avevi soltanto ventuno quando hai affrontato la Prova.»
«Sì,» mormorò Raistlin, e un’ombra passò sul volto dorato del mago. «Avevo... ventun anni.»
Dalamar vide la mano appoggiata sul libro degli incantesimi serrarsi come per un improvviso, rapido dolore; vide lampeggiare quegli occhi dorati. Il giovane apprendista non fu sorpreso da quest’esibizione di emozione. Ogni mago che volesse praticare le arti magiche ad un livello elevato doveva affrontare la Prova. Là, nella Torre della Grande Stregoneria di Wayreth, veniva condotta dai capi di tutte e tre le Vesti. Molto tempo addietro i fruitori di magia di Krynn si erano resi conto di ciò che invece era sfuggito ai chierici: se si voleva mantenere l’equilibrio nel mondo, il pendolo doveva oscillare liberamente avanti e indietro fra tutti e tre, il Bene, il Male e la Neutralità. Bastava che uno dei tre diventasse troppo potente, uno qualunque fra essi, e il mondo avrebbe cominciato a pendere verso la distruzione.
La Prova era brutale. Ai livelli più alti della magia, in cui si otteneva il vero potere, non c’era posto per gli inetti e i confusionari. La Prova era concepita per sbarazzarsi di questi, e in modo permanente, poiché la morte era la punizione per l’insuccesso. Dalamar aveva ancora incubi causati dalla sua Prova, perciò poteva capire benissimo la reazione di Raistlin.
«L’ho superata,» bisbigliò Raistlin, riandando con la memoria a quel tempo. «Ma quando uscì da quel luogo terribile, ero come mi vedi adesso. La pelle aveva questa tinta dorata, i capelli erano bianchi e gli occhi...». Tornò al presente, per fissare Dalamar.
«Sai cosa vedo con questi occhi a clessidra?»
«No, Shalafi.»
«Vedo come il tempo influenza tutte le cose,» proseguì Raistlin. «La carne umana avvizzisce davanti a questi occhi, i fiori appassiscono e muoiono, le rocce stesse si sgretolano mentre le guardo. Davanti al mio sguardo è sempre inverno. Perfino tu, Dalamar,» gli occhi di Raistlin si appuntarono sul giovane apprendista trattenendolo nella loro orribile fissità,
«perfino la carne degli elfi che invecchia così lentamente e per cui lo scorrere degli anni è come gli acquazzoni di primavera, perfino il tuo giovane viso, Dalamar, porta, ben visibile per me, il marchio della morte!»
Dalamar rabbrividì, e questa volta non riuscì a nascondere la sua emozione. Involontariamente si rannicchiò tra i cuscini della sua seggiola. Un incantesimo protettivo gli venne subito alla mente, così come, senza che lui lo volesse, un incantesimo concepito per far del male, non per difendere.
Pazzo si disse, disprezzandosi, recuperando rapidamente il controllo: quale mio misero incantesimo potrebbe mai ucciderlo?
«È vero, è vero,» mormorò Raistlin, rispondendo, come faceva spesso, ai pensieri di Dalamar.
«Non esiste nessuno su Krynn che abbia il potere di farmi del male. Certamente non tu, apprendista. Ma sei ardimentoso. Hai coraggio. Spesso ti sei trovato al mio fianco, nel laboratorio, e hai affrontato coloro che ho trascinato fuori dai piani della loro esistenza. Tu sapevi che se avessi respirato nel momento sbagliato ci avrebbero strappato dal corpo il cuore ancora palpitante e l’avrebbero divorato mentre noi ci contorcevamo davanti a loro in preda ai tormenti.»
«Per me è stato un privilegio,» mormorò Dalamar.
«Sì,» rispose Raistlin con fare assente, i pensieri perduti altrove. Poi sollevò un sopracciglio. «E sapevi, vero, che se un fatto del genere fosse accaduto, avrei salvato me stesso, ma non te?»
«Naturalmente, Shalafi,» rispose Dalamar con voce ferma. «Capisco e accetto il rischio.» Gli occhi dell’elfo luccicarono. Dimenticate le sue paure, si sporse in avanti con foga dalla sua seggiola. «No, Shalafi, io invito i rischi! Sacrificherei qualunque cosa pur di...»
«La magia,» terminò Raistlin.
«Sì! Per la magia!» gridò Dalamar.
«È per il potere che conferisce.» Raistlin annuì. «Sei ambizioso. Ma, mi chiedo, ambizioso fino a che punto. Cerchi forse di dominare i tuoi consanguinei? Oppure un regno, in qualche luogo, tenendo soggiogato un monarca mentre tu ti godi la ricchezza delle sue terre? O forse un’alleanza con qualche tenebroso signore, come è stato fatto nei giorni dei draghi non molto tempo addietro. Mia sorella Kitiara, per esempio, ti ha trovato molto attraente. Le piacerebbe averti intorno. In particolare, se hai qualche arte magica che pratichi in camera da letto...»
«Shalafi, non dissacrerei...»
Raistlin agitò una mano. «Una battuta, apprendista. Ma hai capito quello che voglio dire. Qualcuno di questi intenti riflette i tuoi sogni?»
«Be’, certo, Shalafi.» Dalamar esitò, confuso. Dove portava tutto questo? A qualche informazione che poteva usare e trasmettere, così sperava, ma quanto di se stesso doveva rivelare? «Io...»
Raistlin lo interruppe. «Sì, vedo che sono arrivato vicino al bersaglio. Ho scoperto i vertici della tua ambizione. Non hai mai cercato d’indovinare i miei?»
Dalamar sentì un brivido di gioia percorrergli il corpo. Era questo che era stato mandato a scoprire.
Il giovane mago rispose lentamente: «Me lo sono chiesto spesso, Shalafi. Sei così potente.»
Dalamar indicò la finestra, oltre la quale erano visibili le luci di Palanthas che risplendevano nella notte. «Questa città, questa terra di Solamnia, questo continente di Ansalon potrebbero essere tuoi.»
«Il mondo potrebbe essere mio!» Raistlin sorrise, le labbra sottili si dischiusero leggermente.
«Abbiamo visto le terre al di là del mare, non è vero, apprendista? Quando guardiamo nell’acqua fiammeggiante, possiamo vederle, e vedere coloro che vi abitano. Controllarle sarebbe la semplicità stessa...»
Raistlin si alzò in piedi. Avvicinatosi alla finestra, fissò la città scintillante che si stendeva davanti a lui. Sentendo l’eccitazione del suo maestro, Dalamar lasciò la seggiola e lo seguì.
«Potrei darti quel regno, Dalamar,» disse Raistlin con voce sommessa. Scostò la tenda con la mano, si attardò con lo sguardo sulle luci che brillavano con più calore delle stelle in alto. «Potrei darti non soltanto la sovranità sui tuoi miserabili consanguinei, ma il controllo su tutti gli elfi di Krynn.»
Raistlin scrollò le spalle. «Potrei darti mia sorella.»
Voltando le spalle alla finestra, Raistlin fissò Dalamar, il quale lo osservava con ansia.
«Ma non m’importa nulla di tutto questo.» Raistlin fece un gesto di ripulsa lasciando cadere la tenda. «Nulla di nulla. La mia ambizione va oltre.»
«Ma, Shalafi, non rimane molto se rifiuti il mondo.» Dalamar esitò, senza capire. «A meno che tu non abbia visto mondi al di là di questo, che sono nascosti ai miei occhi...»
«Mondi al di là?» Raistlin rifletté. «Un pensiero interessante. Forse un giorno dovrei considerare questa possibilità. Ma no, non è questo che intendevo.» Il mago fece una pausa e con un movimento della mano fece segno a Dalamar di avvicinarsi di più.
«Hai visto la grande porta proprio in fondo al laboratorio? La porta di acciaio con rune d’argento e d’oro incise sopra? La porta senza una serratura?»
«Sì... Shalafi,» rispose Dalamar sentendosi percorrere da un brivido che neppure lo strano calore del corpo di Raistlin così vicino a lui poteva scacciare.
«Sai dove conduce quella porta?»
«Sì... Shalafi.» Un sussurro.
«E sai perché non è aperta?»
«Non si può aprirla, Shalafi. Soltanto qualcuno che possieda una grande e potente magia, insieme a qualcuno dotato di veri poteri sacri, potrebbero aprirla...». Dalamar ristette, la gola gli si chiuse per la paura, soffocandolo.
«Sì,» mormorò Raistlin. «Tu capisci. “Qualcuno che abbia veri poteri sacri”. Adesso sai perché ho bisogno di Lei! Adesso capisci le vette, e gli abissi, della mia ambizione,»
«Questa è follia!» Dalamar rantolò, poi abbassò gli occhi per la vergogna. «Perdonami, Shalafi, non intendevo mancarti di rispetto.»
«No, e hai ragione. È follia, con i miei limitati poteri.» Una punta di amarezza tinse la voce del mago. «È per questo che sto per intraprendere un viaggio.»
«Un viaggio?» Dalamar sollevò lo sguardo. «Dove?»
«Non dove, quando,» lo corresse Raistlin. «Mi hai sentito parlare di Fistandantilus?»
«Molte volte, Shalafi,» disse Dalamar, in tono quasi riverente. «Il più grande del nostro Ordine, Quelli sono i libri dei suoi incantesimi, quelli con la rilegatura azzurro-notte.»
«Inadeguati,» borbottò Raistlin, liquidando l’intera biblioteca con un gesto. «Li ho letti tutti, molte volte, durante questi ultimi anni, sin da quando ho ottenuto la chiave dei loro segreti dalla Regina delle Tenebre in persona. Ma servono soltanto a frustrarmi!». Raistlin serrò la mano sottile. «Ho letto questi libri d’incantesimi e vi trovo delle grandi lacune, mancano interi volumi! Forse sono andati distrutti durante il Cataclisma, o più tardi, nel corso delle Guerre di Porta dei Nani che causarono la rovina di Fistandantilus. Questi volumi mancanti, queste sue conoscenze che sono andate perdute, mi daranno il potere di cui ho bisogno!»
«E così, il tuo viaggio ti porterà...» Dalamar ristette incredulo.
«Indietro nel tempo,» terminò Raistlin con calma. «Ai giorni immediatamente precedenti al Cataclisma, quando Fistandantilus era al culmine del suo potere.»
Dalamar si sentiva stordito, i suoi pensieri erano un turbine confuso. Loro cosa avrebbero detto?
Fra tutte le ipotesi fatte non avevano certo previsto questa!
«Calmati, mio apprendista.» La voce sommessa di Raistlin parve giungere da molto lontano. «Ti sei spaventato. Un po’ di vino?»
Il mago andò a un tavolo. Sollevando una caraffa versò un bicchierino d’un liquido rosso sangue e lo porse all’elfo scuro. Dalamar lo prese con gratitudine, sorpreso nel constatare che la mano gli tremava. Raistlin versò un bicchierino anche per sé:
«Non bevo spesso questo vino forte, ma a quanto pare stanotte faremo bene a festeggiare. Un brindisi a... come hai detto... a qualcuno che abbia veri poteri sacri. A Dama Crysania, dunque!»
Raistlin bevve il vino a piccoli sorsi. Dalamar mandò giù il suo tutto d’un fiato. Quel liquido ardente lo morse nella gola. Tossì.
«Shalafi, se il Vivo ha riferito correttamente, Lord Soth ha lanciato un incantesimo su Dama Crysania, eppure è ancora viva. Le hai ridato la vita?»
Raistlin scosse la testa. «No, le ho dato soltanto dei segni visibili di vita, cosicché il mio caro fratello non la seppellisse. Non posso essere sicuro di ciò che è accaduto, ma non è difficile indovinarlo. Vedendo il cavaliere della morte davanti a lei, e conoscendo il proprio destino, la Reverenda Figlia ha combattuto l’incantesimo con la sola arma che aveva, ed era anche un’arma potente, il sacro medaglione di Paladine. Il dio l’ha protetta, trasportando la sua anima nel regno in cui dimorano gli dei, lasciando il suo corpo sul terreno come un guscio vuoto. Non c’è nessuno, neppure io, che possa rimettere insieme la sua anima e il suo corpo. Soltanto un grande chierico di Paladine ha quel potere.»
«Elistan?»
«Bah, quell’uomo è malato, morente...»
«Allora l’hai perduta!»
«No,» replicò Raistlin con gentilezza. «Non riesci a capire, apprendista. A causa della disattenzione ho perduto il controllo, ma l’ho presto riguadagnato. Non soltanto questo: farò in modo che ciò vada a mio vantaggio. Già adesso si stanno avvicinando alla Torre della Grande Stregoneria. Crysania andava là per cercare l’aiuto dei maghi. Quando arriverà troverà quell’aiuto e anche mio fratello lo troverà.»
«Vuoi che loro la aiutino?» chiese Dalamar, confuso. «Crysania trama per distruggerti!»
Raistlin sorseggiò in silenzio il vino, osservando intensamente il giovane apprendista. «Pensaci, Dalamar,» disse con voce sommessa, «pensaci, e arriverai a capire. Ma,» il mago mise giù il bicchiere vuoto, «ti ho trattenuto anche troppo a lungo.»
Dalamar lanciò un’occhiata alla finestra. La luna rossa, Lunitari, cominciava a scomparire alla vista dietro agli orli neri e frastagliati delle montagne. La notte si stava avvicinando alla sua metà.
«Devi fare il tuo viaggio ed essere di ritorno prima che io parta domattina,» continuò Raistlin.
«Senza dubbio ci saranno alcune istruzioni dell’ultimo momento. Oltre a molte cose che devo lasciare affidate alle tue cure. Naturalmente, qui l’incaricato sarai tu durante la mia assenza.»
Dalamar annuì, poi corrugò la fronte. «Hai parlato del mio viaggio, Shalafi! Io non devo andare da nessuna parte...». L’elfo scuro ristette, soffocando nel ricordare che in verità doveva andare da qualche parte, che doveva fare un rapporto.
Raistlin guardò il giovane elfo in silenzio, un’espressione d’inorridita constatazione affiorò sul volto di Dalamar, riflessa negli occhi simili a specchi del mago. Poi, con lentezza, Raistlin avanzò verso il giovane apprendista, con le vesti nere che gli frusciavano gentilmente intorno alle caviglie. In preda al terrore Dalamar non riuscì a muoversi, gli incantesimi protettivi gli sfuggirono di mano. La sua mente non riuscì a pensare a niente, soltanto a due dorati occhi piatti, privi di emozioni.
Lentamente Raistlin sollevò la mano e l’appoggiò delicatamente sul petto di Dalamar, toccando le vesti nere del giovane con la punta delle cinque dita.
Il dolore fu atroce, Dalamar si sbiancò in volto, i suoi occhi si spalancarono, e rantolò per la sofferenza. Ma l’elfo scuro non potè sottrarsi a quel terribile tocco. Incatenato dallo sguardo di Raistlin, Dalamar non riuscì neppure a urlare.
«Riferisci loro in modo accurato sia quello che ti ho detto,» bisbigliò Raistlin, «sia ciò che puoi aver indovinato. E porgi al grande Par-Salian i miei saluti... apprendista!»
Il mago ritirò la mano.
Dalamar crollò sul pavimento, gemendo e stringendosi il petto. Raistlin gli girò intorno senza rivolgergli neppure un’occhiata. L’elfo scuro lo sentì uscire dalla stanza, sentì il morbido frusciare delle vesti nere, la porta che si apriva e tornava a chiudersi.
In un parossismo di dolore, Dalamar si lacerò le vesti. Cinque scie di sangue rosse e luccicanti gli colavano lungo il petto, inzuppando il tessuto nero, sgorgando da cinque fori aperti là dove la sua pelle era stata bruciata.
Capitolo decimo.
«Caramon! Alzati! Svegliati!»
«No. Sono nella mia tomba. Fa caldo qui sotto il terreno, caldo e sicuro. Non puoi svegliarmi, non puoi raggiungermi. Sono nascosto nell’argilla. Non puoi trovarmi.»
«Caramon, questo devi vederlo! Svegliati!»
Una mano spinse da parte l’oscurità, tirandolo.
No, Tika, vai via! Una volta mi riportasti alla vita, al dolore, alla sofferenza. Avresti dovuto lasciarmi nel dolce regno della tenebra sotto il mare di Sangue di Istar. Ma adesso, finalmente, ho trovato la pace. Ho scavato la mia tomba e mi sono sepolto.
«Ehi, Caramon, farai meglio a svegliarti e a dare un’occhiata a questo!»
Quelle parole! Erano familiari. Naturalmente, le ho dette io. Le ho dette a Raistlin molto tempo fa, quando lui ed io siamo venuti per la prima volta in questa foresta. Allora, come posso sentirle? A meno che io non sia Raistlin... Ah... è...
C’era una mano sulla sua palpebra! Due dita la stavano aprendo! A quel tocco la paura corse pizzicante lungo il flusso sanguigno di Caramon, causandogli un sussulto al cuore.
«Arghhhh!» tuonò Caramon, allarmato, cercando di strisciare dentro il terreno quando quell’occhio aperto a forza vide una faccia gigantesca china sopra di lui: la faccia di una nana dei burroni!
«Lui sveglio,» riferì Bupu. «Qui,» disse a Tasslehoff. «Tu tieni quest’occhio, io apro altro.»
«No!» si affrettò a gridare Tas. Trascinando via Bupu dal guerriero, la spinse dietro di sé. «Uh... vai a prendere un po’ d’acqua.»
«Buona idea,» osservò Bupu, e corse via.
«Va... va tutto bene, Caramon,» disse Tas, inginocchiandosi accanto all’omone e battendogli una mano sulla spalla per rassicurarlo. «Era soltanto Bupu. Mi dispiace, ma stavo... uh... guardando... be’, vedrai... e mi sono dimenticato di sorvegliarla.»
Gemendo, Caramon si coprì il viso con la mano. Con l’aiuto di Tas, si dibatté fino ad alzarsi in piedi. «Ho sognato che ero morto,» disse con voce greve. «Poi ho visto quella faccia, e ho saputo che era tutto finito. Mi trovavo nell’Abisso.»
«Potresti ben desiderare di esserci,» replicò Tas, cupo.
Nell’udire quel tono di voce insolitamente serio, Caramon levò lo sguardo sul kender. «Perché? Cosa vuoi dire?» chiese con asprezza.
Invece di rispondere, Tas gli domandò: «Come ti senti?»
Caramon corrugò la fronte. «Sono sobrio, se è questo che vuoi sapere,» borbottò l’omone. «E per gli dei, vorrei non esserlo.»
Tasslehoff lo fissò pensieroso per un momento poi, lentamente, affondò la mano in una borsa e tirò fuori una piccola bottiglia chiusa in una guaina di cuoio. «Ecco qua, Caramon,» disse con calma,
«se pensi davvero di averne bisogno.»
Gli occhi dell’omone lampeggiarono. Tese con avidità la mano tremante e afferrò la bottiglia.
Stappatala, l’annusò, sorrise, e la sollevò alle labbra.
«Smettila di fissarmi!» ordinò a Tas, imbronciato.
«Mi spia... spiace.» Tas arrossì. Si alzò in piedi. «Va... vado ad occuparmi di Dama Crysania...»
«Crysania...» Caramon abbassò la fiasca, intatta. Si sfregò gli occhi gonfi. «Già. Mi sono dimenticato di lei. Buona idea di occuparti della Dama... Prendila e vattene da qui. Tu e quella tua appestata nana dei burroni! Vattene e lasciami solo!». Sollevando di nuovo la bottiglia alle labbra, Caramon tracannò una lunga sorsata. Ebbe un accesso di tosse, abbassò la bottiglia, e si asciugò la bocca col dorso della mano. «Vai,» ripetè, fissando Tas con occhio smorto, «vattene da qui! Andate via tutti! . Lasciatemi solo!»
«Mi spiace, Caramon,» disse Tas con calma. «Vorrei davvero che potessimo. Ma non possiamo.»
«Perché?» ringhiò Caramon.
Tas tirò un profondo sospiro. «Perché, se ricordo le storie che Raistlin mi ha raccontato, credo che la Foresta di Wayreth ci abbia trovato.»
Per un attimo, Caramon fissò Tas con gli occhi iniettati di sangue.
«È impossibile,» disse dopo un momento, le sue parole erano poco più di un bisbiglio. «Siamo a molte miglia da lì! Io... io e Raist... abbiamo impiegato mesi per trovare la Foresta! E la Torre è molto più a sud rispetto a questo luogo! Si trova bene al di là di Qualinesti, stando alla tua mappa.»
Caramon guardò Tas con espressione minacciosa. «Non sarà la stessa mappa che mostrava Tharsis in riva al mare, vero?»
«Potrebbe essere,» disse Tas, evasivo, affrettandosi ad arrotolare la mappa e nascondendola dietro la schiena. «Ne ho così tante...». Cambiò argomento in fretta e furia. «Ma Raistlin ha detto che era una foresta magica, perciò immagino che possa essere stata lei a trovarci, se ne aveva , la predisposizione.»
«È una foresta magica,» mormorò Caramon, con voce profonda e tremante. «È un luogo di orrori.»
Chiuse gli occhi e scosse la testa, poi, all’improvviso, sollevò lo sguardo, la sua faccia era un concentrato di astuzia. «È un trucco, non è vero? Un trucco per impedirmi di bere! Be’, non funzionerà...»
«Non è un trucco, Caramon.» Tas sospirò. Poi puntò un dito. «Guarda laggiù. È proprio come me l’ha descritta Raistlin, un giorno.»
Caramon voltò la testa e la vide, e rabbrividì, sia per la foresta in sé, J sia per gli amari ricordi di suo fratello che lo spettacolo fece riemergere in lui.
La radura nella quale erano accampati era un piccolo spiazzo erboso a una certa distanza dal sentiero principale. Era circondato da aceri, pini, castagni e perfino da qualche pioppo tremulo. Gli alberi stavano giusto cominciando a germogliare. Caramon li aveva guardati mentre scavava la tomba di Crysania. I rami scintillavano alla prima luce del mattino nel debole chiarore gialloverde della primavera. I fiori selvatici sbocciavano alle loro radici, i primi fiori della primavera, crochi e violette.
Adesso, mentre Caramon si guardava intorno, vide che quegli stessi alberi erano ancora attorno a loro... su tre lati. Ma adesso, sul quarto lato, a sud, gli alberi erano cambiati.
Quegli alberi, per la maggior parte morti, erano allineati in bell’ordine fila dopo fila. Qua e là, guardando più in profondità nella Foresta, era possibile vedere un albero vivo che sorvegliava come un ufficiale i ranghi silenziosi delle sue truppe. Il sole non risplendeva fra quegli alberi. Una nebbia densa e maligna fluiva dai tronchi, oscurando la luce. Gli alberi stessi erano orrendi a guardarsi, contorti e deformi, le radici e i rami si trascinavano sul terreno come grandi artigli. I loro rami non si muovevano, nessun vento agitava le loro foglie morte. Ma, cosa più orribile di tutte, c’erano creature all’interno della foresta che si muovevano. Mentre Caramon e Tas guardavano, potevano intravedere delle ombre che svolazzavano fra i tronchi, muovendosi furtive in mezzo al sottobosco spinoso.
«Guarda, adesso,» disse Tas. Ignorando il grido allarmato di Caramon, il kender corse dritto verso la foresta. E davanti a lui gli alberi si dischiusero! Un sentiero si spalancò davanti a lui, conduceva dritto dentro il cuore buio della Foresta. «Puoi fare di meglio?» gridò Tas, meravigliato, fermandosi un momento prima di metter piede sul sentiero. «E quando arretro...»
Il kender camminò all’indietro, allontanandosi dagli alberi, e i tronchi si ricongiunsero di nuovo, chiudendo i loro ranghi e ripresentando una barriera compatta.
«Hai ragione,» disse Caramon, con voce rauca. «È la Foresta di Wayreth. È così che ci è comparsa davanti una mattina.» Abbassò la testa. «Io non volevo entrare. Cercai di fermare Raist. Ma lui non aveva paura! Gli alberi gli si aprirono davanti, e lui entrò. “Rimani accanto a me, fratello mio”, mi disse, “ed io ti proteggerò”. Quanto spesso io gli avevo detto quelle parole? Non aveva paura! Ed io l’avevo!»
D’un tratto Caramon si alzò. «Usciamo da qui!». Afferrò con mani tremanti, fremente, il sacco a pelo, rovesciò l’intero contenuto della bottiglia sopra tutta la coperta.
«Non funziona,» disse Tas, laconico. «Ci ho provato. Guarda.»
Voltando le spalle agli alberi, il kender s’incamminò verso nord. Gli alberi non si mossero. Ma, cosa inesplicabile, Tasslehoff si stava dirigendo ancora una volta verso la Foresta. Per quanto tentasse, per quanto girasse, finiva sempre per camminare dritto in mezzo a quei filari di alberi da incubo immersi nella nebbia.
Sospirando, Tas si avvicinò a Caramon. Il kender sollevò solennemente lo sguardo sugli occhi cerchiati di rosso e chiazzati di lacrime dell’omone e sollevò la sua piccola mano appoggiandola sul braccio un tempo robusto del guerriero.
«Caramon, sei il solo ad essere passato di qua! Sei il solo che conosce la strada. E c’è qualcos’altro.» Tas puntò un dito. Caramon girò la testa. «Hai chiesto di Dama Crysania. Eccola là. È viva, ma allo stesso tempo è morta. La sua pelle è come il ghiaccio. I suoi occhi sono fissi in un’espressione terribile. Respira, il cuore batte, ma sarebbe lo stesso se pompasse attraverso il suo corpo quel fluido speziato che gli elfi usano per conservare i loro morti!». Il kender esalò un profondo, tremulo respiro. «Dobbiamo trovare aiuto per lei, Caramon. Forse là dentro,» Tas indicò la Foresta, «i maghi potranno aiutarla! Io non posso trasportarla.» Sollevò le mani, impotente. «Ho bisogno di te, Caramon. Lei ha bisogno di te! Immagino si potrebbe dire che glielo devi.»
«Da quando in qua è colpa mia se si è fatta male?» borbottò Caramon, con un ringhio.
«No, non volevo dire questo,» replicò Tas, inclinando la testa e sfregandosi gli occhi con la mano.
«Non è colpa di nessuno, immagino.»
«No, è colpa mia,» dichiarò Caramon. Tas sollevò lo sguardo su di lui, sentendo una nota nella voce di Caramon che da molto, moltissimo tempo non aveva più sentito. L’omone se ne stava là, fissando la bottiglia che stringeva fra le mani. «È ora che guardi in faccia la realtà. Ho dato la colpa a tutti: Raistlin, Tika... ma per tutto il tempo ho saputo, dentro di me, di essere io il colpevole. Si manifestava nei miei sogni. Giacevo in fondo ad una tomba, e mi rendevo conto: questo è il fondo! Non posso scendere più in basso. O rimango qui e lascio che mi buttino sopra la terra, proprio come io stesso avrei seppellito Crysania, oppure mi arrampico fuori.» Caramon sospirò, un lungo, tremulo sospiro. Poi, presa un’improvvisa decisione, rimise il turacciolo alla bottiglia e la restituì a Tas.
«Ecco,» disse con voce sommessa. «Sarà una lunga arrampicata e avrò bisogno di aiuto, immagino. Ma non questo genere di aiuto.»
«Oh, Caramon!» Tas buttò le braccia intorno alla vita dell’omone fin dove poteva arrivare, abbracciandolo con forza. «Non ho mai avuto paura di questo bosco spettrale, no davvero. Ma mi stavo chiedendo come avrei fatto ad attraversarlo da solo. Per non parlare di Dama Crysania e... oh, Caramon! Sono così contento che tu sia tornato. Io...»
«Su, su,» borbottò Caramon, arrossendo per l’imbarazzo e spingendo delicatamente Tasslehoff lontano da sé. «Basta così. Non so quanto potrò essere di aiuto, ero spaventato a morte la prima volta che entrai in quel posto. Ma hai ragione. Forse potranno aiutare Crysania.» Il volto di Caramon s’indurì. «Forse potranno rispondere anche a qualche domanda che ho su Raist. Adesso, dov’è finita quella nana dei burroni? E...» abbassò lo sguardo sulla sua cintura, «... dov’è il mio pugnale?»
«Quale pugnale?» chiese Tas, voltandosi di scatto, volgendo lo sguardo verso la Foresta.
Allungando una mano, la faccia cupa, Caramon afferrò il kender. Il suo sguardo andò alla cintura di Tas. Tas seguì il suo sguardo, i suoi occhi si spalancarono per lo stupore.
«Vuoi dire quel pugnale? Cielo, mi chiedo come sia finito là... Sai,» disse pensieroso, «scommetto che l’hai lasciato cadere durante il combattimento.»
«Già,» borbottò Caramon. Ringhiando recuperò il pugnale e lo stava infilando di nuovo nel fodero quando udì un rumore alle sue spalle. Girandosi di scatto, allarmato, ricevette una secchiata d’acqua gelida in piena faccia.
«Lui sveglio adesso,» fece Bupu compiaciuta, lasciando cadere il secchio.
Mentre faceva asciugare i suoi indumenti Caramon, seduto per terra, studiava gli alberi, col volto teso per il dolore causatogli dai ricordi. Infine, tirando un sospiro, si rivestì, controllò le armi, poi si alzò in piedi. Subito Tasslehoff gli fu accanto.
«Andiamo!» disse con foga.
Caramon si fermò. «Dentro la Foresta?» chiese con voce disperata.
«Sì, certo!» esclamò Tas, sorpreso. «E dove, altrimenti?»
Caramon si accigliò, poi sospirò, quindi scosse la testa. «No, Tas,» disse burbero. «Tu rimani con Dama Crysania. Adesso, guarda,» disse in risposta all’indignato lamento di protesta del kender, «io m’inoltrerò nella Foresta per un piccolo tratto, per... ehm... controllare.»
«Pensi che ci sia qualcosa là dentro, non è vero?» Tas accusò l’omone. «È per questo che mi costringi a rimanere fuori ! Tu andrai là dentro e ci sarà un grosso combattimento. Tu l’ammazzerai e io mi perderò tutto!»
«Ne dubito,» borbottò Caramon. Lanciando un’occhiata apprensiva alla Foresta immersa nella nebbia, strinse la cintura che reggeva la spada.»
«Per lo meno potresti dirmi quello che pensi che sia,» disse Tas. «E, ascolta, Caramon, che cosa dovrò fare se ti uccidesse? Allora potrò entrare? Quanto tempo dovrò aspettare? Potrebbe ucciderti in... diciamo... cinque minuti? Dieci? Non penso che lo farà, intendiamoci,» si affrettò ad aggiungere, vedendo che Caramon spalancava gli occhi. «Ma dovrei saperlo, visto che mi lasci il comando.»
Bupu studiò, perplessa, il grosso e trasandato guerriero. «Me dico, due minuti. Ucciderà lui in due minuti. Fai scommessa?». Guardò Tas.
Caramon fissò trucemente i due, poi tirò un altro sospiro. Dopotutto, Tas non faceva altro che comportarsi secondo logica.
«Non sono sicuro cosa aspettarmi», disse il grosso guerriero. «Io... io ricordo l’ultima volta. In... incontrammo... questa cosa... uno spettro. Esso... Raist...» Caramon si zittì. «Non so che cosa dovresti fare,» riprese, un attimo dopo. Voltò loro le spalle e, semiaccasciato, cominciò lentamente a incamminarsi verso la Foresta. «Il meglio che puoi, immagino.»
«Ho bel serpente qui, me dico lui dura due minuti,» disse Bupu a Tas, frugando nella sua borsa.
«Cosa scommetti?»
«Sst,» le intimò Tas con voce sommessa, seguendo con lo sguardo Caramon che si allontanava.
Poi, scuotendo la testa, corse a sedersi accanto a Crysania, che giaceva sul terreno con gli occhi ciechi fissi al cielo. Delicatamente, Tas abbassò il cappuccio bianco sulla testa del chierico, proteggendola dai raggi del sole. Aveva cercato invano di chiudere quegli occhi fissi, ma era come se la sua carne fosse diventata di marmo.
A Caramon pareva che Raistlin gli camminasse accanto, seguendolo per ogni singolo passo all’interno della Foresta. Il guerriero riusciva quasi a sentire il sommesso sussurro delle vesti rosse di suo fratello: allora erano state rosse! Poteva sentire la voce di suo fratello, sempre gentile, sempre vellutata, ma con quella sottile sfumatura di sarcasmo che tanto irritava i loro amici. Ma ciò non aveva mai preoccupato Caramon. Aveva capito, o per lo meno pensava di aver capito.
Gli alberi della Foresta si spostarono tutt’a un tratto all’avvicinarsi di Caramon, proprio come si erano spostati all’avvicinarsi del kender.
Proprio come si erano spostati quando noi ci avvicinammo... quanti anni fa? pensò Caramon. Sette?
Sono passati soltanto sette anni? No, si rese conto con tristezza. È stata un’intera vita... un’intera vita per tutti e due.
Quando Caramon arrivò ai confini del bosco, la nebbia fluttuò fuori dal terreno raggelandogli le caviglie con un freddo che gli penetrò nella pelle come una fiamma e gli morse le ossa. Gli alberi lo fissarono contorcendo i loro rami per la sofferenza. Caramon ricordò i boschi torturati di Silvanesti, e ciò gli fece tornare alla memoria altri ricordi di suo fratello.
Caramon rimase immobile per un momento, guardando dentro la Foresta. Poteva vedere le forme oscure e ombrose che lo aspettavano. E non c’era Raistlin per tenerle a bada. Non questa volta.
«Non ho mai avuto paura di niente fino al giorno in cui sono entrato nella Foresta di Wayreth,» disse Caramon fra sé, con voce sommessa. «Quell’ultima volta ci entrai soltanto perché tu eri con me, fratello mio. Soltanto il tuo coraggio mi permise di proseguire. Adesso, come posso entrare là dentro senza di te? È magica. Io non capisco la magia! Non posso combatterla! Che speranza c’è là dentro?». Caramon si coprì gli occhi con la mano per nascondere quell’orribile spettacolo. «Non posso entrare là dentro,» disse, infelice. «È chiedermi troppo!»
Sguainata la spada dal fodero, la tese davanti a sé. La mano gli tremò al punto che quasi lasciò cadere la lama. «Ah!» esclamò con amarezza. «Visto? Non riuscirei a combattere un bambino. Questo è chiedere troppo. Non c’è speranza. Proprio nessuna speranza...»
«È facile sperare in primavera, guerriero, quando il clima è caldo e i vallenwood sono verdi. È facile sperare in estate, quando i vallenwood luccicano d’oro. È facile avere speranza in autunno quando i vallenwood sono rossi come il sangue vivo. Ma in inverno, quando l’aria è tagliente e pungente e i cieli sono grigi, forse che i vallenwood muoiono, guerriero!»
«Chi ha parlato?» gridò Caramon, guardandosi intorno freneticamente, stringendo la spada nella mano tremante.
«Che cosa fanno i vallenwood d’inverno, guerriero, quando tutto è buio e perfino il terreno è gelato? Scavano in profondità, guerriero. Mandano giù le radici, già nel suolo, giù nel cuore caldo del mondo. Laggiù, nel profondo, i vallenwood trovano il nutrimento che li aiuta a sopravvivere al buio e al freddo, così da poter germogliare di nuovo in primavera.»
«E allora?» chiese Caramon, sospettoso, arretrando di un passo e guardandosi intorno.
«Allora tu ti trovi nell’inverno più buio della tua vita, guerriero. E così devi scavare in profondità per trovare il calore e la forza che ti aiuteranno a sopravvivere al freddo pungente e alla terribile oscurità. Tu non possiedi più lo sbocciare della primavera o il vigore dell’estate. Devi trovare la forza di cui hai bisogno nel tuo cuore, nella tua anima. Allora, come i vallenwood, crescerai ancora una volta.»
«Le tue parole sono belle...» cominciò a dire Caramon, accigliandosi, diffidando di quel discorso di primavera e di alberi. Ma non riuscì a concludere la frase, il respiro gli si impigliò in gola.
La Foresta stava cambiando davanti ai suoi occhi.
Gli alberi contorti e deformi si raddrizzarono mentre li fissava, sollevando i loro rami al cielo, crescendo, crescendo, crescendo. Piegò talmente la testa all’indietro che quasi perse l’equilibrio, ma anche così non riuscì a vedere le loro cime. Erano vallenwood! Proprio come quelli di Solace prima della venuta dei draghi. Mentre guardava sgomento, vide i rami morti esplodere alla vita, vide sbocciare le verdi gemme, aprirsi, germogliare le verdi foglie luccicanti che divennero del colore dorato dell’estate, le stagioni cambiarono mentre lui tirava un tremulo sospiro.
La pestilenziale nebbia scomparve, sostituita da una dolce fragranza che esalava dai bellissimi fiori che s’intrecciavano fra le radici dei vallenwood. L’oscurità della foresta scomparve, il sole spargeva la sua luce sfolgorante sugli alberi ondeggianti. E non appena la luce del sole toccava le foglie degli alberi, i richiami degli uccelli riempivano l’aria profumata.
Foresta confortevole, e confortevoli anche
le sue dimore perfette in cui cresciamo
e non più imputridiamo, i nostri alberi sempre verdi,
i frutti maturi non cadono mai, i ruscelli immobili
e trasparenti come il vetro, come il cuore in riposo
in questo durevole giorno.
Sotto questi rami il movimento si arresta
volontariamente, il canto degli uccelli, gli amori
restano ai margini insieme a tutte le febbri,
ai fallimenti della memoria.
Oh, confortevole foresta, e confortevoli
le sue perfette dimore.
È la luce sulla luce, la luce come congedo del buio,
sotto questi rami nessuna ombra, poiché l’ombra
è dimenticata al calore della luce e al fresco odore
delle foglie, dove noi cresciamo e imputridiamo; non più,
i nostri alberi sempre verdi.
Qui c’è silenzio, dove la musica
si corica nel silenzio, qui, sull’orlo immaginato del mondo,
dove la chiarezza completa i sensi,
dove finalmente contempliamo frutti maturi
che non cadono mai, ruscelli immobili e trasparenti.
Dove le lacrime vengono asciugate dai nostri volti,
o si acquietano,
immobili come un ruscello in compiuti paesi di pace,
e il visitatore apre, permettendo il viaggio
della luce come aria, come il cuore in riposo
in questo durevole giorno.
Oh, confortevole foresta,
e confortevoli anche le sue perfette dimore,
dove cresciamo e non imputridiamo più,
i nostri alberi sempre verdi,
i frutti maturi non cadono mai,
i ruscelli immobili e trasparenti come l’aria,
come il cuore in riposo in questo durevole giorno.
Gli occhi di Caramon si riempirono di lacrime. La bellezza della canzone gli trafiggeva il cuore.
C’era speranza! Dentro la Foresta avrebbe trovato tutte le risposte. Avrebbe trovato l’aiuto che cercava.
«Caramon!» Tasslehoff stava saltando su e giù per l’eccitazione. «Caramon! È meraviglioso! Come sei riuscito a farlo? Senti gli uccelli? Andiamo. Presto.»
«Crysania...» disse Caramon, cominciando a tornare indietro. «Dovremo preparare una lettiga. Dovrai aiutarmi...» Ma prima di riuscire a finire la frase s’interruppe, fissando con stupore due figure vestite di bianco che stavano fluttuando fuori dal bosco dorato. I cappucci bianchi erano abbassati sulle teste così da celare i volti. Entrambi s’inchinarono davanti a lui con solennità, poi attraversarono la radura fino al punto in cui Crysania giaceva immersa in un sonno simile alla morte. Sollevando senza difficoltà il suo corpo immobile, la trasportarono con delicatezza fin là, dove si trovava Caramon. Giunti ai bordi della Foresta si fermarono, voltando le teste incappucciate, guardandolo come in attesa.
«Credo che aspettino che tu entri per primo, Caramon,» disse Tas, in tono allegro. «Tu vai pure avanti, io prendo Bupu.»
La nana dei burroni era rimasta al centro della radura, fissando la foresta con profondo sospetto... un sospetto che anche Caramon, guardando le due figure vestite di bianco condivise.
«Chi siete?» chiese.
Non risposero. Rimasero lì ad aspettare.
«Che importa chi sono?» esclamò Tas, agguantando Bupu con mano impaziente e trascinandola con sé, con la sacca che le sbatteva contro i calcagni.
Caramon corrugò la fronte. «Andate voi per primi.» Indicò le figure vestite di bianco, ma queste non dissero niente, e neppure si mossero.
«Perché aspettate che sia io ad entrare in quella Foresta?» Caramon fece un passo indietro. «Andate avanti,» disse con un gesto. «Portatela alla Torre. Voi potete aiutarla. Non avete bisogno di me...»
Le figure non parlarono, ma una di loro sollevò una mano, indicando.
«Su, Caramon,» lo sollecitò Tas. «Guarda, è come se ci stesse invitando!»
Non ci daranno fastidio, fratello... Siamo stati invitati! Le parole di Raistlin pronunciate sette anni prima.
«I maghi ci hanno invitato. Non mi fido di loro.» Caramon ripetè sottovoce la risposta che aveva dato allora.
D’un tratto l’aria si riempì di risate: risate strane, arcane, sussurranti. Bupu buttò le braccia intorno alle gambe di Caramon, aggrappandosi a lui in preda al terrore. Perfino Tasslehoff parve un po’ sconcertato. E poi giunse una voce, come quella che Caramon aveva sentito sette anni prima.
Questo comprende anche me, caro fratello?
Capitolo undicesimo
L’orrenda apparizione si avvicinò sempre di più. Crysania era in preda a una paura che non aveva mai conosciuto prima. Mentre si ritraeva davanti ad essa Crysania, per la prima volta nella sua vita, contemplò la morte, la propria morte. Non era quella pacifica transizione verso un regno beato nella cui esistenza aveva sempre creduto. Era un dolore selvaggio, un’oscurità ululante, giorni e notti eterni trascorsi a invidiare i vivi.
Cercò di gridare per chiedere aiuto, ma la voce le venne meno. Non c’era nessuno che potesse aiutarla, comunque. Il guerriero ubriaco giaceva in una pozza di sangue. Le sue arti guaritone l’avevano salvato, ma avrebbe dormito per lunghe ore. Il kender non poteva aiutarla. Niente poteva aiutarla contro questo...
La figura scura continuava ad avanzare, ad ogni istante era più vicina. Corri! le urlava la mente. Ma le sue gambe non le obbedivano. Non potè fare altro che arretrare strisciando, e poi il suo corpo parve muoversi di propria volontà senza che lei facesse nulla. Non riusciva neppure a distogliere lo sguardo da lui. Le tremolanti luci arancione che erano i suoi occhi la imprigionavano.
L’apparizione sollevò una mano, una mano spettrale. Lei poteva vedere attraverso quella mano gli alberi retrostanti ombreggiati dalla notte. La luna d’argento era alta nel cielo, ma non era la sua vivida luce quella che traeva riflessi dall’antica armatura di un Cavaliere di Solamnia morto da moltissimo tempo. La creatura risplendeva di una propria luce corrotta, ardendo dell’energia della sua immonda putrefazione. La mano si sollevò sempre più in alto, e Crysania sapeva che quando fosse arrivata all’altezza del suo cuore, lei sarebbe morta.
Attraverso le labbra intorpidite dalla paura, Crysania invocò un nome. «Paladine,» pregò. La paura non la lasciò, non riuscì ancora a strappar via la propria anima dallo sguardo terribile di quegli occhi fiammeggianti. Ma portò la mano alla gola.
Afferrò il medaglione e lo strappò via dal collo. Sentendo che le forze le venivano meno, Crysania sollevò la mano. Il medaglione di platino rifletté la luce di Solinari e avvampò d’un bagliore biancoazzurro. L’orrenda apparizione parlò: «Muori!».
Crysania si sentì cadere. Il suo corpo si abbatté sul terreno, ma il terreno non la fermò. Stava cadendo attraverso di esso, oppure lontano da esso, cadendo... cadendo... chiudendo gli occhi... dormendo... sognando...
Era in un fitto bosco di querce. Mani bianche le ghermivano i piedi, bocche spalancate cercavano di berle il sangue. L’oscurità era interminabile, gli alberi la deridevano, i loro rami crepitanti esplodevano in orrende risate.
«Crysania,» sussurrò una voce soave.
Chi mai pronunciava il suo nome parlando dall’ombra delle querce? Poteva vederlo, in mezzo a una radura, abbigliato di nero.
«Crysania,» ripetè la voce.
«Raistlin!» singhiozzò Crysania con gratitudine. Uscendo fuori da quel terrorizzante bosco di querce, correndo e incespicando, fuggendo da quelle mani bianche come ossa che cercavano di trascinarla giù per farle patire insieme a loro gli incessanti tormenti, Crysania sentì delle braccia sottili che la trattenevano. Sentì uno strano tocco bruciante di esili dita.
«Riposa tranquilla, Reverenda Figlia,» disse la voce in tono sommesso. Tremando fra quelle braccia Crysania chiuse gli occhi. «Le tue prove sono finite. Hai attraversato indenne il Bosco. Non avevi nulla da temere, Dama. Avevi il mio amuleto.»
«Sì,» mormorò Crysania. Si toccò la fronte con la mano, là dove le labbra di lui le avevano premuto la pelle. Poi, rendendosi conto di cosa aveva vissuto, e rendendosi anche conto di aver permesso che lui la vedesse cedere alla debolezza, Crysania spinse via le braccia del mago.
Tenendosi lontana da lui, lo guardò con freddezza.
«Perché ti circondi di cose così immonde?» volle sapere. «Perché senti il bisogno di... di simili guardiani?». Suo malgrado la voce le tremava.
Raistlin la guardò con espressione pacata. «Di quale genere di guardiani ti circondi tu, Reverenda Figlia?» le chiese. «Quali tormenti patirei se mettessi piede sul terreno sacro del Tempio?»
Crysania aprì la bocca per dargli una risposta bruciante, ma le parole le morirono sulle labbra. In verità il Tempio si trovava su un terreno consacrato a Paladine. Se qualcuno che venerava la Regina delle Tenebre avesse varcato i suoi confini, avrebbe sentito la collera di Paladine. Crysania vide sorridere Raistlin, le sue labbra sottili si contrassero. Sentì la propria pelle coprirsi di rossore. Come riusciva a farle questo? Mai nessun uomo era riuscito ad umiliarla così! Mai nessun uomo aveva sconvolto a tal punto la sua mente!
Sin dalla sera in cui aveva incontrato Raistlin nella casa di Astinus, Crysania non era stata più in grado di bandirlo dai suoi pensieri. Aveva atteso con impazienza di poter visitare la Torre quella notte... con impazienza e timore allo stesso tempo. Aveva raccontato a Elistan ogni particolare della sua conversazione con Raistlin, tutto, ma non gli aveva riferito dell’amuleto che lui le aveva dato.
Per qualche motivo non era riuscita a indursi a dire a Elistan che Raistlin l’aveva toccata, l’aveva...
No, non glielo aveva detto.
Già così Elistan era rimasto alquanto turbato. Conosceva Raistlin, l’aveva conosciuto tempo addietro, poiché il mago era stato uno dei compagni che avevano salvato il chierico dalla prigione di Verminaard a Pax Tharkas. Elistan non si era mai fidato di Raistlin, né il mago gli era mai davvero piaciuto. Il chierico non era rimasto sorpreso nell’apprendere che il mago aveva indossato le Vesti Nere. Non era rimasto sorpreso nell’udire l’avvertimento che Crysania aveva ricevuto da Paladine.
Però era rimasto sorpreso dalla reazione di Crysania all’incontro con Raistlin. Era rimasto sorpreso e allarmato nell’udire che Crysania era stata invitata a visitare Raistlin nella Torre, un luogo in cui adesso pulsava il cuore del male su Krynn. Elistan avrebbe proibito a Crysania di andare, ma il libero arbitrio era un insegnamento degli dei.
Elistan aveva espresso a Crysania i suoi pensieri mentre lei lo ascoltava rispettosa. Ma lei era andata nella Torre, attirata da un richiamo che non poteva neppure cominciare a capire, anche se aveva dichiarato a Elistan che lo faceva per «salvare il mondo».
«Il mondo sta marciando molto bene,» aveva replicato Elistan con voce grave.
Ma Crysania non lo aveva ascoltato.
«Vieni dentro,» disse Raistlin. «Un po’ di vino ti aiuterà a bandire i ricordi di ciò che hai patito.»
La guardò con attenzione. «Sei molto coraggiosa, Reverenda Figlia,» disse ancora, e lei non percepì nessun sarcasmo nella sua voce. «Sono assai pochi quelli che hanno la forza di sopravvivere al terrore del Bosco.»
Poi le voltò le spalle, e Crysania fu contenta che l’avesse fatto. Si era sentita arrossire a quelle parole di lode.
«Tieniti vicina a me,» l’avvertì mentre camminava davanti a lei, con le vesti nere che frusciavano sommesse intorno alle sue caviglie. «Tieniti entro la luce del mio bastone.»
Crysania fece come le veniva ordinato osservando, mentre camminava accanto a lui, come la luce del bastone facesse risplendere le sue vesti bianche dello stesso gelido splendore della luna d’argento.
La condusse oltre la temuta Porta. Crysania la fissò incuriosita ricordando la macabra storia del mago malvagio che si era lasciato cadere su di essa, conficcandosi sulle sue cuspidi, lanciando maledizioni con il suo respiro morente. C’erano cose che bisbigliavano e farfugliavano intorno a lei.
Più d’una volta si voltò a quei suoni, sentendo le dita fredde sul suo collo o il tocco di una mano gelida sulle sue. Più d’una volta colse un movimento con la coda dell’occhio, ma quando si girava di scatto a guardare, non c’era mai nulla. Una nebbia immonda si levava dal terreno, rancida del fetore della putredine, facendole dolorare le ossa. Cominciò a tremare incontrollabilmente e quando, all’improvviso, guardò dietro di sé e vide due occhi incorporei che la fissavano, fece un rapido passo avanti e infilò la mano intorno al braccio sottile di Raistlin.
Lui la guardò incuriosito, con una certa aria divertita che la fece arrossire di nuovo.
«Non c’è bisogno di aver paura,» lui le disse semplicemente. «Qui io sono il padrone. Non permetterò che ti venga fatto del male.»
«Non... non ho paura,» lei disse, anche se sapeva che lui doveva sentire il tremito del suo corpo.
«Ero soltanto... incerta su dove mettere i piedi, nient’altro.»
«Scusami, Reverenda Figlia,» disse Raistlin, e adesso lei non avrebbe saputo dire se ci fosse del sarcasmo nella sua voce. «È stato scortese da parte mia obbligarti a percorrere questo terreno a te ignoto senza offrirti la mia assistenza. Adesso cammini meglio?»
«Sì, molto meglio,» lei rispose, arrossendo intensamente sotto quello strano sguardo.
Raistlin non disse nulla, si limitò a sorridere. Crysania abbassò gli occhi, incapace di guardarlo in viso, e ripresero a camminare. Crysania si rimproverò per la sua paura durante tutto il percorso fino alla Torre, ma non tolse la mano dal braccio del mago. Nessuno dei due parlò più fino a quando non raggiunsero la porta della Torre. Era una semplice porta di legno con delle rune incise sulla sua superficie. Raistlin non disse una sola parola, non fece nessun gesto visibile a Crysania ma, al loro avvicinarsi, la porta si aprì lentamente. La luce sgorgò da dentro, e Crysania si sentì talmente rallegrata dal suo calore vivido e accogliente che, per un istante, non vide l’altra figura il cui profilo si stagliava all’interno.
Quando infine la vide, si fermò e si ritrasse allarmata.
Raistlin le toccò la mano con le sue dita sottili e brucianti.
«È soltanto il mio apprendista, Reverenda Figlia. Dalamar è di carne e ossa, cammina fra i vivi, per ora, almeno.»
Crysania non comprese quell’ultima osservazione, né vi prestò molta attenzione, percependo l’ilarità nascosta nella risposta di Raistlin. Era troppo sorpresa dal fatto che gente viva vivesse là dentro. Come sono sciocca, si rimproverò. Che razza di mostro ho mai immaginato che fosse quest’uomo? È un uomo, nient’altro. È umano, è in carne ed ossa. Quel pensiero la sollevò, la rilassò. Attraversando la porta, si sentì quasi se stessa. Porse la mano al giovane apprendista così come l’avrebbe porta a un nuovo accolito.
«Il mio apprendista, Dalamar,» disse Raistlin, indicandolo con un gesto. «Dama Crysania, Reverenda Figlia di Paladine.»
«Dama Crysania,» disse l’apprendista con appropriata gravità, accettando la sua mano e portandosela alle labbra, facendo un leggero inchino, poi sollevò la testa e il cappuccio nero che gli oscurava il viso cadde all’indietro.
«Un elfo!» rantolò Crysania. La sua mano rimase stretta in quella di Dalamar. «Ma non è possibile,» riprese a dire, confusa. «Non al servizio del male...»
«Sono un elfo scuro, Reverenda Figlia,» disse l’apprendista, e amarezza trasparì nella sua voce.
«Per lo meno è così che mi chiama il mio popolo.»
Crysania mormorò imbarazzata: «Mi spiace, non intendevo...».
Balbettò e rimase silenziosa, non sapendo dove guardare. Poteva quasi sentire Raistlin che rideva di lei. Ancora una volta l’aveva colta impreparata. Con rabbia staccò la mano dalla gelida stretta dell’apprendista, e con un gesto brusco ritrasse l’altra mano dal braccio di Raistlin.
«La Reverenda Figlia ha fatto un viaggio faticoso, Dalamar,» disse Raistlin. «Per favore, conducila nel mio studio e versale un bicchiere di vino. Con il tuo permesso, Dama Crysania, ci sono alcune faccende che richiedono la mia attenzione. Dalamar, qualsiasi cosa la Dama richieda, provvederai subito.»
«Certo, Shalafi,» rispose Dalamar, in tono di rispetto.
Crysania non disse niente quando Raistlin se ne andò, all’improvviso sopraffatta da una sensazione di sollievo e da una sensazione di fatica che l’intorpidiva tutta. Così deve sentirsi il guerriero quando combatte per la propria vita contro un avversario abilissimo, osservò in silenzio Crysania mentre seguiva l’apprendista su per una stretta scala a chiocciola.
Lo studio di Raistlin era qualcosa che lei non si sarebbe mai aspettata.
Ma che cosa mi ero mai aspettata? si chiese. Certamente non quella stanza piacevole piena di libri strani e affascinanti. La mobilia era attraente e comoda, un fuoco ardeva nel caminetto, riempiendo l’ambiente d’un calore che era benvenuto dopo il gelo del tragitto fino alla Torre. Il vino che Dalamar le versò era delizioso. Il calore del fuoco pareva filtrare dentro il suo sangue mentre ne inghiottiva un piccolo sorso.
Dalamar tirò fuori un tavolinetto decorato e lo sistemò alla sua destra. Appoggiò su questo una terrina di frutta e una pagnotta fragrante ancora calda.
«Cos’è questa frutta?» chiese Crysania. Dalla terrina prese un frutto e l’esaminò con meraviglia.
«Non ho mai visto niente del genere prima d’oggi.»
«No, infatti, Reverenda Figlia,» rispose Dalamar, sorridendo. Crysania osservò che, a differenza di Raistlin, il sorriso del giovane apprendista si rifletteva nei suoi occhi. «Lo Shalafi se l’è fatta portare dall’isola di Mithas.»
«Mithas?» ripetè Crysania, stupefatta. «Ma è sull’altra faccia del mondo! Là vivono i minotauri. Non permettono a nessuno di entrare nel loro regno! Chi mai la porta?»
Crysania ebbe un’improvvisa e terrificante visione del servitore che poteva essere stato evocato per portare simili delizie ad un simile padrone. Si affrettò a rimettere il frutto nella terrina.
«Provalo, Dama Crysania,» la sollecitò Dalamar senza la benché minima traccia di divertimento nella voce: «Lo troverai delizioso. La salute dello Shalafi è delicata. Le cose che può tollerare sono così poche... Vive di poche cose, a parte questo frutto, il pane e il vino.»
La paura di Crysania diminuì. «Sì,» mormorò, girando involontariamente lo sguardo verso la porta.
«È terribilmente fragile, non è vero? E quella terribile tosse...». La sua voce era addolcita dalla pietà.
«Tosse? Oh, sì,» replicò Dalamar, in tono disinvolto. «La... tosse.» Non continuò e se Crysania trovò strana la cosa, se ne dimenticò ben presto smarrendosi nella contemplazione della stanza.
L’apprendista si fermò per qualche altro istante, per accertarsi se non le servisse qualcos’altro.
Poiché Crysania non disse altro, fece un inchino. «Se non hai bisogno di altro, mia signora, chiedo di potermi ritirare. Devo proseguire i miei studi.»
«Certo. Starò benissimo qui,» rispose Crysania, uscendo dai suoi pensieri con un sussulto. «Allora, è il tuo insegnante,» disse, rendendosene conto all’improvviso. Adesso toccava a lei guardare Dalamar. «È bravo? Impari da lui?»
«È più dotato di chiunque altro nel nostro Ordine, Dama Crysania,» rispose Dalamar con voce sommessa. «È brillante, abile, controllato. Ne è esistito soltanto un altro, potente quanto lui: il grande Fistandantilus. È il mio Shalafi è giovane, ha soltanto ventotto anni. Se vivrà, potrebbe benissimo...»
«Se vivrà?» ripetè Crysania, poi provò una viva irritazione per aver lasciato filtrare, senza volerlo, una nota di preoccupazione nella voce. È giusto provare preoccupazione, si disse. Dopotutto è una delle creature di Dio. Ogni forma di vita è sacra.
«L’arte è gravida di pericoli, mia signora,» le stava rispondendo Dalamar. «E adesso, se vuoi scusarmi...»
«Certo,» annuì Crysania.
Eseguendo nuovamente un inchino, Dalamar uscì in silenzio dalla stanza, chiudendo la porta alle sue spalle. Giocherellando con il suo bicchiere di vino, Crysania fissò le fiamme danzanti, smarrita nei propri pensieri.
Non sentì la porta che si apriva, sempre che si fosse aperta. Sentì delle dita che le toccavano i capelli. Rabbrividendo, si guardò intorno, e non vide altri che Raistlin seduto dietro alla sua scrivania su uno scranno dall’alto schienale. «Devo mandare a prendere qualcos’altro? Tutto è di tuo gradimento?» le chiese con cortesia.
«S... sì» balbettò Crysania, mettendo giù il bicchiere di vino, in modo che lui non potesse vedere che la mano le tremava. «Tutto è perfetto. Il tuo apprendista, Dalamar, è delizioso.»
«Vero,» annuì Raistlin, asciutto. Congiunse le punte delle dita delle mani e le appoggiò sul tavolo.
«Che mani meravigliose possiedi,» disse Crysania, senza pensare. «Come sono snelle e sottili le dita, e così delicate.» Rendendosi conto d’un tratto di ciò che stava dicendo, arrossì e balbettò. «M... ma suppongo che sia un requisito della tua Arte...»
«Sì,» disse Raistlin, sorridendo, e questa volta Crysania ebbe l’impressione di cogliere un autentico, sincero piacere in quel sorriso. Raistlin tenne le mani alla luce proiettata dalle fiamme. «Quand’ero soltanto un bambino, potevo stupire e deliziare mio fratello con i trucchi che queste mani potevano fare già allora.» Sfilando una moneta d’oro da una delle tasche delle sue vesti, Raistlin, l’appoggiò sulle nocche della sua mano. Senza nessuno sforzo la fece danzare, ruotare e turbinare sulla sua mano. La moneta luccicò dentro e fuori dalle sue dita. Gettata in aria, scomparve per poi riapparire nell’altra sua mano. Crysania lanciò esclamazioni deliziate. Raistlin sollevò lo sguardo su di lei, e Crysania vide un sorriso di piacere torcersi e diventare una smorfia amara di dolore.
«Sì,» lui disse, «era una delle mie capacità, il mio talento. Faceva divertire gli altri bambini. Talvolta li tratteneva dal farmi del male.»
«Farti del male?» chiese Crysania, esitando, colpita dalla sofferenza nella sua voce.
Lui non rispose subito, i suoi occhi continuarono a fissare la moneta d’oro che teneva ancora in mano. Poi tirò un profondo respiro. «Posso immaginare la tua giovinezza,» mormorò. «Tu provieni da una famiglia ricca, così mi dicono. Devi essere stata amata, protetta, coccolata, dev’esserti stato dato tutto quello che volevi. Eri ammirata, richiesta, apprezzata.»
Crysania non potè rispondere. D’un tratto si era sentita sopraffare da un senso di colpa.
«Quanto è stata diversa la mia infanzia.» Ancora una volta quel sorriso sofferto, pieno di dolore. «Il mio soprannome è l’Astuto. Ero debole e malato. È troppo sveglio. Loro erano così sciocchi! Le loro ambizioni così meschine, come mio fratello, ad esempio, il quale non pensava mai più in profondità del piatto di cibo che aveva davanti! O mia sorella, che vedeva nell’uso della spada l’unico modo per. raggiungere i suoi scopi. Sì, ero debole. Sì, loro mi hanno protetto. Ma giurai che un giorno non avrei più avuto bisogno della loro protezione! Sarei arrivato alla grandezza da solo, usando il mio nome... la mia magìa!»
La sua mano si contrasse, la sua pelle tinta d’oro impallidì. D’un tratto cominciò a tossire, quella tosse lacerante, squassante, che faceva contorcere il suo fragile corpo. Crysania si alzò in piedi, con il cuore dolorante. Ma Raistlin le fece segno di sedersi. Tirò fuori da una tasca un fazzoletto e si asciugò il sangue sulle labbra.
«È questo il prezzo che ho pagato per la mia magia,» disse quando potè parlare di nuovo. La sua voce era poco più d’un bisbiglio. «Hanno infranto il mio corpo e mi hanno dato questa visione maledetta, cosicché vedo morire davanti ai miei occhi tutto quello che guardo. Ma ne è valsa la pena, sì, senz’altro ne è valsa la pena! Poiché ho quello che cercavo: il potere. Non ho bisogno di loro, di nessuno di loro, mai più.»
«Ma questo potere è malefico!» replicò Crysania, sporgendosi in avanti dalla sedia e fissando Raistlin con fervore.
«Davvero?» chiese Raistlin d’un tratto. La sua voce suonò pacata. «L’ambizione è forse malvagia? La ricerca del potere, del controllo sugli altri, è forse malefica? Se è così, allora, Dama Crysania, temo che anche tu dovrai cambiare le tue bianche vesti con quelle nere.»
«Come osi?» gridò Crysania, sconvolta. «Io non...»
«Ah, ma sì, invece,» disse Raistlin con una scrollata di spalle. «Non avresti lavorato così duramente per arrivare alla posizione che occupi nella chiesa, senza avere la tua dose di ambizione, di desiderio di potere.» Adesso toccò a lui sporgersi in avanti. «Non ti sei forse sempre detta: C’è qualcosa di grande che sono destinata a compiere? La mia vita sarà diversa dalla vita degli altri. Non mi accontento di starmene seduta a guardare il mondo che scorre sotto di me. Voglio plasmarlo, controllarlo, modellarlo!»
Trattenuta dallo sguardo bruciante di Raistlin, Crysania non riuscì a muoversi o a pronunciare una sola parola. Come poteva sapere? si chiese. Riesce a leggere i segreti del mio cuore?
«Questo è forse malefico, Dama Crysania?» ripetè Raistlin con voce gentile e insistente.
Crysania scosse lentamente la testa, e portò con un gesto incerto la mano alla tempia che le pulsava. No, non era malefico. Non nel modo in cui Raistlin lo descriveva... ma qualcosa non era giusto. Non riusciva a pensare. Era troppo confusa. Tutto quello che continuava a lampeggiarle nella mente era: Come siamo uguali, lui ed io!
Raistlin rimase silenzioso, aspettando che lei replicasse. Doveva dire qualcosa. Crysania mandò giù frettolosamente una sorsata di vino per darsi il tempo di raccogliere i pensieri sparsi.
«Forse ho davvero questi desideri,» disse infine, lottando per trovare le parole, «ma se è così, la mia ambizione non è per me stessa. Uso le mie capacità e i miei talenti per gli altri, per aiutare gli altri. Li uso per la chiesa...»
«La chiesa!» sogghignò Raistlin.
La confusione di Crysania svanì, sostituita da una gelida rabbia. «Sì,» rispose, sentendosi su un terreno saldo e sicuro, circondata dal bastione della sua fede. «È stato il potere del bene, il potere di Paladine, che ha cacciato il male dal mondo. È il potere che cerco. Quel potere che...»
«Che ha cacciato il male?» la interruppe Raistlin.
Crysania sbatté le palpebre. I suoi pensieri l’avevano trasportata senza che quasi se ne rendesse conto. Non era stata del tutto cosciente di quanto stava dicendo. «Ebbene, sì...»
«Ma il male e le sofferenze sono ancora presenti nel mondo,» insistè Raistlin.
«A causa di quelli come te!» fu il grido veemente di Crysania.
«Ah, no, Reverenda Figlia,» ribatté Raistlin. «Non per un qualunque mio atto. Guarda...» l’invitò ad avvicinarsi con un cenno della mano, mentre una volta ancora cercava qualcosa nella tasca segreta della sua veste.
Divenuta d’un tratto sospettosa e guardinga, Crysania non si mosse, fissando l’oggetto che lui aveva tirato fuori. Era un minuscolo frammento rotondo vorticante di colori, un cristallo simile alla biglia d’un bambino. Raistlin prese da un angolo della scrivania un supporto d’argento e vi appoggiò sopra la pallina. L’oggetto aveva un aspetto ridicolo, era troppo piccolo per quel sostegno decorato. Poi Crysania boccheggiò. La pallina stava crescendo! O forse era lei che stava rimpicciolendo! Non poteva esserne certa. Ma adesso il globo di vetro aveva raggiunto le giuste dimensioni, comodamente appoggiato sul supporto d’argento.
«Guardaci dentro,» le disse Raistlin, con voce sommessa.
«No.» Crysania si tirò indietro, fissando intimorita il globo. «Cos’è?»
«Un globo dei draghi,» rispose Raistlin, trattenendola con lo sguardo. «È l’unico rimasto su Krynn. Obbedisce ai miei ordini. Non permetterà che ti venga fatto del male. Guarda dentro il globo, Dama Crysania, a meno che tu non tema la verità.»
«Come faccio a sapere che mi mostrerà la verità?» volle sapere Crysania, con voce tremante.
«Come faccio a sapere che non mi farà vedere soltanto quello che tu vuoi che io veda?»
«Se sai come sono stati creati i globi dei draghi, tanto tempo fa,» rispose Raistlin, «ricorderai che sono stati creati da tutte e tre le Vesti: la Bianca, la Nera e la Rossa. Non sono strumenti del male, non sono strumenti del bene. Sono tutto e niente. Tu porti il medaglione di Paladine,» il sarcasmo era ricomparso, «e la tua fede è forte. Potrei costringerti a vedere quello che non vuoi vedere?»
«Cosa vedrò?» bisbigliò Crysania. La curiosità e uno strano fascino la stavano attirando alla scrivania.
«Solamente quello che i tuoi occhi hanno visto e si sono rifiutati di vedere.»
Raistlin appoggiò un dito sottile sul vetro, intonando parole di comando. Esitando, Crysania si sporse sopra la scrivania e guardò dentro il globo dei draghi. Sulle prime non vide niente all’interno, soltanto un debole turbinio verdastro. Poi si ritrasse. C’erano mani dentro il globo! Mani che si stavano protendendo verso l’esterno...
«Non temere,» la rassicurò Raistlin. «Le mani vengono per me.»
E infatti, mentre parlava, Crysania vide le mani dentro il globo protendersi e toccare le mani di Raistlin. L’immagine scomparve. Colori vibranti solcarono per un istante come impazziti l’interno del globo, stordendo Crysania con la loro luce e il loro lampeggiare. Poi anch’essi scomparvero. E allora vide...
«Palanthas,» disse Crysania, sorpresa. Poteva vedere l’intera città avvolta dalle nebbie del mattino che si stendeva davanti ai suoi occhi, luccicante come una perla. E poi la città cominciò a precipitarle addosso, o forse era lei che cadeva dentro di essa. Adesso si librava sopra la Città Nuova, adesso era sopra il Muro, adesso era dentro la Città Vecchia. Il Tempio di Paladine s’innalzava davanti a lei, i bei terreni sacri erano tranquilli e sereni nella luce del mattino. E poi fu dietro al Tempio, e stava guardando al di là di un alto muro.
Trattenne il respiro. «Cos’è?» chiese.
«L’hai mai visto?» rispose Raistlin. «Questo vicolo così vicino ai terreni sacri?»
Crysania scosse la testa: «N... no,» rispose con voce rotta. «Eppure devo averlo visto. Ho vissuto a Palanthas tutta la mia vita. Conosco tutto...»
«No, mia signora,» disse Raistlin, accarezzando lievemente con la punta delle dita la superficie cristallina del globo dei draghi. «No, la conosci molto poco.»
Crysania non potè rispondere. A quando pareva, Raistlin diceva la verità poiché lei non conosceva quella parte della città. Cosparso di rifiuti, il vicolo era scuro e squallido. La luce del mattino non riusciva a trovare la strada al di là degli edifici che s’innalzavano dal suolo come se non avessero abbastanza energia per stare dritti. Adesso Crysania riconobbe quegli edifici. Li aveva visti dal lato anteriore. Venivano usati per immagazzinare qualunque cosa, dalle botti di vino a quelle di birra. Ma quanto apparivano diversi, visti dal lato anteriore! E chi era quella gente... quei disgraziati?
«Vivono là,» rispose Raistlin alla sua silenziosa domanda.
«Dove?» domandò Crysania in preda all’orrore. «Là? Perché?»
«Vivono dove possono. Scavano le loro tane nel cuore della città come i vermi, si nutrono della sua putrefazione. In quanto al perché...» Raistlin scrollò le spalle. «Non hanno nessun altro luogo dove andare.»
«Ma questo è terribile! Lo dirò a Elistan. Li aiuteremo, daremo loro dei soldi...»
«Elistan lo sa,» disse Raistlin con voce sommessa.
«No, non può saperlo! È impossibile!»
«Tu lo sapevi. Se non sapevi di questo luogo, ne conoscevi altri, nella tua bella città, che non sono belli.»
«Non...» Crysania cominciò a ribattere con rabbia, poi si arrestò. I ricordi la investirono a ondate. Sua madre che girava altrove il suo viso quando la loro carrozza attraversava determinati quartieri della città; suo padre che si affrettava a chiudere le tendine ai finestrini della carrozza, oppure si sporgeva per dire al conducente di prendere una strada diversa.
I colori turbinarono, la scena tremolò, si dissolse e venne sostituita da un’altra, poi da un’altra ancora. Crysania guardò, in preda all’angoscia, mentre il mago strappava via dalla città la facciata rilucente come una perla, mostrandole la tenebra e la corruzione sottostanti. Taverne, bordelli, locali per il gioco d’azzardo, i moli, le banchine... tutti vomitavano i loro rifiuti di miseria e di sofferenza davanti alla vista sconvolta di Crysania. Adesso non poteva più distogliere lo sguardo, non c’erano tende da tirare. Raistlin la trascinava dentro, la portava vicino ai disperati, agli affamati, agli abbandonati, ai dimenticati.
«No,» implorò Crysania, scuotendo la testa e cercando di arretrare dalla scrivania. «Ti prego, non mostrarmi altro.»
Ma Raistlin fu impietoso. Ancora una volta i colori turbinarono, e lasciarono Palanthas. Il globo dei draghi li trasportò in giro per il mondo, e dovunque Crysania guardasse, vedeva altri orrori. Nani dei burroni, una razza cacciata via dai loro confratelli nani, che vivevano nello squallore in qualunque parte di Krynn che riuscivano a trovare e nessun altro voleva. Esseri umani che conducevano un’esistenza sventurata in territori dove le piogge avevano cessato di cadere. Gli elfi selvatici, fatti schiavi dal loro stesso popolo. Chierici che usavano il loro potere per ingannare e ammassare grandi ricchezze.
Era troppo. Lanciando un urlo irrefrenabile, Crysania si coprì il volto con le mani. La stanza ondeggiò sotto i suoi piedi. Barcollando, quasi cadde per terra. E poi le braccia di Raistlin le si strinsero intorno. Sentì quello strano, bruciante calore che s’irradiava dal suo corpo e il morbido tocco del velluto nero. C’era un odore di spezie, di petali di rosa, con altri odori più misteriosi. Poteva udire il suo corto respiro risuonargli nei polmoni.
Delicatamente Raistlin ricondusse Crysania alla sua sedia. Lei si affrettò a sedersi ritraendosi dal suo contatto. La sua vicinanza era ripugnante e attraente allo stesso tempo, e accresceva la sua sensazione di perdita e di confusione. Desiderò disperatamente che Elistan fosse lì, accanto a lei. Lui avrebbe saputo, avrebbe capito... poiché doveva esserci una spiegazione! Sofferenze così terribili, una simile manifestazione del male, non avrebbero dovuto essere consentite. Sentendosi vuota e vana, fissò il fuoco.
«Non siamo poi tanto diversi,» la voce di Raistlin parve uscire dalle fiamme. «Io vivo nella mia Torre, dedicandomi ai miei studi. Tu vivi nella tua Torre, dedicandoti alla tua fede. E il mondo ci gira intorno.»
«È questo è il vero male,» disse Crysania rivolta alle fiamme. «Stare seduti e non far nulla.»
«Adesso capisci,» proseguì Raistlin, «io non mi accontento più di star seduto a guardare. Ho studiato per lunghi anni per una ragione, uno scopo. E adesso, questo è alla mia portata. Io farò la differenza, Crysania. Io cambierò il mondo. È questo il mio piano.»
Crysania sollevò rapidamente lo sguardo. La sua fede era stata scossa, ma il suo nocciolo era ancora forte. «Il tuo piano! È il piano contro cui Paladine mi ha messo in guardia nel mio sogno. Questo piano per cambiare il mondo causerà la distruzione del mondo stesso!» Serrò la mano in grembo. «Non devi attuarlo. Paladine...»
Raistlin fece un gesto impaziente con la mano, i suoi occhi dorati lampeggiarono e, per un momento, Crysania si ritrasse, intravedendo i fuochi che covavano all’interno di quell’uomo.
«Paladine non mi fermerà,» disse Raistlin, «poiché io cerco di deporre il suo più grande nemico.»
Crysania fissò il mago, senza capire. Quale nemico poteva mai essere? Quale nemico poteva avere Paladine in questo mondo? Poi il significato di ciò che aveva detto Raistlin le divenne chiaro. Crysania sentì il sangue defluirle dal volto, una gelida paura la fece rabbrividire convulsamente. Incapace di parlare, scosse la testa. L’enormità delle sue ambizioni e dei suoi desideri era troppo spaventosa, troppo impossibile anche soltanto a contemplarsi.
«Ascolta,» le disse Raistlin con voce sommessa. «Te lo chiarirò...»
E le riferì i suoi piani. Crysania rimase seduta per quelle che le parvero ore davanti al fuoco, trattenuta dallo sguardo di quegli strani occhi dorati, ipnotizzata dal suono della sua voce morbosamente sussurrante che le raccontava le meraviglie della sua magia e dell’altra magia che, adesso, era andata da tempo perduta, le meraviglie scoperte da Fistandantilus.
Raistlin tacque. Crysania rimase seduta per lunghi momenti, smarrita, vagando in un regno molto distante da qualunque altro regno da lei conosciuto. Il fuoco ardeva basso nelle grigie ore prima dell’alba. La stanza divenne più chiara. Crysania rabbrividì in quell’ambiente divenuto improvvisamente gelido.
Raistlin tossì, e Crysania sollevò lo sguardo su di lui, sorpresa. Era pallido per la fatica, i suoi occhi ardevano di febbre, le mani gli tremavano. Crysania si alzò in piedi.
«Mi spiace,» disse con voce sommessa. «Ti ho tenuto sveglio per tutta la notte, e non stai bene. Io devo andare.»
Raistlin si alzò insieme a lei. «Non preoccuparti per la mia salute, Reverenda Figlia,» rispose con un sorriso contorto. «Il fuoco che arde dentro di me produce energia sufficiente a riscaldare questo mio corpo infranto. Dalamar ti riaccompagnerà attraverso il Bosco di Shoikan, se lo vorrai.»
«Sì, grazie,» mormorò Crysania. Aveva dimenticato che avrebbe dovuto riattraversare quel luogo malefico. Tirando un profondo sospiro, porse la mano a Raistlin. «Grazie per avermi incontrato,» cominciò a dire, in tono formale. «Spero...»
Raistlin le prese la mano nella sua, il tocco della sua pelle liscia bruciava. Crysania lo fissò negli occhi. Vide se stessa riflessa là dentro, una donna incolore vestita di bianco.
«Non puoi far questo,» bisbigliò Crysania. «È sbagliato. Bisogna fermarti.» Gli strinse la mano con molta forza.
«Dimostrami che è sbagliato,» disse Raistlin, attirandola accanto a sé: «Dimostrami che questo è male. Convincimi che le vie del bene sono il modo per salvare il mondo.»
«Ascolterai?» chiese Crysania, ansiosa. «Sei circondato dalla tenebra. Come potrò arrivare da te?»
«L’oscurità si è dischiusa, non è vero?» chiese Raistlin. «L’oscurità si è dischiusa e tu sei entrata.»
«Sì...» Crysania fu d’un tratto conscia del tocco della sua mano, del calore del suo corpo. Arrossendo a disagio, fece un passo indietro. Togliendo la mano dalla sua stretta, la sfregò meccanicamente, come se le facesse male.
«Arrivederci, Raistlin Majere» disse, senza guardarlo negli occhi. «Arrivederci, Reverenda Figlia di Paladine,» lui rispose. La porta si aprì e Dalamar comparve sulla soglia, anche se lei non aveva visto Raistlin chiamare in qualche modo il giovane apprendista. Calandosi il bianco cappuccio sui capelli, Crysania voltò le spalle a Raistlin e varcò la soglia. Incamminandosi lungo il corridoio di pietra grigia, poteva sentire lo sguardo dei suoi occhi dorati che le penetrava le vesti, arroventandole. Quando arrivò alla stretta scala a chiocciola che conduceva in basso, la sua voce la raggiunse:
«Forse Paladine non ti ha mandato per fermarmi, Dama Crysania. Forse ti ha mandato per aiutarmi.»
Crysania si fermò e guardò dietro di sé: ma Raistlin era scomparso, il grigio corridoio appariva desolato e vuoto. Dalamar era in attesa accanto a lei.
Lentamente, raccogliendo le pieghe delle sue vesti bianche nella mano, in modo da non inciampare, Crysania scese la scala.
E continuò a scendere... giù... giù... interminabilmente.
Capitolo dodicesimo.
La Torre della Grande Stregoneria a Wayreth era stata per secoli l’ultimo avamposto della magia sul continente di Ansalon. Qui i maghi erano stati costretti a ritirarsi quando il Gran Sacerdote aveva ordinato loro di abbandonare le altre torri. Qui erano giunti lasciando la Torre di Istar, adesso sotto le acque del Mare di Sangue; abbandonando la Torre maledetta e annerita di Palanthas. La Torre, a Wayreth, era una struttura imponente, uno spettacolo che incuteva paura. Le pareti esterne formavano un triangolo equilatero. Una torre più piccola si ergeva su ogni angolo di quella forma perfettamente geometrica. Al centro si innalzavano due torri principali, leggermente inclinate, contorte soltanto un po’, quel che bastava per far sbattere le palpebre a chi le contemplava e fargli dire dentro di sé: Ma non sono storte?
Le mura erano costruite in pietra nera. Levigata fino ad essere lucidissima, questa pietra risplendeva sfolgorante alla luce del sole, e di notte rifletteva la luce delle due lune e specchiava l’oscurità della terza. Delle rune erano scolpite sulla superficie della pietra, rune di potere e di forza che facevano da scudo e protezione; rune che legavano le pietre le une alle altre. La sommità delle mura era liscia. Non c’erano spalti da difendere. Non ce n’era bisogno.
Lontana da ogni centro di civiltà, la Torre di Wayreth era circondata dal suo magico mondo. Nessuno che non vi appartenesse poteva entrarvi, nessuno vi veniva senza essere invitato. Così i maghi proteggevano il loro ultimo bastione di forza, difendendolo efficacemente dal mondo esterno.
Ma la Torre non era inanimata. Ambiziosi apprendisti fruitori di magia giungevano da ogni parte del mondo per affrontare la rigorosa, e a volte fatale, Prova. Stregoni di grande fama arrivavano quotidianamente per continuare i loro studi, incontrarsi, discutere, condurre esperimenti pericolosi e delicati. Per costoro, la Torre era aperta giorno e notte. Potevano andare e venire a loro piacimento: Vesti Nere, Vesti Rosse, Vesti Bianche.
Malgrado le loro filosofie fossero distanti, nel loro modo di vedere e vivere con il mondo, tutte le Vesti s’incontravano in pace nella Torre. I dibattiti erano tollerati soltanto se servivano a far progredire l’Arte. I combattimenti di qualsiasi genere erano proibiti: la punizione era la morte, rapida e terribile.
L’Arte. Era l’unica cosa che li univa tutti. Era la loro prima lealtà, non aveva importanza chi fossero, chi servivano, di che colore fossero le Vesti che indossavano. I giovani fruitori di magia che affrontavano la morte calmi e tranquilli quando acconsentivano ad affrontare la Prova, lo capivano. Gli antichi stregoni che venivano qui per esalare il loro ultimo respiro ed essere sepolti entro quelle mura familiari, lo capivano. L’Arte. La Magia. Era il genitore, l’amante, la sposa, il figlio. Era il suolo, il fuoco, l’aria, l’acqua. Era la vita. Era la morte. Andava oltre la morte.
Par-Salian rifletté su tutto questo mentre si trovava all’interno delle sue stanze, nella più settentrionale delle due alte torri, osservando Caramon e il suo piccolo seguito che venivano verso i cancelli.
Mentre Caramon ricordava il passato, così lo ricordava anche Par-Salian. Qualcuno si chiedeva se lo ricordasse con rincrescimento. No, disse in silenzio, osservando Caramon che avanzava lungo il sentiero, con la spada da battaglia che gli sbatteva sferragliando contro le cosce inflaccidite. Non mi rammarico per il passato. Mi venne offerta una terribile scelta, e la feci.
Chi può mettere in discussione gli dei? Mi hanno chiesto una spada. Ne ho trovata una. E, come tutte le spade, era a doppio taglio.
Caramon e il suo gruppo erano arrivati alla porta esterna. Non c’erano guardie. Un minuscolo campanello d’argento suonò nell’alloggio di Par-Salian.
Il vecchio mago sollevò la mano. La porta si spalancò.
Era l’imbrunire quando varcarono l’ingresso esterno della Torre della Grande Stregoneria. Tas si guardò intorno, sorpreso. Un attimo prima era ancora mattina. O per lo meno, gli era parso che fosse mattina! Sollevando lo sguardo vide dei raggi rossi che striavano il cielo, riflettendosi con luccichii arcani sulle mura di pietra levigata della Torre.
Tas scosse la testa. «Come fanno a sapere l’ora da queste parti?» si chiese. Si trovava in un grande cortile cinto dalle mura esterne e dalle due torri interne: un cortile spoglio e desolato. Pavimentato con quadrelli grigi, appariva freddo e sgraziato. Non vi crescevano fiori, nessun albero interrompeva l’implacabile monotonia della pietra grigia. E Tas notò, con disappunto, che era vuoto. Non c’era assolutamente nessuno lì intorno.
O forse sì? Tas colse un movimento fugace con la coda dell’occhio, un bianco svolazzare. Ma quando si girò di scatto fu sorpreso nel constatare che era scomparso. Là non c’era nessuno. E poi, vide con la coda dell’altro occhio, un volto e una mano e una manica rossa. Vi puntò direttamente gli occhi, e non c’era più! D’un tratto Tas ebbe l’impressione di essere circondato da gente che andava e veniva parlando, oppure se ne stava là senza far niente con lo sguardo fisso nel vuoto, o perfino dormiva! Eppure il cortile era ancora silenzioso, ancora vuoto.
«Devono esserci dei maghi che stanno facendo la Prova!» esclamò Tas con reverenziale sgomento.
«Raistlin mi diceva che viaggiano dappertutto, ma non immaginavo niente del genere! Mi chiedo se possono vedermi. Pensi che potrei toccarne uno, Caramon, se... Caramon?»
Tas sbatté le palpebre. Caramon non c’era più! Bupu non c’era più! Le figure dalle vesti bianche e Dama Crysania non c’erano più. Era solo!
Ma non per molto. Vi fu un lampo di luce gialla, un fetore orrendo, e un mago abbigliato di nero torreggiò sopra di lui. Il mago protese una mano... una mano di donna. «Sei stato convocato.»
Tas deglutì. Lentamente sollevò una mano. Le dita della donna si chiusero attorno al suo polso. Tas rabbrividì al loro freddo contatto. «Forse mi verrà fatta una magia!» disse fra sé, speranzoso.
Il cortile, le mura di pietra nera, le strisce rosse della luce del sole, i quadrelli grigi, tutto cominciò a dissolversi intorno a Tas, scivolando fuori dagli orli della sua visuale, come un dipinto inzuppato di pioggia. Profondamente deliziato, il kender sentì le vesti nere della donna avvolgergli tutt’intorno, quindi gli vennero rimboccate intorno al mento...
Quando Tasslehoff riprese i sensi, giaceva su un pavimento di pietra molto duro e molto freddo. Accanto a lui, Bupu russava beatamente. Caramon si era rizzato a sedere, scuotendo la testa, cercando di liberarla dalle ragnatele che sembravano avvolgerla.
«Ouch.» Tas si sfregò la nuca. «Strano alloggio, Caramon,» grugnì, alzandosi in piedi. «Ti verrebbe da pensare che potrebbero almeno far spuntare qualche letto dal pavimento, con la loro magia. E se vogliono che qualcuno si faccia un pisolino, perché non lo dicono, invece di mandare... oh...».
Sentendo la voce di Tasslehoff trasformarsi in uno strano gorgoglio, Caramon sollevò di scatto la testa.
Non erano soli.
«Conosco questo posto,» bisbigliò Caramon.
Si trovavano in un’enorme stanza scavata nell’ossidiana. Era così vasta che il suo perimetro si smarriva in mezzo alle ombre, e così alta che anche il suo soffitto si perdeva nell’oscurità. Nessun pilastro sorreggeva il soffitto, e non si vedevano fonti luminose. Eppure c’era luce, anche se era impossibile dire da dove prendesse origine. Una luce pallida, bianca, priva di sfumature. Fredda e squallida, non emanava nessun calore.
L’ultima volta che Caramon si era trovato in quella stanza, la luce aveva illuminato un vegliardo vestito di bianco, seduto su un grande seggio di pietra. Questa volta la luce illuminava lo stesso vecchio, ma non era più solo. Un semicerchio di sedie di pietra era disposto intorno a lui, esattamente ventuno. L’uomo vestito di bianco sedeva al centro. Alla sua sinistra c’erano tre figure indistinte, era difficile dire se fossero maschi o femmine o appartenenti a qualche altra razza. Avevano cappucci quasi del tutto abbassati sui loro volti. Erano vestiti di rosso. Alla loro sinistra sedevano sei figure, tutte vestite di nero. Fra queste c’era una sedia vuota. Alla destra del vecchio sedevano altre quattro figure vestite di rosso e, alla loro destra, sei vestite tutte di bianco. Dama Crysania giaceva sul pavimento davanti a loro, il suo corpo era disteso su un giaciglio bianco, coperto di lino bianco.
Di tutto quel conclave, soltanto la faccia del vecchio era visibile.
«Buona sera,» disse Tasslehoff, inchinandosi e arretrando, e continuando a farlo finché non andò a sbattere addosso a Caramon. «Chi è questa gente?» gli chiese il kender, con voce non troppo sommessa. «E cosa ci fanno nella nostra camera da letto?»
«Il vecchio al centro è Par-Salian,» rispose Caramon, bisbigliando. «E non siamo in camera da letto. Questa è la sala centrale, la Sala dei Maghi, o qualcosa di simile. Sarà meglio che tu svegli la nana dei burroni.»
«Bupu!» Tas tirò un calcio alla nana addormentata.
«Feccia di ghiottonvorace!» ringhiò la nana, rotolando su se stessa, gli occhi cocciutamente chiusi.
«Vai via. Me dormire.»
«Bupu!» Tas era disperato; gli occhi del vecchio sembravano trapassarlo. «Ehi, svegliati. È ora di cena.»
«Cena!». Aprendo gli occhi, Bupu balzò in piedi. Guardandosi intorno con avidità, vide le venti figure impaludate, sedute là in silenzio, i volti invisibili sotto i cappucci.
Bupu cacciò un urlo da coniglio torturato. Fece un balzo convulso e si lanciò addosso a Caramon, serrandogli le braccia intorno alla caviglia in una stretta micidiale. Conscio dei molti occhi luccicanti che lo guardavano, Caramon cercò di scrollarsela di dosso, ma la cosa risultò impossibile. Si teneva aggrappata a lui come una sanguisuga, tremando, fissando i maghi in preda al terrore. Alla fine Caramon rinunciò.
Il volto del vecchio s’increspò in quello che avrebbe potuto essere un sorriso. Tas vide Caramon che abbassava lo sguardo impacciato sui propri indumenti puzzolenti. Vide l’omone toccarsi la mascella ispida e passarsi una mano tra i capelli arruffati. Imbarazzato, il grosso guerriero arrossì. Poi la sua espressione s’indurì. Quando parlò, lo fece con semplicità e decoro.
«Par-Salian,» disse Caramon, le sue parole rimbombarono nell’ampia sala in penombra, «ti ricordi di me?»
«Mi ricordo di te, guerriero,» replicò il mago. La sua voce era sommessa, eppure risuonò ugualmente nella sala. In quella sala si sarebbe udito anche un bisbiglio morente.
Non disse altro. Nessun altro dei maghi parlò. Caramon si agitò a disagio. Alla fine indicò Dama Crysania. «L’ho portata qui sperando che tu possa aiutarla. Puoi farlo? Si riprenderà?»
«Che si riprenda o no, non dipende da noi,» rispose Par-Salian. «È al di là delle nostre capacità curarci di lei. Per proteggerla dall’incantesimo che il cavaliere della morte le ha lanciato, un incantesimo che certamente avrebbe significato la sua morte, Paladine ha ascoltato la sua ultima preghiera e ha mandato la sua anima a dimorare nei suoi pacifici regni.» Caramon chinò la testa. «È colpa mia,» disse con voce rauca. «Ho... ho mancato verso di lei. Avrei potuto...»
«Proteggerla?» Par-Salian scosse la testa. «No, guerriero, non avresti potuto proteggerla dal Cavaliere della Rosa Nera. Tentando questo, avresti perso la vita. Non è forse vero, kender?»
Tas, cogliendo d’un tratto lo sguardo di quegli occhi azzurri puntato su di lui, sentì un formicolio di scintille percorrergli il corpo. «S... sì,» balbettò. «L’ho... l’ho visto.» Tasslehoff rabbrividì.
«Questo da parte di qualcuno che non conosce la paura,» disse Par-Salian con voce pacata. «No, guerriero, non biasimarti. E non rinunciare alle speranze per lei. Anche se noi non possiamo ripristinare l’anima nel suo corpo, conosciamo chi può farlo. Ma prima dimmi perché mai Dama Crysania ci ha cercato. Poiché sappiamo che cercava la Foresta di Wayreth.»
«Non ne sono sicuro,» borbottò Caramon.
«È venuta a causa di Raistlin,» esclamò Tas, per aiutarlo. Ma la sua voce risuonò stridula e discordante in quella sala. Il nome del giovane mago suscitò echi arcani. Par-Salian corrugò la fronte, Caramon si voltò a guardare Tas, furibondo. Le teste incappucciate dei maghi si mossero leggermente, come se si fossero scambiati delle occhiate, le loro vesti frusciarono sommesse. Tas deglutì e rimase zitto.
«Raistlin.» Il nome uscì dalle labbra di Par-Salian con un sibilo sommesso. Fissò Caramon con intensità. «Cosa ha a che fare un chierico del Bene con tuo fratello? Perché mai Crysania ha intrapreso questo periglioso viaggio per lui?»
Caramon scosse la testa, restio o incapace di parlare. «Tu conosci la sua propensione per il Male?» proseguì Par-Salian con voce severa.
Caramon, ostinato, si rifiutò di rispondere, tenendo lo sguardo fisso sul pavimento di pietra.
«So...» cominciò a dire Tas, ma Par-Salian fece un lieve movimento con la mano e il kender tacque.
«Tu sai che adesso abbiamo motivo di credere che intenda conquistare il mondo?» continuò Par-Salian, le sue parole spietate colpirono Caramon come dardi. Tas vide sussultare l’omone.
«Insieme alla tua sorellastra, Kitiara, la Signora delle Tenebre, com’è conosciuta fra le sue truppe, Raistlin ha cominciato ad ammassare gli eserciti. Dispone di draghi, di cittadelle volanti. E inoltre sappiamo...»
Una voce irridente risuonò attraverso la sala. «Tu non sai nulla, Grande Mago. Sei uno sciocco!»
Quelle parole caddero come gocce d’acqua dentro uno stagno immobile, provocando delle increspature che si diffusero tra i maghi. Sorpreso, Tas si girò di scatto per cercare l’origine di quella strana voce e vide, dietro di sé, una figura emergere dalle ombre. Le sue vesti nere frusciarono mentre passava davanti a loro per fronteggiare Par-Salian. In quel momento la figura si sfilò il cappuccio. Tas sentì Caramon che s’irrigidiva. «Cos’è?» bisbigliò il kender, che non riusciva a vedere.
«Un elfo scuro!» borbottò Caramon.
«Davvero?» fece Tas, con gli occhi che gli si illuminavano. «Sai, in tutti gli anni in cui sono vissuto su Krynn, non ho mai visto un elfo scuro.» Il kender fece per avanzare ma venne afferrato per il colletto della tunica. Squittì per l’irritazione, mentre Caramon lo trascinava indietro, ma né Par-Salian né la figura abbigliata di nero parvero accorgersi di quella interruzione.
«Credo che dovresti spiegarti, Dalamar,» disse con calma Par-Salian. «Perché sono uno sciocco?»
«Conquistare il mondo!» sogghignò Dalamar. «Non ha in mente di conquistare il mondo! Il mondo non significa niente per lui. Potrebbe avere il mondo domani, stanotte, se lo volesse!»
«Allora, che cosa vuole?». La domanda era stata fatta da un mago vestito di rosso seduto accanto a Par-Salian.
Tas, sbirciando da dietro il braccio di Caramon, vide i lineamenti delicati e crudeli dell’elfo scuro rilassarsi in un sorriso.
«Vuole diventare un dio,» rispose Dalamar con voce sommessa. «Sfiderà la Regina delle Tenebre in persona. Questo è il suo piano.»
I maghi non dissero niente, non si mossero, ma il loro silenzio parve muoversi fra loro come una mutevole corrente d’aria, mentre fissavano Dalamar con occhi lucidi e immobili.
Poi Par-Salian sospirò. «Credo che tu l’abbia sopravvalutato.»
Vi fu un suono lacerante, come d’un tessuto che venisse strappato. Tas vide Dalamar muovere il braccio con uno scatto, mentre stracciava via il tessuto della sua veste.
«Questo significa forse sopravvalutarlo?» gridò Dalamar.
I maghi si sporsero in avanti, un rantolo simile al sibilo di un gelido vento percorse la vasta sala. Tas si dibatté per vedere, ma la mano di Caramon lo teneva ben fermo. Irritato, Tas sollevò lo sguardo sulla faccia di Caramon: possibile che non fosse curioso? Ma Caramon appariva del tutto insensibile.
«Vedete su di me il marchio della sua mano,» sibilò Dalamar. «Perfino adesso il dolore è quasi al limite della mia sopportazione.» Il giovane elfo fece una pausa, poi aggiunse a denti stretti: «Mi ha detto di porgerti i suoi saluti, Par-Salian!»
Il Grande Mago chinò la testa. La mano che sollevò per sorreggerla era scossa da un tremito. Parve vecchio, debole, stanco. Per qualche istante il mago sedette con gli occhi coperti, poi sollevò la testa e fissò Dalamar con attenzione.
«Così... i nostri peggiori timori si sono concretizzati.» Gli occhi di Par-Salian si strinsero, perplessi.
«Allora sa che siamo stati noi a mandarti...»
«Per spiarlo?» Dalamar rise amareggiato. «Sì, lo sa!». L’elfo scuro sputò fuori le parole. «L’ha sempre saputo. Mi ha usato, ha usato tutti noi, per portare avanti i suoi scopi.»
«Trovo molto difficile crederlo,» dichiarò il mago vestito di rosso, con voce pacata. «Tutti ammettiamo che il giovane Raistlin è potente, certo, ma trovo questo piano di sfidare una dea del tutto ridicolo... davvero ridicolo.»
Mormorii di assenso si levarono da entrambe le metà del semicerchio.
«Oh, davvero?» chiese Dalamar, e la sua voce era mortalmente soave. «Allora, lasciate che vi dica, sciocchi che non siete altro, che voi non avete nessuna idea del significato della parola potere. Non certo del modo in cui si riferisce a lui! Non potete neppure cominciare a sondare le profondità del suo potere o elevarvi fino alle sue vette! Io posso farlo! Io ho visto...». Dalamar ristette un attimo, la sua voce non era più rabbiosa, ma piena di meraviglia, «... io ho visto cose quali nessuno di voi ha mai osato immaginare! Ho camminato nel regno dei sogni con gli occhi aperti! Ho visto bellezze tali da far esplodere il cuore per il dolore. Sono disceso negli incubi, sono stato testimone di orrori,» rabbrividì, «di orrori così tremendi e innominabili che ho pregato perché la morte mi cogliesse all’istante piuttosto che guardarli!» Dalamar fissò il semicerchio davanti a lui, raccogliendoli tutti insieme nei suoi occhi lampeggianti. «E tutte queste meraviglie le ha evocate, create, portate alla vita con la sua magia.»
Non vi fu alcun suono, nessuno si mosse.
«È saggio da parte tua avere paura, Grande Mago.» La voce di Dalamar divenne un bisbiglio. «Ma non importa quanto grande sia la tua paura, non lo temi abbastanza. Oh, sì, gli manca il potere per varcare quella temuta soglia. Ma troverà quel potere. Già mentre noi parliamo, si sta preparando per il lungo viaggio. Domani, al mio ritorno, partirà.»
Par-Salian sollevò la testa. «Il tuo ritorno?» chiese, scosso. «Ma lui sa cosa sei: una spia, mandata da noi, il Conclave, i suoi colleghi.» Lo sguardo del Grande Mago andò alla sedia che si ergeva vuota in mezzo alle Vesti Nere, poi si alzò in piedi. «No, giovane Dalamar. Sei molto coraggioso, ma non posso permetterti di tornare a quella che, senza alcun dubbio, sarebbe una morte fra le torture per sua mano.»
«Non puoi fermarmi,» replicò Dalamar, e non c’era nessuna emozione nella sua voce. «Ho detto altre volte che avrei dato la mia anima per poter studiare con qualcuno come lui. E adesso, anche se dovesse costarmi la vita, rimarrò con lui. Si aspetta che io ritorni. Mi lascia la responsabilità della Torre della Grande Stregoneria in sua assenza.»
«Ti lascia di guardia?» chiese dubbioso il mago vestito di rosso. «Tu, che l’hai tradito?»
«Mi conosce,» spiegò Dalamar con amarezza. «Sa di avermi intrappolato. Ha punto il mio corpo e ha succhiato via la mia anima disseccandola, eppure tornerò nella ragnatela. Né sarò io il primo.»
Dalamar indicò la forma bianca distesa immobile sul giaciglio davanti a lui. Poi, quasi voltandosi, l’elfo scuro lanciò un’occhiata a Caramon. «Vero, fratello!» disse, con un sogghigno.
Finalmente, Caramon parve indotto ad agire. Scuotendo via con rabbia Bupu dal suo piede, il guerriero fece un passo avanti. Il kender e la nana dei burroni lo seguirono.
«Chi è costui?» volle sapere Caramon, fissando accigliato l’elfo scuro. «Cosa sta succedendo? Di chi stai parlando?»
Prima che Par-Salian potesse rispondere, Dalamar girò il volto verso il grosso guerriero.
«Mi chiamano Dalamar,» disse con freddezza l’elfo scuro. «E sto parlando di tuo fratello gemello, Raistlin. È il mio maestro. Io sono il suo apprendista. Inoltre sono una spia mandata da questa augusta compagnia che vedi davanti a te per riferire delle azioni di tuo fratello.»
Caramon non rispose. Era come se non avesse sentito. I suoi occhi, spalancati per l’orrore, erano fissi sul petto dell’elfo scuro. Seguendo lo sguardo di Caramon, Tas vide i cinque fori bruciati e insanguinati sulla pelle di Dalamar. Il kender deglutì provando d’un tratto una sensazione di nausea.
«Sì, è stata la mano di tuo fratello a far questo,» dichiarò Dalamar, indovinando i pensieri di Caramon. Sorridendo cupo l’elfo scuro afferrò con le mani gli orli strappati delle sue vesti nere e li ricongiunse nascondendo le ferite. «Non ha importanza,» borbottò. «Non è più di quanto meritavo.»
Caramon si affrettò a distogliere lo sguardo da Dalamar: aveva il volto talmente pallido che Tas infilò la sua mano in quella dell’omone, temendo che potesse accasciarsi al suolo.
«Cosa c’è?» chiese. «Non lo credevi capace di questo?» L’elfo scuro scosse la testa, incredulo, poi spazzò con lo sguardo l’assemblea. «No, siete come tutti gli altri. Sciocchi... tutti sciocchi.»
I maghi mormorarono insieme, qualche voce era rabbiosa, qualche altra intimorita, la maggior parte perplessa. Alla fine, Par-Salian sollevò la mano per ottenere silenzio.
«Dalamar, dicci quello che ha in mente. A meno che, naturalmente, non ti abbia proibito di parlarne.» C’era una nota d’ironia nella voce del mago che non sfuggì all’elfo scuro.
«No.» Dalamar sorrise tetro. «Conosco i suoi piani. Abbastanza, comunque. Mi ha perfino chiesto di accertarmi di essere in grado di riferirveli con la massima accuratezza.»
Nell’udire questo, si levarono mormorii e sbuffate di derisione. Ma Par-Salian parve soltanto ancora più preoccupato di prima, sempre che questo fosse possibile. «Continua,» gli intimò, quasi senza voce.
Dalamar tirò un lungo respiro.
«Viaggerà indietro nel tempo, nei giorni che hanno preceduto il Cataclisma, quando il grande Fistandantilus era al culmine del suo potere. È intenzione del mio Shalafi incontrare questo grande mago, studiare con lui, e recuperare quelle opere di Fistandantilus che sappiamo essere andate perdute nel corso del Cataclisma, poiché il mio Shalafi crede, da quanto ha letto nei libri degli incantesimi che ha preso nella Grande Biblioteca di Palanthas, che Fistandantilus abbia appreso come varcare la soglia che esiste fra dio e gli uomini. Così, il grande stregone è stato in grado di prolungare la sua vita dopo il Cataclisma per combattere le Guerre dei Nani. Così è stato in grado di sopravvivere alla terribile esplosione che devastò la terra di Dergoth. Così è stato in grado di vivere fino a quando non ha trovato un nuovo ricettacolo per la sua anima.»
«Non capisco niente di tutto questo! Ditemi cosa sta succedendo!» intimò Caramon, avanzando a grandi passi, in preda alla collera. «Altrimenti distruggerò questo miserando luogo fino a farvelo crollare in testa! Chi sarebbe questo Fistandantilus? Cosa mai ha a che fare con mio fratello?»
«Sst,» gli disse Tas, lanciando un’occhiata apprensiva ai maghi.
«Comprendiamo, kender,» disse Par-Salian, sorridendo a Tas con gentilezza, «comprendiamo la sua collera e il suo dolore. E ha ragione. Gli dobbiamo una spiegazione.» Il vecchio mago sospirò.
«Forse quello che ho fatto era sbagliato. Eppure, avevo forse una scelta? Dove mi troverei, oggi, se non avessi preso la decisione che presi?»
Tas vide Par-Salian che si voltava a guardare i maghi seduti sull’uno e sull’altro lato, e d’un tratto il kender si rese conto che la risposta del Grande Mago era tanto per loro quanto per Caramon. Molti avevano gettato indietro i loro cappucci e adesso Tas poteva vedere i loro volti. La rabbia s’irradiava dai visi di coloro che indossavano le Vesti Nere, la tristezza e la paura si riflettevano sui volti di coloro che indossavano le Vesti Bianche. Fra le Vesti Rosse, un uomo in particolare colse l’attenzione di Tas, soprattutto perché il suo volto era liscio, impassibile, eppure i suoi occhi scuri erano carichi d’emozione. Era il mago che aveva messo in dubbio il potere di Raistlin. Parve a Tas che Par-Salian rivolgesse le sue parole soprattutto a quell’uomo.
«Più di sette anni fa, Paladine mi comparve davanti.» Gli occhi di Par-Salian fissarono le ombre. «Il grande dio mi avvertì che un tempo di terrore sarebbe giunto e avrebbe inghiottito il mondo. La Regina delle Tenebre aveva svegliato i draghi malvagi e aveva progettato di far guerra alle genti per cercare di conquistarle. “Sceglierai uno fra quelli del tuo Ordine perché ti aiuti a combattere questo male” mi disse Paladine. “Scegli bene, poiché questa persona sarà come una spada che deve fendere la tenebra. Non potrai dirgli nulla di ciò che il futuro ci riserva poiché grazie alle sue decisioni e alle decisioni di altri, il tuo mondo rimarrà in piedi oppure precipiterà per sempre nella notte eterna”.»
Par-Salian venne interrotto da voci rabbiose, provenienti in modo particolare da coloro che indossavano le Vesti Nere. Par-Salian lanciò loro un’occhiata con occhi lampeggianti. In quell’istante Tas vide rivelati il potere e l’autorità che si celavano dentro quel mago vecchio e debole.
«Sì, forse avrei dovuto portare tutto questo avanti al Conclave,» riprese Par-Salian, con voce tagliente. «Ma credevo allora, come credo adesso, che la decisione doveva essere mia, e mia soltanto. Potevo ben prevedere le ore che il Conclave avrebbe sprecato bisticciando, sapevo bene che nessuno di voi sarebbe stato d’accordo! Io presi la mia decisione. Qualcuno di voi mette in discussione il mio diritto di farlo?»
Tas trattenne il respiro, sentendo la rabbia di Par-Salian ripercuotersi nella sala come un tuono. Le Vesti Nere riaffondarono nei loro sedili di pietra, borbottando. Par-Salian rimase silenzioso per qualche istante, poi riportò lo sguardo su Caramon, e la sua espressione severa si addolcì.
«Scelsi Raistlin,» disse.
Caramon corrugò la fronte. «Perché?» volle sapere.
«Avevo le mie ragioni,» disse Par-Salian, con gentilezza. «Alcune non posso spiegartele, neppure adesso. Ma posso dirti questo: è nato con il dono. È questa è la cosa più importante. La magia dimorava nel profondo di tuo fratello. Sapevi che fin dal primo giorno in cui Raistlin frequentò la scuola, il suo maestro provava paura e sgomento davanti a lui? Come può qualcuno istruire un allievo che ne sa più dell’insegnante? E insieme al dono della magia c’è quello dell’intelligenza. La mente di Raistlin non è mai ferma, cerca conoscenze, esige risposte. Ed è coraggioso, più coraggioso di quanto lo sia tu, guerriero. Combatte contro il dolore ogni giorno della sua vita. Ha affrontato la morte più d’una volta e l’ha sconfitta. Non teme nulla, né la luce né la tenebra. È la sua anima...» Par-Salian fece una pausa. «La sua anima brucia di ambizione, del desiderio di potere, del desiderio di altre conoscenze. Sapevo che niente, neanche la paura della stessa morte, gli avrebbe impedito di raggiungere i suoi scopi. E sapevo che gli scopi che lui cercava di raggiungere potevano beneficare il mondo, anche se lui avesse scelto di voltargli la schiena.»
Par-Salian ristette. Quando riprese a parlare, nella sua voce si percepiva il dolore. «Ma prima doveva affrontare la Prova.»
«Avresti dovuto prevedere il risultato,» dichiarò il mago vestito di rosso, in tono pacato.
«Sapevamo tutti che aspettava il momento opportuno...»
«Non avevo scelta!» ribadì Par-Salian, in tono secco, gli occhi azzurri lampeggianti. «Non c’era più tempo. Il mondo non aveva più tempo. Il giovane doveva affrontare la Prova e assimilare quello che aveva imparato. Non potevo più tardare.»
Caramon fissò l’uno e poi l’altro. «Sapevi che Raist avrebbe corso un pericolo quando l’hai fatto venire qui?»
«C’è sempre pericolo,» rispose Par-Salian. «La Prova è concepita per eliminare coloro che possono essere pericolosi per se stessi, per l’Ordine, per gli innocenti del mondo.» Si portò la mano alla testa, sfregandosi le sopracciglia. «E ricorda che la Prova è concepita anche per insegnare. Speravamo d’insegnare a tuo fratello la compassione per temprare le sue ambizioni egoistiche, speravamo di riuscire a insegnargli la misericordia, la pietà. E, forse a causa della mia foga nel volergli insegnare, ho commesso un errore. Mi sono dimenticato di Fistandantilus.»
«Fistandantilus?» fece Caramon, in preda alla confusione. «Cosa intendi dire... dimenticato? Da quanto hai detto, il vecchio mago è morto.»
«Morto? No.» Il volto di Par-Salian si oscurò. «L’esplosione che ne uccise a migliaia durante la Guerra dei Nani e rese deserta una terra che ancora oggi è devastata e spoglia non uccise Fistandantilus. La sua magia era tanto potente da sconfiggere la stessa morte. Si trasferì su un altro piano di esistenza, un piano lontano da qui, però non abbastanza lontano. Ed è rimasto sempre ad osservare, aspettando il suo momento, cercando un corpo che accettasse la sua anima. Ed ha trovato quel corpo: tuo fratello.»
Caramon stava ascoltando in un silenzio carico di tensione, il suo volto di un pallore mortale. Con la coda dell’occhio Tas vide Bupu che cominciava, a poco a poco, ad arretrare. L’afferrò per la mano e la tenne salda, impedendo alla terrorizzata nana dei burroni di precipitarsi a capofitto fuori della sala.
«Chi può sapere quale accordo presero i due durante la Prova? Nessuno di noi, probabilmente.» Par-Salian ebbe un lieve sorriso. «Io so però una cosa: Raistlin superò la Prova in maniera superba, ma la fragilità della sua salute era là a tradirlo. Forse sarebbe riuscito a sopravvivere all’ultima prova, il confronto con l’elfo scuro, anche se Fistandantilus non l’avesse aiutato. O forse no.»
«Aiutato? Gli salvò la vita?»
Par-Salian scrollò le spalle. «Sappiamo soltanto questo, guerriero: non è stato nessuno di noi a lasciare tuo fratello con quella pelle tinta d’oro. L’elfo scuro gli lanciò addosso una palla di fuoco, e Raistlin sopravvisse. Impossibile, naturalmente...»
«Non per Fistandantilus,» lo interruppe il mago vestito di rosso.
«No,» convenne Par-Salian con voce triste, «non per Fistandantilus. Allora me lo chiesi, ma non fui in grado d’indagare. Gli eventi del mondo stavano precipitando verso la crisi suprema. Tuo fratello era se stesso quando uscì dalla Prova. Più fragile, certo, ma questo bisognava aspettarselo. Ed io avevo ragione,» Par-Salian lanciò una rapida occhiata di trionfo intorno al semicerchio, «era forte nella sua magia! Chi altri avrebbe potuto conquistare il dominio di un globo dei draghi senza anni di studi?»
«Certo,» dichiarò il mago dalle Vesti Rosse, «aveva ricevuto l’aiuto da qualcuno che aveva al suo attivo anni e anni di studi.»
Par-Salian corrugò la fronte e non rispose.
«Fatemi capire bene,» disse Caramon, lanciando un’occhiata furente al mago vestito di bianco.
«Questo Fistandantilus... si è impadronito dell’anima di Raistlin? È lui che ha indotto Raistlin a prendere le Vesti Nere?»
«Tuo fratello fece la sua scelta,» replicò Par-Salian con voce tagliente. «Come l’abbiamo fatta tutti.»
«Non ci credo!» urlò Caramon. «Non è stato Raistlin a prendere questa decisione. Mentite, tutti! Avete torturato mio fratello, e poi uno dei vostri antichi stregoni ha rivendicato quello che rimaneva del suo corpo!» Le parole di Caramon tuonarono nella sala e fecero danzare allarmate le ombre.
Tas vide che Par-Salian fissava il guerriero con espressione cupa, e il kender si ritrasse, aspettando l’incantesimo che avrebbe fatto friggere Caramon come un pollo allo spiedo. Non arrivò. L’unico suono che udì era il respiro affannoso e irregolare di Caramon.
«Lo riavrò,» dichiarò Caramon alla fine, con gli occhi che gli luccicavano di lacrime. «Se lui può tornare indietro nel tempo per incontrare quel vecchio stregone, allora posso farlo anch’io. Voi potete mandarmi indietro. E quando troverò Fistandantilus, lo ucciderò. Poi Raistlin sarà...» soffocò un singhiozzo, lottando per controllarsi, «... sarà di nuovo Raist. E dimenticherà tutte queste sciocchezze di voler sfidare la Regina delle Tenebre e... diventare un dio.»
Il semicerchio esplose nel caos. Voci si levarono dovunque, schiamazzando incollerite.
«Impossibile! Cambierà la storia! Sei andato troppo oltre, Par-Salian...»
Il mago vestito di bianco si alzò in piedi e, voltandosi, fissò ogni singolo mago del semicerchio, trafiggendo con un’occhiata gelida ognuno di loro singolarmente. Tas potè percepire quella silenziosa comunicazione, rapida e bruciante come il lampo.
Caramon si passò la mano sugli occhi fissando i maghi con aria di sfida. Lentamente, tutti tornarono a sedersi. Ma Tas vide le mani stringersi, vide volti poco convinti colmi di rabbia. Il mago vestito di rosso fissò Par-Salian con espressione meditativa, sollevando un sopracciglio, poi anche lui tornò a sedersi. Par-Salian lanciò un’ultima, rapida occhiata tutt’intorno al Conclave, prima di voltarsi ancora verso Caramon.
«Prenderemo in considerazione la tua offerta,» gli disse. «Potrebbe funzionare. Certo è qualcosa che lui non si aspetterebbe...»
Dalamar cominciò a ridere.
Capitolo tredicesimo.
«Non se l’aspetterebbe?» Dalamar rise fino a quando non riuscì quasi più a respirare. «Raistlin ha progettato tutto questo! Voi credete davvero che questo grosso idiota,» indicò Caramon, «avrebbe potuto trovare la sua strada fin qui da solo? Quando quelle creature delle tenebre hanno inseguito Tanis Mezzelfo e Dama Crysania... inseguito senza mai raggiungerli... chi pensate che le avesse mandate? Perfino l’incontro con il cavaliere della morte, un incontro architettato da sua sorella, un incontro che avrebbe potuto infrangere i suoi piani, il mio Shalafi l’ha volto a proprio vantaggio. Poiché è indubbio che voi, sciocchi, spedirete questa donna indietro nel tempo dagli unici che possono guarirla, il Gran Sacerdote e i suoi seguaci. La manderete indietro nel tempo a incontrare Raistlin! Non soltanto questo, le fornirete perfino quest’uomo, il fratello di Raistlin, come guardia del corpo. Proprio quello che vuole lo Shalafi.»
Tas vide le dita simili ad artigli di Par-Salian stringersi sui freddi braccioli di pietra del suo seggio, gli occhi azzurri del vecchio luccicarono pericolosamente.
«Abbiamo sopportato abbastanza i tuoi insulti, Dalamar,» dichiarò Par-Salian. «Comincio a pensare che la tua fedeltà al tuo Shalafi sia eccessiva. Se questo è vero, allora la tua utilità per questo Conclave si è conclusa.»
Ignorando la minaccia, Dalamar esibì un amaro sorriso. «Il mio Shalafi,» ripetè lentamente, poi sospirò. Un brivido squassò il suo esile corpo, strinse le vesti strappate nella mano e chinò la testa.
«Mi trovo colto nel mezzo, come diceva lui,» bisbigliò l’elfo scuro. «Non so più chi servo, sempre che io serva qualcuno.» Sollevò gli occhi scuri, e la loro espressione ossessiva fece addolorare il cuore di Tas. «Ma io so questo: se qualcuno di voi arrivasse e cercasse di entrare nella Torre mentre lui è non presente, io vi ucciderei. Questa è la fedeltà che gli devo. Eppure, ho tanta paura di lui... almeno quanta ne avete voi. Vi aiuterò, se potrò farlo.» Le mani di Par-Salian si rilassarono, anche se il Grande Mago continuò a fissare Dalamar con severità. «Non riesco a capire perché mai Raistlin ti abbia raccontato i suoi piani... Deve certamente sapere che noi agiremo per impedirgli di avere successo con le sue terrificanti ambizioni.»
«Perché, come nel mio caso, vi ha posti nella posizione che voleva,» gridò Dalamar. D’un tratto barcollò, il suo volto era pallido per il dolore la fatica. Par-Salian fece un gesto, e una sedia si materializzò dalle tenebre. L’elfo scuro crollò su di essa. «Dovete assecondare i suoi piani. dovete mandare quest’uomo indietro nel tempo,» indicò Caramon, «insieme alla donna. È il solo modo che gli può consentire di aver successo...»
«Ed è il solo modo che può permetterci di fermarlo,» replicò Par-Salian a bassa voce. «Ma perché Dama Crysania? Quale interesse lui può -avere in qualcosa di così buono, di così puro...»
«... di così potente,» concluse Dalamar con un cupo sorriso. «Da quanto è riuscito a capire dagli scritti di Fistandantilus che ancora rimangono, avrà bisogno di un chierico che lo accompagni ad affrontare la temuta Regina. È soltanto un chierico del Bene ha abbastanza potere per sfidare la Regina e aprire la Porta Scura. Oh, Dama Crysania non è stata la prima scelta dello Shalafi. Raistlin aveva il vago progetto di utilizzare il morente Elistan, ma non vi parlerò di questo. Invece è stata Dama Crysania a cadere nelle sue mani, alla lettera, si potrebbe dire. È buona, forte nella sua fede, potente...»
«È attratta dal male come la falena dalla fiamma,» mormorò Par-Salian, fissando Crysania con profonda pietà.
Guardando a sua volta Caramon, Tas si chiese se l’omone stesse assimilando anche soltanto la metà di quello che sentiva. Aveva un’espressione vaga, istupidita, come se non fosse affatto certo di dove si trovasse, o se non sapesse bene chi lui fosse. Tas scosse la testa dubbioso. Mandare lui indietro nel tempo? si chiese il kender.
«Raistlin ha altre ragioni per volere sia questa donna sia suo fratello insieme a lui, indietro nel tempo, di questo puoi essere sicuro,» dichiarò il mago vestito di rosso a Par-Salian. «Non ha affatto rivelato il suo gioco. Ci ha detto, tramite il nostro agente, quel tanto che è bastato a lasciarci confusi. Io propongo di contrastare i suoi piani!»
Par-Salian non rispose. Ma sollevando la testa fissò Caramon per lunghi momenti, e nel suo sguardo c’era una tristezza che trafisse il cuore di Tas. Poi, scuotendo la testa, abbassò lo sguardo, fissando l’orlo delle sue vesti. Bupu piagnucolò e Tas l’accarezzò con gesto distratto. Perché mai quella strana occhiata rivolta a Caramon? si chiese il kender con inquietudine. Non era possibile che intendessero mandarlo ad una morte certa. Eppure, non era proprio questo che avrebbero fatto, se l’avessero mandato indietro nel tempo, nelle condizioni in cui si trovava adesso, malato, depresso, confuso? Tas spostò il proprio peso da un piede all’altro, poi fu colto da uno sbadiglio. Ma nessuno gli prestò attenzione. Tutti quei discorsi erano noiosi, e lui aveva anche fame. Se avevano intenzione di mandare Caramon indietro nel tempo, Tas desiderava ardentemente che lo facessero subito.
D’un tratto sentì una parte della sua mente (quella che aveva continuato ad ascoltare Par-Salian) dare uno strattone all’altra parte. Tas si affrettò all’istante a rimettere insieme entrambe le parti, per ascoltare ciò che veniva detto.
Dalamar aveva ripreso a parlare: «Dama Crysania ha passato una notte nel suo studio. Non so cosa sia stato discusso, ma quando se n’è andata, alla mattina, l’ho vista scossa e turbata. Le ultime parole che lui le ha rivolto sono state: “Non ti è venuto in mente che Paladine non ti abbia mandato per fermarmi, ma per aiutarmi?”»
«E quale risposta lei gli ha dato?»
«Non gli ha risposto,» disse Dalamar. «Ha riattraversato la Torre e poi il Bosco come qualcuno che non può vedere né sentire.»
«Quello che non capisco è il motivo per il quale Dama Crysania si è messa in viaggio per cercare il nostro aiuto e farsi mandare indietro nel tempo. Deve aver saputo per certo che avremmo rifiutato una simile richiesta!» dichiarò il mago vestito di rosso.
«A questo posso rispondere io!» esclamò Tasslehoff, parlando prima di pensare.
Adesso Par-Salian gli prestava attenzione, e anche tutti gli altri maghi del semicerchio gli stavano prestando attenzione. Tutte le teste, nessuna esclusa, si voltarono nella sua direzione. Tas aveva parlato agli spiriti della Foresta Scura, aveva parlato al Consiglio della Pietra Bianca ma, per un attimo, rimase intimorito da questo pubblico silenzioso e solenne. Specialmente dopo che gli era venuto in mente quello che aveva da dire.
«Per favore, Tasslehoff Burrfoot,» gli disse Par-Salian, con grande cortesia, «dicci quello che sai.»
Il Grande Mago sorrise. «Poi, forse, potremo concludere questo incontro e tu potrai cenare.»
Tas arrossì, chiedendosi se Par-Salian potesse - forse - vedere dentro il suo’ cranio e leggere i pensieri stampati sul suo cervello allo stesso modo in cui lui leggeva le parole scritte su un pezzo di pergamena.
«Oh, sì, cenare sarebbe splendido. Ma adesso, uhm, a proposito di Dama Crysania...» Tas fece una pausa per raccogliere i propri pensieri, poi si lanciò nella sua storia. «Be’, intendiamoci, non ne sono affatto sicuro. Io so soltanto quel poco che sono riuscito a raccogliere qua e là. Per cominciare dall’inizio, incontrai Dama Crysania quand’ero a Palanthas per visitare il mio amico, Tanis Mezzelfo. Lo conoscete? E Conoscete Laurana, il Generale Dorato? Ho combattuto con loro, nella Guerra delle Lance. Ho contribuito a salvare Laurana dalla Regina delle Tenebre.» Il kender parlò con orgoglio. «Avete mai sentito la storia? Mi trovavo nel Tempio di Neraka...»
Le sopracciglia di Par-Salian accennarono a sollevarsi, e Tas balbettò:
«Uh, sì, b... bene, ve lo racconterò più tardi. Comunque, incontrai Dama Crysania nella casa di Tanis e ascoltai i loro progetti per viaggiare fino a Solace per far visita a Caramon. È capitato che io... già... in un Certo senso trovassi una lettera che Dama Crysania aveva scritto a Elistan. Credo che le fosse caduta dalla tasca.»
Il kender fece una pausa per riprender fiato. Le labbra di Par-Salian si contrassero, ma si astenne dal sorridere.
«La lessi,» continuò Tas, godendosi adesso l’attenzione del suo pubblico per il fatto d’essere così importante. «Dopotutto poteva essere stata lei a buttarla via. Nella lettera si diceva... uhm... sono più che mai fermamente convinta, dopo il colloquio con Tanis, che c’è del bene in Raistlin, e che sarebbe possibile distoglierlo dal sentiero del male.” E aggiungeva: “Devo convincere i maghi di questo... Vidi perciò che la lettera era molto importante, così gliela portai. Dama Crysania me ne fu molto grata,» concluse Tas, in tono solenne. «Non si era resa conto di averla persa.»
Par-Salian si portò le mani alle labbra per impedirsi di sogghignare.
«Dissi che avrei potuto raccontarle un sacco di storie su Raistlin, se avesse voluto ascoltarle. Rispose che le sarebbe piaciuto moltissimo, così le narrai tutte le storie che mi riuscì di ricordare. La interessò in modo particolare quella che le raccontai su Bupu...
«“Se soltanto potessi trovare quella nana dei burroni!” mi disse una sera. “Sono certa che potrei convincere Par-Salian che c’è speranza, che può essere recuperato!”»
A queste parole una delle Vesti Nere sbuffò sonoramente. Par-Salian scoccò un’occhiata tagliente in quella direzione, gli stregoni si azzittirono. Ma Tas vide molti di loro, soprattutto le Vesti Nere, incrociare le braccia sul petto in segno di collera. Potè vedere i loro occhi luccicare nelle ombre dei loro cappucci.
«Uh, s... sono sicuro di non aver avuto nessuna intenzione di offendere,» balbettò Tas. «So di aver sempre pensato che Raistlin stava molto meglio in nero, con quella sua pelle dorata e tutto il resto. Certo io non credo che tutti debbano essere buoni, naturalmente. Fizban, che in realtà è Paladine, ed io, siamo amici intimi. Paladine... insomma, Fizban ha detto che doveva esserci un equilibrio nel mondo, che noi lottavamo per ripristinare quell’equilibrio. Questo significa, perciò, che devono esserci Vesti Nere oltre che Bianche, non è vero?»
«Sappiamo quello che vuoi dire, kender,» replicò Par-Salian con gentilezza. «I nostri confratelli non si offendono per le tue parole. La loro rabbia è diretta altrove. Non tutti al mondo sono saggi come Fizban il Favoloso.»
Tas sospirò. «Talvolta sento la sua mancanza. Ma dov’ero arrivato... Ah, sì, Bupu. È quando ho avuto la mia idea. “Forse, se Bupu raccontasse la sua storia, i maghi le crederebbero,” dissi a Dama Crysania. Lei si mostrò d’accordo, ed io mi offrii di andare a cercare Bupu, appunto. Non ero più stato a Xak Tsaroth sin da quando Goldmoon aveva ucciso il drago nero, ed era soltanto un breve salto da dov’eravamo, e Tanis disse che andava bene. In realtà, pareva molto contento di vedermi partire.
«L’Highpulp mi lasciò prendere Bupu dopo, uhm, una piccola discussione, e certi oggetti interessanti che avevo in borsa. Portai Bupu a Solace, ma Tanis era già partito, e anche Dama Crysania. Caramon era...» Tas smise di parlare, sentendo Caramon che si raschiava la gola alle sue spalle. «Caramon non... non si sentiva troppo bene, ma Tika, cioè la moglie di Caramon e mia grande amica... Tika comunque dichiarò che dovevamo raggiungere Dama Crysania perché la Foresta di Wayreth era un luogo terribile e, vi garantisco che non intendo offendere nessuno, ma vi siete mai soffermati a pensare che la vostra Foresta è davvero cattiva? Voglio dire, non è amichevole,» Tas fissò i maghi con severità, «e non so proprio perché la lasciate andare in giro! Credo sia una prova d’irresponsabilità!»
Le spalle di Par-Salian sussultarono.
«Ecco, è tutto quello che so,» disse Tas. «E c’è Bupu, e lei può...» Tas smise di parlare e si guardò intorno. «Dov’è andata?»
«Qui,» rispose Caramon, cupo, trascinando fuori la nana dei burroni da dietro la sua schiena, dove si era rintanata in preda al più abbietto terrore. Vedendo i maghi che la fissavano, la nana dei burroni cacciò uno strillo e crollò sul pavimento, un tremante fagotto di stracci.
«Credo che farai meglio a raccontarci tu la sua storia,» disse Par-Salian a Tas. «Se puoi farlo, s’intende.»
«Sì,» disse Tas, d’un tratto tutto mogio. «So quello che Dama Crysania voleva che raccontassi. È accaduto durante la guerra, quando eravamo a Xak Tsaroth. Gli unici che sapevano qualcosa di quella città erano i nani dei burroni. Ma la maggior parte di loro non voleva aiutarci. Raistlin lanciò un incantesimo su una di loro, Bupu. Incantesimo non è la parola giusta per definire quello che le fece. Bupu s’innamorò di lui.» Tas fece una pausa sospirando, poi continuò con un tono di voce pieno di rimorso. «Credo che qualcuno di noi abbia pensato che fosse divertente. Ma non Raistlin. Fu davvero gentile con lei, e perfino le salvò la vita, un giorno, quando i draconici ci attaccarono. Be’, dopo che lasciammo Xak Tsaroth, Bupu venne con noi. Non poteva sopportare di staccarsi da Raistlin.»
Tas abbassò la voce. «Una notte mi svegliai. Sentì Bupu che piangeva. Feci per andare da lei, ma vidi che anche Raistlin aveva sentito. Bupu aveva nostalgia di casa, voleva tornare dalla sua gente ma non poteva lasciarlo. Non so che cosa lui le disse, ma vidi che le appoggiava le mani sulla testa. E mi parve di distinguere una luce che risplendeva tutt’intorno a Bupu. E poi, Raistlin la mandò a casa. Dovette viaggiare attraverso una terra brulicante di terribili creature ma, chissà per quale motivo, sapevo che sarebbe stata al sicuro. E fu proprio così,» terminò Tas, con solennità.
Vi fu qualche istante di silenzio, poi parve che tutti i maghi si mettessero a parlare nello stesso tempo. Quelli dalle Vesti Nere scuotevano la testa. Dalamar sogghignò.
«Il kender sognava,» disse con disprezzo.
«Comunque, chi mai crede ai kender?» qualcuno gli fece eco.
I maghi dalle Vesti Rosse e dalle Vesti Bianche apparivano pensierosi e perplessi.
«Se questo è vero,» disse uno di loro, «forse l’abbiamo giudicato male. Forse dovremmo cogliere questa occasione, per quanto labile.»
Alla fine Par-Salian sollevò una mano per ottenere silenzio.
«Ammetto che trovo difficile crederlo,» dichiarò, infine. «Non intendo svalutare ciò che hai detto, Tasslehoff Burrfoot,» aggiunse con gentilezza, sorridendo all’indignato kender. «Ma tutti sanno che la tua razza ha la deprecabilissima tendenza a... uh... esagerare. Per me è ovvio che Raistlin ha semplicemente incantato questa... questa creatura,» Par-Salian parlò con disgusto, «per usarla e...»
«Me no creatura!»
Bupu sollevò dal pavimento il volto rigato di lacrime, striato di fango, i capelli arruffati come quelli di un gatto rabbioso. Fissando Par-Salian con occhi furenti, si alzò in piedi e fece per avanzare, inciampò sulla borsa che portava, e finì lunga distesa sul pavimento. Per nulla scoraggiata, la nana dei burroni si tirò su e fronteggiò Par-Salian.
«Me non sa niente di grandi, potenti stregoni.» Bupu agitò una mano tozza. «Me non sa niente di nessun incantesimo. Me sa che magia in questo.» Cercò a tastoni nella borsa, poi tirò fuori il ratto morto e lo agitò in direzione di Par-Salian. «E me sa che uomo di cui tu parli qui è buono uomo. Lui gentile con me.» Stringendo al petto il ratto morto, Bupu fissò Par-Salian con gli occhi colmi di lacrime. «Altri, uomo grosso, kender, ridono di Bupu. Guardano me come specie di insetto.»
Bupu si sfregò gli occhi. Tas sentì un nodo alla gola e gli parve d’essere lui stesso inferiore a un insetto.
Bupu continuò, parlando con voce sommessa: «Me so come sono.» Cercò invano con le mani sporche di lisciarsi il vestito, lasciando su di esso altre strisce di sporco. «Me so che me non bella, come signora distesa qui.» La nana dei burroni tirò su con il naso, poi se lo pulì con la mano e, sollevando la testa, tornò a fissare Par-Salian con aria di sfida. «Ma lui non chiama me “creatura”! Lui chiama me “piccolina”. Piccolina,» ripetè.
Per un momento rimase silenziosa, ricordando. Poi cacciò fuori un burrascoso respiro. «Io... io volevo stare con lui. Ma lui dice me, vuole me essere al sicuro. Lui mette mano su mia testa,» Bupu chinò la testa come in omaggio alla memoria, «e io sento caldo dentro. Poi lui dice me: “Arrivederci, Bupu”. Lui chiama me “piccolina”.» Sollevando lo sguardo, Bupu lanciò un’occhiata al semicerchio. «Lui mai riso di me,» disse, soffocando. «Mai!» Cominciò a piangere.
Per un attimo, gli unici suoni nella stanza furono i singhiozzi della nana dei burroni. Caramon si coprì il volto con le mani, sopraffatto. Tas esalò un tremulo sospiro e frugò nelle sue borse alla ricerca di un fazzoletto. Dopo qualche istante, Par-Salian si alzò dal suo seggio di pietra e si fermò davanti alla nana dei burroni, che lo stava guardando con sospetto, scossa allo stesso tempo dai singhiozzi.
Il Grande Mago tese la mano. «Perdonami, Bupu,» disse con voce grave, «se ti ho offeso. Devo confessare di aver detto quelle parole crudeli di proposito, sperando di farti arrabbiare abbastanza da indurti a raccontare la tua storia, poiché soltanto allora avremmo potuto esser certi della verità.»
Par-Salian appoggiò la mano sulla testa di Bupu, il suo volto era stanco e tirato, ma pareva esultante.
«Forse non abbiamo fallito, forse ho imparato un po’ di compassione,» mormorò. Gentilmente accarezzò i capelli scarmigliati della nana dei burroni. «No, Raistlin non avrebbe mai riso di te, piccolina. Sapeva. Ricordava. In troppi avevano riso di lui.»
Tas non riusciva a vedere attraverso le sue lacrime, e sentì Caramon che piangeva in silenzio accanto a lui. Il kender si soffiò il naso nel fazzoletto, poi venne avanti per recuperare Bupu che stava piagnucolando dentro l’orlo della veste bianca di Par-Salian.
«Così, questa è la ragione per la quale Dama Crysania ha intrapreso questo viaggio?» chiese Par-Salian a Tas quando il kender si avvicinò. Il mago lanciò un’occhiata alla forma bianca, fredda e immobile, stesa sotto il telo di lino, con gli occhi ciechi fissi sull’oscurità avvolta nelle ombre.
«Crede di poter riattizzare la scintilla del Bene che noi abbiamo cercato di accendere, senza riuscirci?»
«Sì,» rispose Tas, improvvisamente a disagio sotto lo sguardo penetrante degli occhi azzurri del mago.
«E perché vuole tentare questo?» insistette Par-Salian.
Tas tirò in piedi Bupu e le porse il suo fazzoletto, cercando d’ignorare il fatto che la nana lo fissava con stupore, ovviamente senza la più pallida idea dell’uso che avrebbe dovuto farne. Si soffiò il naso dentro l’orlo del suo vestito.
«Uhm, be’, Tika ha detto...» Tas s’interruppe, arrossendo.
«Cos’è che ha detto Tika?» chiese Par-Salian, con voce sommessa.
«Tika ha detto,» Tas deglutì, «Tika ha detto che lo faceva perché... perché Dama Crysania a... amava lui... Raistlin.»
Par-Salian annuì. Il suo sguardo andò a Caramon. «E tu che cosa mi dici, gemello?» chiese d’un tratto. Caramon sollevò la testa e fissò Par-Salian con occhi ossessionati.
«Lo ami ancora? Hai dichiarato che saresti tornato indietro nel tempo per uccidere Fistandantilus. Il pericolo che affronterai sarà grande. Ami abbastanza tuo fratello da intraprendere questo pericoloso viaggio? Da rischiare la tua vita per lui, come ha fatto questa Dama? Ricordati, prima di rispondere, che non tornerai indietro nel tempo per salvare il mondo. Tu tornerai indietro avventurandoti in una ricerca per salvare un’anima, niente di più. . Niente di nuovo.»
Le labbra di Caramon si mossero, ma nessun suono uscì da esse. Però la sua faccia era illuminata dalla gioia, c’era una felicità che sprizzava dalle profondità del suo essere. Riuscì soltanto ad annuire.
Par-Salian si voltò verso il Conclave.
«Ho preso la mia decisione,» cominciò.
Una delle Vesti Nere si alzò e buttò indietro il cappuccio. Tas vide che era la donna che l’aveva accompagnato qui. La collera ardeva nei suoi occhi. La donna fece un rapido movimento tagliente con la mano.
«Noi ci opponiamo a questa decisione, Par-Salian,» disse a bassa voce. «E sai che ciò significa che non puoi lanciare l’incantesimo.»
«Il Maestro della Torre può lanciare l’incantesimo da solo, Ladonna,» rispose Par-Salian, tetro. «Il potere viene conferito a tutti i maestri. Così Raistlin scoprì il segreto quando divenne Maestro della Torre a Palanthas. Non ho bisogno dell’aiuto né delle Vesti Rosse né delle Vesti Nere.»
Un mormorio si levò anche dalle Vesti Rosse; molti guardarono le Vesti Nere, annuendo in segno di accordo con loro. Ladonna sorrise.
«Invero, Grande Mago,» disse, «lo so, tu non hai bisogno di noi per lanciare quell’incantesimo, ma ugualmente hai bisogno di noi. Hai bisogno della nostra collaborazione, Par-Salian, altrimenti le ombre della nostra magia si leveranno e oscureranno la luce della luna d’argento. E tu fallirai.»
Il volto di Par-Salian divenne freddo e grigio. «Che mi dici della vita di questa donna?» intimò, indicando Crysania.
«Cos’è per noi la vita di un chierico di Paladine?» esclamò con disprezzo Ladonna. «I nostri interessi sono assai più grandi e non possono essere discussi in presenza di estranei. Mandali via,» indicò Caramon, «e ne discuteremo privatamente.»
«Credo che sarebbe saggio farlo, Par-Salian,» disse con voce pacata il mago vestito di rosso. «I nostri ospiti sono stanchi e affamati, e troverebbero del tutto noiosi i nostri disaccordi familiari.»
«Molto bene,» disse d’un tratto Par-Salian. Ma Tas riconobbe la collera sul volto del mago vestito di bianco, quando si voltò verso di loro. «Verrete convocati.»
«Aspetta!» urlò Caramon. «Esigo di essere presente! Io...»
L’omone tacque di colpo quasi strangolandosi da solo. La sala era scomparsa, i maghi erano scomparsi, i seggi di pietra erano scomparsi. Caramon stava urlando a una cappelliera.
Stordito, Tas si guardò intorno. Lui, Caramon e Bupu erano in una comoda stanza che avrebbe potuto benissimo trovarsi nella Locanda dell’Ultima Casa. Un fuoco bruciava nel caminetto, sul lato opposto c’erano dei comodi letti. Un tavolo pieno di cibo era accanto al fuoco. L’odore del pane appena cotto e della carne arrostita fece loro venire l’acquolina in bocca. Tas sospirò deliziato.
«Credo che questo sia il posto più bello del mondo,» disse.
Capitolo quattordicesimo.
Il vecchio mago vestito di bianco sedeva in uno studio che assomigliava molto a quello di Raistlin nella Torre di Palanthas, soltanto che i libri che riempivano gli scaffali di Par-Salian erano rilegati in cuoio bianco. Le rune d’argento tracciate sui loro dorsi e sulle loro copertine luccicavano al bagliore d’una fiamma scoppiettante. Chiunque fosse entrato avrebbe pensato che la stanza fosse invasa da un caldo soffocante, ma Par-Salian sentiva il gelo dell’età penetrargli le ossa. Per lui la stanza era del tutto confortevole.
Sedeva alla scrivania con gli occhi fissi sulle fiamme. Trasalì leggermente nel sentire un lieve bussare alla porta poi, sospirando, disse con voce sommessa: «Entra.»
Un giovane mago vestito di bianco aprì la porta, rivolgendo un inchino al mago vestito di nero che gli passò davanti, come si confaceva a qualcuno della sua posizione. Il mago dalle Vesti Nere, Ladonna, accettò l’omaggio senza far commenti. Buttando indietro il cappuccio, avanzò nella camera di Par-Salian ma si fermò subito oltre la soglia. Il mago vestito di bianco chiuse senza far rumore la porta alle sue spalle, e lasciò soli i capi dei rispettivi Ordini.
Ladonna lanciò uno sguardo rapido e penetrante intorno a sé. La maggior parte di quell’ambiente si smarriva fra le ombre, il fuoco proiettava l’unica luce esistente. Perfino le tende erano state tirate, escludendo l’arcano bagliore delle lune. Sollevando la mano, Ladonna mormorò poche parole sommesse. Parecchi oggetti presenti nella stanza cominciarono a luccicare d’una bizzarra luce rossastra mostrando di possedere proprietà magiche: un bastone appoggiato a una parete, un prisma di cristallo sulla scrivania di Par-Salian, un candelabro dalle molte braccia, un’enorme clessidra, e fra le altre cose parecchi anelli che ornavano le dita del vecchio. Niente di tutto questo parve allarmare Ladonna. Si limitò semplicemente a fissare ognuno di essi e ad annuire. Poi, soddisfatta, prese posto sulla sedia più vicina alla scrivania. Par-Salian la guardò con un lieve sorriso sulla faccia segnata.
«Non ci sono creature dell’Oltretomba annidate negli angoli, Ladonna, te lo assicuro,» disse asciutto il vecchio mago. «Se avessi voluto bandirti da questo piano avrei potuto farlo molto tempo fa, mia cara.»
«Quando eravamo giovani?». Ladonna buttò ancora più indietro il cappuccio. I capelli color grigioferro, raccolti in una treccia complicata avvolta a crocchia intorno alla testa, incorniciavano un volto la cui bellezza pareva accresciuta dalle rughe dell’età, e disegnata da un maestro, tanto dava risalto alla sua intelligenza quanto alla sua tenebrosa saggezza. «Quello sì sarebbe stato il contesto adatto, Grande Mago.»
«Lascia perdere il titolo, Ladonna,» replicò Par-Salian. «Ci conosciamo da troppo tempo ormai per usarlo ancora.»
«Da molto tempo e molto bene, Par-Salian,» disse Ladonna con un sorriso. «Molto bene,» ripetè sommessamente, girando gli occhi verso il fuoco.
«Torneresti alla tua giovinezza, Ladonna?» le chiese Par-Salian.
Per qualche istante lei non rispose, poi levò lo sguardo su di lui e scrollò le spalle. «Scambiando il potere, la saggezza e l’abilità per che cosa? Sangue ardente? Improbabile, mio caro. E tu?»
«Avrei risposto allo stesso modo vent’anni fa,» dichiarò Par-Salian, sfregandosi le tempie. «Ma adesso... me lo sto chiedendo.»
«Non sono venuta per rievocare i vecchi tempi, non importa quanto piacevoli siano stati,» disse Ladonna, schiarendosi la gola, con voce improvvisamente fredda e severa. «Sono venuta per oppormi a questa follia.» Si sporse in avanti, i suoi occhi scuri lampeggiarono. «Spero che tu non faccia sul serio, Par-Salian. Neppure tu puoi esser tanto debole di cuore e di cervello da mandare quello stupido umano indietro nel tempo per cercare di fermare Fistandantilus! Pensa al pericolo! Potrebbe cambiare la storia! Potremmo tutti cessare di esistere!»
«Bah, Ladonna, pensa tu, piuttosto!» sbottò Par-Salian. «Il tempo è un grande fiume che scorre, più vasto e più ampio di qualunque altro fiume che noi conosciamo. Se butti un sasso nell’acqua che scorre impetuosa, forse questa si ferma all’improvviso? Comincia a scorrere a ritroso? Devia dal suo corso per scorrere in un’altra direzione? Certo che no! Il sasso crea qualche increspatura sulla superficie, forse, ma poi affonda. Il fiume continua a scorrere in avanti, come ha sempre fatto.»
«Cosa stai dicendo?» chiese Ladonna, fissando circospetta Par-Salian.
«Che Caramon e Crysania sono sassi, mia cara. Non influenzeranno lo scorrere del tempo più di quanto due pietre scagliate nel Thos-Tsalarian influenzerebbero il suo corso. Sono sassi...» ripetè.
«Abbiamo sottovalutato Raistlin, così dice Dalamar,» lo interruppe Ladonna. «Dev’essere molto sicuro del suo successo, altrimenti non correrebbe il rischio. Non è uno sciocco, Par-Salian.» continuò, «È sicuro di potersi procurare la magia. Su questo punto non possiamo fermarlo. Ma questa magia sarà inutile per lui senza il chierico. Ha bisogno di Crysania.»
Il mago vestito di bianco sospirò. «Ed è per questo che dobbiamo mandarla indietro nel tempo.»
«Non riesco a capire...»
«Deve morire, Ladonna!» ringhiò Par-Salian. «Devo forse evocare una visione per te? Dev’essere mandata indietro in un’epoca in cui su questa terra non c’era nessun chierico. Raistlin ha detto che avremmo dovuto mandarla indietro. Che non avremmo avuto altra scelta. Come lui Stesso ha detto, questo è l’unico modo, per noi, di frustrare i suoi piani! È la sua più grande speranza, e la sua più grande paura. Ha bisogno di portarla con sé fino alla Porta, ma lei deve venire spontaneamente! Così, progetta di scuotere la sua fede, di disilluderla abbastanza in modo che lei lavori con lui.»
Par-Salian agitò la mano, irritato. «Stiamo sprecando tempo. Parte domattina. Dobbiamo agire subito.»
«Allora tienila qui!» esclamò Ladonna, sdegnosamente. «Mi pare abbastanza semplice.»
Par-Salian scosse la testa. «Lui, semplicemente, tornerebbe a prenderla. E a quel punto avrà la magia. Avrà il potere di fare ciò che vorrà.»
«Uccidila.»
«È stato tentato, ma senza successo. Inoltre, perfino tu con le tue arti, riusciresti a ucciderla mentre è sotto la protezione di Paladine?»
«Allora, forse, il Dio le impedirà di andare?»
«No. L’auspicio che ho fatto era neutrale. Paladine ha lasciato la faccenda nelle nostre mani. Qui, Crysania è soltanto un vegetale, né sarà mai nient’altro, poiché nessuno che viva oggi ha il potere di ripristinarla alla vita. Forse Paladine intende farla morire in un luogo e in un tempo in cui la sua morte avrà significato, così da completare il ciclo della sua vita.»
«Così, tu la manderai alla sua morte,» mormorò Ladonna, fissando Par-Salian con stupore. «Le tue vesti bianche si tingeranno del rosso del sangue, mio vecchio amico.»
Par-Salian picchiò le mani sul tavolo. Il suo volto era contorto dall’angoscia. «Non mi sto godendo tutto questo, dannazione! Ma cosa posso fare? Non riesci a capire la posizione in cui mi trovo? Chi siede adesso a capo delle Vesti Nere?»
«Io,» rispose Ladonna.
«Chi siederà come capo, se lui tornerà vittorioso?»
Ladonna corrugò la fronte e non rispose.
«Precisamente. I miei giorni sono contati, Ladonna. Lo so. Oh,» fece un gesto, «i miei poteri sono ancora grandi. Forse non sono mai stati più grandi. Ma ogni mattina, quando mi sveglio, sento la paura. Sarà oggi il giorno in cui verranno meno? Tutte le volte che ho difficoltà a ricordarmi un incantesimo, rabbrividisco. So che un giorno non riuscirò più a ricordare le parole giuste.» Chiuse gli occhi. «Sono stanco, Ladonna. Vorrei soltanto rimanere in questa stanza e nient’altro, vicino a questo caldo fuoco, e registrare in questo libro le conoscenze che ho acquisito nel corso degli anni. Eppure, adesso non oso lasciare il mio posto, poiché so chi l’occuperebbe.»
Il vecchio mago sospirò. «Sceglierò io il mio successore, Ladonna,» disse con voce sommessa.
«Non intendo farmi strappare di mano la mia posizione. La mia posta in questo gioco è più grande di quella di chiunque di voi.»
«Forse no,» replicò Ladonna, fissando le fiamme. «Se tornerà vittorioso, non ci sarà più un Conclave. Saremo tutti suoi servitori.» Strinse le mani. «Mi oppongo ancora, Par-Salian! Il pericolo è troppo grande! Lascia che lei rimanga qui. Lascia che Raistlin apprenda quello che può da Fistandantilus. Potremo affrontarlo quando tornerà! È potente, certo, ma gli ci vorranno anni per padroneggiare le arti che Fistandantilus conosceva quando è morto! Possiamo utilizzare quel tempo per armarci contro di lui! Possiamo...»
Vi fu un fruscio tra le ombre della stanza. Ladonna trasalì e la sua mano corse subito a una tasca nascosta fra le sue vesti.
«Ferma, Ladonna,» disse una voce pacata. «Non c’è bisogno che tu sprechi le tue energie per un incantesimo-scudo. Non sono una Creatura dell’Oltrelà, come Par-Salian ha già dichiarato.» La figura entrò nel cerchio di luce proiettato dal fuoco, le vesti rosse luccicarono debolmente.
Ladonna tornò ad appoggiarsi allo schienale con un sospiro, ma c’era un luccichio di collera nei suoi occhi che avrebbe fatto arretrare, allarmato, un apprendista. «No, Justarius,» replicò, gelida,
«tu non sei una Creatura dell’Oltrelà. E così, sei riuscito a nasconderti alla mia vista? Come sei diventato abile, Veste Rossa.» Girandosi sulla sua sedia, fissò Par-Salian con sdegno. «Stai diventando vecchio, amico mio, se hai bisogno di aiuto per trattare con me!»
«Oh, sono sicuro che Par-Salian è sorpreso di vedermi tanto quanto te, Ladonna,» dichiarò Justarius. Avvolgendosi nelle vesti rosse, venne lentamente avanti e prese posto su un’altra sedia davanti alla scrivania di Par-Salian. Zoppicava, camminando, trascinando sul pavimento il piede sinistro. Raistlin non era l’unico mago che era rimasto ferito durante la Prova.
Justarius sorrise. «Anche se il Grande Mago è diventato molto abile nel nascondere i suoi sentimenti,» aggiunse.
«Ero consapevole della tua presenza,» replicò Par-Salian con voce sommessa. «Mi conosci meglio di così, amico mio.»
Justarius scrollò le spalle. «Non ha poi importanza. M’interessava sentire quello che avevi da dire a Ladonna...»
«Ti avrei detto la stessa cosa.»
«Probabilmente meno, poiché io non avrei ribattuto come ha fatto lei. d’accordo con te, lo sono stato sin dall’inizio. Ma questo perché tutti conosciamo la verità.»
«Quale verità?» domandò Ladonna. Il suo sguardo andò da Justarius a Par-Salian, i suoi occhi si dilatarono per la collera. ;, «Dovrai mostrarglielo,» disse Justarius, sempre con la stessa voce pacata. «Altrimenti non si convincerà. Dimostrale quanto è grande il pericolo.»
«Non mi mostrerai niente!» esclamò Ladonna, con voce fremente. «ora non so se sono disposta a credere a quanto è stato concepito da voi due...»
«Allora lascia che lo faccia lei stessa,» suggerì Justarius, scrollando le spalle.
Par-Salian corrugò la fronte poi, sempre accigliato, spinse il prisma di cristallo sulla scrivania verso di lei. Glielo indicò. «Quel bastone all’angolo apparteneva a Fistandantilus, lo stregone più grande e più potente Che sia mai vissuto. Lancia un incantesimo di veggenza, Ladonna, e guarda il bastone.»
Ladonna toccò il prisma esitando, il suo sguardo carico di sospetto andò ancora una volta da Par-Salian a Justarius, per poi tornare a fissarsi Su Par-Salian.
«Fallo!» le ingiunse seccamente Par-Salian. «Non l’ho manipolato.» Le sue sopracciglia scure si corrugarono. «Tu sai che non posso mentirti, Ladonna.»
«Anche se puoi mentire ad altri,» disse Justarius con voce sommessa.
Par-Salian lanciò un’occhiata rabbiosa al mago vestito di rosso, ma non replicò.
Con decisione improvvisa, Ladonna prese il cristallo. Tenendolo nella mano, lo sollevò all’altezza degli occhi, salmodiando parole che suonavano aspre e taglienti. Un arcobaleno di luce s’irradiò dal prisma al bastone in apparenza di legno comune appoggiato contro la parete in un angolo buio dello studio. L’arcobaleno si espanse mentre sgorgava dal cristallo, per avvolgere completamente il bastone. Poi ondeggiò e si coagulò, formando una vivida immagine del proprietario del bastone.
Ladonna fissò l’immagine per un lungo istante, poi abbassò lentamente il prisma dal proprio occhio. Nel momento in cui ritrasse la propria attenzione da esso, l’immagine scomparve, l’arcobaleno di luce si spense. Il suo volto era pallido.
«Allora, Ladonna?» chiese Par-Salian con calma, un attimo dopo. «Procediamo?»
«Fammi vedere l’incantesimo del Viaggio nel Tempo,» lei disse con voce tesa.
Par-Salian fece un gesto d’impazienza. «Sai che non è possibile, Ladonna! Soltanto ai Maestri della Torre è permesso conoscere questo incantesimo...»
«Rientra nei miei diritti quanto meno assistervi,» replicò Ladonna con freddezza. «Nascondi i componenti e le parole alla mia vista, se vuoi. Ma esigo di vedere i risultati che ci si aspettano.» La sua espressione s’indurì. «Perdonami se non mi fido di te, vecchio amico, come un tempo avrei potuto. Ma le tue vesti sembrano diventare grigie come i tuoi capelli.» Justarius sorrise, come se la cosa lo divertisse.
Par-Salian rimase seduto per qualche istante, irresoluto. «Domani mattina, amico,» mormorò Justarius.
Con un gesto di rabbia Par-Salian si alzò in piedi. Allungò la mano sotto le vesti ed estrasse una chiave d’argento che portava al collo, appesa a una catena d’argento, una chiave che soltanto il Maestro della Torre della Grande Stregoneria poteva usare. Un tempo ce n’erano state cinque, adesso ne rimanevano soltanto due. Mentre Par-Salian si sfilava la chiave dal collo e la infilava in una cassapanca di legno decorata con incisioni che si trovava accanto alla scrivania, tutti e tre i maghi presenti in quella stanza si stavano chiedendo in silenzio se Raistlin, magari in quello stesso momento, non stesse facendo l’identica cosa con la chiave che lui possedeva, forse tirando fuori perfino lo stesso libro d’incantesimi rilegato in argento. Forse stava perfino sfogliando, lentamente e con reverenza, quelle stesse pagine, posando il suo sguardo sugli incantesimi conosciuti soltanto dai Maestri delle Torri.
Par-Salian aprì il libro, borbottando dapprima le parole prescritte che soltanto i Maestri conoscevano. Se non l’avesse fatto, il libro sarebbe svanito da sotto la sua mano. Arrivato alla pagina giusta, sollevò il prisma dal punto in cui Ladonna l’aveva lasciato, poi lo tenne sospeso sopra la pagina, ripetendo le stesse parole aspre e taglienti usate da Ladonna.
L’arcobaleno di luce scese a fiotti dal prisma, illuminando la pagina. A un ordine di Par-Salian, la luce del prisma s’irradiò verso l’esterno per colpire una parete nuda davanti a loro.
«Guarda,» disse Par-Salian. La collera traspariva ancora dalla sua voce. «Là, sulla parete, leggi la descrizione dell’incantesimo.»
Ladonna e Justarius si voltarono verso la parete dove lessero le parole a mano a mano che il prisma le presentava. Né Ladonna, né Justarius, però, furono in grado di leggere i componenti necessari o la formula specifica dell’incantesimo: gli uni e l’altra apparivano inintelligibili, o per l’intervento mirato di Par-Salian, o per un condizionamento imposto dallo stesso incantesimo. Ma la descrizione generica dell’incantesimo era chiara:
L’abilità di viaggiare indietro nel tempo è disponibile agli elfi, agli umani e agli orchi, poiché queste furono le razze create dagli dei all’inizio del tempo, e perciò esse viaggiano dentro il suo flusso. L’incantesimo non può venir usato dai nani, gnomi o kender, dal momento che la creazione di queste razze è stata un incidente, imprevisto dagli dei. (Con riferimento alla Pietra Grigia di Gargath, vedi Appendice G.). L’introduzione d’una qualunque di queste razze in un precedente arco di tempo potrebbe avere serie ripercussioni sul presente, anche se s’ignora quali possano essere. (Un appunto con la scrittura tremolante di Par-Salian aveva aggiunto in inchiostro la parola draconici tra le razze interdette.)
Ci sono però pericoli dei quali il lanciatore d’incantesimi dev’essere del tutto consapevole prima di procedere. Se il lanciatore d’incantesimi muore mentre si trova indietro nel tempo, questo non avrà nessuna influenza sul futuro, poiché sarà come se il lanciatore fosse morto in questo giorno nel presente. La morte di lui, o di lei, non avrà nessun effetto né sul passato, né sul presente, né sul futuro, salvo per l’effetto che avrebbe avuto normalmente su questi. Perciò non sprechiamo energia per un qualsivoglia tipo d’incantesimo protettivo. Il lanciatore d’incantesimi non sarà in grado di cambiare o influenzare in alcun modo ciò che è accaduto in precedenza. Questa è una precauzione ovvia. Perciò, in realtà, questo incantesimo è utile soltanto a scopo di studio. È questo lo scopo per il quale è stato concepito.
Un altro appunto, questa volta con una calligrafia molto più vecchia delle aggiunte ai margini fatte da Par-Salian:
“Non è possibile prevenire il Cataclisma: così abbiamo imparato a grande prezzo e con nostro grande dolore. Che la sua anima possa riposare con Paladine.”
«Così, è questo che gli è capitato,» disse Justarius con un sommesso fischio di sorpresa. «Questo era un segreto ben custodito.»
«Sono stati sciocchi anche soltanto a tentarlo,» dichiarò Par-Salian, «ma erano disperati.»
«Come lo siamo noi,» aggiunse Ladonna con amarezza. «Be’, c’è altro?»
«Sì, la pagina successiva,» rispose Par-Salian.
Se il lanciatore d’incantesimi non va di persona ma manda qualcun altro (si chiede caldamente di osservare le precauzioni razziali di cui alla pagina precedente), lei o lui dovrebbero equipaggiare colui che compie il viaggio con un congegno che possa essere attivato a volontà così da poter riportare il viaggiatore al proprio tempo. La descrizione di simili congegni e del modo di fabbricarli si trova dopo...
«E così sia,» disse Par-Salian. L’arcobaleno di luce scomparve inghiottito dalla mano del mago quando Par-Salian avvolse le dita intorno ad esso. «Il resto è dedicato ai particolari tecnici per fabbricare un simile congegno. Io ne ho uno antico. Lo darò a Caramon.»
Inconsciamente, pronunciò con enfasi questo nome, ma gli altri, lì nella stanza, lo notarono.
Ladonna ebbe un sorriso sarcastico, passandosi le mani sulle vesti nere. Justarius scosse la testa. Lo stesso Par-Salian, rendendosi conto delle implicazioni, sprofondò nel suo scranno. Il suo volto era segnato dal dolore.
«Così sarà soltanto Caramon a usarlo,» disse Justarius. «Capisco perché mandiamo Crysania, Par-Salian. Deve andare indietro nel tempo per non tornare mai più. Ma Caramon?»
«Caramon è la mia redenzione,» dichiarò Par-Salian senza sollevare lo sguardo. Il vecchio mago fissò le proprie mani che giacevano tremanti sul libro degli incantesimi aperto. «Intraprenderà un viaggio per salvare un’anima, come gli ho detto. Ma non sarà quella di suo fratello.» Par-Salian sollevò infine lo sguardo. I suoi occhi erano pieni di dolore. Il suo sguardo andò prima a Justarius, poi a Ladonna. Entrambi incontrando quello sguardo mostrarono piena comprensione.
«La verità potrebbe distruggerlo,» disse Justarius.
«C’è assai poco da distruggere, se vuoi la mia opinione,» osservò Ladonna con freddezza. Si alzò in piedi. Justarius si alzò con lei, barcollando un po’ fino a quando non riuscì a rimettersi in equilibrio sulla gamba storpiata. «Fintanto che ti sbarazzerai della donna, m’importa assai poco di ciò che farai dell’uomo, Par-Salian. Se pensi che possa lavare il sangue dalle tue vesti, allora aiutalo pure.» Esibì un torvo sorriso. «In un certo senso trovo la cosa molto divertente. Forse, a mano a mano che invecchiamo, non siamo poi tanto diversi, non è vero, mio caro?»
«Le differenze ci sono sempre, Ladonna,» replicò Par-Salian, con uno stanco sorriso. «Sono i contorni nitidi e distinti che cominciano a sbiadire e a farsi confusi alla nostra vista. Questo significa che le Vesti Nere si conformeranno alla mia decisione?»
«Pare che non abbiamo altra scelta,» constatò Ladonna, senza emozione. «Se fallirai...»
«Goditi la mia caduta,» disse Par-Salian, sarcastico.
«Lo farò,» rispose la donna con voce sommessa. «Ancora di più perché con ogni probabilità sarà l’ultima cosa che mi godrò in questa vita. Arrivederci, Par-Salian.»
«Una donna saggia,» osservò Justarius, quando la porta si fu chiusa alle sue spalle.
«Una rivale degna di te, amico mio.» Par-Salian tornò alla sua sedia dietro la scrivania. «Mi godrò lo spettacolo di voi due che vi darete battaglia per il mio posto.»
«Spero in tutta sincerità che ti sia possibile farlo,» disse Justarius, con la mano sulla porta.
«Quando lancerai l’incantesimo?»
«Domattina sul presto,» disse Par-Salian con voce grave. «Ci vogliono giorni di preparativi, ma ho già passato lunghe ore a lavorarci sopra. Non ho nessuno, neppure un apprendista. Alla fine sarò esausto. Occupati dello scioglimento del Conclave, vuoi farlo, amico mio?»
«Certo. E il kender e la nana dei burroni?»
«Rimanda a casa la nana dei burroni con qualunque piccolo tesoro che tu pensi possa piacerle. Quanto al kender,» Par-Salian sorrise, «puoi mandarlo dovunque voglia andare, escluse le lune, s’intende. In quanto al tesoro, sono certo che il kender ne avrà acquisito una quantità sufficiente prima di andarsene. Controlla di nascosto le sue borse ma, se non c’è niente d’importante, lascia pure che tenga quello che ha “trovato”.»
Justarius annuì. «E Dalamar?».
Il volto di Par-Salian s’incupì. «Senza dubbio l’elfo scuro se n’è già andato. Non avrebbe mai fatto aspettare il suo Shalafi.» Par-Salian batté le dita sulla scrivania, la fronte increspata per la frustrazione. «Quello che Raistlin possiede è un fascino ben strano! Tu non l’hai mai incontrato, vero? No. L’ho provato anch’io e non riesco a capire...»
«Forse io posso,» disse Justarius. «Tutti hanno riso di noi a un certo punto della nostra vita. Siamo tutti stati gelosi di un fratello germano. Tutti abbiamo provato dolore e abbiamo sofferto. E tutti abbiamo ambito, almeno una volta, ad avere il potere per schiacciare i nostri nemici. Lo odiamo. Lo temiamo soltanto perché c’è un po’ di lui in tutti noi, anche se lo ammettiamo a noi stessi soltanto nei momenti più bui della notte.»
«Sempre che lo ammettiamo. Quella donna, quel chierico sventurato! Perché mai doveva trovarsi coinvolta in questa faccenda?». Par-Salian si prese la testa fra le mani che gli tremavano.
«Arrivederci, amico mio,» disse Justarius, a bassa voce. «Ti aspetterò fuori del laboratorio, se avrai bisogno di aiuto quando tutto sarà finito.»
«Grazie,» bisbigliò Par-Salian senza sollevare la testa. Justarius uscì dallo studio con passo barcollante. Ma chiuse la porta troppo in fretta: l’orlo della sua veste rossa vi rimase impigliato, e fu costretto a riaprirla per liberarlo. Prima di chiudere di nuovo la porta sentì che qualcuno piangeva.
Capitolo quindicesimo.
Tasslehoff Burrfoot era annoiato. E, come tutti sanno, non c’è niente di più pericoloso su Krynn d’un kender annoiato.
Tas, Bupu e Caramon avevano terminato il loro pasto, un pasto assai monotono. Caramon, smarrito nei suoi pensieri, non aveva detto una sola parola, ma era rimasto seduto avvolto in un desolante silenzio, divorando con aria assente quasi tutto ciò che aveva sott’occhio. Bupu non si era neppure seduta. Agguantata una scodella, ne aveva tirato fuori il contenuto con le mani cacciandoselo in bocca con una perizia che era frutto d’una lunga esperienza acquisita alle tavole dei nani dei burroni.
Messa giù la prima scodella, ne aveva attaccata una seconda e ripulito un piatto dal sugo, per poi passare al burro, allo zucchero e alla crema, concludendo con mezzo piatto di purè di patate prima che Tasslehoff si fosse reso conto di ciò che stava accadendo. Era riuscito a malapena a salvare la saliera.
«Ah,» esclamò Tas in tono allegro. Allontanando da sé il piatto vuoto, cercò d’ignorare la vista di Bupu che lo agguantava a sua volta e lo puliva con la lingua. «Mi sento molto meglio. E tu, Caramon? Andiamo ad esplorare!»
«Esplorare!» Caramon gli rivolse un’occhiata talmente terrorizzata che Tas rimase momentaneamente sconcertato. «Sei pazzo? Non metterei piede fuori da quella porta neanche per tutte le ricchezze di Krynn!»
«Davvero?» chiese Tas, veemente. «Perché no? Oh, dimmi Caramon! Cosa c’è là fuori?»
«Non lo so.» L’omone rabbrividì. «Ma non può che essere orribile.»
«Non ho visto nessuna guardia...»
«No, e c’è una maledetta ragione perché non ce ne siano,» ringhiò Caramon. «Qui non hanno bisogno di guardie. Vedo l’espressione che hai negli occhi, Tasslehoff, perciò dimenticatene subito! Anche se ce la facessi a uscire da questa stanza,» Caramon rivolse alla porta un’occhiata possessionata, «cosa di cui dubito... finiresti tra le braccia d’un cadavere o anche peggio!»
Tas spalancò gli occhi. Riuscì comunque a soffocare un’esclamazione deliziata. Abbassando lo sguardo sulle proprie scarpe, borbottò: «Già, Immagino che tu abbia ragione, Caramon. Mi ero dimenticato di dove ci troviamo.»
«Credo proprio di sì,» replicò Caramon con severità. Sfregandosi le Spalle doloranti, l’omone gemette: «Sono stanco morto. Devo dormire un po’. Tu e quella-come-si-chiama coricatevi anche voi. D’accordo?»
«Certo, Caramon,» annuì Tasslehoff.
Bupu, producendo un rutto di soddisfazione, si era già avvoltolata in un tappeto davanti al fuoco, usando come cuscino quanto rimaneva di una scodella di purè di patate.
Caramon lanciò al kender un’occhiata carica di sospetto. Tas assunse l’espressione più innocente che un kender potesse assumere. Come risultato Caramon agitò con grande severità un dito verso di lui.
«Promettimi che non lascerai questa stanza, Tasslehoff Burrfoot. Promettimelo come lo prometteresti... diciamo a Tanis, se fosse qui.»
«Lo prometto,» rispose Tas con solennità, «proprio come lo prometterei a Tanis... se fosse qui.»
«Bene,» sospirò Caramon e crollò sul letto che scricchiolò di protesta, col materasso che sprofondò fino al pavimento sotto il peso dell’omone. «Immagino che qualcuno ci sveglierà, quando decideranno quello che vogliono fare.»
«Andrai davvero indietro nel tempo, Caramon?» chiese Tas con voce carica di desiderio, sedendosi sul proprio letto e fingendo di slacciarsi gli stivali.
«Sì, certo. Non è una gran cosa,» mormorò Caramon con voce assonnata. «Adesso fatti una dormita e... grazie, Tas. Mi sei stato... mi sei stato di grande aiuto...». Le parole si smorzarono in un sonoro russare.
Tas rimase perfettamente immobile, aspettando fino a quando il respiro di Caramon divenne costante e regolare. Non ci volle molto, poiché l’omone era fisicamente ed emotivamente esausto.
Guardando il volto pallido di Caramon, logorato dalle preoccupazioni e rigato di lacrime, il kender sentì per un attimo rimordergli la coscienza. Ma i kender sono abituati a trattare con i rimorsi di coscienza proprio come gli umani sono abituati a trattare con le punture delle zanzare.
«Non saprà mai che sono uscito,» disse Tas fra sé mentre sgusciava sul pavimento passando davanti al letto di Caramon. «E in effetti non è a lui che ho promesso di non andare da nessuna parte. L’ho promesso a Tanis. E Tanis non è qui, perciò la promessa non conta. Inoltre sono sicuro che lui avrebbe voluto esplorare, se non fosse stato così stanco.»
Quando Tas ebbe superato sempre strisciando il corpicino sozzo di Bupu, aveva ormai fermamente convinto se stesso che Caramon gli aveva ordinato di guardarsi intorno prima di andare a letto.
Saggiò la maniglia della porta con apprensione, ricordando gli ammonimenti di Caramon. Ma questa si aprì senza nessuna difficoltà. Allora siamo ospiti, non prigionieri. A meno che non ci fosse un cadavere di guardia all’esterno. Tas sporse la testa oltre il telaio della porta. Guardò lungo il corridoio, prima a destra e poi a sinistra. Niente. Nessun cadavere in vista. Sospirando un po’ per il disappunto, Tas sgusciò fuori della porta, poi la chiuse in silenzio alle proprie spalle.
Il corridoio si prolungava sia alla sua destra sia alla sua sinistra, scomparendo dietro angoli avvolti nell’ombra su entrambi i lati. Era spoglio, freddo e vuoto. Altre porte si aprivano sul corridoio, tutte buie, tutte chiuse. Non c’erano decorazioni di nessun genere né tendaggi alle pareti, nessun tappeto copriva il pavimento di pietra. Non c’erano neppure luci, né torce, né candele. A quanto pareva i maghi avrebbero dovuto procurarsele da soli, qualora fossero andati in giro dopo il calar del sole.
Una finestra a una delle due estremità lasciava filtrare la luce di Solinari, la luna d’argento, attraverso i pannelli di vetro, ma questo era tutto. Il resto del corridoio era immerso nel buio più completo. Tas pensò troppo tardi di reintrufolarsi nella stanza per prendere una candela. No. Se Caramon si fosse svegliato, avrebbe potuto non ricordare di aver detto al kender di andare ad esplorare.
«Farò una capatina in un’altra di queste stanze e prenderò a prestito una candela,» si disse Tas.
«Inoltre, è una buona maniera per incontrare gente.»
Scivolando lungo il corridoio, più silenzioso dei raggi della luna che danzavano sul pavimento, Tas raggiunse la porta successiva.
«Non busserò, nel caso in cui stiano dormendo,» ragionò, e girò con cautela la maniglia della porta.
«Ah, è chiusa a chiave!» disse, sentendosi immensamente incoraggiato. Questo gli avrebbe dato qualcosa da fare, almeno per alcuni minuti. Tirando fuori i suoi arnesi da scasso, li espose alla luce della luna per scegliere i fili di ferro della misura giusta per quella particolare serratura.
«Spero che non sia chiusa con un incantesimo,» borbottò e quel pensiero improvviso gli fece provare una sensazione di gelo. Sapeva che talvolta i maghi lo facevano, un’abitudine che il kender giudicava altamente contraria all’etica. Ma forse nella Torre della Grande Stregoneria, circondati da altri maghi, non avrebbero pensato che ne sarebbe valsa la pena. Voglio dire, chiunque potrebbe abbattere la porta con un soffio, ragionò Tas.
E infatti la serratura si aprì con facilità. Col cuore che gli batteva per l’eccitazione, Tas aprì la porta in silenzio e sbirciò dentro. La stanza era illuminata soltanto dal debole bagliore di un fuoco morente. Tese le orecchie.
Non riuscì a sentire nessuno all’interno, nessun russare o respirare, così entrò con passo felpato. I suoi occhi acuti trovarono il letto. Era vuoto. Non c’era nessuno in casa.
«Allora non gl’importerà se prendo a prestito la candela,» si disse il kender tutto felice. Trovato che ebbe una candela, accese lo stoppino con un carbone ardente. Poi si dedicò al delizioso compito di esaminare i beni degli occupanti, osservando, mentre lo faceva, che chiunque abitasse in quella stanza, non era una persona molto ordinata.
Circa due ore e molte stanze più tardi Tas stava tornando stancamente nella sua camera, con le borse gonfie degli oggetti più affascinanti... che era decisissimo a restituire ai proprietari il mattino seguente. Per la maggior parte li aveva prelevati da sopra i tavoli sui quali era ovvio che erano stati buttati con noncuranza. Non pochi altri li aveva trovati sul pavimento (era ovvio che i proprietari li avevano persi) e ne aveva perfino recuperati parecchi dalle tasche delle vesti che con tutta probabilità erano destinate a venir lavate nel qual caso gli oggetti sarebbero finiti certamente nel posto sbagliato.
Però, aguzzando gli occhi verso il fondo del corridoio, ebbe un grave shock quando vide la luce filtrare da sotto la loro porta!
«Caramon!» deglutì, ma nel medesimo istante cento scuse plausibili per giustificare il fatto di trovarsi fuori della stanza gli affluirono nel cervello. O forse Caramon non si era ancora accorto della sua assenza. Forse era ancora in preda ai fumi dello spirito dei nani. Prendendo in considerazione questa possibilità, Tas si avvicinò in punta di piedi alla porta chiusa della loro stanza e schiacciò l’orecchio contro di essa, ascoltando.
Sentì delle voci. Una la riconobbe prontamente: era quella di Bupu. L’altra... corrugò la fronte. Gli pareva familiare... dove mai gli era capitato di sentirla?
«Sì, ti rimanderò dall’Highpulp, se è là che vuoi andare. Ma prima devi dirmi dov’è l’Highpulp.»
La voce aveva un tono lievemente esasperato. A quanto pareva, la faccenda andava avanti da un po’. Tas applicò l’occhio al buco della serratura. Potè vedere Bupu con i capelli impiastricciati di purè di patate che fissava con sospetto una figura vestita di rosso. Adesso Tas ricordò dove aveva sentito quella voce! Quello era il mago presente al Conclave che aveva continuato a interrogare Par-Salian!
«Highbulp!» corresse Bupu, indignata. «Non Highpulp! E Highbulp è casa. Tu manda me casa.»
«Sì, naturalmente. Ora, dov’è la casa?»
«Dove Highbulp è.»
«E dov’è Highbulp?» chiese il mago vestito di rosso con una sfumatura di disperazione nella voce.
«Casa,» dichiarò Bupu succintamente. «Già detto te prima. Hai orecchie sotto tuo cappuccio? Forse tu sordo.» La nana dei burroni scomparve per un momento alla vista di Tas, tuffandosi dentro la sua sacca. Quando ricomparve stringeva in mano un’altra lucertola morta, con una cinghia di cuoio stretta intorno alla coda. «Me curare. Tu caccia coda in un orecchio e...»
«Grazie,» rispose precipitosamente il mago, «ma il mio udito è perfetto, te l’assicuro. Uhm, come chiami la tua casa? Qual è il suo nome?»
«Il Pitt. Con due ti. Bel nome, uh?» disse Bupu con orgoglio. «Idea di Highbulp. Lui mangiato libro una volta. Imparato un sacco. Qui tutto a posto!». Si accarezzò lo stomaco.
Tas si tappò la bocca con la mano per non scoppiare a ridere. Il mago vestito di rosso aveva gli stessi problemi. Tas vide le spalle dell’uomo scuotersi sotto le Vesti Rosse. Gli ci volle un bel po’ per rispondere. Quando lo fece, la sua voce aveva un leggero tremito.
«E con che nome gli umani chiamano il tuo, uhm, Pitt?»
Tas vide Bupu accigliarsi. «Nome stupido. Pare qualcuno che sputi. Skroth.»
«Skroth,» ripetè il mago vestito di rosso, perplesso. «Skroth,» borbottò. Poi fece schioccare le dita.
«Adesso ricordo. Il kender l’ha detto durante il Conclave. Xak Tsaroth?»
«Me detto questo già una volta. Tu sicuro non volere cura lucertola per orecchi? Metti cosa...?»
Con un profondo sospiro di sollievo, il mago vestito di rosso tenne la mano sopra la testa di Bupu,e Spruzzando quella che pareva polvere su di lei (Bupu starnutì con violenza) Tas sentì il mago salmodiare strane parole.
«Me andare a casa adesso?» chiese Bupu, speranzosa.
Il mago non rispose, continuò a salmodiare.
«Lui non carino,» borbottò la nana fra sé, starnutendo di nuovo mentre la polvere ricopriva lentamente i suoi capelli e il suo corpo. «Nessuno di loro carini. Non come mio grazioso uomo.» Si asciugò il naso, tirando su. «Lui non ride... Lui chiama me “piccolina”.»
La polvere che ricopriva la nana dei burroni cominciò ad ardere di un giallo pallido. Tas cacciò un breve rantolo. Il bagliore divenne sempre più luminoso, cambiando colore, trasformandosi in gialloverde, poi verdeazzurro, quindi azzurro, e all’improvviso...
«Bupu!» bisbigliò Tas.
La nana dei burroni era scomparsa!
«E io sono il prossimo!» si rese conto Tas con orrore. E infatti il mago vestito di rosso si stava avvicinando zoppicando al letto dove il previdente kender aveva deposto un fantoccio alla bell’e meglio perché Caramon non si preoccupasse, nel caso in cui si fosse svegliato.
«Tasslehoff Burrfoot,» chiamò con voce sommessa il mago dalle Vesti Rosse. Era uscito dalla visuale di Tas. Il kender rimase pietrificato, in fremente attesa che il mago scoprisse che lui non c’era. Non che avesse paura di venir preso. Era abituato a venir preso ed era abbastanza certo di riuscire a scamparla con la sua parlantina. Ma aveva paura di essere mandato a casa! Non si sarebbero davvero aspettati che Caramon andasse da qualche parte senza di lui, vero?
«Caramon ha bisogno di me,» bisbigliò Tas in preda all’angoscia. «Non sanno in quali brutte condizioni si trova. Diamine, cosa succederebbe se non ci fossi io, con lui, a trascinarlo fuori dalle osterie?»
«Tasslehoff,» ripetè la voce del mago dalle Vesti Rosse. Doveva essere vicino al letto, ormai.
Tas affondò rapidamente la mano in una borsa. Tirando fuori una manciata di cianfrusaglie, sperò contro ogni speranza di trovare qualcosa di utile. Aprendo la piccola mano, la sollevò alla luce della candela. Si ritrovò con un anello, un grappolo d’uva, e un grumo di cera per baffi. La cera e l’uva erano ovviamente da scartare. Le buttò sul pavimento.
Tas sentì il mago vestito di rosso che esclamava con severità: «Caramon!». Sentì Caramon che grugniva e gemeva e s’immaginò il mago che lo scuoteva. «Caramon, svegliati. Dov’è il kender?»
Cercando d’ignorare quello che stava accadendo nella stanza, Tas si concentrò nell’esame dell’anello. L’aveva preso nella terza stanza sulla sinistra. Oppure era la quarta? E di solito gli anelli magici funzionavano semplicemente infilandoseli al dito. Tas era un esperto dell’argomento. Una volta si era infilato per sbaglio un anello magico che l’aveva teleportato dritto nel cuore del palazzo d’uno stregone malvagio. Non aveva nessuna idea, adesso, di come operasse l’anello che aveva in mano.
Forse c’era qualche indizio sull’anello?
Tas lo rigirò, facendolo quasi cadere per la fretta. Grazie agli dei, era così difficile svegliare Caramon!
Era un anello dall’aspetto comune, intagliato nell’avorio, con due piccole pietre color rosa. C’erano alcune rune tracciate all’interno. Tas ricordò con uno spasimo i suoi Occhiali Magici della Veggenza, ma erano andati smarriti a Neraka, a meno che adesso non li inforcasse qualche draconico.
«Co... co...» stava farfugliando Caramon. «Kender? Gli ho detto... non uscire là fuori... cadaveri...»
«Dannazione!» Il mago dalle Vesti Rosse era già diretto verso la porta.
Poi, qualcosa cominciò ad accadere, anche se non proprio quello che Tas si era aspettato. Il corridoio si stava ingrandendo! Un sibilo assordante risuonò alle orecchie del kender mentre le pareti gli passavano accanto sfrecciando e il soffitto schizzava in alto lontano da lui. A bocca aperta fissò la porta che diventava sempre più grande, fino a raggiungere dimensioni sterminate.
Cos’ho fatto? si chiese Tas allarmato. Ho fatto crescere la Torre? Qualcuno se ne accorgerà? E quando se ne accorgeranno, si arrabbieranno poi tanto!
L’immensa porta si aprì con una raffica di vento che quasi appiattì il kender. Un’enorme figura vestita di rosso riempì il vano della porta.
Un gigante! rantolò Tas. Non soltanto ho fatto crescere la Torre... ho fatto crescere anche i maghi !
Oh, cielo. Immagino che di questo si accorgeranno! Per lo meno, accadrà la prima volta che cercheranno d’infilarsi le scarpe! E sono sicuro che si arrabbieranno. Io mi arrabbierei, se fossi alto sei metri e nessuno dei miei vestiti mi andasse più bene.
Ma il mago vestito di rosso, con grande stupore di Tas, non pareva affatto turbato per essere schizzato d’un tratto a quell’altezza. Si limitò a sbirciare su e giù lungo il corridoio, gridando:
«Tasslehoff Burrfoot!»
Guardò perfino a destra, dove lui si trovava, e non lo vide!
«Oh, grazie, Fizban!» squittì il kender. Poi tossì. Certo la sua voce suonava strana. Per prova, disse di nuovo: «Fizban?»
Ancora una volta uno squittio.
In quel momento, il mago dalle Vesti Rosse abbassò lo sguardo.
«Ah, ah! E da quale stanza sei scappato, mio piccolo amico?» esclamò il mago.
Mentre Tasslehoff guardava sgomento, una mano gigantesca calò verso di lui, si stava abbassando per prenderlo! Le dita si avvicinarono sempre di più. Tas era talmente sorpreso da non riuscire a correre o a fare nient’altro se non aspettare che quell’enorme mano lo afferrasse. Poi sarebbe tutto finito! Lo avrebbero rispedito subito a casa, sempre che non gì’infliggessero una punizione peggiore per aver ingrandito la loro Torre quando lui non era affatto sicuro che la volessero ingrandita.
La mano si librò sopra di lui e poi lo prese su per la coda.
«La mia coda» pensò Tas, fuori di sé, squittendo a mezz’aria quando la mano lo sollevò dal pavimento. «Io non ho una coda... ma devo averla! La mano mi ha agguantato da qualche parte!»
Torcendo la testa, Tas vide che aveva davvero una coda! Non soltanto una coda, ma quattro zampette rosse. Quattro! E invece dei suoi splendenti gambali azzurri, indossava una pelliccia bianca!
«Adesso,» tuonò una voce severa proprio dentro uno dei suoi orecchi, «rispondimi, piccolo roditore: di chi sei famiglio?»
Capitolo sedicesimo.
Famiglio! Tasslehoff si aggrappò a quella parola. Famiglio... Le conversazioni fatte con Raistlin gli ritornarono nella mente febbricitante.
«Alcuni maghi possiedono animali che sono obbligati a obbedire ai loro ordini,» gli aveva detto un giorno Raistlin. «Questi animali, o famigli come vengono chiamati, possono fungere da estensione dei sensi di un mago. Possono andare in luoghi a noi inaccessibili, vedere cose che il mago è incapace di vedere, udire conversazioni che lui non è stato invitato a condividere.»
A quell’epoca Tasslehoff l’aveva giudicata un’idea meravigliosa, anche se ricordava che Raistlin non ne era affatto entusiasta. Pareva considerarla una debolezza, trovarsi a dipendere in una simile maniera da un altro essere vivente.
«Be’, vuoi rispondermi?» gli intimò il mago vestito di rosso, scrollando Tasslehoff per la coda. Il sangue affluì alla testa del kender, facendogli venire le vertigini. Inoltre l’esser tenuto per la coda era molto doloroso, per non parlare poi dell’indegnità della cosa! Tutto quello che Tas riuscì a fare sul momento fu di ringraziare il cielo che Flint non potesse vederlo.
Suppongo, pensò cupo, che i famigli possano parlare. Spero che parlino comune, non qualche linguaggio strano, come il topese, per esempio.
«A... appartengo, uh...» qual era un buon nome di mago? «a Fa... Faikus,» squittì, ricordando che Raistlin aveva usato quel nome riferendosi a un suo compagno di studi di tanti anni prima.
«Ah,» disse il mago dalle Vesti Rosse, corrugando la fronte, «avrei dovuto saperlo. Andavi in giro per incarico del tuo padrone oppure stavi semplicemente vagando per tuo conto?»
Per sua fortuna, la stretta del mago cambiò: non lo tenne più appeso per la coda, ma saldamente stretto nella mano. Le zampe anteriori del kender erano appoggiate adesso, tremanti, sul pollice del mago dalle Vesti Rosse. I suoi occhietti luccicanti fissavano quelli freddi e scuri del mago.
Cosa gli devo rispondere? si chiese frenetico Tas. Nessuna delle scelte possibili gli pareva molto buona.
«È... è la mia serata libera,» disse Tas, con quello che sperava fosse uno squittio indignato.
«Umpf!» il mago tirò su col naso. «Sei stato troppo tempo insieme a quel pigrone di Faikus. Domattina dirò due paroline a quel giovanotto. In quanto a te, no, non c’è bisogno che tu cominci a contorcerti! Hai forse dimenticato che i famigli di Sudora si aggirano per i corridoi durante la notte? Avresti potuto essere il dessert di Marigold! Vieni con me, una volta che avrò finito con la faccenda di stasera, ti riporterò dal tuo padrone.»
Tas, che si era tenuto pronto ad affondare i suoi piccoli denti aguzzi nel pollice del mago, d’un tratto pensò che non sarebbe stata, dopotutto, una grande idea. “Finito con la faccenda di stasera”?
Certo doveva trattarsi di Caramon! Questo era anche meglio che essere invisibili! L’avrebbe accompagnato nel viaggio!
Il kender piegò la testa in quella che sperò fosse un’espressione topesca di docilità e contrizione.
Ciò parve soddisfare il mago rossovestito, poiché esibì un sorriso preoccupato e cominciò a frugare nella tasca della sua veste cercando qualcosa.
«Cosa c’è, Justarius?». Là c’era Caramon che appariva stordito e ancora mezzo addormentato.
Sbirciò con espressione vaga a destra e a sinistra nel corridoio. «Hai trovato Tas?»
«Il kender? No.» Il mago sorrise di nuovo, questa volta piuttosto addolorato. «Potrebbe volerci un po’ di tempo prima che riusciamo a trovarlo, temo.»
«Non gli farai del male?» chiese Caramon, con ansia. Con tanta di quell’ansia che Tas si sentì dispiaciuto per l’omone, ardendo dalla voglia di rassicurarlo.
«No, certo che no,» rispose Justarius, in tono rassicurante, sempre frugando tra le sue vesti. «Anche se,» aggiunse, come ripensamento, «lui potrebbe farsi inavvertitamente male. Ci sono oggetti sparsi sul pavimento qui intorno con cui non è consigliabile giocare. Bene, adesso, sei pronto?»
«Non voglio andarmene fino a quando Tas non sarà tornato e sarò sicuro che sta bene,» dichiarò Caramon, cocciuto.
«Temo che tu non abbia molta scelta,» replicò il mago, e Tas sentì la voce dell’uomo diventare gelida. «Tuo fratello partirà domani. Anche tu devi essere pronto a partire, nello stesso tempo. Ci vogliono ore perché Par-Salian riesca a memorizzare e a lanciare il suo complicato incantesimo. Ha già cominciato. Io ho perso anche troppo tempo a cercare il kender, in realtà. Siamo in ritardo. Vieni.»
«Aspetta... le mie cose...» disse Caramon, patetico. «La mia spada... »
«Niente di tutto questo deve preoccuparti,» rispose Justarius. Dando l’impressione di aver trovato quello che stava cercando, tirò fuori una borsa d’argento da una tasca delle sue vesti. «Non puoi tornare indietro nel tempo con qualunque arma o congegno appartenenti alla nostra epoca. Una parte dell’incantesimo si preoccuperà di fare in modo che tu sia vestito in modo adeguato al periodo nel quale ti muoverai.»
Caramon abbassò lo sguardo sul proprio corpo, sconcertato. «V... vuoi dire che dovrò cambiare vestiti? Che non avrò una spada... Cosa...»
E vuoi spedire quest’uomo indietro nel tempo tutto solo! pensò Tas indignato. Durerà soltanto cinque minuti. Cinque minuti, sempre che riesca a durare tanto a lungo! No, per tutti gli dei, io...
Quello che esattamente avrebbe fatto il kender andò perduto, quando si ritrovò all’improvviso cacciato a testa in giù nella borsa di seta!
Tutto divenne nero come l’inchiostro. Tas ruzzolò su se stesso in fondo alla borsa, atterrando sulla testa. Da qualche parte del suo intimo giunse l’orrenda paura di trovarsi rovesciato sulla schiena in una posizione vulnerabile. Freneticamente lottò per raddrizzarsi, annaspando all’impazzata sui lati lisci della borsa con le zampine artigliate. Alla fine riuscì a mettersi dritto, e quella terribile sensazione scomparve.
Ecco cosa vuol dire esser presi dal panico, pensò Tas con un sospiro. Io non ci penso mai troppo, questo è sicuro. Sono contentissimo che i kender, in generale, non ne soffrano. Adesso che cosa succede?
Costringendo se stesso alla calma, e il suo cuoricino a smettere di battere forte forte, Tas si rannicchiò in fondo alla borsa di seta cercando di riflettere su ciò che avrebbe dovuto fare adesso.
Durante quel frenetico annaspare aveva perso la cognizione di ciò che stava accadendo poiché, ascoltando, sentì due paia di piedi che procedevano lungo un corridoio di pietra: i piedi calzati da pesanti stivali di Caramon, e il passo felpato del mago. Avvertì anche un lieve movimento ondeggiante, e sentì il lieve fruscio di tessuto sopra il tessuto. D’un tratto gli venne in mente che il mago vestito di rosso aveva senza alcun dubbio appeso alla cintura la borsa in cui lui si trovava,
«Cosa dovrei fare laggiù? E una volta finito, cos’è che dovrei fare per tornare qui?...»
Quella era la voce di Caramon, un po’ ovattata dal tessuto del sacchetto ma ancora abbastanza chiara.
«Tutto questo ti sarà spiegato.» La voce del mago suonava fin troppo paziente. «Mi stavo chiedendo... Ti sono venuti dei dubbi, dei ripensamenti, forse? Se è così, dovresti dircelo adesso.»
«No.» C’era fermezza nella voce di Caramon, più fermezza di quanta ce ne fosse stata da lungo tempo. «No, non ho dubbi. Andrò. Riporterò con me Dama Crysania. È colpa mia se è ferita, non importa quello che dice quel vecchio. Farò in modo che ottenga l’aiuto che le serve e mi occuperò per vostro conto di questo Fistandantilus.»
«Mmmm...»
Tas sentì quel «Mmmm...», anche se dubitò che Caramon fosse stato in grado di udirlo. L’omone stava divagando su ciò che avrebbe fatto a Fistandantilus una volta che l’avesse acchiappato. Ma Tas provò un brivido di gelo, come quando Par-Salian aveva lanciato a Caramon un’occhiata strana e triste là nella Sala. Il kender, dimenticando dove si trovava, squittì per la frustrazione.
«Sst,» mormorò Justarius in tono assente, accarezzando la piccola borsa con la mano. «È soltanto per poco. Poi tornerai nella tua gabbia a mangiare grano.»
«Uh?» sbottò Caramon. Tas potè quasi vedere l’espressione sorpresa dell’omone. Il kender digrignò i suoi piccoli denti. La parola «gabbia» aveva richiamato alla sua mente un’immagine orribile e gli venne un pensiero davvero allarmante: e se non potessi più ritornare ad essere me stesso?
«Oh, non dicevo a te!» si affrettò a precisare il mago. «Stavo parlando con il mio piccolo amico peloso qua dentro. Sta diventando irrequieto. Se non fosse tardi lo riporterei subito alla sua gabbia.»
Tas s’immobilizzò. «Ecco, pare che si sia calmato. Ora... cos’è che stavi dicendo?»
Tas non gli prestò più nessuna attenzione. Si sentiva tremendamente infelice e si tenne aggrappato al sacchetto mentre questo ondeggiava avanti e indietro, sbattendo leggermente contro le cosce del mago che avanzava zoppicando. Certo, pensò, l’incantesimo poteva venir invertito semplicemente sfilandosi l’anello...
Tas si sentiva prudere le dita dalla voglia di provarci, per vedere cosa sarebbe successo. L’ultimo anello magico che si era messo addosso... non era più riuscito a toglierselo! E se con questo gli fosse capitata la stessa cosa? Era forse condannato ad una vita di pelliccia bianca e zampette rosse?
A questo pensiero Tas avvolse una zampa intorno all’anello che gli era rimasto incastrato a un dito del piede (o qualunque cosa fosse) e fece quasi per sfilarselo, giusto per esser sicuro.
Ma gli venne in mente che, così facendo, sarebbe schizzato fuori all’improvviso dalla piccola borsa di seta sotto forma di kender adulto per atterrare ai piedi del mago. AI che costrinse la sua zampina fremente a fermarsi. No, per lo meno, finché si trovava in quella forma, sarebbe stato portato dovunque Caramon veniva condotto. Se non altro, forse sarebbe riuscito a tornare indietro nel tempo insieme a lui sotto forma di topo. Potevano esserci cose peggiori...
Come avrebbe fatto ad uscire dalla borsa?
Il kender sentì il cuore sprofondargli fino alle zampe posteriori. Naturalmente, gli sarebbe stato facile uscire se fosse tornato ad essere se Stesso. Soltanto che allora l’avrebbero preso e rispedito a casa. Ma se fosse rimasto topo avrebbe finito per mangiare grano in compagnia di <, Faikus! Il kender gemette e si rannicchiò in fondo alla borsa, col naso tra le zampe. Quella era di gran lunga la situazione peggiore in cui si fosse provato in tutta la sua vita, anche tenendo conto di quella volta che i due Stregoni avevano scoperto che stava scappando col loro mammuth lanoso. E per coronare il tutto, cominciava a provare una sensazione di nausea, a causa del continuo oscillare della piccola borsa, del fatto di trovarsi rinchiuso in uno spazio angusto, e in più per lo strano odore, là dentro, il continuo sbatacchiare e tutto il resto. , «L’errore è stato rivolgere una preghiera a Fizban,» si disse il kender, , cupo. «Potrà anche essere Paladine, in realtà, ma scommetto che da qualche , parte quel vecchio mago strambo si sta facendo una solenne sghignazzata » per questo scherzetto.»
Pensando a Fizban, e a quanto sentiva la mancanza del vecchio mago pazzo, Tas non si sentì affatto meglio, così escluse quel pensiero dalla sua mente e cercò ancora una volta di concentrarsi sull’ambiente in cui si trovava, nella speranza di trovare una via d’uscita. Fissò quell’oscurità di seta e all’improvviso...
«Idiota che non sei altro!» si disse tutto eccitato. «Tonto pomolo di porta di un kender che non sei altro, come avrebbe detto Flint! Oppure tonto di un topino, poiché non sono più un kender! Sono un topo... e ho i denti!»
In fretta e furia Tas dette un morso di prova. A tutta prima non riuscì a far presa su quel tessuto liscio, e ancora una volta fu preso dalla disperazione.
«Prova alle giunture, sciocco,» si rimproverò con severità, e affondò i denti dentro il filo che teneva insieme i lembi della borsa. La cucitura cedette quasi subito quando i suoi piccoli denti aguzzi la recisero. Tas rosicchiò via rapidamente parecchi altri punti e ben presto riuscì ad intravedere qualcosa di rosso: la veste del mago. Colse un refolo di aria fresca «cos’aveva mai tenuto là dentro quell’uomo?» e così, imbaldanzito, continuò con i suoi morsi.
Poi si fermò. Se avesse continuato ad allargare il foro, sarebbe caduto , fuori. E non era pronto, per lo meno non ancora. Non fino a quando non fossero arrivati dove dovevano arrivare. A quanto pareva non era più molto lontano. Tas si rese conto che da un po’ non avevano fatto altro che salire una serie di scale. Poteva sentire Caramon che ansimava a causa di quell’insolito esercizio fisico e perfino il mago vestito di rosso pareva avere il fiato corto.
«Perché non puoi semplicemente trasferirci in questo laboratorio con un po’ di magia?» brontolò Caramon, ansante.
«No!» rispose Justarius con voce sommessa e pervasa di sgomento. «Posso sentire l’aria stessa prudere e crepitare per il potere che Par-Salian irradia nell’eseguire questo incantesimo. Non vorrei mai che un mio piccolo incantesimo turbasse le forze che sono all’opera qui, stanotte!».
Tas rabbrividì sotto la pelliccia a queste parole, e pensò che Caramon potesse aver fatto lo stesso, poiché sentì l’omone che si schiariva la gola innervosito per poi continuare a salire le scale in silenzio. D’un tratto si fermarono.
«Siamo arrivati?» chiese Caramon, sforzandosi di mantener calma la voce.
«Sì,» giunse la risposta bisbigliata. Tas si sforzò di ascoltare. «Ti accompagnerò su per questi pochi, ultimi gradini poi, quando saremo arrivati alla porta in cima, io l’aprirò il più silenziosamente possibile e ti lascerò entrare. Non dire una sola parola! Non dire niente che possa disturbare Par-Salian nella sua concentrazione. Per questo incantesimo ci vogliono giorni di preparativi...»
«Vuoi dire che Par-Salian sapeva già da molti giorni che avrebbe fatto questo?» lo interruppe Caramon con voce aspra.
«Zitto!» gli intimò Justarius, e la sua voce era gravida di collera. «Certo, sapeva che questa era una possibilità. Doveva tenersi pronto. Ed è stato un bene che l’abbia fatto poiché non avevamo nessuna idea che tuo fratello intendesse agire così presto!». Tas sentì il mago tirare un profondo sospiro.
Quando riprese a parlare, lo fece con un tono di voce più calmo. «Adesso, ripeto, quando avremo salito questi ultimi gradini, non dire una sola parola! Capito?»
«Sì.» Caramon parve ammansito.
«Fai esattamente quello che Par-Salian ti ordinerà di fare. Non fare alcuna domanda! Obbedisci e basta. Ci riuscirai?»
«Sì.» Caramon parve ancora più ammansito di prima. Tas percepì un leggero tremito nella risposta dell’omone.
Il kender si rese conto che Caramon aveva paura. Povero Caramon. Perché gli fanno questo? Non capisco. Qui sta succedendo più di quanto sembri a prima vista. Be’, questo taglia la testa al toro.
Non m’importa se io spezzerò la concentrazione di Par-Salian. Dovrò rischiare. In qualche modo, con qualche espediente, riuscirò a partire con Caramon! Ha bisogno di me. Inoltre, sospirò il kender, viaggiare indietro nel tempo... Meraviglioso!
«Molto bene.» Justarius esitò, e Tas potè sentire il suo corpo farsi teso e rigido. «Ti saluterò qui, Caramon. Che gli dei ti accompagnino. Ciò che fai è pericoloso... per tutti noi. Non puoi neppure cominciare a capire quale pericolo sia...». Queste ultime parole le aveva dette così sommessamente che soltanto Tas le aveva udite, e le orecchie del kender si contrassero allarmate. Poi il mago vestito di rosso sospirò. «Vorrei poter dire di aver pensato che per tuo fratello ne valesse la pena...»
«Vale la pena,» replicò Caramon con fermezza. «Vedrai.»
«Prego Gilean che tu abbia ragione... Adesso sei pronto?»
«Sì.»
Tas sentì un fruscio, come se il mago incappucciato avesse annuito. ripresero a muoversi, salendo lentamente la scala. Il kender sbirciò fuori, dal foro sul fondo della piccola borsa osservando i gradini immersi nell’ombra che scorrevano sotto di lui. Sapeva che gli rimanevano soltanto pochi secondi.
I gradini finirono. Poteva vedere sotto di sé un ampio pianerottolo di pietra. (Ci siamo!) si disse con un singulto. Sentì di nuovo il fruscio, e il corpo del mago che si muoveva. Una porta scricchiolò.
Fulmineamente, quei piccoli denti aguzzi recisero i fili rimasti che ancora tenevano unita la cucitura. Sentì i passi lenti di Caramon che attraversavano la soglia. sentì la porta che cominciava a chiudersi... La cucitura cedette. Tas cadde fuori dalla borsa. Ebbe un attimo per Chiedersi se i topi cadessero sempre sulle zampe, come i gatti. Una volta aveva fatto cadere un gatto dal tetto di casa per vedere se quell’antico ,detto era vero (lo era). E poi colpì il pavimento di pietra zampettando via veloce. La porta venne chiusa, il mago vestito di rosso si era allontanato. Senza fermarsi per guardarsi intorno il kender sfrecciò rapidamente e in silenzio lungo il pavimento. Appiattendo il suo piccolo corpo, si divincolò per passare attraverso la fessura che c’era tra la porta e il pavimento e si tuffò sotto la libreria che si trovava accanto alla parete. Qui, Tas si fermò per riprendere il fiato e ascoltare. E se Justarius avesse scoperto la sua assenza? Sarebbe tornato a cercarlo? Smettila, Tas si rampognò severamente. Non può sapere che sono caduto. E in ogni caso non tornerà qui. Potrebbe disturbare l’incantesimo. Qualche istante dopo il minuscolo cuore del kender rallentò il suo battito, così che poteva sentire al di sopra del rumore del sangue che gli rimbombava nelle orecchie.
Sfortunatamente le sue orecchie gli dissero molto poco. Poteva udire un sommesso mormorio come se qualcuno stesse ripassando una recita di artisti ambulanti. Poteva sentire Caramon che cercava di riprender fiato dopo la lunga salita mantenendo allo stesso tempo ovattato il suo respiro per non disturbare il mago. Gli stivali di cuoio dell’omone scricchiolarono mentre si spostava nervosamente da un piede all’altro.
Ma questo era tutto.
«Devo vedere!» si disse Tas. «Altrimenti non saprò quello che sta succedendo.»
Strisciando fuori da sotto la libreria, il kender cominciò veramente a sperimentare quel mondo minuscolo e singolare nel quale era finito. Era un mondo di briciole, un mondo di palle di polvere e filo, di spilli e di cenere, di petali di rosa disseccati e di foglie di tè ancora umide. L’insignificante era diventato tutt’a un tratto un mondo a sé. I mobili svettavano sopra di lui, come gli alberi di una foresta, e svolgevano press’a poco la stessa funzione, fornendo nascondigli. La fiamma di una candela era il sole. Caramon, un gigante mostruoso...
Tas girò cautamente intorno agli enormi piedi dell’uomo. Intravide un movimento con la coda dell’occhio: un piede infilato in una pantofola sotto una veste bianca. Par-Salian. In fretta, Tas si precipitò verso il lato opposto della stanza che, per fortuna, era illuminata soltanto da una candela.
Poi, Tas si fermò con una brusca slittata. Già un’altra volta si era trovato nel laboratorio di un mago, quando aveva infilato quel dannato anello teletrasportatore. Gli spettacoli strani e meravigliosi che aveva visto là dentro erano rimasti impressi nella sua mente, e adesso si fermò un attimo prima di entrare in un cerchio tracciato sul pavimento di pietra con polvere d’argento.
All’interno del cerchio, che luccicava alla luce della candela, giaceva Dama Crysania, con gli occhi ancora ciechi fissi sul nulla, il volto bianco come il lino che l’avvolgeva.
Era là che sarebbe stata attuata la magia!
Tas, la pelliccia ritta sulla testa, tornò indietro correndo veloce sulle quattro zampine, rintanandosi sotto un vaso da notte rovesciato. Fuori del cerchio c’era Par-Salian, le sue bianche vesti ardevano d’una luce arcana. In mano stringeva un oggetto incrostato di gioielli che lanciavano vividi riflessi mentre il mago lo rigirava. Assomigliava a uno scettro che una volta Tas aveva visto impugnare a un re di Nordmaar, ma quel congegno appariva molto più affascinante. Era sfaccettato e montato in maniera assolutamente unica. Tas si avvide che una parte di esso si muoveva e, cosa ancora più sorprendente, anche altre parti si muovevano senza muoversi! Mentre lo fissava incantato, Par-Salian manipolava con destrezza l’oggetto, piegandolo, curvandolo e torcendolo, fino a quando non l’ebbe ridotto alle dimensioni di un uovo. Borbottando strane parole sopra di esso, l’arcimago lo fece cadere nella tasca della sua veste.
Poi, malgrado Tas potesse giurare che Par-Salian non aveva fatto neppure un passo, il mago si trovò all’improvviso all’interno del cerchio d’argento accanto alla figura inerte di Dama Crysania. Il mago si chinò sopra di lei, e Tas vide che infilava qualcosa tra le pieghe delle sue vesti. Infine, Par-Salian cominciò a cantare nella lingua della magia, muovendo le mani nodose sopra Dama Crysania, descrivendo cerchi sempre più ampi. Lanciando una rapida occhiata a Caramon, Tas lo vide accanto al cerchio, con una strana espressione sulla faccia. Era l’espressione di qualcuno che si trova in qualche luogo che gli è sconosciuto ma che allo stesso tempo lo fa sentire perfettamente a casa propria.
Naturalmente, pensò Tas con una punta d’invidia, Caramon è cresciuto in mezzo alla magia. Forse, per lui, è come essere tornato di nuovo con suo fratello.
Par-Salian si alzò in piedi, e il kender rimase scosso nel vedere il cambiamento subito da quell’uomo. Il suo volto era invecchiato di molti anni, era diventato grigio, e il Grande Mago barcollava, là dove si trovava. Fece un segno a Caramon, e il grosso guerriero venne avanti, a lenti passi, passando con cautela sopra la polvere d’argento. Col volto fisso in una trance simile a un sogno, si fermò in silenzio accanto alla forma immobile di Crysania.
Par-Salian sfilò il congegno dalla sua tasca e lo porse a Caramon. L’omone vi appoggiò sopra la mano e, per un momento, i due uomini lo strinsero insieme. Tas vide muoversi le labbra di Caramon, anche se non udì alcun suono. Era come se il guerriero stesse leggendo per proprio conto, mandando a memoria alcune informazioni trasmesse per magia.
Poi Caramon cessò di parlare. Par-Salian sollevò le mani e con quel movimento si sollevò dal pavimento e fluttuò all’indietro, fuori dal cerchio, tornando nella penombra del laboratorio.
Tas non riusciva più a vederlo ma poteva sentire la sua voce. Il salmodiare divenne sempre più forte e d’un tratto un muro di luce argentea sorse dal cerchio tracciato sul pavimento. Era così intensa che Tas sentì gli occhi rossi da topo che gli bruciavano, ma non riuscì a distogliere lo sguardo. Adesso Par-Salian stava gridando con voce talmente forte che le pietre stesse della stanza cominciarono a rispondere con un coro di voci in apparenza uscite dalle profondità del sottosuolo. Lo sguardo di Tas era fisso su quella vivida cortina d’energia. All’interno di essa poteva vedere Caramon immobile accanto a Crysania. Nella mano stringeva sempre quel congegno. Poi Tas cacciò un piccolo rantolo che non produsse nella stanza niente di più del sospiro di un topo. Poteva ancora vedere il laboratorio attraverso quella barriera luminosa, ma adesso pareva accendersi e spegnersi, come se stesse lottando per la propria esistenza. E quando si spense, il kender intravide per un attimo un altro luogo. Foreste, città, laghi e oceani gli confusero la vista, andavano e venivano, gente vista per un solo istante che poi scompariva, sostituita da altri.
Il corpo di Caramon cominciò a pulsare con la stessa regolarità di quelle strane visioni mentre si trovava all’interno della colonna di luce. Anche Crysania c’era, e poi non c’era.
Le lacrime colarono oltre il naso tremante di Tas, scivolandogli giù lungo le vibrisse. «Caramon sta per intraprendere la più grande avventura di tutti i tempi!» pensò il kender desolato. «E mi lascia qui!»
Per un inconsulto istante Tas lottò con se stesso. Tutto quello che si trovava dentro di lui ed era logico e coscienzioso e simile a Tanis, gli diceva: Tasslehoff, non fare pazzie. Questa è una Grande Magia. Ci sono forti probabilità che tu pasticci davvero le cose! Tas sentì quella voce, ma era sommersa da tutto quel salmodiare e da quel canto delle pietre, e ben presto svanì nel nulla...
Par-Salian non sentì quel debole squittio. Smarrito nel lancio del complicato incantesimo, colse soltanto un fugacissimo movimento con la coda dell’occhio. Vide troppo tardi il topo che schizzava fuori dal suo nascondiglio, puntando dritto sul muro di luce argentea! Inorridito, Par-Salian interruppe il suo canto, le voci delle pietre divennero vuote e poi morirono. Adesso, nel silenzio, potè udire la minuscola invocazione: «Non lasciarmi, Caramon! Non lasciarmi! Sai in che razza di guai ti troverai senza di me!»
Il topo sfrecciò come un lampo attraverso la polvere d’argento, spargendo una scia sfavillante alle proprie spalle, e irruppe nel cerchio luminoso. Par-Salian udì un minuscolo suono sfumato e vide un anello rotolare sul pavimento di pietra. Vide una terza figura materializzarsi nel cerchio e lanciò un rantolo di orrore.
Poi le figure pulsanti scomparvero. La luce del cerchio venne risucchiata in un grande vortice, il laboratorio sprofondò nel buio.
Debole ed esausto, Par-Salian crollò sul pavimento. Il suo ultimo pensiero, prima di perdere conoscenza, fu terribile.
Aveva spedito un kender indietro nel tempo.
Libro secondo.
Capitolo primo
Denubis camminava con passo lento lungo gli ampi ed ariosi corridoi del Tempio degli dei di Istar, pieno di luce. Il suo sguardo era fisso sugli intricati disegni del pavimento. Si sarebbe potuto supporre, nel vederlo camminare così senza una meta, e preoccupato, che il chierico fosse insensibile al fatto che stava camminando nel cuore dell’universo. Ma Denubis non era insensibile a questo fatto, né questo era un fatto che avrebbe dimenticato tanto facilmente. Per timore che accadesse, il Gran Sacerdote glielo ricordava nel quotidiano richiamo alla preghiera.
«Siamo nel cuore dell’universo,» diceva il Gran Sacerdote con una voce talmente musicale e bella che talvolta ci si dimenticava di ascoltare le parole. «Istar, città amata dagli dei, è il centro dell’universo e noi, trovandoci al centro della città, siamo perciò il centro dell’universo. Così come il sangue scorre dal cuore, portando nutrimento perfino al più piccolo dito del piede, così la nostra fede e i nostri insegnamenti scorrono da questo grande tempio al più piccolo, al più insignificante fra noi. Ricordatevi di questo mentre andate in giro ad assolvere i vostri doveri quotidiani, poiché voi che lavorate qui siete i favoriti degli dei. Così come quando si tocca il filo più sottile d’una serica ragnatela i tremiti si diffondono all’intera struttura, così la vostra più piccola azione potrebbe diffondere i suoi tremiti attraverso l’intero Krynn.»
Denubis rabbrividì. Avrebbe desiderato che il Gran Sacerdote non usasse quella particolare metafora. Denubis detestava i ragni. Odiava tutti gli insetti, in realtà; era una cosa che non avrebbe mai ammesso e che, in verità, lo faceva sentire colpevole. Non gli veniva forse comandato di amare tutte le creature, salvo, naturalmente, quelle create dalla Regina delle Tenebre? Ciò comprendeva gli orchi, i goblin, i troll, e le altre razze malefiche, ma Denubis non era sicuro dei ragni. Aveva sempre avuto l’intenzione di chiederlo, ma sapeva che ciò avrebbe comportato una lunga ora di discussioni filosofiche tra i Reverendi Figli, e, semplicemente, pensava che non ne valesse la pena.
Avrebbe continuato ad odiare i ragni, in segreto. Denubis si schiaffeggiò delicatamente la testa che stava diventando calva. Come aveva fatto la sua mente a divagare sui ragni? Sto diventando vecchio, pensò con un sospiro. Ben presto sarò come il povero Arabacus, starò tutto il giorno senza far niente, passerò il tempo a dormire in giardino fino a quando qualcuno non mi sveglierà per la cena. A questo pensiero Denubis sospirò di nuovo, ma era più un sospiro d’invidia che di pietà.
Povero Arabacus davvero! Per lo meno gli viene risparmiato... «Denubis...»
Denubis si fermò. Guardò a destra e a sinistra lungo l’ampio corridoio, ma non vide nessuno. Il chierico rabbrividì. Aveva sentito quella voce Suadente, oppure l’aveva soltanto immaginata?
«Denubis,» risuonò di nuovo la voce.
Questa volta il chierico scrutò con maggiore attenzione tra le ombre formate dalle gigantesche colonne di marmo che sorreggevano il soffitto dorato. Adesso, un’ombra più scura, una chiazza d’oscurità più intensa dentro la tenebra, era distinguibile. Denubis frenò un’esclamazione irritata.
Sforzandosi di dominare un nuovo tremito che spazzò il suo corpo, arrestò i propri passi, poi riprese ad avanzare lentamente verso la figura che si trovava in mezzo alle ombre, sapendo che non sarebbe mai uscita da quell’oscurità diffusa per venirgli incontro. Non che la luce fosse nociva a colui che stava aspettando Denubis, come era indubbiamente nociva ad alcune delle creature delle tenebre.
No, era semplicemente che lui preferiva le ombre. Tutto teatro, pensò Denubis, sarcastico.
«Mi hai chiamato, Oscuro?» chiese Denubis, con una voce che si sforzò in ogni modo di rendere piacevole.
Vide un sorriso sul volto nell’ombra, e Denubis seppe subito che tutti i suoi pensieri erano ben conosciuti da quell’uomo.
«Dannazione!» imprecò Denubis (un’abitudine, questa, deplorata dal Gran Sacerdote, ma un’abitudine che Denubis, un uomo semplice, non era mai stato capace di vincere). «Perché mai il Gran Sacerdote lo tiene a corte? Perché non spedirlo via, come sono stati banditi gli altri?»
Lo disse a se stesso, naturalmente, perché, nel suo più profondo intimo, Denubis conosceva la risposta. Questo era troppo pericoloso, troppo potente. Questo non era come gli altri. Il Gran Sacerdote lo teneva come si tiene un cane feroce per proteggere la propria casa, sapendo che il cane attaccherà quando gli verrà ordinato, ma controllando in continuazione la robustezza del guinzaglio del cane. Se il guinzaglio si fosse rotto, il cane sarebbe balzato alla gola del suo stesso padrone.
«Mi spiace di averti disturbato, Denubis,» disse l’uomo con la sua voce vellutata, «specialmente quando ti vedo assorto in pensieri così impegnativi. Ma un evento di grande importanza sta avvenendo, proprio mentre parliamo. Prendi uno squadrone di guardie del Tempio e vai sulla piazza del mercato. Là, all’incrocio, troverai una Reverenda Figlia di Paladine. È quasi prossima alla morte. E lì troverai anche l’uomo che l’ha aggredita.»
Denubis spalancò gli occhi, poi li strinse, colto da un improvviso sospetto.
«Come fai a saperlo?» s’informò.
La figura immersa nell’ombra si mosse, le linee scure formate dalle labbra sottili si allargarono: la sua miglior approssimazione d’una risata.
«Denubis,» lo rimbrottò la figura, «mi conosci da molti anni. Chiedi forse al vento come soffia? Interroghi forse le stelle per scoprire come risplendono? Io lo so, Denubis. Che ciò ti sia sufficiente.»
«Ma...» Denubis si portò le mani alla testa in preda alla confusione. Ciò avrebbe comportato spiegazioni, rapporti fatti alle autorità competenti. Non si poteva far spuntare dal nulla uno squadrone di guardie del Tempio! «Spicciati, Denubis,» lo sollecitò l’uomo, con cortesia. «Non vivrà a lungo...»
Denubis deglutì. Un’aggressione a una Reverenda Figlia di Paladine! Una Reverenda Figlia morente sulla piazza del mercato! Probabilmente circondata da una folla che la stava guardando a bocca spalancata. Lo scandalo! Il Gran Sacerdote sarebbe stato molto scontento...
Il chierico aprì la bocca, poi tornò a chiuderla di scatto. Fissò per un momento la figura in mezzo alle ombre poi, non ricavandone nessun aiuto, Denubis si girò di colpo e, in mezzo a uno svolazzare di vesti, rifece di corsa il corridoio nella direzione dalla quale era venuto, con i sandali che sbattevano sul pavimento di marmo.
Raggiunto il quartier generale centrale del Capitano della Guardia, Denubis riuscì a esporre la sua richiesta con voce affannosa al comandante di turno. Come aveva previsto, questo causò ogni sorta di agitazione. Aspettando che il comandante generale in persona arrivasse, Denubis si accascio su una sedia e cercò di riprender fiato.
L’identità del creatore dei ragni poteva anche essere messa in discussione, pensò Denubis con amarezza, ma non c’era assolutamente nessun dubbio nella sua mente sul creatore di quella creatura delle tenebre che, certamente, se ne stava là in mezzo alle ombre e lo derideva.
«Tasslehoff!»
Il kender aprì gli occhi. Per qualche istante non ebbe nessuna idea di dove si trovava o perfino chi fosse. Aveva sentito una voce pronunciare un nome che gli suonava vagamente familiare. Confuso, il kender si guardò intorno. Giaceva sopra un omone, il quale era disteso supino nel mezzo di una strada. L’omone lo stava guardando in preda a un vivo stupore, forse perché Tas era appollaiato sul suo ampio stomaco. ; «Tas?» ripetè l’omone, e questa volta il suo volto mostrò perplessità. «Dovresti essere qui?»
«N... non ne sono affatto sicuro,» rispose il kender, chiedendosi chi (fosse Tas. Poi tutto gli ritornò alla memoria: Par-Salian che salmodiava, egli che si strappava l’anello dal pollice, la luce accecante, le pietre che cantavano, lo stridulo urlo di orrore del mago...
«Certo che dovrei essere qui,» sbottò Tas, irritato, escludendo dalla propria mente il ricordo del grido di paura di Par-Salian. «Non credevi mica che ti avrei lasciato tornare indietro nel tempo da solo, vero?» Il kender era praticamente naso a naso con l’omone. L’espressione perplessa di Caramon si rabbuiò. Le sopracciglia si corrugarono. «Non ne sono sicuro,» borbottò, «ma non credo che tu...»
«Insomma, io sono qui.» Tas rotolò giù dal corpo tondeggiante di ;Caramon per atterrare sull’acciottolato sotto di loro. «Dovunque si trovi “qui”,» borbottò fra i denti. «Lascia che ti aiuti ad alzarti,» disse ancora »,a Caramon, porgendogli la piccola mano, sperando con quel gesto di distogliere l’attenzione di Caramon dalla sua persona. Tas non sapeva se potesse o no venir rispedito indietro, ma non aveva nessuna intenzione di scoprirlo.
Caramon lottò per rizzarsi a sedere, assomigliando in tutto e per tutto ad una tartaruga rovesciata, pensò Tas con una risatina. E fu allora che il -kender si accorse che Caramon era vestito in maniera assai diversa da com’era abbigliato quando aveva lasciato la Torre. Allora aveva indosso la sua armatura (o almeno quei pezzi che era riuscito a infilarsi), e una ampia tunica fatta di buon tessuto e cucita con amore da Tika.
Ma adesso era rivestito d’un tessuto ruvido, cucito insieme alla bell’e meglio. Un rozzo panciotto di cuoio gli pendeva dalle spalle. Un tempo quel panciotto poteva anche essere stato abbottonato, ma se era stato così, adesso i bottoni non c’erano più. Comunque, i bottoni non erano necessari, pensò Tas, poiché non ci sarebbe stato nessun modo di tirare sul davanti il panciotto così da fargli coprire il ventre cascante di Caramon. Un paio di brache, con le borse, e stivali di cuoio rattoppati ma con un grosso foro sopra l’alluce di un piede completavano quell’immagine assai poco attraente.
? «Pfiuuu!» bofonchiò Caramon annusando l’aria. «Cos’è questo orribile odore?»
«Tu,» disse Tas tappandosi il naso e agitando la mano come se ciò potesse dissipare il tanfo. Caramon puzzava di spirito dei nani! Il kender lo fissò con attenzione. Caramon era sobrio quand’erano partiti, e certo appariva sobrio adesso. I suoi occhi, seppure confusi, erano limpidi, e si teneva dritto in piedi senza ondeggiare.
L’omone abbassò lo sguardo e, per la prima volta, vide se stesso.
«Cosa? Come?» chiese, sconcertato.
«Si potrebbe pensare,» disse Tas con voce severa, fissando con disgusto gli indumenti di Caramon,
«che i maghi avrebbero potuto permettersi qualcosa di meglio! Voglio dire, so che questo incantesimo dev’essere difficile per il vestiario, ma certamente...»
Un pensiero improvviso gli balenò nella mente. Spaventato, Tas abbassò lo sguardo sui propri indumenti, poi tirò un sospiro di sollievo. Non gli era successo niente. Aveva ancora addosso, perfino, le sue borse, tutte perfettamente intatte. Nel suo intimo, una voce rimbrottante gli ricordò che forse ciò era dovuto al fatto che non era stato previsto che lui si trovasse là, ma il kender preferì opportunamente ignorarla.
«Be’, diamo un’occhiata intorno,» esclamò Tas con allegria, facendo seguire l’azione alle parole.
Era già riuscito a indovinare dove si trovavano dall’odore: erano in un vicolo. Il kender arricciò il naso. Aveva creduto all’inizio che tutto quel tanfo s’irradiasse da Caramon! Ma, pieno di spazzatura e di rifiuti di ogni genere, quel vicolo era scuro, all’ombra di un gigantesco edificio di pietra.
Tuttavia era giorno, Tas lo capì lanciando un’occhiata all’estremità del vicolo dove poteva intravedere quella che sembrava una strada animata, affollata di gente che andava e veniva.
«Credo sia un mercato,» disse Tas, interessato, avviandosi verso l’estremità aperta del vicolo per indagare. «In che città hai detto che ci hanno spedito?»
«Istar,» sentì Caramon mugugnare alle sue spalle. Poi: «Tas!»
Cogliendo una nota di spavento nella voce di Caramon, il kender si affrettò a girarsi, portando subito la mano al piccolo pugnale che teneva infilato alla cintura. Caramon era inginocchiato accanto a qualcosa disteso nel vicolo.
«Cosa c’è?» gridò Tas, tornando indietro di corsa.
«Dama Crysania,» disse Caramon, sollevando un mantello scuro.
«Caramon!» Tas cacciò un rantolo orribile. «Cosa le hanno fatto? La loro magia è forse andata storta?»
«Non lo so,» replicò Caramon con voce sommessa, «ma dobbiamo cercare aiuto.» Facendo attenzione coprì con il mantello il volto insanguinato e coperto di lividi della donna.
«Vado io,» si offrì Tas. «Tu rimani qui con lei, questa non mi sembra una parte della città molto raccomandabile, se capisci cosa voglio dire.»
«Già,» annuì Caramon con un greve sospiro.
«Tutto andrà bene,» aggiunse Tas, battendo una mano sulla spalla dell’omone per rassicurarlo.
Caramon annuì ma non disse niente. Con un ultimo colpetto sulla spalla dell’amico, Tas si girò e rifece di corsa il vicolo in direzione della strada. Raggiunta l’estremità aperta, sfrecciò fuori sul marciapiede.
«Aiut...» cominciò a gridare, ma nel medesimo istante una mano si Itrinse sul suo braccio con una morsa d’acciaio, sollevandolo di peso da terra. «Su, dimmi,» gl’intimò una voce severa. «Dove stai andando?»
Tas si contorse e vide un uomo barbuto, il volto parzialmente coperto dal visore luccicante dell’elmo, che lo fissava con gelidi occhi scuri.
Il kender si rese subito conto che era una guardia civica, avendo avuto una rilevante dose di esperienze con quel tipo di personaggi ufficiali.
«Diamine, stavo cercando proprio voi,» esclamò Tas, cercando di liberarsi, dimenandosi e assumendo allo stesso tempo un’aria innocente.
«Davvero probabile come storia, da parte di un kender!» sbuffò la guardia, stringendo Tas ancora più saldamente nella sua morsa. «Se fosse vero, sarebbe certamente un avvenimento storico a Krynn.»
«Ma è vero,» insistè Tas, fissando l’uomo, indignato. «C’è una nostra amica ferita, laggiù.»
Vide la guardia lanciare un’occhiata ad un uomo che non aveva notato prima, un chierico vestito di bianco. Tas s’illuminò. «Oh? Un chierico? come...»
La guardia schiacciò la mano sulla bocca del kender.
«Cosa pensi, Denubis? Quello laggiù è il Vicolo dei Mendicanti, probabilmente è un accoltellamento, niente più che un litigio fra ladri.»
Il chierico era un uomo di mezza età, i cui capelli cominciavano a diradarsi; la sua faccia era piuttosto seria e melanconica. Tas vide che stava osservando tutt’ intorno la piazza del mercato, scuotendo la testa. «l’oscuro ha parlato delle trasversali, e questa lo è... sì, lo è, e ciò basta come garanzia di verità. Quindi dovremmo indagare.»
«Molto bene.» La guardia scrollò le spalle. Chiamò due dei suoi uomini e indicò loro il vicolo, seguendoli con lo sguardo mentre vi s’inoltravano. Continuò a tenere la mano sulla bocca del kender e Tas, che stava lentamente soffocando, produsse un patetico squittio.
Il chierico, che stava seguendo con sguardo ansioso le due guardie, lanciò un’occhiata dietro di sé.
«Lascialo respirare, capitano,» disse.
«Dovremo ascoltare le sue chiacchiere,» bofonchiò il capitano, irritato, ma tolse la mano dalla bocca di Tas.
«Se ne starà tranquillo... non è vero?» chiese il chierico, guardando con occhi fin troppo gentili il kender . «Si rende conto di quanto sia seria questa faccenda, non è vero?»
Per niente sicuro se il chierico stesse parlando con lui o col capitano, o con entrambi, Tas pensò che la cosa migliore fosse quella di limitarsi ad annuire il proprio consenso. Soddisfatto, il chierico tornò a voltarsi verso le guardie. Tas si contorse nella stretta del capitano, quanto bastava perchè anche lui fosse in grado di vedere. Vide Caramon alzarsi in piedi, indicando con un gesto il fagotto scuro e informe che giaceva accanto a lui. Una delle guardie s’inginocchiò e tirò da parte il mantello.
«Capitano!» urlò, mentre l’altra guardia afferrava prontamente Caramon. Colto di sorpresa e infuriato per quel brusco trattamento, l’omone si liberò con uno strattone della guardia. La guardia lanciò un urlo, il suo compagno balzò in piedi. Vi fu un balenare d’acciaio.
«Maledizione!» imprecò il capitano. «Ecco, sorveglia questo piccolo bastardo, Denubis!».
Scaraventò Tasslehoff in direzione del chierico.
«Non dovrei andare io?» protestò Denubis, afferrando Tas al volo quando il kender gli piombò addosso, inciampando su di lui.
«No!» Il capitano stava già correndo lungo il vicolo, la spada corta sguainata. Tas lo sentì ringhiare qualcosa come, «grosso bruto... pericoloso.»
«Caramon non è pericoloso,» protestò Tas, levando lo sguardo preoccupato sul chierico chiamato Denubis. «Non gli faranno del male, vero? Cosa c’è che non va?»
«Temo che lo scopriremo molto presto,» disse Denubis con voce severa, ma stringendo Tas con tanta delicatezza che il kender avrebbe potuto facilmente liberarsi. Dapprima Tas valutò la possibilità di fuggire, non c’era posto migliore in cui nascondersi del grande mercato di una città.
Ma quel pensiero fu soltanto un riflesso, proprio come il brusco movimento di Caramon quando si era liberato della guardia. Tas non poteva abbandonare il suo amico.
«Non gli faranno del male se verrà in pace,» sospirò Denubis. «Però, se dovesse aver fatto...». Il chierico rabbrividì e ristette per un attimo. «Be’, se avesse fatto quello... qui potrebbe trovare una morte più facile.»
«Fatto cosa?» Tas si sentiva ancora più confuso. Anche Caramon appariva confuso, poiché Tas lo vide sollevare le mani per protestare la propria innocenza.
Ma mentre discuteva, una delle guardie si avvicinò alle spalle dell’omone e lo colpì dietro i ginocchi con l’asta della lancia. Le gambe di Caramon cedettero. Mentre barcollava, la guardia davanti a lui lo fece cadere al suolo con un colpo al petto vibrato quasi con noncuranza.
Caramon non aveva ancora toccato il selciato e già la lancia gli era stata puntata alla gola. Sollevò debolmente le mani in un gesto di resa. Rapidamente le guardie lo fecero rotolare sullo stomaco e, afferrandogli le mani, gliele legarono dietro la schiena in pochi istanti, con consumata esperienza.
«Falli smettere!» gridò Tas, sporgendosi in avanti con uno sforzo. «Non possono far questo...»
Il chierico lo afferrò. «No, piccolo amico, è meglio per te che tu rimanga con me. Per favore,» aggiunse Denubis, gentilmente, tenendo stretto Tas per le spalle. «Non puoi aiutarlo, e tentare non può far altro che peggiorare le cose, per lui.»
Le guardie trascinarono in piedi Caramon e cominciarono a perquisirlo minuziosamente, infilando perfino le mani dentro le sue brache di cuoio. Trovarono un pugnale alla sua cintura, che porsero al loro capitano, e una fiasca. Tolto il turacciolo, ne annusarono il contenuto per poi buttarla via disgustati.
Una delle guardie indicò con un gesto il fagotto scuro sul lastricato. Il Capitano si chinò e sollevò il mantello. Tas lo vide scuotere la testa. Poi il Capitano, con l’aiuto dell’altra guardia, sollevò con cautela il fagotto e si girò per uscire dal vicolo. Disse qualcosa a Caramon mentre gli passava accanto. Tas sentì quella parolaccia e rimase inchiodato per lo shock, cosa che, a quanto parve, capitò anche a Caramon, poiché il volto dell’omone divenne d’un bianco mortale.
Sollevando lo sguardo su Denubis, Tas vide restringersi le labbra del chierico, le dita sulla spalla di Tas tremarono.
Poi Tas comprese.
«No,» bisbigliò sommessamente, in preda all’angoscia. «Oh, no! Non possono pensare questo! Caramon non farebbe male nemmeno a un topo! Lui non ha fatto del male a Dama Crysania! Cercava soltanto di aiutarla! È per questo che siamo venuti qui... Be’, per lo meno è una delle ragioni. Per favore!» Tas si girò di scatto verso Denubis, congiungendo le mani. «Per favore, mi devi credere! Caramon è un soldato. Ha ucciso creature viventi, certo. Ma soltanto creature cattive come i draconici e i goblin. Per favore, per favore, credimi!»
Ma Denubis si limitò soltanto a guardarlo con severità.
«No! Come puoi pensare una cosa del genere? Odio questo posto! Voglio tornarmene a casa!» grido Tas miseramente, vedendo l’espressione sofferente e confusa di Caramon. Scoppiando in lacrime, il kender affondò il viso tra le proprie mani e singhiozzò amaramente.
Poi Tas sentì una mano che lo toccava esitando, per poi accarezzarlo con delicatezza.
«Su, su, adesso,» disse Denubis. «Avrai la possibilità di raccontare la tua storia. Anche il tuo amico l’avrà. E se siete innocenti, non vi accadrà nulla di male.» Ma Tas sentì che il chierico sospirava. «Il tuo amico ha bevuto, vero?»
«No!» Tas tirò su con il naso, sollevando lo sguardo su Denubis, con occhi imploranti. «Non una sola goccia, lo giuro.»
Ma la voce del kender si spense alla vista di Caramon, mentre le guardie lo conducevano fuori del vicolo, nella strada principale dove lui si trovava insieme al chierico. Il volto di Caramon era coperto dal fango e dalla sporcizia del vicolo, il sangue gli colava da un taglio alle labbra. Aveva gli occhi spiritati e iniettati di sangue, l’espressione del suo viso era vacua e piena di paura. L’eredità delle passate sbronze era impressa con fin troppa chiarezza sulle sue guance gonfie e rosse e sulle gambe e le braccia tremanti. Una piccola folla che aveva cominciato a formarsi alla vista delle guardie prese a deriderlo.
Tas piegò la testa. Che cosa stava combinando Par-Salian? si chiese in preda alla confusione.
Qualcosa era andato storto? Si trovavano davvero, poi, a Istar? O non si erano smarriti, invece, in qualche altro luogo? O forse quello era un terribile incubo...
«Chi... Cos’è successo?» chiese Denubis al capitano. «L’Oscuro aveva ragione?»
«Ragione? Certo che aveva ragione. Hai mai visto che si sbagliasse?» esclamò il capitano. «In quanto a chi... non so chi sia, ma è un membro del tuo ordine. Porta il medaglione di Paladine appeso al collo. Ed è anche ferita molto gravemente. In realtà, ho creduto che fosse morta, ma c’è un lieve pulsare nel collo.»
«Pensi che sia stata... che sia stata...» Denubis esitò.
«Non lo so,» disse il capitano con espressione torva. «Ma è stata picchiata. Dev’essere stata colta da una specie di attacco, immagino. Ha gli occhi spalancati, ma non sembra vedere o sentire nulla.»
«Dobbiamo portarla subito al tempio,» disse Denubis con vivacità, anche se Tas percepì un tremito nella sua voce. Le guardie stavano disperdendo la folla, puntando le lance davanti a sé e spingendo indietro i curiosi.
«Tutto è sotto controllo. Muoversi, muoversi. Per oggi il mercato sta per chiudere. Farete meglio a finire le vostre spese finché siete ancora in tempo.»
«Non sono stato io a farle del male!» disse Caramon, desolato. Tremava dal terrore. «Non le ho fatto del male,» ripeteva, il volto rigato di lacrime.
«Già!» esclamò il capitano con amarezza. «Portate questi due in prigione,» ordinò alle sue guardie.
Tas piagnucolò. Una delle guardie lo afferrò brutalmente ma il kender, confuso e stordito, ghermì le vesti di Denubis e si rifiutò di lasciarle andare. Il chierico, con le mani appoggiate sulla forma immota di Dama Crysania, si girò quando sentì le mani del kender che non lo mollavano.
«Per favore,» implorò Tas. «Sta dicendo la verità.»
Il volto severo di Denubis si ammorbidì. «Sei un amico fedele,» disse con voce gentile. «Una caratteristica piuttosto insolita in un kender. Spero che la tua fede in quest’uomo sia giustificata.»
Con fare distratto il chierico accarezzò il ciuffo di capelli di Tas, la sua espressione era triste. «Ma devi anche renderti conto che talvolta, quando un uomo ha bevuto, il liquore lo spinge a fare cose...»
«Vieni, tu!» ringhiò la guardia, tirando Tas all’indietro con uno strattone. «Piantala con la tua piccola recita. Non funziona.» poi aggiunse, «Non permettere che costui ti scombussoli, Reverendo Figlio,» disse il capitano. «Tu conosci i kender!»
«Sì,» rispose Denubis, con lo sguardo su Tas, mentre le guardie conducevano via il kender e Caramon attraverso la folla della piazza del mercato che si andava assottigliando sempre più rapidamente. «Conosco i kender, e questo è straordinario.» Poi, scuotendo la testa, il chierico riportò la sua attenzione su Dama Crysania. «Capitano, reggila forte,» disse ; Con voce sommessa.
«Chiederò a Paladine di trasportarci al Tempio con : la massima velocità.»
Tas, contorcendosi nella morsa della guardia, vide il chierico e il comandante delle guardie là, ormai soli, nella piazza del mercato: vi fu un tremolare di luce bianca, ed entrambi scomparvero.
Tas sbatté più volte le palpebre e, dimenticandosi di guardare dove stava andando, inciampò sui propri piedi. Ruzzolò a terra, sbucciandosi dolorosamente le ginocchia e le mani. Una salda stretta sul colletto lo rimise brutalmente in piedi, e una mano ferma gli diede una spinta sulla schiena.
«Muoviti, non tentare nessuno dei tuoi trucchi.» Tas avanzò, troppo infelice e sconvolto anche soltanto per guardarsi intorno. Il suo sguardo andò a Caramon, e il kender sentì male al cuore.
Sopraffatto dalla vergogna e dalla paura, Caramon strascicava i piedi, incerto, dondolando la testa.
«Non sono stato io a farle del male!» lo sentì farfugliare Tas, mentre in qualche modo procedeva.
«Dev’esserci un errore...»
Capitolo secondo.
Le bellissime voci degli elfi si levarono sempre più alte, le dolci note spiraleggiavano su per le ottave come se potessero portare le loro preghiere al cielo semplicemente risalendo la scala musicale. I volti delle donne elfo, toccati dai raggi del sole calante che entravano obliqui attraverso le alte finestre di cristallo, erano tinti di un delicato color rosa, e nei loro occhi brillava una fervida ispirazione.
I pellegrini presenti ascoltavano piangendo davanti a tanta bellezza, facendo sì che il coro delle Vesti Bianche e Azzurre (le Vesti Bianche delle Reverende Figlie di Paladine, le Vesti Azzurre delle Figlie di Mishakal) a causa delle lacrime divenisse indistinto alla loro vista. Più tardi molti avrebbero giurato di aver visto le donne elfo trasportate verso il cielo avvolte in nuvole vaporose.
Quando la dolcezza del loro canto raggiunse nuovi vertici, un coro di voci maschili si unì ad esse, tenendo legate al suolo le preghiere che si erano levate in alto come liberi uccelli, tarpando loro le ali, in un certo senso: così pensava Denubis, amareggiato. E pensava anche di essere saturo di tanta dolcezza. Da giovanetto anche lui aveva purificato la sua anima con le lacrime quando aveva sentito per la prima volta l’Inno del Vespro. Poi, molti anni più tardi, questa era diventata una routine.
Ricordava assai bene lo choc che aveva provato quando, durante il canto, si era reso conto per la prima volta che i suoi pensieri erano andati a qualche urgente faccenda della chiesa... Adesso, era ancora peggio d’una routine. Era diventata una faccenda irritante, nauseante e fastidiosa. In effetti, Denubis era giunto a temere quell’ora del giorno, e approfittava di ogni occasione per fuggirla.
Perché? Dava la maggior parte della colpa alle donne elfo. Pregiudizio razziale, si disse imbronciato. Eppure, lui non poteva farci niente. Ogni anno un gruppo di donne elfo, Reverende Figlie e aspiranti tali, viaggiava fin lì dalla gloriosa terra di Silvanesti per trascorrere un anno ad Istar, recandosi alla chiesa. Ciò significava che, ogni sera, si riunivano a cantare l’Inno del Vespro, e passavano la giornata a ricordare a chiunque jngeva loro a tiro che gli elfi erano i favoriti degli dei, creati per primi di tutte le razze, e ai quali era accordato un arco di vita di centinaia d’anni. Eppure, pareva che Denubis fosse il solo a offendersi per questo.
Quella sera, in particolare, il canto riusciva irritante a Denubis perchè era preoccupato per la giovane donna che aveva portato al tempio quella mattina. In effetti, era quasi riuscito a evitare di venire, ma era stato catturato all’ultimo momento da Gerald, un anziano chierico umano i cui giorni su Krynn erano contati e che provava il più grande conforto nel presenziare alle Preghiere Vespertine. Probabilmente, rifletté Denubis, perché il vecchio era quasi del tutto sordo. E proprio perché le cose stavano effettivamente così, era stato del tutto impossibile spiegare a Gerald , che lui, Denubis, doveva andare in qualche altro posto. Alla fine Denubis , aveva rinunciato, offrendo al vecchio chierico il proprio braccio a mo’ di sostegno. Adesso Gerald era immobile accanto a lui, il volto rapito, senza alcun dubbio immerso nella propria mente, nel bellissimo piano al quale lui, un giorno, sarebbe asceso.
Denubis stava pensando a tutto questo e alla giovane donna, che non aveva più visto né sentito da quando l’aveva portata al Tempio quella mattina, quando sentì un leggero tocco sul braccio. Il chierico sussultò, e si guardò intorno con aria colpevole, chiedendosi se la sua disattenzione non fosse stata notata e denunciata. Sulle prime non riuscì a capire chi l’avesse toccato, in apparenza entrambi i suoi vicini erano immersi nelle loro preghiere. Poi sentì di nuovo il tocco e si rese conto che veniva da dietro. Guardandosi alle spalle, vide che una mano si era inserita senza dare nell’occhio attraverso la tenda che separava la balconata sulla quale si trovavano i Reverendi Figli dalle anticamere intorno ad essa.
La mano gli fece segno di seguirlo e Denubis, perplesso, lasciò il suo posto nella fila e armeggiò impacciato con la tenda, cercando di andarsene senza richiamare su di sé attenzioni indebite. La mano si era ritirata e Denubis non riusciva più a trovare il punto in cui le pieghe dei pesanti tendaggi di velluto si aprivano. Alla fine, quando ormai era più che convinto che ogni pellegrino presente doveva avergli puntato addosso gli occhi pieni di disgusto, trovò l’apertura e l’attraversò incespicando.
Un giovane accolito, il volto liscio e placido, rivolse un inchino al chierico rosso in faccia e sudato.
«Le mie scuse per aver interrotto le tue preghiere della sera, Reverendo Figlio, ma il Gran Sacerdote chiede che tu lo onori di qualche momento del tuo tempo, se la cosa è conveniente.»
L’accolito aveva pronunciato le parole prescritte con tale distaccata cortesia che non sarebbe apparso insolito a qualunque osservatore se Denubis avesse risposto: «No, non adesso. Ci sono altre faccende a cui devo badare. Forse più tardi.»
Ma Denubis non replicò niente del genere. Impallidendo visibilmente, borbottò qualcosa sul fatto che era «molto onorato», con la voce che gli si smorzò in un soffio verso la fine. Comunque, l’accolito era abituato a questo e, annuendo, si voltò e gli fece strada attraverso i vasti e ariosi corridoi del Tempio, fino agli alloggi del Gran Sacerdote di Istar.
Affrettandosi a seguire il giovane, Denubis non ebbe il tempo di chiedersi di cosa mai potesse trattarsi. La giovane donna, naturalmente. Da due anni abbondanti Denubis non si era più trovato in presenza del Gran Sacerdote, e non poteva essere soltanto una coincidenza che questa convocazione arrivasse proprio lo stesso giorno in cui aveva trovato una Reverenda Figlia distesa in un vicolo, in punto di morte.
Forse era morta, pensò Denubis con tristezza. Il Gran Sacerdote me lo dirà personalmente. Sarebbe certo stato gentile da parte sua. Non in carattere, forse, per qualcuno che doveva occuparsi di questioni gravi come il destino d’intere nazioni, ma senz’altro gentile.
Sperò che non fosse morta. Non soltanto per lei, ma per l’umano e il kender. Denubis aveva pensato molto anche a loro. In particolare al kender. Come molti altri a Krynn, Denubis non sapeva che farsene dei kender, i quali non avevano proprio nessun rispetto per le leggi o la proprietà personale, la loro o quella degli altri. Ma questo kender pareva diverso. La maggior parte dei kender che Denubis conosceva (o che credeva di conoscere) sarebbe scappata al primo segno di guai. Questo invece era rimasto accanto al suo grosso amico con una fedeltà commovente, e aveva perfino parlato in sua difesa.
Denubis scosse la testa con tristezza. Se la ragazza fosse morta, avrebbero affrontato... No, non poteva pensarci. Mormorando una sincera preghiera a Paladine perché proteggesse tutti coloro che erano coinvolti (se ne erano degni), Denubis strappò la sua mente da quei pensieri deprimenti e la costrinse ad ammirare gli splendori della residenza privata del Grande Sacerdote nel tempio. Aveva dimenticato quella bellezza, le pareti bianche come il latte, che ardevano di una luce propria la quale proveniva, così diceva la leggenda, dalle pietre medesime. Erano plasmate e scolpite in maniera così delicata da farle luccicare come grandi petali di rose bianche che spuntavano dal bianco pavimento levigato. Erano percorse da lievi venature di luce azzurra, che ammorbidivano l’asprezza del bianco puro.
Le meraviglie dei corridoi lasciarono il posto alle bellezze dell’anticamera dove le pareti correvano verso l’alto per sorreggere la cupola sovrastante, come la preghiera d’un mortale che ascendesse agli dei. Gli affreschi che rappresentavano gli dei erano dipinti in delicati colori.
Anch’essi parevano ardere di luce propria: Paladine, il Drago di Platino, il Dio del Bene; Gilean del Libro, Dio della Neutralità. Qui era rappresentata perfino la Regina delle Tenebre, poiché il Gran Sacerdote non avrebbe offeso apertamente nessun dio. Era raffigurata come un drago a cinque teste, ma un drago così docile e inoffensivo che Denubis si chiedeva se non fosse sul punto di rotolare su se stesso per andare a leccare il piede di Paladine.
Però, pensò questo soltanto più tardi, dopo aver riflettuto. In quel momento era troppo nervoso anche soltanto per guardare quei meravigliosi dipinti. Il suo sguardo era fisso sulla porta di platino accuratamente lavorata che si apriva sul cuore del Tempio stesso.
La porta si aprì, irradiando una luce gloriosa. Era giunta l’ora della sua udienza.
La Sala delle Udienze dava subito a coloro che vi accedevano la sensazione della propria umiltà e mansuetudine. Questo era il cuore della bontà. Qui venivano rappresentati la gloria e il potere della chiesa. La porta si apriva su un’immensa sala circolare dal pavimento di bianco, levigato granito. Il pavimento proseguiva verso l’alto per formare le pareti modellate come i petali d’una gigantesca rosa che s’innalzava verso il cielo per sorreggere una grande cupola. La cupola stessa era di cristallo smerigliato, che assorbiva il bagliore del sole e delle lune. La loro radiosità riempiva ogni punto della sala.
Una grande onda arcuata di schiuma marina svettava al centro del pavimento arrivando fin dentro a un’alcova che si trovava sul lato opposto a quello della porta. Qui si ergeva un singolo trono. La luce e il calore che s’irradiavano da quel trono erano ancora più brillanti della luminosità che scendeva a fiotti dalla cupola.
Denubis entrò nella stanza a testa china e con le mani congiunte davanti a sé, come si conveniva.
Era sera, e il sole adesso era tramontato. La sala nella quale Denubis entrò era illuminata soltanto da candele. Eppure, come sempre, Denubis provò la chiara impressione d’essere entrato in un cortile all’aria aperta inondato dalla luce del sole.
E in verità, per un momento, i suoi occhi furono abbagliati da quel chiarore. Tenendo, come si conveniva, lo sguardo abbassato fino a quando non gli fosse stato dato il permesso di sollevarlo, intravide il pavimento, gli oggetti e le persone presenti nella Sala. Vide la scalinata mentre la saliva.
Ma la radiosità che proveniva dal davanti della stanza era talmente splendida che non notò, letteralmente, nient’altro.
«Solleva la testa, Reverendo Figlio di Paladine,» intonò una voce così melodiosa che fece venire le lacrime agli occhi di Denubis proprio qualche istante dopo che l’adorabile canto delle donne elfo si era rivelato del tutto incapace a commuoverlo.
Denubis sollevò lo sguardo, e la sua anima tremò per lo sgomento.
Erano passati due anni da quando si era trovato, l’ultima volta, così vicino al Gran Sacerdote, e il tempo aveva appannato la sua memoria. Com’era diverso osservarlo ogni mattina da lontano, vederlo come si contempla il sole che compare all’orizzonte, crogiolandosi nel suo calore, rallegrandosi fin nel profondo della sua luce e, invece, essere convocati alla presenza del sole, trovarsi davanti ad esso e sentire la propria anima ardere nella chiarezza e nella purezza del suo splendore.
D’ora in avanti lo ricorderò, pensò Denubis con severità. Ma nessuno, quand’era ritornato da un’udienza con il Gran Sacerdote, riusciva a ricordare esattamente quale aspetto aveva. In effetti, appariva sacrilego tentare di farlo, quasi che pensare a lui in termini di pura carne fosse una dissacrazione. Si riusciva soltanto a ricordare di essersi trovati alla presenza di qualcosa d’incredibilmente bello. Un’aura luminosa circondava Denubis, ma questa venne immediatamente lacerata dal più terribile senso di colpa, a causa dei dubbi, dei timori e degli interrogativi. In contrasto con il Gran Sacerdote, Denubis vedeva se stesso come la più sventurata creatura su Krynn. Cadde sulle ginocchia implorando perdono, quasi del tutto inconsapevole di ciò che stava facendo, sapendo soltanto che era la cosa giusta da fare.
E il perdono gli venne concesso. La voce musicale parlò, e Denubis si sentì immediatamente colmare da una sensazione di pace e di calma soave. Si rialzò, e guardò il Gran Sacerdote con reverente umiltà, e lo pregò di dirgli in qual modo avrebbe potuto servirlo.
«Hai condotto al Tempio, questa mattina, una giovane donna, una Reverenda Figlia di Paladine,» disse la voce, «e a quanto ci è dato di sapere ti sei preoccupato per lei, come è soltanto naturale e più che corretto. Abbiamo pensato che ti avrebbe confortato sapere che sta bene e che si è completamente ripresa dalla sua terribile ordalla . Potrà anche gratificare la tua mente, Denubis, amato Figlio di Paladine, sapere che non è stata fisicamente ferita.»
Denubis offrì i suoi ringraziamenti a Paladine per la guarigione della giovane donna e si stava giusto preparando a farsi da parte e a crogiolarsi per qualche altro istante in quella luce gloriosa, quando fu colto dall’intera portata delle parole del Gran Sacerdote.
«Non... non era stata aggredita?» riuscì appena a balbettare.
«No, figlio mio,» rispose la voce, suonando così come un inno alla gioia. «Paladine, nella sua infinita saggezza, ha raccolto la sua anima a sé, ed io sono stato in grado, dopo molte, lunghe ore di preghiera, di prevalere su di lui perché ci restituisse questo tesoro, dal momento che era stata strappata prematuramente dal suo corpo. Adesso, la giovane donna riposa in un sonno ristoratore di vita.»
«Ma i segni sul suo viso?» protestò Denubis, confuso. «Il sangue...»
«Non c’erano segni,» disse con voce pacata il Gran Sacerdote, ma con un accenno di rimprovero che fece sentire Denubis inesplicabilmente infelice. «Ti ho detto che non è stata fisicamente ferita.»
«So... sono contento di essermi sbagliato,» rispose Denubis, in tutta sincerità. «E ancor di più perché ciò significa che quel giovane che è stato arrestato è innocente come si è proclamato, e adesso può essere rimesso in libertà.»
«Sono davvero riconoscente, proprio come lo sei tu, Reverendo Figlio, di sapere che un mio simile, a questo mondo, non ha commesso un crimine orrendo, come si era a tutta prima temuto. Eppure, chi fra noi ; è davvero innocente?»
Quella voce musicale fece una pausa e parve aspettare una risposta. E le risposte arrivarono, e numerose. Il chierico sentì un borbottio di voci tutt’intorno a sé dare la corretta risposta, e Denubis divenne consapevole per la prima volta che altri erano vicino al trono. Tale era il carisma del Gran Sacerdote che aveva quasi finito per credere di essere solo con lui.
Denubis borbottò la sua risposta a quella domanda insieme al resto dei presenti, e all’improvviso seppe, senza che gli venisse detto, di essere stato congedato da quell’augusta presenza. La luce non risplendeva più direttamente su di lui, da lui era passata a qualcun altro. Provando l’impressione di essere passato dal vivido bagliore del sole all’ombra più profonda, riattraversò mezzo accecato e barcollante la sala. Ridisceso infine al livello inferiore, riacquistò in qualche modo il respiro, si rilassò e si guardò intorno.
Il Gran Sacerdote sedeva a un’estremità, circondato dalla luce. Ma a Denubis parve che i suoi occhi si stessero abituando a quella luce, perché finalmente, in qualche modo, riuscì a riconoscere gli altri che erano con lui. Qui, c’erano i capi dei vari Ordini: i Reverendi Figli e le Reverende Figlie.
Conosciuti, quasi per scherzo, come «le mani e i piedi del sole», toccava a loro occuparsi degli affari quotidiani della chiesa. In pratica, erano i veri governanti di Krynn. Ma, qui, altri erano ancora presenti, oltre agli alti funzionari della chiesa. Denubis sentì che il suo sguardo veniva attratto da un angolo della sala, l’unico angolo, a quanto pareva, che era immerso nell’ombra.
Là sedeva una figura abbigliata di nero, la sua oscurità superata soltanto dallo splendore del Gran Sacerdote. Ma Denubis, rabbrividendo, ebbe la precisa impressione che l’oscurità stesse aspettando soltanto il momento opportuno, sapendo che, alla fine, il sole sarebbe tramontato.
La consapevolezza che all’Oscuro, come Fistandantilus era conosciuto a corte, era consentito di esser presente all’interno della Sala delle Udienze del Gran Sacerdote, piombò come uno choc su Denubis. Forse, quando il mondo fosse stato totalmente libero dal Male, quando l’ultima delle razze degli orchi fosse stata eliminata, soltanto allora lo stesso Fistandantilus sarebbe caduto.
Ma proprio mentre questo pensiero lo faceva sorridere, Denubis vide il gelido luccichio degli occhi del mago appuntarsi su lui. Denubis rabbrividì e si affrettò a guardare altrove. Che contrasto c’era fra quell’uomo e il Gran Sacerdote! Quando si crogiolava nella luce del Gran Sacerdote, Denubis si sentiva avvolgere dalla tranquillità e dalla pace. Tutte le volte che gli capitava di appuntare il suo sguardo dentro gli occhi di Fistandantilus, invece, si trovava costretto a ricordare il buio che era in lui.
E, sotto il luccichio di quegli occhi, si trovò d’un tratto a chiedersi cosa avesse voluto dire il Gran Sacerdote con quella strana affermazione: «Chi di noi è davvero innocente?»
In preda a un profondo disagio, Denubis entrò in un’anticamera dove si trovava un enorme tavolo per banchetti.
L’odore di quei deliziosi e rari cibi, portati fin lì da ogni parte di Ansalon da pellegrini adoranti, o acquistati nei grandi mercati all’aria aperta di città lontane tanto quanto Xak Tsaroth, fece ricordare a Denubis che non aveva più mangiato niente dal primo mattino. Preso un piatto, passò in rassegna quelle prelibate pietanze, scegliendo questo e quello fino a quando non l’ebbe completamente riempito, e giunto appena a metà tavolo già letteralmente si piegava sotto quell’aromatico fardello.
Un servo portò grandi tazze rotonde di fragrante vino elfo. Presa una di queste, e destreggiandosi per reggere con l’altra mano, come un equilibrista, il piatto e le posate, Denubis si lasciò cadere su una sedia e cominciò a mangiare di buona lena. Si stava giusto godendo la celestiale combinazione di un boccone di fagiano arrosto con un sorso di vino elfo, il cui sapore gli si attardava in bocca, quando un’ombra si proiettò sul suo piatto.
Denubis sollevò lo sguardo, soffocò, e in qualche modo riuscì a trangugiare il resto del boccone mentre si puliva imbarazzato il vino che gli colava lungo il mento.
«Reverendo Figlio,» balbettò, facendo un debole tentativo di alzarsi nel segno di rispetto che il Capo dei Confratelli meritava.
Quarath lo squadrò con divertito sarcasmo e agitò languidamente una mano. «Prego, Reverendo Figlio, non permettere che io ti disturbi. Non ho nessuna intenzione d’interrompere la tua cena. Volevo soltanto scambiare una parola con te. Forse, quando avrai finito...»
«Ho... ho finito,» si affrettò a rispondere Denubis, porgendo il suo piatto mezzo pieno e il bicchiere a un servo che passava di là. «Sembra che io non abbia tutta quella fame che credevo.» Questo per lo meno era vero. Aveva perso completamente l’appetito.
Quarath ebbe un soave sorriso. Il suo sottile volto da elfo, con i lineamenti delicatamente scolpiti, pareva fatto di fragile porcellana; sorrideva sempre con cautela, come se temesse che la sua faccia potesse rompersi.
«Molto bene... i dessert non ti tentano?»
«N... no, neanche un po’. I dolci... fa... fanno male alla di... digestione, così tardi alla se... sera.»
«Allora vieni con me, Reverendo Figlio. È passato molto tempo da quando abbiamo parlato l’ultima volta.» Quarath prese Denubis per il braccio con distratta familiarità, anche se erano passati mesi dall’ultima volta che il chierico aveva visto il suo superiore.
Prima il Gran Sacerdote, poi Quarath. Denubis sentì un grumo freddo alla bocca dello stomaco.
Mentre Quarath lo conduceva lontano dalla Sala delle Udienze, la voce musicale del Gran Sacerdote si alzò. Denubis lanciò un’occhiata dietro di sé, crogiolandosi per un istante in quella luce meravigliosa. Poi, mentre con un sospiro distoglieva lo sguardo, i suoi occhi andarono a posarsi sul mago vestito di nero. Fistandantilus sorrise e annuì. Rabbrividendo, Denubis si affrettò a seguire Quarath fuori della porta.
I due chierici percorsero corridoi sontuosamente decorati fino a quando non arrivarono in una piccola camera, quella di Quarath. Anche questa era splendidamente decorata all’interno, ma Denubis era troppo nervoso per notare un qualsiasi dettaglio.
«Per favore, siediti, Denubis. Posso chiamarti così, dal momento che siamo soli e a nostro agio?»
Denubis non sapeva se era a proprio agio, ma certamente erano soli. Si accomodò sull’orlo del sedile che Quarath gli offrì, accettò un bicchierino di cordiale, che però non bevve, e aspettò.
Quarath parlò per qualche istante di cose irrilevanti, informandosi sul lavoro di Denubis (il chierico traduceva passi dei Dischi di Mishakal nella sua lingua nativa, il solamnico) e su altre faccende di cui, appariva ovvio, non gl’importava minimamente.
Poi, dopo una pausa, Quarath disse casualmente: «Non ho potuto fare a meno di sentire che hai interrogato il Gran Sacerdote.»
Denubis appoggiò sul tavolo il bicchierino col cordiale, la mano gli tremava talmente che a malapena riuscì ad evitare di versarlo. «Io... io ero semplicemente preoccupato per... per quel giovane... che hanno arrestato per sbaglio,» balbettò debolmente.
Quarath annuì con espressione grave. «Ed è anche molto giusto. Molto corretto. Sta scritto che dovremmo preoccuparci dei nostri simili su questo mondo. Ed è degno di te, Denubis, e ne prenderò certo nota nel mio rapporto annuale.»
«Grazie, Reverendo Figlio,» mormorò Denubis, per niente certo di cosa avrebbe dovuto rispondere.
Quarath non disse altro, ma rimase là immobile a fissare il chierico seduto davanti a lui con i suoi occhi obliqui da elfo.
Denubis si asciugò il viso con la manica della veste. Faceva incredibilmente caldo in quella stanza. Gli elfi avevano un sangue così sottile...
«C’era qualcos’altro?» gli chiese Quarath con voce pacata.
Denubis tirò un profondo sospiro. «Mio signore,» disse con slancio, «si tratta di quel giovanotto. Verrà rilasciato? E il kender?». D’un tratto gli venne un’ispirazione. «Ho pensato che forse avrei potuto essere di qualche aiuto, per ricondurli sui sentieri del Bene. Dal momento che il giovanotto è innocente...»
«Chi di noi è davvero innocente?» gli chiese Quarath, guardando il soffitto come se gli dei potessero averci scritto sopra la risposta.
«Sono certo che si tratta di un’ottima domanda,» disse Denubis con umiltà, «e senza alcun dubbio degna di studio e di discussione, ma questo giovanotto, a quanto pare, è innocente, per lo meno tanto innocente quant’è possibile esserlo di qualunque cosa...» Denubis si fermò, lievemente confuso.
Quarath sorrise con tristezza. «Ah, ecco, hai visto?» disse, allargando le braccia e volgendo lo sguardo sul chierico. «La pelliccia del coniglio copre il dente del leone, così è il detto.»
Abbandonandosi sullo schienale della sedia, Quarath fissò ancora una volta il soffitto. «I due verranno venduti domani al mercato degli schiavi.»
Denubis si alzò per metà dalla sua sedia. «Che cosa? Mio signore...»
Lo sguardo di Quarath si appuntò all’istante sul chierico, raggelandolo là dove si trovava.
«Domande? Di nuovo?»
«Ma... è innocente!» fu tutto ciò che Denubis riuscì in qualche modo a balbettare.
Quarath sorrise di nuovo, questa volta con stanchezza e indulgenza.
«Sei un brav’uomo, Denubis. Un brav’uomo e un buon chierico. Un uomo semplice, forse, ma un brav’uomo. Non abbiamo preso con leggerezza questa decisione. Abbiamo interrogato l’uomo. I suoi resoconti da dove è venuto e su ciò che stava facendo a Istar sono confusi, a dir poco. Se era innocente circa la ferita della ragazza, ci sono senza dubbio crimini che gli lacerano l’anima. Questo almeno è visibile sulla sua faccia. Non ha nessun mezzo di sostentamento, non aveva denaro addosso. È un vagabondo ed è probabile che si darebbe ai furti, se venisse lasciato in balìa di se stesso. Gli stiamo facendo un favore fornendogli un padrone che si occuperà di lui. Col tempo potrà guadagnarsi la sua libertà e, speriamolo, la sua anima sarà stata liberata dal fardello di colpe. In quanto al kender...» Quarath agitò con negligenza la mano.
«Il Gran Sacerdote lo sa?» Denubis aveva fatto appello a tutto il suo coraggio per fare quella domanda.
Quarath sospirò, e questa volta Denubis vide una ruga d’irritazione comparire sulla fronte liscia dell’elfo. «Il Gran Sacerdote ha questioni molto più urgenti in mente, Reverendo Figlio Denubis,» replicò con freddezza.
«La sua bontà è tale che il dolore di quell’uomo che soffre lo turberebbe per molti giorni. Non ha detto in maniera specifica che l’uomo doveva essere liberato, perciò abbiamo semplicemente rimosso il fardello di questa decisione dai suoi pensieri.»
Vedendo il volto scarno di Denubis caricarsi di dubbi, Quarath si sporse in avanti, dalla sedia, fissando il suo chierico e aggrottando le sopracciglia. «Molto bene, Denubis, se vuoi proprio saperlo c’erano delle circostanze molto strane circa il ritrovamento di quel giovanotto. E quella di certo più significativa è che, a quanto ci è stato dato di capire, essa in realtà è avvenuta per opera diretta dell’Oscuro.»
Denubis deglutì e riaffondò sulla sua sedia. La stanza non gli pareva più calda. Rabbrividì. «Questo è vero,» disse con voce infelice, passandosi la mano sul viso. «Ha incontrato me...»
«Lo so,» esclamò Quarath. «Me l’ha detto. La giovane donna rimarrà qui con noi. E una Reverenda Figlia. Porta il medaglione di Paladine. Inoltre è un po’ confusa, ma questo c’era da aspettarselo. Possiamo tenerla d’occhio. Ma sono certo che ti renderai conto di come sia impossibile che permettiamo a quel giovanotto di andarsene. Ai vecchi tempi, l’avrebbero buttato in una segreta senza pensarci più. Noi siamo più illuminati, gli forniremo una casa decente e allo stesso tempo saremo in grado di sorvegliarlo.»
Quarath fa sembrare la vendita di un uomo come schiavo un atto caritatevole, pensò Denubis, confuso. Forse lo è. Forse sono io che mi sbaglio. Come Quarath ha detto, io sono un uomo semplice. Stordito, si alzò dalla sedia. Il ricco cibo che aveva mangiato gli gravava nello stomaco come un macigno. Borbottando una scusa al suo superiore, si diresse verso la porta. Anche Quarath si alzò, con un sorriso conciliante sulla faccia.
«Vieni a trovarmi di nuovo, Reverendo Figlio,» disse, quando sostarono accanto alla porta. «E non aver paura d’interrogarci. È così che impariamo.»
Denubis annuì stordito, poi ristette. «Ho... ho ancora una domanda, allora,» disse esitante. «Hai parlato dell’Oscuro. Cosa sai di lui? Voglio dire, perché si trova qui? Mi... mi fa paura.»
La faccia di Quarath era diventata grave, ma non parve dispiaciuto di quella domanda. Forse provava sollievo nel vedere che la mente di Denubis era passata a un altro argomento. «Chi sa nulla dei modi di agire dei fruitori di magia,» rispose, «se non che i loro modi non sono i nostri, né sono ancora i modi degli dei? È stato per questa ragione che il Gran Sacerdote si è sentito in obbligo di liberare Ansalon della loro presenza, nei limiti del possibile. Adesso sono rintanati nella sola Torre della Grande Stregoneria che ancora è loro rimasta, in quella remota Foresta di Wayreth. Ben presto anche quella scomparirà a mano a mano che il loro numero diminuirà, poiché abbiamo chiuso le scuole. Hai sentito della maledizione lanciata sulla Torre di Palanthas?»
Denubis annuì in silenzio.
«Quel terribile incidente!» Quarath proseguì. «Ti dimostra come gli dei abbiano maledetto questi stregoni... spingere quell’anima sventurata ad una tale follia da impalare se stesso là fuori, attirando la collera degli dei e sigillando la Torre per sempre... almeno lo supponiamo. Ma di cosa stavamo discutendo?»
«Fistandantilus,» mormorò Denubis, dispiaciuto di aver sollevato l’argomento. Adesso bramava soltanto tornare nella sua stanza e prendere la sua polverina per lo stomaco.
Quarath sollevò le sopracciglia piumate. «Tutto quello che so di lui è che si trovava già qui quando sono arrivato, circa cento anni fa. È vecchio, più vecchio perfino di molti miei simili, poiché sono pochi perfino tra i più vecchi della mia razza che riescano a ricordare un’epoca in cui il suo nome non veniva bisbigliato. Ma è umano, e perciò deve usare le sue arti magiche per sostenere la sua vita. Non oso immaginare come lo faccia.» Quarath gratificò Denubis d’una intensa occhiata.
«Naturalmente, capisci adesso perché il Gran Sacerdote lo tiene a corte?»
«Lo teme?» chiese Denubis, con innocenza.
Il sorriso di porcellana di Quarath divenne fisso per un momento, poi si trasformò nel sorriso di un genitore che stesse spiegando una semplice faccenda a un figlio ottuso. «No, Reverendo Figlio,» disse con pazienza. «Fistandantilus ci è molto utile. Chi conosce il mondo meglio di lui? Ha viaggiato in lungo e in largo. Conosce le lingue, i costumi, le tradizioni di ogni razza di Krynn. Le sue conoscenze sono vaste. È utile al Gran Sacerdote, e così gli permettiamo di rimanere qui, piuttosto che esiliarlo a Wayreth, come abbiamo esiliato i suoi compagni.»
Denubis annuì. «Capisco,» disse, con un pallido sorriso. «E... adesso devo proprio andare. Grazie per la tua ospitalità, Reverendo Figlio, e per aver chiarito i miei dubbi.»
«Sono lieto di essere stato in grado di aiutarti,» replicò Quarath, con gentilezza. «Possano gli dei concederti un tranquillo riposo, figlio mio.»
«E anche a te,» mormorò Denubis in risposta, poi si allontanò, sentendo, con sollievo, la porta che si chiudeva alle sue spalle.
Il chierico si affrettò a passare davanti alla sala delle udienze del Gran Sacerdote. La luce sgorgava dalla porta, il suono di quella dolce voce musicale gli strappò il cuore mentre passava, ma temette di sentirsi male e così resistette alla tentazione di tornare dentro.
Desiderando la pace della sua camera silenziosa, Denubis attraversò in fretta il Tempio. A un certo punto si smarrì, imboccando l’angolo sbagliato a un incrocio di corridoi. Ma un gentile servitore lo ricondusse nella direzione che doveva prendere per raggiungere la parte del Tempio in cui viveva.
Era una parte assai austera, se confrontata con quella in cui risiedevano il Gran Sacerdote e la sua corte, ma anch’essa era piena d’ogni lusso concepibile per gli standard di Krynn. E, mentre Denubis percorreva quei corridoi, pensò a quanto apparisse accogliente e confortevole quella tenue luce di candela. Altri chierici gli passarono accanto sorridendo e bisbigliandogli i saluti della sera. Era questo il suo ambiente. Semplice, com’era lui.
Con un altro sospiro di sollievo, Denubis raggiunse la sua piccola stanza e aprì la porta (niente era mai chiuso a chiave nel Tempio: avrebbe indicato sfiducia nei propri simili) e fece per entrare. Poi si fermò. Con la coda dell’occhio aveva intravisto un movimento, un’ombra scura in mezzo alle ombre più scure. Guardò con attenzione laggiù, in fondo al corridoio. No, non c’era niente. Era vuoto.
Sto diventando vecchio. Gli occhi mi fanno degli scherzi, si disse Denubis, scuotendo stancamente la testa.
Entrò nella stanza, con le vesti bianche che gli sussurravano intorno alle caviglie, chiuse con decisione la porta, poi cercò la polverina per lo stomaco.
Capitolo terzo.
La chiave sferragliò nella serratura della porta della cella.
Tasslehoff si rizzò a sedere di scatto. Una pallida luce filtrò nella cella attraverso una minuscola finestra sbarrata situata in alto nello spesso muro di pietra. L’alba, pensò sonnecchiando. La chiave sferragliò di nuovo, come se il carceriere avesse problemi ad aprire la porta. Tas lanciò un’occhiata inquieta a Caramon che si trovava al lato opposto della cella. L’omone giaceva su una lastra di pietra che era il suo letto, senza muoversi o dare alcun segno di aver sentito il fracasso.
Un cattivo segno, pensò Tas con ansia, sapendo che quel guerriero bene addestrato (quando non era ubriaco) un tempo si sarebbe prontamente svegliato a un rumore di passi fuori della stanza. Ma Caramon non aveva parlato né si era mosso sin da quando le guardie l’avevano condotto là dentro il giorno prima. Aveva rifiutato il cibo e l’acqua (anche se Tas gli aveva assicurato che il trattamento era di un buon gradino al di sopra della maggior parte dei cibi delle prigioni). Era rimasto disteso sulla lastra di pietra e aveva fissato il soffitto fino al calar della notte, poi si era mosso, almeno un po’, e aveva chiuso gli occhi.
La chiave sferragliava più forte che mai, e in aggiunta a quel rumore c’era quello del carceriere che imprecava. Tas si affrettò ad alzarsi ed a percorrere il pavimento di pietra, togliendosi la paglia dai capelli e lisciandosi i vestiti mentre camminava. Vedendo uno sgabello in un angolo, il kender lo trascinò fino alla porta, vi salì sopra e attraverso la finestrella sbarrata della porta abbassò lo sguardo sul carceriere che si trovava dall’altra parte.
«Buongiorno,» gli disse Tas con allegria. «Problemi?»
Il carceriere dette in un balzo di almeno tre piedi a quella voce inaspettata e quasi lasciò cadere le chiavi. Era un uomo piccolo, vizzo e grigio come le pareti. Alzando uno sguardo furente sul volto del kender attraverso le sbarre ringhiò e, inserendo la chiave ancora una volta frugò nella serratura, scuotendola vigorosamente. L’uomo accanto al carceriere aggrottò le sopracciglia. Era un uomo grande e grosso, abbigliato in modo raffinato e avvolto in un mantello di pelle d’orso per proteggersi dal gelo del mattino. Teneva in mano una lavagnetta, un pezzo di gesso penzolava da questa appeso a una cinghia di cuoio.
«Spicciati,» ringhiò l’uomo rivolto al carceriere. «Il mercato apre a mezzogiorno e devo ancora pulire questo lotto e farlo apparire decente per quell’ora.»
«Dev’essere rotta,» borbottò il carceriere.
«Oh, no, non è rotta,» disse Tas, servizievole. «In effetti, penso che la tua chiave entrerebbe benissimo se non ci fosse di mezzo il mio grimaldello.»
Il carceriere abbassò lentamente le chiavi e sollevò uno sguardo minaccioso sul kender.
«È stato l’incidente più strano che mi sia mai capitato,» continuò Tas. «Vedi, ero piuttosto annoiato, stanotte, Caramon si è addormentato presto, e tu mi avevi portato via tutte le mie cose, così, quando mi è capitato di scoprire che vi eravate dimenticati di un grimaldello che tenevo nella calza, ho deciso di provarlo su questa porta, giusto per tenere in esercizio la mano, per così dire, e vedere che razza di prigioni costruivate in quest’epoca. Avete costruito proprio una bella prigione, a proposito,» dichiarò Tas con voce solenne. «Una delle più belle in cui mi sia capitato di trovarmi. A proposito, mi chiamo Tasslehoff Burrfoot.»
Il kender infilò la mano attraverso le sbarre, nel caso in cui qualcuno avesse voluto stringergliela.
Nessuno dei due la strinse. «E vengo da Solace. E anche il mio amico. Siamo qui per una specie di missione, si potrebbe dire e, oh, sì, la serratura. Be’, non c’è bisogno che mi guardi così di brutto, non è stata colpa mia. In realtà è stata la vostra stupida serratura a rompere il mio grimaldello! Uno dei migliori che avessi, per giunta. Di mio padre,» disse il kender con tristezza. «Me l’ha dato il giorno in cui sono diventato adulto. Penso proprio,» aggiunse Tas con voce severa, «che potresti per lo meno scusarti.»
A queste parole il carceriere produsse uno strano suono, una specie di sbuffata e un’esplosione.
Scuotendo il suo anello di chiavi in faccia al kender ringhiò qualcosa d’incoerente su «marcire in quella cella per sempre» e fece per allontanarsi, ma l’uomo con il mantello di pelle d’orso lo afferrò per le spalle.
«Non così in fretta, mi serve quello là dentro.»
«Lo so, lo so,» gemette il carceriere con voce esile. «Ma dovrai aspettare il fabbro...»
«Impossibile, ho l’ordine di metterlo sul blocco oggi.»
«Bene, allora trova tu il modo di tirarli fuori da là,» lo schernì il carceriere. «Procura al kender un altro grimaldello. Ora, vuoi il resto del lotto oppure no?»
Cominciò ad allontanarsi con passo ballonzolante, lasciando l’uomo con il mantello di pelle d’orso a rimirare cupamente la porta.
«Tu sai da dove vengono i miei ordini,» disse questi con una nota sinistra nella voce.
«I miei ordini vengono dallo stesso posto,» disse il carceriere da sopra le spalle ossute. «E se a loro non va, possono venire qui a pregare la porta di aprirsi. E se il sistema non dovesse funzionare, dovranno aspettare il fabbro, proprio come chiunque altro.»
«Intendete farci uscire?» chiese Tas con voce ansiosa. «Se è così potremmo essere in grado di aiutarvi...». Poi un pensiero improvviso gli attraversò la mente. «Non avete intenzione di giustiziarci, vero? Poiché, in questo caso, credo che preferiremmo aspettare il fabbro...»
«Giustiziarvi!» ringhiò l’uomo con la pelle d’orso. «Non c’è più stata un’esecuzione a Istar da dieci anni, ormai. La chiesa l’ha proibito.»
«Già, una morte rapida e pulita era troppo bella per un uomo,» ridacchiò il carceriere, che si era voltato di nuovo. «Ora, com’è che vorresti aiutarci, piccola bestia?»
«Be’» disse Tas, con qualche esitazione, «se non avete intenzione di giustiziarci, cosa farete di noi, allora? Immagino che non ci lascerete andare. Dopotutto, siamo innocenti. Voglio dire, non...»
«Non ho intenzione di fare niente con te,» l’interruppe sarcastico l’uomo con la pelle d’orso. «E il tuo amico che voglio. E, no, non lo lasciamo andare.»
«Una morte rapida e pulita,» borbottò il vecchio carceriere, con un sogghigno sdentato. «E c’è sempre una bella folla che si riunisce a guardare, per giunta. Faceva sentire ad un uomo che la sua uscita significava qualcosa, ed è proprio quello che Harry Snaggle mi disse mentre lo conducevano fuori per impiccarlo. Sperava che ci fosse una bella folla... e c’era. Gli fece venire i lucciconi agli occhi. “Tutta questa gente,” mi disse, “che rinuncia alle sue vacanze per venire a salutarmi”. Un gentiluomo fino in fondo.»
«È destinato al blocco!» dichiarò ad alta voce l’uomo con la pelle d’orso, ignorando il carceriere.
«Rapida, pulita.» Il carceriere scosse la testa.
«Be’,» disse Tas, dubbioso, «non sono sicuro di cosa voglia dire, ma se davvero ci farete uscire, forse Caramon potrà aiutarci.»
Il kender scomparve dalla finestrella, e lo sentirono gridare: «Caramon, svegliati! Vogliono farci uscire e non riescono ad aprire la porta e temo sia colpa mia, in parte almeno...»
«Ti rendi conto che devi prenderli tutti e due?» disse il carceriere, furbescamente.
«Cosa?» L’uomo dalla pelle d’orso si girò di scatto per fissare il carceriere. «Questo non è mai stato detto...»
«Devono venir venduti insieme. Questi sono i miei ordini e dal momento che i tuoi ordini e i miei arrivano dallo stesso posto...»
«È messo per iscritto?» si accigliò l’uomo.
«Certo.» Il carceriere era compiaciuto.
«Perderò quattrini. Chi mai vorrà comperare un kender?»
Il carceriere scrollò le spalle. Non erano affari suoi.
L’uomo con la pelle d’orso aprì di nuovo la bocca, poi tornò a chiuderla quando un’altra faccia comparve incorniciata nella finestrella della porta. Questa volta non era il kender. Era il volto di un uomo, di un giovane sui ventott’anni. Un tempo quel volto avrebbe anche potuto essere notevole, ma adesso la forte linea della mascella era confusa nel grasso, gli occhi castani erano spenti, i capelli riccioluti incrostati e arruffati.
«Come sta Dama Crysania?» chiese Caramon.
L’uomo con la pelle d’orso sbatté le palpebre, confuso.
«Dama Crysania. L’hanno portata al Tempio,» ripetè Caramon.
Il carceriere diede un colpo di gomito nelle costole dell’uomo con la pelle d’orso. «Sai, la donna che lui ha picchiato.»
«Non l’ho mai toccata,» dichiarò Caramon con voce tranquilla. «Come sta adesso?»
«Non ti riguarda proprio,» sbottò l’uomo con la pelle d’orso, ricordando d’un tratto che si stava facendo tardi. «Sei un fabbro? Il kender ci ha detto qualcosa sul fatto che saresti capace di aprire questa porta.»
«Non sono un fabbro,» replicò Caramon, «ma forse posso aprirla.» Il suo sguardo andò al carceriere. «A te non spiace che la rompa?»
«La serratura è già rotta!» esclamò il carceriere con voce stridula. «Non vedo cosa potresti fare di peggio, a meno di non sfondare la porta!»
«È proprio quello che ho intenzione di fare,» disse Caramon con freddezza.
«Sfondare la porta?» strillò il carceriere. «Ma tu sei scemo! Diamine...»
«Aspetta.» L’uomo con la pelle d’orso aveva intravisto le spalle e il collo taurino di Caramon attraverso le sbarre della porta. «Vediamo. Se lo fa, pagherò i danni.»
«Ci puoi scommettere!» borbottò il carceriere. L’uomo con la pelle d’orso gli lanciò un’occhiata con la coda dell’occhio, e il carceriere si azzittì.
Caramon chiuse gli occhi e tirò parecchi profondi sospiri, espirando lentamente ognuno di essi.
L’uomo con la pelle d’orso e il carceriere arretrarono dalla porta. Caramon scomparve alla loro vista.
Udirono un grugnito e poi un tonfo terrificante contro la massiccia porta di legno. La porta sobbalzò follemente sui cardini, perfino le pareti di pietra parvero vibrare sotto la violenza del colpo. Ma la porta tenne. Però il carceriere fece un altro salto indietro, la bocca spalancata.
Un grugnito arrivò dall’interno della cella, poi un altro colpo tremendo. La porta esplose con tale forza che gli unici pezzi rimasti, ancora riconoscibili, furono i cardini e la serratura, ancora saldamente attaccati al telaio. L’impeto aveva fatto volare Caramon fuori nel corridoio. Evviva soffocati si levarono dalle celle vicine, dove altri prigionieri avevano schiacciato i volti alle sbarre.
«Pagherai per questo!» squittì il carceriere, rivolto all’uomo con la pelle d’orso.
«Vale ogni singolo centesimo,» dichiarò l’uomo, aiutando Caramon a rialzarsi, spolverandolo e squadrandolo criticamente allo stesso tempo. «Hai mangiato un po’ troppo bene, ultimamente, eh? E ti sei goduto anche parecchie bevute, scommetto! Probabilmente è quello che ti ha fatto finire qua dentro. Be’, non ha importanza. Faremo presto a rimediare. Nome... Caramon?»
L’omone annuì imbronciato.
«Io sono Tasslehoff Burrfoot,» esclamò il kender, sbucando fuori dalla porta fracassata e porgendo di nuovo la mano. «Vado dappertutto con lui. Sì, proprio dappertutto. Ho promesso a Tika che l’avrei fatto e...»
L’uomo con la pelle d’orso stava scrivendo qualcosa sulla sua lavagnetta, e si limitò a guardare il kender con aria assente. «Mm, capisco.»
«Bene, adesso,» continuò il kender” mettendosi la mano in tasca con un sospiro, «se toglierai queste catene dai nostri piedi, sarebbe certo più facile camminare.»
«Proprio così,» mormorò l’uomo con la pelle d’orso, buttando giù alcune cifre sulla lavagnetta.
Sommandole sorrise. «Vai avanti,» ordinò al carceriere. «Tira fuori tutti gli altri che hai per me quest’oggi.»
Il vecchio si allontanò con passo strascicato, ma prima lanciò un’occhiata inviperita a Tas e a Caramon.
«Voi due, sedetevi accanto al muro fino a quando non saremo pronti a partire,» ordinò l’uomo con la pelle d’orso.
Caramon si rannicchiò sul pavimento, sfregandosi la spalla. Tas si sedette accanto a lui con un sospiro felice. Il mondo all’esterno della cella gli appariva già più luminoso. Proprio come aveva detto a Caramon: «Una volta fuori, avremo una possibilità di cavarcela! Stipati qua dentro, non ne abbiamo proprio nessuna.»
«Oh, a proposito,» gridò Tas alla figura del carceriere che si allontanava. «Per favore, vedi che mi venga restituito il grimaldello! Ha un valore sentimentale, sai.»
«Una possibilità, uh!?» ringhiò Caramon a Tas, mentre il fabbro si preparava a imbullonargli il collare di ferro. Aveva perso un po’ di tempo prima di trovarne uno abbastanza largo, e Caramon fu l’ultimo degli schiavi ad avere stretto intorno al collo quel segno di servitù. L’omone sussultò per il dolore quando il fabbro saldò il bullone con il ferro rovente. Si levò un odore di carne bruciata.
Tas tirò con aria infelice il proprio collare, e sussultò per simpatia con le sofferenze di Caramon.
«Mi spiace,» disse, tirando su col naso. «Non avevo capito che intendesse dire proprio questo, quando ha detto che eravamo destinati al blocco. Credevo che intendesse portarci da qualche altra parte... Parlano un po’ strano quaggiù, davvero, Caramon...»
«E va bene,» sospirò Caramon. «Non è colpa tua.»
«Ma, comunque, è colpa di qualcuno,» dichiarò Tas, riflettendo, guardando con interesse il fabbro che spalmava del grasso sulla bruciatura di Caramon, per poi ispezionare la propria opera con occhio critico. Più di un fabbro a Istar aveva perso il proprio lavoro quando un proprietario di schiavi si faceva vivo per chiedere un risarcimento, a causa di qualche schiavo che era riuscito a scappare sfilandosi il collare.
«Cosa vuoi dire?» borbottò Caramon scoraggiato, con la sua solita espressione rassegnata e vacua.
«Insomma,» bisbigliò Tas, con un’occhiata al fabbro, «pensaci un momento. Guarda com’eri vestito quando siamo arrivati qui. Parevi proprio un furfante. Poi sono saltati fuori quel chierico e quelle guardie, come se ci stessero aspettando. E com’era ridotta Dama Crysania.»
«Hai ragione,» disse Caramon, una favilla di luce tremolò nei suoi occhi opachi. La favilla divenne un lampo, accendendo un fuoco che covava da tempo. «Raistlin,» mormorò. «Sa che cercherò di fermarlo. E stato lui a farlo!»
«Non ne sono così sicuro,» disse Tas dopo averci riflettuto un po’. «Voglio dire, non sarebbe più probabile che ti facesse ardere, riducendoti a un croccantino, oppure trasformandoti in un arazzo o in qualcosa del genere?»
«No!» esclamò Caramon, e Tas vide l’eccitazione nei suoi occhi. «Non capisci? Mi vuole qui, indietro... perché faccia qualcosa. Non ci assassinerà. Quel... quell’elfo scuro che lavora per lui ce l’ha detto, non ricordi?»
Tas apparve dubbioso e fece per dire qualcosa, ma proprio allora il fabbro spinse il guerriero per farlo alzare in piedi. L’uomo con la pelle d’orso che li aveva sbirciati con impazienza dalla soglia del negozio del fabbro fece un cenno a due dei suoi schiavi personali. Affrettandosi a entrare, afferrarono brutalmente Caramon e Tas, spingendoli nella fila insieme agli altri schiavi. Altri due schiavi si avvicinarono e cominciarono a collegare tutte le catene che imprigionavano gli schiavi alle gambe fino a quando non furono tutti disposti in una singola fila. Poi, a un gesto dell’uomo con la pelle d’orso, quella sventurata catena vivente di esseri umani, di mezzelfi più due goblin, cominciò ad avanzare con passo strascicato.
Avevano fatto appena tre passi quando si ritrovarono tutti aggrovigliati a causa di Tasslehoff, il quale aveva preso la direzione sbagliata.
Dopo molte imprecazioni e qualche sferzata con bacchette di salice (prima guardandosi intorno per essere certi che non ci fossero chierici in giro) l’uomo con la pelle d’orso riuscì a far muovere la fila.
Tas saltellava cercando di tenersi al passo. Fu soltanto dopo che il kender era stato trascinato due volte sui ginocchi, mettendo di nuovo in pericolo l’intera fila, che Caramon si decise ad avvolgere il suo grande braccio intorno alla vita di Tas, sollevandolo da terra con la catena e tutto, e a trasportarlo di peso.
«È stato proprio divertente,» disse Tas col fiato mozzo. «Specialmente là dove sono caduto in avanti. Hai visto la faccia di quell’uomo? Io...»
«Cosa volevi dire, prima?» lo interruppe Caramon. «Cosa ti fa pensare che Raistlin non sia dietro a tutto questo?»
Il volto di Tas divenne insolitamente serio e pensieroso. «Caramon,» disse qualche istante dopo, cingendo il collo dell’omone e parlandogli all’orecchio per riuscire a farsi sentire sopra lo sferragliare delle catene e i rumori delle strade della città. «Raistlin dev’essere stato terribilmente indaffarato, con il viaggio a ritroso fin qui e tutto il resto. Diamine, Par-Salian ha impiegato giorni e giorni a lanciare quell’incantesimo per viaggiare nel tempo e lui è un mago davvero potente. Perciò deve aver richiesto un sacco di energia da parte di Raistlin. Come potrebbe aver fatto quello, e aver fatto questo a noi allo stesso tempo?»
«Be’,» disse Caramon, corrugando la fronte. «Se non è stato lui, chi è stato?»
«Che ne dici di... Fistandantilus?» bisbigliò Tas, dopo una pausa drammatica.
Caramon risucchiò il proprio respiro, il suo volto s’incupì.
«È... è uno stregone davvero potente,» gli ricordò Tas, «e... insomma... non hai certo mantenuto il segreto sul fatto che sei tornato qui per, uh, liquidarlo, si fa per dire. Voglio dire, l’hai detto perfino nella Torre della Grande Stregoneria. E sappiamo che Fistandantilus può vagare nella Torre. È là che ha incontrato Raistlin, non è vero? E se si fosse trovato sul posto e ti avesse sentito? Credo che si sarebbe inferocito parecchio.»
«Bah! Se è così potente, mi avrebbe ucciso sul posto e basta!» esclamò Caramon, corrugando le sopracciglia.
«No, non può,» disse Tas con fermezza. «Ascolta, ho calcolato tutto. Non può assassinare il fratello del suo pupillo. Specialmente se Raistlin ha un buon motivo per averti ricondotto qui. Ebbene, per tutto quello che Fistandantilus ne sa, Raistlin potrebbe anche amarti, nel suo intimo più profondo.»
Caramon impallidì, e a Tas venne subito voglia di troncarsi la lingua con un morso. «Comunque,» si affrettò a proseguire, «non può sbarazzarsi subito di te. Dev’essere una cosa fatta come si deve...»
«E allora?»
«Allora...» Tas tirò un profondo respiro, «be’, non giustiziano la gente in questo posto, ma a quanto pare hanno altri sistemi di trattare quelli che non vogliono avere intorno. Quel chierico e il carceriere hanno entrambi parlato delle esecuzioni come di “morti facili”, a paragone di ciò che accade adesso.»
Una scudisciata sulla schiena di Caramon mise fine a ogni ulteriore conversazione. Fissando furibondo il servo che l’aveva colpito, un tipo untuoso e insinuante al quale, era ovvio, piaceva il proprio lavoro, Caramon affondò in un silenzio imbronciato, ripensando a ciò che Tas gli aveva detto. Certamente era sensato. Aveva visto quanta energia e concentrazione Par-Salian aveva impiegato per lanciare quel difficile incantesimo. Raistlin poteva anche essere potente, ma non a tal punto! Inoltre, era ancora fisicamente debole.
D’un tratto Caramon vide tutto con estrema chiarezza. Tasslehoff ha ragione! Siamo stati incastrati.
In qualche modo Fistandantilus si sbarazzerà di me e poi spiegherà la mia morte a Raistlin facendola passare per un incidente.
In qualche punto nei recessi della sua mente, Caramon sentì la voce burbera di un vecchio nano che diceva: «Non so chi sia lo stupido più grosso, tu, o quel pomolo di porta d’un kender! Se uno di voi due dovesse farcela a uscirne vivo, sarei davvero sorpreso!». Caramon sorrise con tristezza al pensiero del suo vecchio amico. Ma Flint non era là e non c’era neppure Tanis o chiunque altro che potesse consigliarlo. Lui e Tas erano soli, e se non fosse stato per l’impetuoso balzo del kender dentro l’incantesimo, lui avrebbe potuto benissimo trovarsi lì, indietro nel tempo, tutto solo, senza nessuno! Questo pensiero lo sgomentò. Fu colto da un brivido.
«Tutto ciò significa che devo far fuori questo Fistandantilus prima che lui faccia fuori me,» disse con voce sommessa.
Le grandi guglie del Tempio guardavano sulle strade della città tenute scrupolosamente pulite, tutte, salvo i vicoli retrostanti. Le strade erano affollate di gente. Le guardie del Tempio andavano in giro mantenendo l’ordine, risaltando in mezzo alla folla con i loro mantelli variopinti e i caschi piumati. Donne bellissime lanciavano con la coda dell’occhio sguardi ammirati alle guardie mentre si aggiravano tra i bazar e i negozi, spazzando il lastricato con i loro abiti raffinati mentre si muovevano con gesti misurati. C’era però un posto, l’unico in tutta la città, al quale le donne non si avvicinavano, anche se molte lanciavano sguardi incuriositi verso di esso: quel settore della piazza dove si trovava il mercato degli schiavi.
Come al solito, il mercato degli schiavi era affollato. Le aste avevano luogo una volta la settimana e questo era uno dei motivi per cui l’uomo dalla pelle d’orso, che era il direttore, era stato così ansioso di ottenere il quoziente settimanale di schiavi dalle prigioni. Malgrado il denaro ricavato dalla vendita degli schiavi andasse nei pubblici forzieri, il direttore riceveva la sua parte, naturalmente. Quella settimana si prospettava assai promettente.
Come aveva detto a Tas, non avvenivano più esecuzioni a Istar o in quella parte di Krynn da essa controllata. O comunque... poche. I Cavalieri di Solamnia insistevano ancora nel punire quei loro membri che avevano tradito il loro Ordine nell’antica, barbarica maniera: tagliando la gola del reprobo con la sua stessa spada. Ma il Gran Sacerdote si stava consultando con i cavalieri e c’era speranza che ben presto quella pratica efferata sarebbe cessata.
Naturalmente, la cessazione delle esecuzioni a Istar aveva creato un altro problema: cosa fare dei prigionieri che stavano aumentando di numero e cominciavano a costituire un grosso salasso per i pubblici forzieri? La chiesa, perciò, aveva condotto uno studio. Era stato scoperto che la maggior parte dei prigionieri erano indigenti, senza casa e senza un soldo. I crimini che avevano commesso, furti, rapine, prostituzione e altre infrazioni del genere, nascevano proprio da questo.
«Perciò, non è forse logico,» aveva detto il Gran Sacerdote ai suoi ministri, il giorno in cui aveva dato l’annuncio ufficiale, «che la schiavitù non soltanto sia la risposta al sovraffollamento delle nostre prigioni, ma una maniera assai indulgente e benefica di trattare questa povera gente, il cui solo crimine è quello di essere stati intrappolati in una ragnatela di povertà dalla quale non possono fuggire?
«Certo che lo è. E perciò nostro dovere aiutarli. Come schiavi, verranno nutriti, vestiti e alloggiati. Verrà loro dato tutto ciò di cui erano privi e che li ha costretti a darsi a una vita di crimini. Naturalmente, ci assicureremo che vengano trattati bene e faremo in modo che, dopo un certo periodo di schiavitù, se si saranno comportati bene, possano riacquistare la propria libertà. Allora torneranno a noi come membri produttivi della società.»
L’idea era stata subito attuata e veniva praticata ormai da circa dieci anni. C’erano stati problemi, ma questi non erano stati abbastanza gravi da richiedere l’intervento del Gran Sacerdote. I sottoministri li avevano risolti con efficienza, e adesso il sistema funzionava benissimo. La chiesa traeva un reddito costante dalle somme pagate per gli schiavi prelevati dalle prigioni (tenendoli distinti da quelli venduti dalle imprese private) e la schiavitù pareva fungere perfino da forte elemento di dissuasione nei confronti del crimine.
I problemi che erano sorti riguardavano due gruppi di criminali: i kender e quei delinquenti i cui delitti erano particolarmente sgradevoli. Era stato scoperto che era impossibile vendere un kender a qualcuno, ed era anche difficile vendere un assassino, uno stupratore, un pazzo, e così via. La soluzione era semplice: i kender venivano chiusi in prigione per la notte e poi condotti alle porte della città (il che dava luogo a una piccola processione ogni mattina). E degli istituti erano stati creati per trattare i tipi di criminali più impenitenti.
Quel mattino l’uomo dalla pelle d’orso stava parlando proprio con il nano che era a capo di uno di questi istituti, indicando Caramon che se ne stava insieme agli altri prigionieri nel recinto sporco e puzzolente dietro al blocco, mimando il drammatico movimento di abbattere una porta con la spalla.
Il capo dell’istituto non parve per nulla entusiasta. Comunque, la cosa non era insolita. Aveva imparato già da molto tempo che mostrare entusiasmo per un prigioniero era come chiedere l’immediato raddoppio del suo prezzo. Perciò il nano fissò Caramon corrugando la fronte, sputò per terra, incrociò le braccia e, piantando con fermezza i piedi al suolo, sollevò lo sguardo inferocito sull’uomo dalla pelle d’orso.
«È fuori forma, troppo grasso. Inoltre è un ubriacone, basta guardargli il naso.» Il nano scosse la testa. «E non sembra affatto cattivo. Cos’hai detto che ha fatto? Ha aggredito un chierico? Umpf !».
Il nano sbuffò. «A guardarlo si direbbe che l’unica cosa che sappia aggredire è una caraffa di vino!»
Naturalmente, l’uomo dalla pelle d’orso era abituato a questo.
«Ti perderesti l’occasione di una vita, Rockbreaker,» disse con voce insinuante. «Avresti dovuto vederlo mentre abbatteva quella porta. Non ho mai visto una simile forza in nessun uomo. Forse pesa un po’ troppo, ma questo si può curare facilmente. Rimettilo in sesto e diventerà un rubacuori. Le signore lo adoreranno. Guarda quegli occhi castani così vellutati e quei capelli ondulati...».
L’uomo dalla pelle d’orso abbassò la voce. «Sarebbe davvero un peccato farlo finire nelle miniere... Ho cercato di fare in modo che non si spargesse la voce su ciò che ha fatto, ma temo che Haarold ne abbia avuto sentore.»
Sia l’uomo dalla pelle d’orso sia il nano lanciarono un’occhiata ad un umano che si trovava a una certa distanza da loro, intento a parlare e a ridere con parecchie delle sue guardie corpulente. Il nano sì accarezzò la barba, mantenendo un’espressione impassibile.
L’uomo con la pelle d’orso continuò: «Haarold ha giurato di averlo a tutti i costi. Dice che farà il lavoro di due umani normali. Ora, poiché tu sei un cliente preferenziale, cercherò di fare in modo che la bilancia penda a tuo favore...»
«Lascia pure che se lo prenda Haarold,» ringhiò il nano. «Sudicio grassone.»
Ma l’uomo dalla pelle d’orso vide il nano squadrare Caramon con occhio calcolatore. Sapendo per lunga esperienza quando parlare e quando stare zitto, l’uomo dalla pelle d’orso rivolse un inchino al nano e si allontanò fregandosi le mani.
Avendo ascoltato quella conversazione, e vedendo che il nano lo stava guardando come si guarda un maiale che ha vinto il primo premio, Caramon provò l’immediato, selvaggio desiderio di spezzare le sue catene, abbattere il recinto in cui era rinchiuso, e strangolare sia l’uomo dalla pelle d’orso sia il nano. Il sangue gli martellava nel cervello: fece forza contro le catene che lo imprigionavano, i muscoli delle sue braccia si contrassero. Lo spettacolo indusse il nano a spalancare gli occhi e le guardie disposte intorno al recinto a sfoderare le spade. Ma d’un tratto Tasslehoff gli diede una gomitata nelle costole.
«Caramon, guarda!» esclamò il kender in preda all’eccitazione.
Per un attimo Caramon non riuscì a sentire a causa del tumultuoso pulsare del sangue nelle orecchie. Tas gli diede un’altra gomitata.
«Guarda, Caramon. Laggiù, ai margini della folla, tutto solo. Hai visto?»
Caramon emise un sospiro tremante e si costrinse a calmarsi. Guardò nella direzione indicatagli dal kender, e d’un tratto il sangue bollente delle sue vene si raggelò. Ai margini della folla c’era una figura impaludata di nero. Era solo. In effetti, c’era perfino un ampio cerchio vuoto intorno a lui.
Nessuno della folla gli si avvicinava. Molti deviavano, facendosi in quattro per evitare di andargli vicino. Nessuno gli parlava, ma tutti erano consapevoli della sua presenza. Quelli accanto a lui, che fino a un attimo prima stavano parlando animatamente, erano piombati in un silenzio inquieto e gli lanciavano occhiate nervose.
Le vesti dell’uomo erano d’un nero cupo, senza ornamenti. Nessun filo d’argento luccicava sulle sue maniche, nessun bordo cingeva il cappuccio nero che indossava, calato sul volto. Non stringeva in mano nessun bastone, nessun famiglio camminava al suo fianco. Che gli altri maghi portassero pure rune di difesa e protezione, che gli altri maghi impugnassero pure bastoni del potere o avessero animali pronti a obbedire ai loro ordini. Quell’uomo non aveva bisogno di niente. Il suo potere veniva da dentro, così grande da estendersi nell’arco di secoli, da estendersi perfino su diversi piani di esistenza. Era avvertibile, irradiandosi intorno a lui come il calore che emanava dalla fornace di un fabbro.
Era alto, di bella prestanza fisica. Le vesti nere gli ricadevano dalle spalle che erano snelle ma muscolose. Le sue mani bianche, le uniche parti visibili del suo corpo, erano forti, delicate e agili.
Anche se era così vecchio che pochi su Krynn potevano anche soltanto azzardarsi d’indovinare la sua età, aveva un corpo giovanile e robusto. Voci tenebrose andavano raccontando come avesse utilizzato le sue arti magiche per vincere le debilitazioni dell’età.
E così, se ne stava solo, come se un sole nero fosse precipitato giù, nella piazza del mercato.
Neppure il luccichio dei suoi occhi era visibile dentro le oscure profondità del suo cappuccio.
«Quello chi è?» chiese Tas, in tono discorsivo, a un altro prigioniero indicando con un cenno del capo la figura impaludata d. nero.
«non lo sai?» rispose nervosamente il prigioniero, come se fosse riluttante a rispondere.
«Vengo da fuori città,» si scusò Tas. .
«Diamine, è l’Oscuro, Fistandantilus. Avrai sentito parlare di lui, senza dubbio!» «si» “annuì Tas, lanciando nel contempo un’occhiata a Caramon, come per sottolineare un te l’avevo detto! «Abbiamo sentito parlare di lui.»
Capitolo quarto
Quando Crysania si risvegliò la prima volta dall’incantesimo che Paladine aveva lanciato su di lei, si trovò in un tale stato di sconcerto e confusione che i chierici ne furono enormemente preoccupati, temendo che il suo calvario le avesse squilibrato la mente.
Parlava di Palanthas, perciò supposero che venisse da quella città. Ma faceva continuamente appello al Capo del suo Ordine, qualcuno chiamato Elistan. I chierici conoscevano i capi di tutti gli Ordini su Krynn e questo Elistan era a tutti sconosciuto. Ma Crysania era così insistente che ci fu, a tutta prima, il timore che qualcosa potesse essere successo all’attuale Capo di Palanthas. Vennero mandati subito dei messaggeri.
Inoltre Crysania parlava di un Tempio di Palanthas ma in quel luogo non esisteva alcun Tempio.
Alla fine si era messa a parlare in maniera alquanto inconsulta di draghi e del «ritorno degli dei», il che aveva indotto i presenti nella stanza, Quarath ed Elsa, Capo delle Reverende Figlie, a guardarsi l’un l’altra in preda all’orrore e a tracciare il segno della protezione contro le bestemmie. A Crysania venne data una pozione d’erbe, che l’aveva calmata, e alla fine si era addormentata. I due erano rimasti con lei per lunghi momenti, dopo che si era addormentata, discutendo del suo caso a bassa voce. Poi il Gran Sacerdote era entrato nella stanza. Era venuto a placare i loro timori.
«Ho lanciato un augurio,» disse con la sua voce musicale, «e mi è stato detto che Paladine l’ha chiamata a sé per proteggerla da un incantesimo di magia malvagia che è stato usato su di lei. Non credo che nessuno di noi abbia difficoltà a crederlo.»
Quarath ed Elsa scossero la testa, scambiandosi occhiate d’intesa. L’odio del Gran Sacerdote per i fruitori di magia era ben noto.
«E stata con Paladine, perciò è stata in quel meraviglioso regno che stiamo cercando di ricreare su questa terra. Senza alcun dubbio, mentre si trovava là, le sono state date conoscenze del futuro. Parla di un meraviglioso Tempio che viene costruito a Palanthas. Noi non abbiamo forse in progetto di costruire un simile Tempio? E parla di questo Elistan, che è probabilmente un chierico destinato a governare colà.»
«Ma... i draghi? E il ritorno degli dei?» mormorò Elsa.
«In quanto ai draghi,» disse il Gran Sacerdote con una voce che irradiava calore e divertimento, «si tratta probabilmente di qualche storia della sua giovinezza che l’ha ossessionata durante la sua malattia, o forse ha qualcosa a che fare con l’incantesimo che è stato lanciato su di lei dal fruitore di magia.» La sua voce divenne severa. «Si dice, sapete, che gli stregoni abbiamo il potere di far vedere alla gente ciò che non esiste. In quanto ai suoi discorsi sul “ritorno degli dei”...»
Una luce riempì la stanza. Elsa bisbigliò una preghiera, e perfino Quarath abbassò gli occhi.
«Lasciatela dormire,» disse il Gran Sacerdote. «Domattina starà già meglio. La nominerò nelle mie preghiere a Paladine.»
Lasciò la stanza, che divenne più buia alla sua partenza. Elsa lo seguì con lo sguardo, in silenzio.
Poi, quando la porta della camera di Crysania si fu chiusa, la donna elfo si voltò verso Quarath.
«Ha il potere?» chiese Elsa al suo omologo maschile, mentre Quarath fissava pensoso Crysania.
«Davvero intende fare... quello che ha detto di voler fare?»
«Cosa?» I pensieri di Quarath tornarono da lontano. Lanciò un’occhiata verso la porta da cui era appena uscito il Gran Sacerdote. «Oh, quello? Certo che ne ha il potere. Hai visto come ha guarito questa giovane donna. E gli dei parlano attraverso l’augurio, o per lo meno è ciò che lui sostiene. Quando è stata l’ultima volta che hai guarito qualcuno, Reverenda Figlia?»
«Allora tu credi a tutta quella storia di Paladine che avrebbe preso la sua anima permettendole di vedere il futuro?». Elsa appariva stupefatta. «Credi che l’abbia davvero guarita?»
«Credo ci sia qualcosa di molto strano in questa giovane donna e in coloro che sono arrivati con lei,» dichiarò Quarath con voce grave. «Mi occuperò di loro. Tu tieni d’occhio lei. In quanto al Gran Sacerdote,» Quarath scrollò le spalle, «lascia che faccia appello al potere degli dei. Se scenderanno e combatteranno per lui, bene. In caso contrario, per noi non avrà importanza. Sappiamo chi fa il lavoro degli dei su Krynn.»
«Mi chiedo,» osservò Elsa, lisciando i capelli scuri di Crysania e scostandoli dal suo volto addormentato, «... c’era una giovane nel nostro Ordine che aveva davvero il potere di guarire. Quella giovane fu sedotta da un cavaliere di Solamnia... qual era il suo nome?»
«Soth,» rispose Quarath. «Lord Soth, della Rocca di Dargaard. Oh, non ne dubito. Di tanto in tanto trovi qualcuno, in particolare fra i molto giovani o i molto vecchi, che ha il potere. O pensa di averlo. Ad esser franco sono convinto che nella maggior parte dei casi ciò è dovuto soltanto alla gente che vuole talmente credere in qualcosa da finire per convincersi che è vero. Il che non danneggia nessuno di noi. Sorveglia con molta attenzione questa giovane donna, Elsa. Se dovesse continuare a parlare di simili cose, domattina, una volta che si sarà ripresa, potremmo trovarci costretti a prendere misure drastiche. Ma, per ora...»
Tacque. Elsa annuì. Sapendo che la giovane donna avrebbe dormito profondamente sotto l’influenza della pozione, i due lasciarono sola Crysania, addormentata in una stanza del grande Tempio di Istar.
Crysania si svegliò il mattino seguente con la sensazione che la sua testa fosse imbottita di cotone.
Aveva un sapore amaro in bocca e una sete terribile. Stordita, si rizzò a sedere cercando di rimettere insieme in qualche modo i cocci dei suoi pensieri. Niente aveva senso. Lei aveva un vago, orrendo ricordo d’una spettrale creatura dell’oltretomba che le si avvicinava. Poi si era trovata con Raistlin nella Torre della Grande Stregoneria, quindi un vago ricordo di essere circondata da maghi vestiti di bianco, rosso e nero, un’impressione di pietre che cantavano, e la sensazione di aver intrapreso un lungo viaggio.
Aveva anche il ricordo di essersi svegliata e di essersi trovata alla presenza di un uomo dalla bellezza sopraffacente, la cui voce aveva riempito la sua mente e la sua anima di pace. Lui le aveva detto di essere il Gran Sacerdote: lei si trovava nel Tempio degli Dei di Istar. Questo non aveva alcun senso. Ricordava di aver invocato Elistan, ma pareva che nessuno l’avesse mai sentito nominare. Aveva parlato loro di lui, di come fosse stata guarita da Goldmoon, chierico di Mishakal, della lotta contro i draghi del Male, e di come venisse diffuso tra la gente l’annuncio del ritorno degli dei. Ma le sue parole erano servite soltanto a indurre i chierici a guardarla con pietà e allarme.
Alla fine le avevano dato da bere una pozione dallo strano sapore, e lei si era addormentata.
Adesso era ancora confusa ma decisa a scoprire dov’era e cosa stava succedendo. Uscita dal letto, si costrinse a lavarsi come faceva ogni mattina, poi si sedette davanti allo strano tavolino da toeletta e si spazzolò e intrecciò con calma i lunghi capelli scuri. Quella familiare routine la fece sentire più rilassata.
Si prese perfino un po’ di tempo per dare un’occhiata alla camera da letto, e non potè fare a meno di ammirarne la bellezza e lo splendore. Ma giudicò che apparisse fuori luogo in un Tempio dedicato agli dei, se davvero era là che si trovava. La sua camera da letto nella casa dei suoi genitori a Palanthas non aveva raggiunto neppure la metà di quello splendore.
La sua mente andò subito a ciò che Raistlin le aveva fatto vedere, la povertà e l’indigenza così vicine al Tempio, e arrossì in preda al disagio.
«Forse questa è una camera per gli ospiti,» si disse Crysania, parlando ad alta voce ricavando conforto da quel suono familiare. «Dopotutto, le camere per gli ospiti nel nostro nuovo Tempio sono state certamente attrezzate per far sentire a proprio agio i nostri visitatori. Tuttavia,» corrugò la fronte, il suo sguardo andò alla costosa statua d’oro d’una driade che reggeva una candela nelle mani dorate, «quella è una stravaganza. Il suo prezzo basterebbe a nutrire un’intera famiglia per molti mesi.»
Com’era contenta che lui non potesse vederla! Avrebbe parlato al Capo di quest’Ordine, chiunque fosse. (Di certo doveva essersi sbagliata pensando che avesse detto di essere il Gran Sacerdote).
Avendo deciso di agire e sentendo che la sua mente si era schiarita, Crysania si tolse di dosso gli indumenti notturni e s’infilò le vesti bianche che trovò disposte ordinatamente ai piedi del letto.
Che vesti bizzarre, d’altri tempi, osservò, facendosele scivolare addosso da sopra la testa. Niente affatto simili alle vesti bianche, semplici e austere, indossate da quelli del suo Ordine a Palanthas.
Queste erano pesantemente decorate. Fili d’oro luccicavano sulle maniche e sugli orli, nastri rossi e purpurei ornavano il davanti, e una pesante cintura d’oro raccoglieva le pieghe intorno alla sua vita sottile. Ancora una stravaganza. Crysania si morse il labbro, disapprovando, ma si diede ancora una sbirciata nello specchio incorniciato d’oro. Senza dubbio le si confaceva, doveva ammetterlo, lisciando le pieghe del vestito. Fu allora che sentì il foglio che aveva in tasca. V’infilò subito la mano e tirò fuori un pezzo di carta di riso che era stato piegato in quattro. Lo fissò incuriosita, chiedendosi oziosamente se il proprietario della veste l’avesse lasciato lì per caso... Ma con viva sorpresa si accorse che era indirizzato a lei. Perplessa, lo lesse:
Dama Crysania, sapevo che avresti cercato il mio aiuto per tornare al passato nel tentativo d’impedire che il giovane mago, Raistlin, attuasse il male che sta complottando. Però, mentre eri in viaggio per raggiungerci, sei stata attaccata da un cavaliere della morte. Per salvarti Paladine ha portato la tua anima nella sua celeste dimora. Non c’è nessuno fra noi adesso, neppure lo stesso Elistan, che possa portarti indietro. Soltanto quei chierici che vivono all’epoca del Gran Sacerdote hanno questo potere. Perciò ti abbiamo mandato indietro nel tempo fino a Istar, subito prima del Cataclisma, in compagnia del fratello di Raistlin, Caramon. l’i abbiamo mandato perché tu adempia a un duplice scopo. Primo, guarirti della tua grave ferita e, secondo, permetterti di avere successo nei tuoi sforzi di salvare il giovane mago da se stesso.
Se in ciò vedi l’opera degli dei, forse allora potresti considerare benedetti i tuoi sforzi. Vorrei farti una sola raccomandazione: gli dei operano in modi che possono apparire strani ai mortali, poiché noi possiamo vedere solamente quella parte dell’immagine che viene dipinta intorno a noi. Avevo sperato di poter discutere di questo con te, di persona, prima della tua partenza, ma questo è risultato impossibile.
Posso soltanto metterti in guardia su un punto: guardati da Raistlin.
Sei virtuosa, risoluta nella tua fede, e orgogliosa sia della tua virtù sia della tua fede. Questa è una micidiale combinazione, mia cara. Lui ne approfitterà in pieno.
Ricordati anche di questo. Tu e Caramon siete tornati indietro a un’epoca pericolosa. I giorni del Gran Sacerdote sono contati. Caramon ha intrapreso una missione che potrebbe dimostrarsi pericolosa per la sua vita. Ma tu, Crysania, rischi sia la tua vita sia la tua anima. Prevedo che sarai costretta a scegliere: per salvare l’una dovrai rinunciare all’altra. Hai molti modi per lasciare questo periodo di tempo, uno dei quali è tramite Caramon. Che Paladine sia con te.
Crysania affondò nel letto, i ginocchi le erano venuti meno. La mano che reggeva la lettera tremava. La fissava stordita, leggendola e rileggendola senza comprendere le parole. Dopo qualche momento, però, si calmò e si costrinse a riesaminare ogni singola parola, leggendola e rileggendola fino a quando non fu certa di averne afferrato il significato.
Per farlo le ci volle circa mezz’ora di lettura e di riflessione. Alla fine credette di aver capito. O per lo meno di aver capito la maggior parte di quanto vi era scritto. Le ritornò alla mente il ricordo del perché aveva viaggiato fino alla Foresta di Wayreth. Così, Par-Salian aveva saputo. Aveva atteso il suo arrivo. Ancora meglio. E aveva ragione: quanto era accaduto dopo l’attacco del cavaliere della morte era un ovvio esempio dell’intervento di Paladine per esser certi che lei ritornasse qui, nel passato. In quanto a quell’osservazione sulla sua fede e sulla sua virtù...!
Crysania si alzò in piedi. Sul suo pallido volto si leggeva ora una precisa determinazione. Su ognuna delle sue guance c’era una macchia di colore appena accennata, e gli occhi le luccicavano per la collera. Le dispiaceva soltanto di non averlo potuto affrontare di persona! Come si permetteva?
Con le labbra tirate in una stretta linea, Crysania ripiegò il messaggio, passandoci sopra rapidamente le dita, come se avesse una gran voglia di lacerarlo. Una piccola scatola d’oro, del tipo usato dalle dame di corte per tenervi i gioielli, si trovava sul tavolo della toeletta accanto allo specchio dalla cornice dorata e alla spazzola. Prendendo la scatola,
Crysania l’aprì, v’infilò dentro il messaggio, chiuse il coperchio e girò la piccola chiave nella serratura, fino a quando sentì il lieve scatto. Poi lasciò cadere la chiave nella tasca dove aveva trovato la lettera, e si guardò ancora una volta nello specchio.
Si lisciò i capelli neri scostandoseli dal viso, tirò su il cappuccio della veste e se lo drappeggiò intorno alla testa. Notando l’arrossamento delle sue guance, Crysania si costrinse a rilassarsi, consentendo alla sua collera di sfumare. Ricordò a se stessa che, dopotutto, le intenzioni del vecchio mago erano state buone. E com’era possibile che qualcuno dedito alla magia comprendesse qualcuno dedito alla fede? Poteva ben elevarsi al di sopra di una collera meschina. Dopotutto, lei si librava sul sommo del suo momento di grandezza. Paladine era con lei. Poteva quasi sentire la sua presenza. E l’uomo che aveva incontrato era davvero il Gran Sacerdote!
Sorrise, ricordando la sensazione di profonda bontà che le aveva ispirato. Com’era possibile che fosse stato responsabile del Cataclisma? No, la sua anima si rifiutava di crederlo. La storia doveva averlo calunniato. Era vero che era rimasta con lui soltanto per pochi secondi, ma un uomo così bello, così buono e santo... responsabile di tante morti e distruzioni? Era impossibile! Forse sarebbe stata in grado di provare la sua innocenza. Forse quella era un’ altra ragione per cui Paladine l’aveva mandata indietro nel tempo: per scoprire la verità.
Crysania sentì la sua anima riempirsi di gioia. E, all’ultimo momento, sentì che la sua gioia riceveva risposta, per lo meno così le parve, nello scampanio delle Preghiere del Mattino. La bellezza della musica le fece venire le lacrime agli occhi. Con il cuore che le scoppiava per l’eccitazione e la felicità, Crysania lasciò la stanza e corse fuori negli splendidi corridoi, andando quasi a sbattere addosso a Elsa.
«In nome degli dei,» esclamò Elsa, in preda allo stupore, «è possibile? Come ti senti?»
«Mi sento molto meglio, Reverenda Figlia,» disse Crysania, colta da una certa confusione, ricordando che quanto le avevano sentito dire prima dovevano esser parse farneticazioni dissennate e incoerenti. «Co... come se mi fossi svegliata da uno strano e vivido sogno.»
«Paladine sia lodato,» mormorò Elsa, socchiudendo gli occhi e grati ficando Crysania di uno sguardo acuto e penetrante.
«Non ho certo mancato di lodarlo, puoi esserne certa,» replicò Crysania con sincerità. Piena di gioia com’era, non si accorse della strana espressione della donna elfo. «Stavi andando alle Preghiere dal Mattino? Se è così, posso accompagnarti?». Guardò con reverenza lo splendido edifìcio intorno a sé. «Temo che mi ci vorrà un po’ di tempo prima che impari ad aggirarmi qua dentro.»
«Certo,» rispose Elsa, riprendendosi. «Da questa parte.» Ripreselo a camminare lungo il corridoio.
«Ero anche preoccupata per... per il giovane che è stato... che è stato ritrovato insieme a me,» balbettò Crysania, ricordando d’un tratto di sapere assai poco delle circostanze riguardanti la sua comparsa in quel tempo.
Il volto di Elsa diventò freddo e severo. «Si trova dove verrà ben accudito, mia cara, È un tuo amico?»
«No, certo che no,» si affrettò a rispondere Crysania, ricordando il suo ultimo incontro con Caramon ubriaco. «Era... era la mia scorta. La scorta assoldata per me,» balbettò, rendendosi conto all’improvviso di essere assai poco brava a mentire.
«Si trova nella Scuola dei Giachi,» rispose Elsa. «Se sei preoccupata, è possibile inviargli un messaggio.»
Crysania non aveva nessuna idea di cosa fosse quella scuola, e aveva paura di fare troppe domande perciò, ringraziando Elsa, lasciò perdere, sentendosi più tranquilla. Per lo meno adesso sapeva dove si trovava Caramon, e che era al sicuro. Sentendosi rassicurata sapendo di avere un modo per far ritorno al suo tempo, consentì a se stessa di rilassarsi completamente.
«Ah, guarda, mia cara,» disse Elsa. «Ecco che arriva qualcun altro a informarsi della tua salute.»
«Reverendo Figlio.» Crysania s’inchinò reverente quando Quarath si avvicinò alle due donne. Così facendo, non si accorse della rapida occhiata interrogativa rivolta dall’uomo ad Elsa, e del lieve annuire della donna elfo.
«Sono felicissimo di vederti in piedi e già in movimento,» disse Quarath, prendendo la mano di Crysania e parlando con tanto sentimento e calore che la giovane donna arrossì per il piacere.
«Il Gran Sacerdote ha passato la notte a pregare per la tua guarigione. Questa prova della sua fede e del suo potere saranno estremamente gratificanti. Questa sera ti presenteremo ufficialmente a lui. Ma, adesso,» continuò interrompendo Crysania che stava per replicare, «ti sto distogliendo dalle Preghiere. Per favore, non permettere che ti trattenga oltre.»
Rivolgendo un inchino a entrambe con grazia squisita, Quarath passò oltre, proseguendo lungo il corridoio.
«Non assiste al rito?» chiese Crysania, seguendo il chierico con lo sguardo.
«No, mia cara,» replicò Elsa, sorridendo per l’ingenuità di Crysania. «Assiste il Gran Sacerdote ogni mattina durante le sue cerimonie private. Dopotutto, Quarath è secondo soltanto al Gran Sacerdote e ogni giorno deve occuparsi di questioni di grande importanza. Si potrebbe dire che se il Gran Sacerdote è il cuore e l’anima della chiesa, Quarath ne è la mente.»
«Cielo, com’è strano,» mormorò Crysania pensando a Elistan.
«Strano, mia cara?» disse Elsa, con una lieve sfumatura di rimprovero. «I pensieri del Gran Sacerdote si accompagnano agli dei. Non ci si può aspettare che debba occuparsi di faccende mondane, come quelle quotidiane della chiesa, non ti pare?»
«Oh, certo che no.» Crysania arrossì per l’imbarazzo.
Quanto doveva apparire provinciale, lei, a quella gente: semplice ed arretrata. Mentre seguiva Elsa lungo i corridoi luminosi e arieggiati, la bellissima musica delle campane e il suono glorioso del coro dei fanciulli colmarono la sua anima di gioia estatica. Crysania ricordò il semplice rito che Elistan celebrava ogni mattina. E per di più, badava anche, personalmente, alla maggior parte delle attività quotidiane della chiesa.
Adesso quel semplice rito le appariva scialbo, e il lavoro cui si sottoponeva ogni giorno Elistan degradante. Certamente la sua salute ne aveva pagato lo scotto. Forse, pensò Crysania con uno spasimo di rincrescimento, non avrebbe accorciato così la sua vita, se fosse stato circondato ed aiutato da gente come quella...
Bene, questo cambierà, decise tutt’a un tratto Crysania, rendendosi conto che quella doveva essere stata un’altra ragione per la quale era stata rispedita indietro nel tempo: era stata scelta per ripristinare la gloria della chiesa! Tremando per l’eccitazione, la mente già indaffarata a tracciare piani per il cambiamento, Crysania chiese a Elsa di descriverle il funzionamento interno della gerarchia della chiesa. Elsa fu fin troppo lieta d’illustrargliela, mentre proseguivano lungo il corridoio.
Smarrita nel suo interesse per la conversazione, attenta ad ogni singola parola di Elsa, Crysania non pensò più a Quarath che stava, in quel momento, aprendo in silenzio la porta della camera da letto di lei, sgusciandovi dentro furtivamente.
Capitolo quinto.
Bastarono pochi istanti, a Quarath, per trovare la lettera di Par-Salian. Aveva notato quasi subito, nell’entrare, che la scatola dorata sopra il tavolino della toilette era stata spostata. Una rapida perquisizione dei cassetti glielo confermò e, dal momento che aveva un passepartout che gli consentiva di aprire ogni scatola, cassetto e porta in tutto il Tempio, l’aprì con facilità.
Ma il chierico non capì con altrettanta facilità la lettera. Gli ci vollero soltanto pochi secondi per memorizzarne il contenuto. Questo sarebbe rimasto impresso nella sua mente: la fenomenale abilità di Quarath di mandare a memoria all’istante qualunque cosa gli capitasse sotto gli occhi era uno dei suoi doni più grandi. Fu così che in pochi istanti ebbe rinserrato nella propria mente il testo completo del messaggio.
Ma, si rese conto, ci sarebbero volute ore di riflessione per trarne un senso.
Con fare assente, Quarath ripiegò il foglio e lo rimise nella scatola, poi riportò la scatola nell’esatta posizione all’interno del cassetto. Lo chiuse con il passepartout, diede un’occhiata dentro agli altri cassetti senza troppo interesse e, non avendo trovato niente, lasciò la stanza della giovane donna immerso nei suoi pensieri.
Il contenuto della lettera era così sconcertante e inquietante da indurlo a cancellare i suoi appuntamenti di quella mattina o a trasferirli sulle spalle dei suoi subordinati. Poi andò nel suo studio. Qui si sedette e richiamò alla memoria ogni singola parola, ogni singola frase.
Alla fine trovò una spiegazione, anche se non del tutto soddisfacente, almeno sufficiente a stabilire una linea d’azione. Tre cose erano evidenti. Primo, la giovane donna poteva anche essere un chierico, ma aveva a che fare con fruitori di magia ed era perciò sospetta. Secondo, il Gran Sacerdote era in pericolo. Questo non era sorprendente, i fruitori di magia avevano buone ragioni per odiare e temere quell’uomo. Terzo, il giovane trovato insieme a Crysania era senza alcun dubbio un assassino. Crysania stessa poteva essere una complice.
Quarath ebbe un sorriso sinistro, congratulandosi con se stesso per aver già preso le misure più appropriate ad affrontare la minaccia. Aveva fatto in modo che il giovane, a quanto pareva il suo nome era Caramon, prestasse servizio in un luogo dove di tanto in tanto, accadevano sfortunati incidenti.
In quanto a Crysania, si trovava al sicuro all’interno delle mura del Tempio, dove poteva venir sorvegliata e interrogata in maniera da non destare sospetti.
Respirando con più calma, la mente più limpida, il chierico suonò per farsi portare il pranzo dal servo, contento di sapere che, almeno per il momento, il Gran Sacerdote era al sicuro.
Quarath era un uomo insolito sotto molti aspetti, uno dei quali, tra i più importanti, era che, malgrado fosse molto ambizioso, conosceva i limiti delle proprie capacità. Aveva bisogno del Gran Sacerdote, e non aveva nessun desiderio di prendere il suo posto. Quarath si accontentava di crogiolarsi alla luce del suo padrone, estendendo allo stesso tempo il proprio controllo, autorità e potere sul mondo, il tutto in nome della chiesa.
Quarath sentiva che era una sfortuna che gli dei avessero considerato giusto creare altre razze più deboli... Razze come gli umani i quali, con la loro vita breve e frenetica, erano facili bersagli per le tentazioni del Male. Ma gli elfi stavano imparando ad affrontare questo. Anche se non erano in grado di spazzar via completamente il Male dal mondo (ma si stavano impegnando), potevano per lo meno metterlo sotto controllo. Era la libertà che causava il male. La libertà di scelta.
Specialmente per gli umani, che abusavano continuamente di questo dono. Bisognava dar loro delle rigide regole da seguire, chiarire quello che era giusto e quello che era sbagliato senza lasciare adito a incertezze, limitare quella irrefrenabile libertà della quale facevano tanto cattivo uso. Così, era convinto Quarath, gli umani sarebbero rientrati nelle righe, con piena soddisfazione.
In quanto alle altre razze su Krynn: gnomi, nani e (sospirò) kender, Quarath - e la chiesa - li stavano rapidamente costringendo a vivere in piccoli territori isolati, dove potevano causare pochi guai e, col tempo, si sarebbero probabilmente estinti. (Questo piano stava funzionando bene con gli gnomi e i nani, i quali comunque non servivano molto al resto di Krynn. Per sfortuna, però, i kender non si adattavano per niente e se ne gironzolavano ancora felici per il mondo, causando guai a non finire godendosi in pieno la vita.)
Tutto questo passava per la mente di Quarath mentre pranzava e cominciava a tracciare i suoi piani. Non avrebbe fatto niente di precipitoso a proposito di Dama Crysania, non era quello il suo modo di agire, né il modo degli elfi, se era per questo. Per ogni cosa ci voleva pazienza. Osservare. Aspettare. Adesso gli serviva soltanto una cosa: maggiori informazioni. A questo fine fece squillare un minuscolo campanello d’oro. Il giovane accolito che aveva accompagnato Denubis dal Grande Sacerdote rispose con tanta rapidità e silenzio alla convocazione che avrebbe potuto benissimo essere entrato sgusciando da sotto la porta invece che aprirla.
«Che cosa ordini, Reverendo Figlio?»
«Due piccoli incarichi,» disse Quarath, senza sollevare lo sguardo, essendo impegnato a scrivere un appunto. «Porta questo a Fistandantilus. È passato un po’ di tempo da quando è stato mio ospite a cena, e desidero parlare con lui.»
«Fistandantilus non si trova qui, mio signore,» rispose l’accolito. «In effetti, stavo giusto venendo a riferirtelo.»
Quarath sollevò la testa, stupito.
«Non è qui?»
«No, Reverendo Figlio. Se n’è andato stanotte, o per lo meno lo supponiamo. Stanotte è stata l’ultima volta che qualcuno l’ha visto. La sua stanza è vuota, le sue cose sono scomparse. Si ritiene, da certi indizi, che sia andato alla Torre della Grande Stregoneria di Wayreth. Corre voce che gli stregoni vi stiano tenendo un conclave, anche se nessuno lo sa per certo.»
«Un conclave,» ripetè Quarath, corrugando la fronte. Rimase silenzioso per un momento, battendo la punta della penna d’oca sulla carta. Wayreth era molto lontana... però, forse non era abbastanza lontana... Cataclisma... Quella strana parola che era stata usata nella lettera. Possibile che i fruitori di magia stessero complottando qualche devastante catastrofe? Quarath si sentì raggelare.
Accartocciò lentamente l’invito che stava stilando.
«I suoi movimenti sono stati ricostruiti?»
«Certamente, Reverendo Figlio, per quanto è possibile con lui. A quanto pare, era da molti mesi che non lasciava il Tempio. E poi ieri è stato visto al mercato degli schiavi.»
«Il mercato degli schiavi?». Quarath sentì un brivido gelido diffondersi per il suo corpo. «Quali faccende l’hanno condotto laggiù?»
«Ha comperato due schiavi, Reverendo Figlio.»
Quarath non disse niente, limitandosi a interrogare il chierico con un’occhiata.
«Non ha comperato lui stesso gli schiavi, mio signore. L’acquisto è stato fatto attraverso uno dei suoi agenti.»
«Quali schiavi?». Ma Quarath conosceva già la risposta.
«Quelli che sono stati accusati di aver aggredito il chierico femmina, Reverendo Figlio.»
«Avevo dato ordine che quei due dovevano essere venduti o al nano o alle miniere.»
«Barak ha fatto del suo meglio e, in verità, il nano ha fatto delle offerte per loro, ma gli agenti dell’Oscuro le hanno superate. Non c’era niente che Barak potesse fare. Pensa allo scandalo! Inoltre, i suoi agenti li hanno mandati lo stesso alla scuola...»
«Sì,» borbottò Quarath. Così, ogni cosa andava al suo posto. Fistandantilus aveva avuto perfino la temerarietà di comperare il giovanotto, l’assassino! Poi era scomparso. Andato a riferire, senza alcun dubbio. Ma perché mai i maghi si preoccupavano per degli assassini? Fistandantilus avrebbe potuto assassinare personalmente il Gran Sacerdote in innumerevoli occasioni. Quarath ebbe la spiacevole impressione di aver inavvertitamente lasciato un sentiero sgombro per inoltrarsi in una buia e infida foresta.
Rimase seduto, turbato e silenzioso, per tanto di quel tempo che il giovane accolito si schiarì la gola per tre volte, come riguardoso memento della sua presenza, prima che il chierico si accorgesse di lui.
«Avevi un altro compito per me, Reverendo Figlio?»
Quarath annuì in silenzio. «Sì. E questa notizia rende il compito ancora più importante. Desidero che l’intraprenda tu stesso. Io devo parlare al nano.»
L’accolito s’inchinò e se ne andò. Non c’era bisogno di chiedere a chi si riferiva Quarath: c’era un solo nano a Istar.
Nessuno sapeva chi fosse Arack Rockbreaker o da dove venisse. Non faceva mai riferimento al suo passato e di solito si accigliava così rabbiosamente se l’argomento saltava fuori, che i suoi interlocutori si affrettavano ad abbandonarlo. C’erano parecchie interessanti congetture in proposito, la più diffusa era che fosse stato cacciato da Thorbardin, l’antica dimora dei nani delle montagne, dove aveva commesso qualche crimine che gli era costato l’esilio. Nessuno riusciva a immaginarsi che razza di crimine avrebbe potuto essere. E non c’era nessuno che prendesse in considerazione il fatto che i nani non punivano mai nessun crimine con l’esilio. La condanna a morte veniva considerata più umana.
Altre voci insistevano a dire che in realtà si trattava di un dewar, una razza di nani malvagi quasi sterminati dai loro cugini, spinti adesso a vivere un’esistenza amara e miseranda nelle viscere stesse del mondo. Malgrado Arack non avesse l’aspetto né si comportasse nella maniera specifica di un dewar, questa voce era popolare per il fatto che il suo compagno favorito (e il solo) era un orco.
Secondo altre voci Arack non proveniva affatto da Ansalon, ma da qualche altro luogo al di là del mare.
Certamente era l’esemplare più brutto della sua razza che chiunque ricordasse di aver mai visto. Le cicatrici frastagliate che gli attraversavano verticalmente il volto gli davano una perpetua espressione torva. Non c’era grasso, non c’era una sola oncia sprecata sul suo corpo. Si muoveva con la grazia di un felino e, quando stava dritto, piantava i piedi al suolo con tanta fermezza che parevano far parte del terreno medesimo. Qualunque fosse il suo luogo d’origine, Arack aveva fatto di Istar la sua casa ormai da così tanti anni che l’argomento della sua terra di provenienza saltava fuori molto di rado. Lui e l’orco, che si chiamava Raag, provenivano dai Giochi dei vecchi tempi, quand’erano ben più duri e crudeli. Erano diventati subito i grandi favoriti della folla. C’era gente a Istar che raccontava ancora come Raag e Arack avessero sconfitto il poderoso minotauro, Darmoork, in tre riprese. Tutto era cominciato quando Darmoork aveva scagliato il nano fuori dell’arena. Raag, in preda a una rabbia e a un furore ciechi, aveva sollevato da terra il minotauro e, ignorando la gragnola di pugnalate che costui continuava a infliggergli, l’aveva impalato sulla gigantesca Guglia della Libertà al centro del ring.
Anche se né il nano (che era sopravvissuto soltanto perché un chierico si era trovato sulla sua traiettoria quand’era volato sopra l’arena) né l’orco si erano conquistati la libertà quel giorno, non c’era stato nessun dubbio sul vincitore dei Giochi. (In verità c’erano voluti molti giorni prima che qualcuno riuscisse a raggiungere la Chiave d’Oro sulla Guglia, poiché c’era voluto tutto quel tempo per rimuovere i resti del minotauro). Arack riferì i macabri particolari di quel combattimento ai suoi due nuovi schiavi.
«È così che mi sono procurato questa faccia crepata,» disse il nano a Caramon, mentre conduceva l’omone e il kender lungo le strade di Istar. «Ed è così che Raag ed io ci siamo fatti un nome nei Giochi.»
«Quali giochi?» chiese Tas, inciampando sulla sua catena e finendo lungo disteso, con grande divertimento della folla nella piazza del mercato.
Arack si accigliò irritato. «Togligli di dosso quei dannati affari,» ordinò al gigantesco orco dalla pelle gialla che gli faceva da guardia del corpo. «Immagino che tu non scapperai lasciando solo il tuo amico, vero?». Il nano fissò intensamente Tas. «No, non credo proprio. Dicono che già una volta hai avuto la possibilità di scappare e non l’hai fatto. Stai bene attento a non scappare da me!».
Le rughe naturali che solcavano la fronte di Arack si approfondirono. «Non avrei mai comperato un kender, ma non ho avuto molta scelta. Hanno detto che voi due dovevate venir venduti insieme. Ricordati soltanto una cosa: per quanto mi riguarda tu sei inutile. Adesso, che razza di stupida domanda mi stavi facendo?»
«Come farai a togliermi queste catene? Non ti serve una chiave? Oh...» Tas contemplò con deliziato stupore l’orco che afferrava le catene con entrambe le mani e, con un fulmineo strattone, le spezzava.
«Hai visto, Caramon?» chiese Tas mentre l’orco lo agguantava e lo rimetteva in piedi, dandogli una spinta che quasi lo fece cadere un’altra volta per terra. «È davvero forte! Non avevo mai incontrato un orco prima d’oggi. Cosa stavo dicendo? Ah, i giochi... Quali giochi?» «Diamine, i Giochi!» sbottò Arack, esasperato. Tas levò lo sguardo su Caramon, ma l’omone scrollò le spalle e scosse la testa, corrugando la fronte. Era ovvio che si trattava di qualcosa che lì conoscevano tutti. Fare troppe domande sarebbe parso sospetto. Tas frugò nella propria mente, disseppellendo ogni ricordo e ogni storia da lui sentita sugli antichi giorni prima del Cataclisma. D’un tratto trattenne il respiro.
«I Giochi!» esclamò, rivolto a Caramon, dimenticandosi che il nano stava ascoltando. «I Grandi Giochi di Istar! Non te ne ricordi?» Il volto di Caramon divenne cupo.
«Vuoi dire che è là che stiamo andando?». Tas si girò verso il nano con gli occhi spalancati per l’eccitazione. «Faremo i gladiatori? E combatteremo nell’arena, con la folla che guarda e tutto il resto! Oh, Caramon, pensa! I Grandi Giochi di Istar! Diamine, ho sentito raccontare delle storie...»
«Anch’io,» disse l’omone, parlando lentamente, «e te ne puoi dimenticare, nano. Ho già ucciso in passato, lo ammetto, ma soltanto quando si trattava della mia vita o della loro. Non mi è mai piaciuto uccidere. Talvolta vedo ancora le loro facce, durante la notte. Non assassinerò nessuno per sport!»
Lo disse con tanta severità che Raag guardò perplesso il nano e sollevò leggermente il bastone, con un’espressione avida sul suo volto giallo e pustoloso. Ma Arack lo fissò furente, limitandosi a scuotere la testa.
Tas stava guardando Caramon con nuovo rispetto. «Non ci avevo mai pensato,» disse il kender con voce sommessa. «Immagino che tu abbia ragione, Caramon.» Tornò a voltarsi verso il nano. «Mi spiace davvero, Arack, ma non saremo in grado di combattere per te.»
Arack ridacchiò. «Voi combatterete. Perché? Perché è il solo modo per togliervi quel collare dal collo, ecco perché.»
Caramon scosse la testa cocciuto. «Non ucciderò...» Il nano sbuffò. «Dove siete vissuti, voi due? In fondo al Sirrion? Oppure sono tutti tonti come voi, a Solace? Nessuno combatte più nell’Arena per uccidere.» Gli occhi di Arack si annebbiarono. Il nano proseguì con un sospiro. «Quei giorni sono passati per sempre, purtroppo. È tutta una finta.»
«Una finta?» ripetè Tas, stupefatto. Caramon fissò il nano con occhi furenti ma non disse nulla. Era ovvio che non credeva ad una sola parola,
«Non c’è più stato un vero, onesto combattimento nella vecchia Arena da dieci anni a questa parte,» ammise Arack. «Tutto è cominciato con gli elfi.» Il nano sputò per terra. «Dieci anni fa, i chierici elfi, che siano maledetti e finiscano nell’Abisso dove sono di casa, convinsero il Gran Sacerdote a metter fine ai Giochi. Li definivano “barbari”! Barbari, ah!». Il cipiglio del nano si contorse in un ringhio poi, ancora una volta, sospirò e scosse la testa.
«Tutti i grandi gladiatori se ne sono andati,» proseguì Arack, in tono nostalgico, riandando con lo sguardo a quei tempi gloriosi. «Danark l’hobgoblin, uno dei combattenti più feroci che si possano immaginare, e il vecchio Joseph il Guercio. Ti ricordi di lui, Raag?». L’orco annuì con tristezza.
«Sosteneva di essere un Cavaliere di Solamnia, il vecchio Joseph. Combatteva sempre con tutta l’armatura addosso. Se ne sono andati tutti, eccetto me e Raag.» Un luccichio comparve nelle profondità degli occhi gelidi del nano. «Non avevamo nessun posto dove andare, capisci, e inoltre io avevo la sensazione che i Giochi non fossero finiti. Non ancora.»
Arack e Raag erano rimasti a Istar, mantenendo i loro alloggi all’interno dell’arena deserta, così ne erano diventati i curatori non ufficiali. I passanti li vedevano là dentro tutti i giorni: Raag che si aggirava con passo pesante in mezzo alle tribune, spazzando le gradinate con una rozza scopa o rimanendo semplicemente seduto, fissando con occhi smorti l’arena dove Arack stava lavorando. Il nano provvedeva con amorevole cura alla manutenzione delle macchine nei Pozzi della Morte, mantenendole oliate e funzionanti. Quelli che guardavano con più attenzione il nano notavano talvolta uno strano sorriso sul suo volto barbuto dal naso rotto. Arack aveva avuto ragione. I Giochi erano stati banditi soltanto da pochi mesi quando i chierici avevano cominciato a notare che la loro pacifica città non era più così pacifica. Le risse scoppiavano nelle osterie e nelle taverne con allarmante frequenza, c’erano tafferugli per le strade e, un giorno, perfino una sommossa su grande scala. C’erano rapporti secondo i quali i Giochi continuavano, e stavano conoscendo, “alla lettera”, una fiorente attività sommersa, e adesso avevano luogo in caverne fuori della città.
La scoperta di parecchi corpi massacrati e mutilati pareva sostenere questa tesi. Alla fine, in preda alla disperazione, un gruppo di notabili, umani ed elfi, avevano inviato una delegazione al Gran Sacerdote per chiedere che i Giochi venissero ripristinati.
«Proprio come un vulcano deve erompere per permettere al vapore e alle esalazioni velenose di sfuggire dal terreno,» aveva detto uno dei signori degli elfi, «così sembra che gli umani, in particolare, usino i Giochi come uno sfogo per le loro più vili emozioni.»
Anche se questo discorso non aveva contribuito in nessun modo a ingraziargli le sue controparti umane, queste si erano trovate costrette ad ammettere che era in parte giustificato. Dapprima il Gran Sacerdote non ne aveva neanche voluto sentir parlare. Aveva sempre aborrito le contese brutali. La vita era un dono sacro degli dei, non qualcosa da strappar via soltanto per fornire piacere a una folla assetata di sangue.
«E poi fui io a dar loro la risposta che cercavano,» disse Arack, compiaciuto. «Non avevano nessuna intenzione di farmi entrare in quel loro Tempio bello e stravagante.» Il nano sogghignò.
«Ma nessuno può tener fuori Raag da qualunque posto dove abbia intenzione di andare. Così, non ebbero molta scelta.
«“Ricominciate i Giochi” dissi loro, e abbassarono gli sguardi su di me seguendo i loro lunghi nasi.
“Ma non c’è bisogno che muoia nessuno” aggiunsi, “nessuna vera uccisione, s’intende”. Adesso, ascoltatemi. Avete visto gli attori ambulanti far la parte di Huma, non è vero? Avete visto il cavaliere cadere al suolo, dibattendosi sanguinante e gemente. Eppure, cinque minuti dopo è in piedi che beve birra nella taverna in fondo all’isolato. Ai miei tempi ho fatto anch’io l’attore ambulante per un po’, e... be’, guardate questo. Vieni qua, Raag.
«Raag mi si avvicinò con un largo sogghigno sulla sua brutta faccia gialla.
«“Dammi la tua spada, Raag,” gli ordino. Poi, prima che potessero dire una parola, affondo la spada nella pancia di Raag. Avreste dovuto vederlo. Sangue dappertutto! Che mi correva giù lungo le mani, che gli schizzava dalla bocca. Cacciò un grande urlo e cadde al suolo contorcendosi e gemendo.
«Avreste dovuto sentirli gridare,» disse il nano, in tono gioioso, scrollando la testa a quel ricordo.
«Pensai che avremmo dovuto raccogliere i signori degli elfi dal pavimento. Così, prima che potessero chiamare le guardie perché mi trascinassero via, tirai un calcio al vecchio Raag,
«“Adesso puoi alzarti, Raag,” gli dico.
«E lui si alzò, rivolgendo loro un grande sogghigno. Be’, tutti si mise ro a parlare insieme.» Il nano mimò le voci acute degli elfi:
«“Straordinario! Come ci sei riuscito? Questa potrebbe essere la risposta...”»
«Ma come lo facesti?» chiese Tas, smanioso.
Arack scrollò le spalle. «Imparerai. Un mucchio di sangue di pollo, una spada con la lama che rientra nell’elsa. E semplice. È quello che dissi loro. Inoltre è facile insegnare ai gladiatori a recitare fingendo d’essere feriti, perfino a uno tonto come il nostro vecchio Raag.»
Tas lanciò un’occhiata piena di apprensione all’orco, ma Raag si limitò a rivolgere un sogghigno affettuoso al nano.
«Comunque, la maggior parte di loro sa rimpolpare molto bene i duci li per farli apparire buoni ai gonzi... al pubblico, dovrei dire. Bene, il gran Sacerdote accettò e,» il nano si drizzò inorgoglito in tutta la sua altezza, «mi nominò perfino Maestro. Questo adesso è il mio titolo: Maestro dei Giochi.»
«Non capisco,» disse Caramon, lentamente. «Vuoi dire che la gente paga per essere ingannata? Certamente, ormai, devono aver capito che...»
«Oh, senz’altro,» ridacchiò Arack. «Non ne abbiamo mai fatto un segreto. E adesso è lo spettacolo più popolare su Krynn. La gente viaggia per centinaia di miglia, per vedere i Giochi. Vi assistono anche i signori degli elfi, e perfino il Gran Sacerdote in persona, qualche volta. Oh, eccoci arrivati,» annunciò Arack, fermandosi appena fuori di un gigantesco stadio e alzando lo sguardo su di esso con orgoglio.
Era fatto di pietra ed era vecchio di secoli, ma nessuno ricordava più lo scopo per il quale era stato costruito in origine.
Il giorno dei Giochi bandiere dai vivaci colori sventolavano in cima alle torri di pietra, e la folla gremiva ogni ordine di posti. Ma oggi non c’erano Giochi, e neppure ce ne sarebbero stati fino alla fine dell’estate. Era grigio e incolore, salvo per i dipinti sgargianti sulle pareti che raffiguravano grandi eventi nella storia delle competizioni. Alcuni bambini formavano capannelli all’esterno dello stadio, sperando di riuscire a intravedere qualcuno dei loro eroi. Rivolgendo loro un ringhio, Arack fece segno a Raag di aprire la massiccia porta di legno.
«Tu dici che nessuno rimane ucciso?» insistè Caramon, fissando cupo l’arena con i suoi dipinti sanguinari.
Tas vide che il nano guardava stranamente Caramon. D’un tratto l’espressione di Arack era diventata crudele e calcolatrice, le sue ispide sopracciglia scure si erano increspate sopra i suoi piccoli occhi. Caramon non se ne accorse, stava ancora esaminando i dipinti alle pareti. Tas produsse un suono, e Caramon si voltò all’improvviso per lanciare un’occhiata al nano. Ma ormai, l’espressione di Arack era cambiata.
«Nessuno,» disse il nano con un sogghigno, battendo la mano sul grosso braccio di Caramon.
«Nessuno...»
Capitolo sesto.
L’orco condusse Caramon e Tas in una grande stanza. Caramon provò la febbrile impressione che fosse piena di gente.
«Lui nuovo uomo,» grugnì Raag puntando di scatto un pollice giallo e sudicio in direzione di Caramon, che si trovava accanto a lui. Era la presentazione di Caramon alla «scuola». Arrossendo, acutamente conscio del collare di ferro intorno al suo collo che lo marchiava come proprietà di qualcuno, Caramon teneva gli occhi fissi sul pavimento di legno coperto di paglia. Sentendo soltanto un borbottio in risposta alla presentazione di Raag, Caramon sollevò lo sguardo. Vide che adesso si trovava nella sala della mensa. Venti o trenta uomini di diverse razze e nazionalità sedevano in piccoli gruppi, intenti a cenare.
Alcuni degli uomini guardavano Caramon con interesse, la maggior parte non lo guardava affatto.
Qualcuno annuì, la maggior parte continuò a mangiare. Caramon non sapeva bene quale avrebbe dovuto essere la sua prossima mossa, ma Raag risolse il problema. Appoggiando una mano sulla spalla di Caramon, l’orco lo spinse di malagrazia verso un tavolo. Caramon incespicò e quasi cadde, riuscendo a recuperare l’equilibrio prima di finire lungo disteso sul tavolo. Girandosi di scatto, fissò rabbiosamente l’orco. Raag lo guardò a sua volta sogghignando, con le mani che gli si contraevano ritmicamente.
Caramon si rese conto che l’altro stava cercando di provocarlo, aveva visto troppe volte quell’espressione nelle taverne, quando qualcuno cercava di stuzzicarlo per farlo combattere. E quello era un combattimento che, lo sapeva, non sarebbe mai riuscito a vincere. Malgrado Caramon fosse alto quasi due metri, non arrivava neppure alla spalla dell’orco, mentre l’enorme mano di Raag poteva avvolgersi due volte intorno al suo collo. Caramon deglutì, si sfregò il livido alla gamba, e si sedette sulla lunga panca di legno.
Lanciando un’occhiata beffarda al grosso umano, lo sguardo strabico di Raag abbracciò tutti i presenti nella sala della mensa. Con qualche scrollata di spalle e sordi mormorii di disappunto gli uomini tornarono alla loro cena. Delle risate arrivarono da un tavolo d’angolo dove sedeva un gruppo di minotauri. Raag lasciò la sala rivolgendo loro un sogghigno in risposta.
Sentendosi arrossire per l’impaccio, Caramon, una volta seduto sulla panca, cercò di scomparire.
Qualcuno sedeva davanti a lui, ma un grosso guerriero non riuscì a sopportare l’idea d’incrociare lo sguardo con quel-l’uomo. Però Tasslehoff non soffriva di simili inibizioni. Arrampicandosi sulla panca accanto a Caramon, il kender fissò con interesse i loro vicini.
«Sono Tasslehoff Burrfoot,» disse, porgendo la sua piccola mano a un grosso umano dalla pelle nera, il quale portava anche lui un collare di ferro, ed era seduto di fronte a loro. «Sono nuovo anch’io,» aggiunse il kender, sentendosi ferito per non essere stato presentato. L’omone dalla pelle nera levò lo sguardo dal suo piatto, lanciò un’occhiata a Tas, ignorò la mano del kender, poi riportò lo sguardo su Caramon.
«Voi due siete soci?»
«Già,» rispose Caramon, grato che l’uomo non avesse fatto nessun riferimento a Raag. D’un tratto divenne consapevole dell’odore del cibo e lo annusò famelico con l’acquolina in bocca. Sospirò, lanciando un’occhiata di apprezzamento al piatto dell’uomo, che era stracolmo di arrosto di cervo, patate e fette di pane. «Pare che ci nutrano bene, comunque.»
Caramon si avvide che l’uomo dalla pelle nera fissava la sua pancia rotonda per poi scambiare un’occhiata divertita con la donna alta, straordinariamente bella, che aveva preso posto accanto a lui, con il piatto ugualmente stracarico di cibo. Guardandola, Caramon spalancò gli occhi. Cercò, con movimenti goffi, di alzarsi in piedi e di rivolgerle un inchino.
«Tuo servitore, signora...» cominciò a dire.
«Siediti, grosso tanghero!» gli intimò la donna con voce rabbiosa, la sua pelle abbronzata s’incupì.
«Li farai ridere tutti!»
Infatti, parecchi degli uomini si erano messi a ridacchiare. La donna si voltò e li fissò furibonda, portando fulmineamente la mano al pugnale che aveva alla cintura. Alla vista dei suoi lampeggianti occhi verdi, gli uomini inghiottirono le loro risate e ripresero a mangiare. La donna aspettò fino a quando non fu certa che tutti fossero stati opportunamente intimo-riti, poi anche lei riportò l’attenzione sul suo pasto, vibrando forchettate rapide e irritate al suo arrosto.
«M... mi spiace,» balbettò Caramon, il faccione tutto rosso. «Non volevo...»
«Dimenticatene,» disse la donna con voce gutturale. Il suo accento era strano, Caramon non riuscì a identificarlo. Pareva umana, salvo per quello strano modo di parlare, più strano ancora degli altri che sedevano lì intorno, e il fatto che i suoi capelli fossero d’un colore assai insolito, una sorta di verde plumbeo, opaco. Erano folti e lisci, e li portava raccolti in una lunga treccia che le scendeva lungo la schiena. «Sei nuovo qui, a quanto vedo. Capirai presto... che non devi trattarmi diversamente dagli altri. Sia dentro sia fuori dell’arena. Capito?»
«L’arena?» fece Caramon, stupefatto. «Sei un gladiatore?»
«E anche uno dei migliori,» dichiarò con un sogghigno l’uomo dalla pelle nera che sedeva davanti a loro, «lo sono Pheragas dell’Ergoth Settentrionale e questa è Kiiri la Sirine...»
«Una sirine? Da sotto il mare?» chiese Tas tutto eccitato. «Una di quelle donne che può cambiare forma e...»
La donna scoccò al kender un’occhiata così furibonda che Tas sbatté le palpebre e rimase silenzioso.
Poi lo sguardo della donna passò rapidamente a Caramon. «Lo trovi divertente, schiavo?» chiese Kiiri, con gli occhi sul nuovo collare dell’omone.
Caramon vi mise sopra la mano, arrossendo di nuovo. Kiiri ebbe una risata breve e amara, ma Pheragas lo guardò impietosito.
«Col tempo ti ci abituerai,» commentò, con una scrollata di spalle.
«Non mi ci abituerò mai!» disse Caramon, stringendo il grosso pugno.
Kiiri gli lanciò un’occhiata. «Lo farai, oppure ti si spezzerà il cuore e morirai,» disse con freddezza.
Era talmente bella, e il suo portamento era così orgoglioso, che il suo collare di ferro avrebbe potuto essere una collana del miglior oro, pensò Caramon. Fece per rispondere, ma venne interrotto da un uomo grasso, vestito di bianco, con un grembiule unto, che sbatté un piatto di cibo assortito davanti a Tasslehoff.
«Grazie,» disse il kender con cortesia.
«Non abituarti al servizio,» ringhiò il cuoco. «D’ora in avanti andrai a prendere il tuo piatto da solo, come tutti gli altri. Ecco,» buttò un disco di legno davanti al kender. «Ecco il tuo pasto, marmocchio. Mostra questo, altrimenti non mangi. Ed ecco il tuo,» aggiunse, mettendone uno davanti a Caramon.
«Dov’è il mio pasto?» chiese Caramon, intascando il disco di legno.
Calando una scodella davanti all’omone, il cuoco si girò sui tacchi per andarsene.
«Cos’è questo?» ringhiò Caramon, fissando la scodella.
Tas si sporse in avanti per guardare. «Brodo di pollo,» disse sollecito.
«So cos’è,» disse Caramon con voce cupa. «Voglio dire, cos’è questo, una specie di scherzo? Perché non è affatto divertente,» aggiunse, fissando accigliato Pheragas e Kiiri, che sogghignavano entrambi. Girandosi sulla panca, Caramon allungò una mano e afferrò il cuoco, tirandolo indietro con uno strattone. «Butta via questo piatto d’acqua e portami qualcosa da mangiare.»
Con sorprendente velocità e destrezza, il cuoco si sbarazzò della stretta di Caramon, gli torse il braccio dietro la schiena e gli spinse giù la testa, cacciandogli il viso dentro la scodella di brodo.
«Mangialo e fai in modo che ti piaccia,» ringhiò il cuoco, tirando fuori per i capelli dalla zuppa la testa gocciolante di Caramon. «Perché, per quanto riguarda il cibo, è tutto quello che vedrai per un mese.»
Tasslehoff smise di mangiare. La sua faccia s’illuminò. Il kender osservò che anche tutti gli altri nella stanza avevano smesso di mangiare, sicuri che ci sarebbe stato un combattimento.
Il volto gocciolante di Caramon era di un pallore mortale. Aveva le guance coperte di chiazze rosse e gli occhi gli luccicavano pericolosamente.
Il cuoco lo fissava compiaciuto con i pugni serrati.
Tas attese con impazienza di vedere il cuoco spiaccicato per tutta la stanza. I grossi pugni di Caramon si serrarono, le nocche si sbiancarono. Una delle grandi mani si sollevò e, con lentezza, Caramon cominciò a ripulirsi il viso dalla zuppa.
Con una sbuffata di derisione, il cuoco si girò e si allontanò.
Tas sospirò. Quello non era certo il vecchio Caramon, pensò con tristezza, ricordando l’uomo che aveva ucciso due draconici picchiando insieme le loro teste a mani nude e fracassandole, il Caramon che una volta aveva lasciato quindici furfanti che avevano commesso l’errore di cercare di derubarlo feriti e storpiati in varie maniere. Lanciando un’occhiata in tralice a Caramon, Tas inghiottì le parole sferzanti che gli erano salite sulla punta della lingua e tornò a mangiare con il cuore che gli face-va male.
Caramon consumò lentamente la zuppa a cucchiaiate, inghiottendola senza dare l’impressione di gustarla. Tas vide la donna e l’uomo dalla pelle nera che si scambiavano di nuovo delle occhiate e, per un momen-to, il kender temette che avrebbero riso di Caramon. In effetti, Kiiri fu sul punto di dire qualcosa ma, sollevando lo sguardo verso la parte anteriore della stanza, chiuse di colpo la bocca e ricominciò a mangiare. Tas vide Raag entrare di nuovo nella mensa, seguito da due umani corpulenti.
Si avvicinarono e si fermarono alle spalle di Caramon. Raag dette una gomitata al grosso guerriero.
Caramon si girò lentamente. «Cosa c’è?» chiese con una voce smorta che Tas non riconobbe.
«Vieni, adesso,» disse Raag.
«Sto mangiando,» cominciò a dire Caramon, ma i due umani afferrarono l’omone per le braccia e lo trascinarono via dalla panca prima anco-ra che potesse finire la frase. Allora Tas vide brillare per un attimo il vec-chio spirito di Caramon. La sua faccia aveva assunto un brutto color rosso scuro.
Sferrò goffamente un colpo a uno dei due. Ma l’uomo, con un sorriso di derisione, lo schivò facilmente. Il suo compagno tirò un calcio alla pancia di Caramon con selvaggia ferocia. Caramon crollò al suolo con un gemito, cadendo sul pavimento a quattro zampe. I due umani lo tirarono in piedi. Con la testa penzoloni, Caramon si lasciò trascinare via.
«Aspettate! Dove...» Tas si alzò in piedi, ma sentì una mano robusta serrarsi sulla sua spalla.
Kiiri scosse la testa a mo’ di ammonimento, e Tas tornò a sedersi. «Cos’hanno intenzione di fargli?» chiese.
La donna scrollò le spalle. «Finisci il tuo pasto,» gl’intimo con voce severa.
Tas mise giù la forchetta. «Non ho molta fame,» borbottò scoraggiato, riandando col pensiero all’occhiata strana e crudele che il nano aveva lanciato a Caramon fuori dell’arena.
L’uomo dalla pelle nera sorrise al kender, che sedeva davanti a lui. «Vieni,» disse, alzandosi in piedi e porgendo la mano a Tas, con gesto amichevole. «Ti farò vedere la tua stanza. Il primo giorno capita a tutti. Il tuo amico sarà a posto... col tempo.»
«Col tempo.» Kiiri sbuffò, spingendo da parte il suo piatto. Tas giaceva tutto solo nella stanza che, gli era stato detto, avrebbe diviso con Caramon. Non era un granché. Situata sotto l’arena, assomigliava più alla cella di una prigione che ad una stanza. Ma Kiiri gli aveva detto che tutti i gladiatori vivevano in stanze come quella.
«Sono calde e pulite,» aveva commentato. «Non sono molti al mondo quelli che possono dire questo del luogo in cui dormono. Inoltre, se vivessimo nel lusso finiremmo per rammollirci».
Be’, certamente non c’era pericolo che questo accadesse, da quanto il kender poteva vedere girando lo sguardo sulle nude pareti di pietra, sul pavimento coperto di paglia, sull’arredamento costituito da un tavolo con una brocca per l’acqua e una scodella e due piccole cassapanche che avrebbero dovuto contenere le loro proprietà. Una singola finestra, in alto sul soffitto, proprio al livello del suolo esterno, lasciava entrare un fascio di luce solare. Giacendo sul duro letto, Tas osservò la luce del sole spostarsi attraverso la stanza. Il kender avrebbe anche potuto andare a esplo-rare, ma aveva la sensazione che non si sarebbe divertito molto fino a quando non avesse scoperto ciò che avevano fatto a Caramon.
La traccia del sole sul pavimento si stava facendo sempre più lunga. La porta si aprì, e Tas balzò precipitosamente in piedi, ma era soltanto un altro schiavo che buttò un sacco sul pavimento e chiuse di nuovo la porta. Tas ispezionò il sacco e provò un tuffo al cuore. Erano le proprietà di Caramon! Tutto quello che aveva addosso, compresi i suoi indumenti! Tas li esaminò con ansia, cercando delle macchie di sangue. Niente. Tutto pareva a posto... La sua mano si chiuse su qualcosa di duro in una tasca interna, segreta. Tas si affrettò a tirarlo fuori. Il kender trattenne il respiro. Il magico congegno di Par-Salian! Come mai non l’avevano visto? si chiese, fissando con meraviglia quel meraviglioso ciondolo ingioiellato mentre lo rigirava nella mano. Certo, ricordò a se stesso, era magico. Adesso pare-va soltanto un gingillo, ma lui stesso aveva visto Par-Salian trasformarlo da così com’era adesso in uno scettro. Senza alcun dubbio, aveva il pote-re d’impedire d’essere scoperto nel momento e da mani sbagliate.
Reggendolo in mano, toccandolo da ogni parte, osservando la luce del sole che traeva riflessi dai suoi gioielli radiosi, Tas sospirò di desiderio. Quella era la cosa più squisita, meravigliosa, fantastica che avesse mai visto in vita sua. La bramava disperatamente. Senza riflettere, il suo piccolo corpo si alzò in piedi e si stava avviando verso le sue borse, quando si arrestò.
Tasslehoff Burrfoot, disse una voce che assomigliava in maniera inquietante a quella di Flint, è una Faccenda Seria questa in cui ti stai immischiando. Questa è la strada di casa. Par-Salian in persona, il Grande Par-Salian l’ha data a Caramon con una solenne cerimonia. Appartiene a Caramon. È sua, non hai nessun diritto su di essa!
Tas rabbrividì. Certo, nessun pensiero simile a questo aveva mai preso forma nella sua testa, in tutta la sua vita. Fissò l’oggetto scintillante con aria dubbiosa. Forse era lui a insinuargli quegli inquietanti pensieri in testa! Decise che non voleva aver nulla a che fare con esso. Si affrettò a prendere l’oggetto e a metterlo nella cassapanca di Caramon. Poi, come precauzione supplementare, chiuse a chiave la cassapanca e infilò la chiave tra gli indumenti di Caramon. Sentendosi ancora più infelice, tornò sul suo letto.
La luce del sole era pressoché scomparsa ed il kender stava diventando sempre più ansioso, quando sentì un rumore all’esterno. La porta venne aperta con un violento calcio.
«Caramon!» gridò Tas in preda all’orrore, balzando in piedi.
I due umani corpulenti trascinarono l’omone dentro, sopra il gradino della porta, e lo scaraventarono sul letto. Poi, sogghignando, se ne andarono, sbattendo la porta dietro di sé. Dal letto si levò un gemito sommesso.
«Caramon!» bisbigliò Tas, affrettandosi a prendere la brocca dell’acqua: ne versò un po’ nella scodella e la portò al capezzale del grosso guer-riero. «Cosa ti hanno fatto?» chiese con voce sommessa, inumidendo le labbra del guerriero.
Caramon gemette di nuovo e scosse debolmente la testa. Tas lanciò una rapida occhiata al corpo dell’omone. Non c’era nessuna ferita visibile, nessun gonfiore, nessun livido o segni di frustate.
Eppure era stato tor-turato. Questo era ovvio. L’omone era in preda alla sofferenza. Il suo corpo era coperto di sudore, gli occhi erano girati all’insù. Di tanto in tanto questo o quel muscolo del suo corpo si contraeva spasmodicamente e un gemito di dolore gli sfuggiva dalle labbra.
«Era... era il cavalletto?» chiese Tas, deglutendo nervosamente. «La ruota, forse? Lo schiacciapollici?». Nessuno dei congegni nominati lasciava segni sul corpo, questo almeno aveva sentito dire.
Caramon mugugnò una parola.
«Cosa?» Tas si chinò sopra di lui, bagnandogli il volto con l’acqua. «Cos’hai detto? Calli-calli... cosa? Non ho capito.» La fronte del kender si corrugò. «Non ho mai sentito parlare di una tortura che si chiamasse calli-qualcosa,» borbottò. «Mi chiedo cosa possa essere.»
Caramon lo ripetè, gemendo un’altra volta.
«Calli... calli... callistenici!» esclamò Tas, trionfante. Poi lasciò cade-re la brocca d’acqua sul pavimento. «Callistenici? Non è una tortura!»
Caramon gemette di nuovo.
«Sono esercizi di ginnastica, bambinone!» urlò Tas. «Vuoi dire che ti ho aspettato qui, preoccupato da matti, immaginando ogni genere di cose orribili, e tu eri là fuori a fare gli esercizi?»
Caramon aveva ancora abbastanza forza da sollevarsi dal letto. Allungando una mano enorme agguantò Tas per il colletto della camicia e lo trascinò accanto a sé, fissandolo negli occhi.
«Una volta venni catturato dai goblin,» disse l’omone con un rauco bisbiglio, «i quali mi legarono a un albero e passarono la notte a tormentarmi. Sono stato ferito dai draconici a Xak Tsaroth. I cuccioli di drago mi hanno masticato una gamba nelle segrete della Regina delle Tenebre. E ti giuro che sento più dolore adesso di quanto ne abbia mai sentito in vita mia! Lasciami solo e fammi morire in pace.»
Con un altro gemito, Caramon lasciò cadere la mano, floscia, al suo fianco. Con gli occhi socchiusi, soffocando un sogghigno, Tas tornò strisciando al suo letto.
«Se pensa di sentir male adesso,» rifletté il kender, «che aspetti fino a domani e poi vedrà!»
L’estate a Istar terminò. Arrivò l’autunno, uno dei più belli a memoria d’uomo. L’addestramento di Caramon cominciò, e il guerriero non morì, anche se c’erano momenti in cui pensava che la morte sarebbe stata la soluzione più facile. Anche Tas più di una volta fu tentato di alleviare l’infelicità di quel grosso bambino viziato. Una volta ci aveva provato, durante una notte in cui era stato svegliato da un singhiozzo disperato.
«Caramon?» disse Tas con voce assonnata, rizzandosi a sedere sul letto.
Nessuna risposta. Soltanto un altro singhiozzo.
«Cosa c’è?» aveva chiesto Tas, d’un tratto preoccupato. Era scivolato fuori dal letto e aveva attraversato trotterellando il freddo pavimento di pietra. «Hai fatto un sogno?»
Aveva potuto intravedere Caramon che annuiva alla fioca luce della luna.
«Si trattava di Tika?» aveva chiesto il kender dal cuore tenero, sentendo le lacrime colargli dagli occhi alla vista del dolore dell’omone. «No? Raistlin, allora? No? Te stesso? Tu hai paura...»
«Una focaccina,» aveva farfugliato Caramon. «Oh, Tas! Ho tanta fame! Tantissima... E ho sognato questa focaccina, come quelle che cucinava Tika, tutta coperta di miele appiccicoso e di quelle noccioline croccanti...»
Prendendo una scarpa, Tas gliela aveva scagliata addosso ed era tornato a letto disgustato.
Ma alla fine del secondo mese di quel rigoroso addestramento, Tas ispezionò con lo sguardo Caramon, e dovette ammettere che ciò era esattamente quello di cui l’omone aveva avuto bisogno. I rotoli di grasso intorno alla cintura dell’omone non c’erano più, le cosce flaccide erano di nuovo dure e muscolose, e anche le braccia, il petto e la schiena erano tutto un guizzar di muscoli. I suoi occhi erano luminosi e svegli, l’espressione vacua e opaca era scomparsa. Lo spirito dei nani era stato spremuto fuori col sudore ed espulso dal corpo, il naso di Caramon non era più rosso, e l’espressione rigonfia era scomparsa dalla sua faccia. Il suo corpo aveva assunto un cupo color bronzo per la lunga esposizione al sole. Il nano aveva decretato che i capelli castani di Caramon dovevano essere lasciati crescere belli e lunghi, poiché al momento quel taglio era popolare a Istar, e adesso gli scendevano riccioluti ai lati del viso e lungo la schiena.
Adesso era anche un guerriero dalla superba abilità. Malgrado Caramon fosse stato bene addestrato già in precedenza, allora si era comunque trattato di un addestramento informale, la sua tecnica nell’uso delle armi l’aveva appresa per la maggior parte dalla sua sorellastra più anziana, Kitiara. Ma Arack importava addestratori da ogni parte del mondo, e adesso Caramon stava imparando le tecniche dai migliori.
Non soltanto questo, ma veniva costretto a cavarsela da solo in quotidiani combattimenti fra gli stessi gladiatori. Un tempo orgoglioso delle proprie capacità di lottatore, Caramon aveva provato una profonda vergogna nel ritrovarsi disteso sulla schiena dopo soli due round con quella donna, Kiiri. Il nero, Pheragas, aveva fatto volar via la spada a Caramon dopo una sola stoccata, poi l’aveva colpito alla testa con il proprio scudo, tanto per completare l’opera.
Ma Caramon era un allievo pronto e attento. La sua naturale abilità gli permise d’imparare in fretta, e non passò molto tempo prima che Arack potesse osservare con gioia l’omone che faceva volare in aria Kiiri con facilità, per poi avvolgere con freddezza Pheragas nella sua stessa rete, inchiodando il nero al suolo nell’arena con il suo stesso tridente.
Caramon medesimo era felice più di quanto lo fosse stato da moltissimo tempo. Detestava ancora il collare di ferro, e all’inizio di rado passava una giornata senza desiderare di spezzarlo e scappare.
Ma questi sentimenti si attenuarono a mano a mano che prendeva interesse al suo addestramento. A
Caramon era sempre piaciuta la vita militare. Gli piaceva avere qualcuno che gli dicesse cosa fare, e quando farlo. L’unico vero problema l’aveva con le sue capacità di recitazione.
Sempre aperto e onesto fino all’esagerazione, la parte peggiore dell’addestramento arrivò quando dovette fingere d’essere sconfitto. Avrebbe dovuto gridare forte, fingendo dolore, quando Rolf gli calpestava la schiena. Dovette imparare a crollare a terra come se fosse rimasto orribilmente ferito quando il barbaro si lanciava su di lui con le spade rientranti truccate.
«No! No! No! Grosso tonto!» urlava Arack più e più volte. Un giorno, imprecando contro Caramon, il nano gli si avvicinò e gli sferrò un pugno in piena faccia.
«Arrggh!» gridò Caramon, in preda a un genuino dolore, non osando reagire, con Raag che lo stava guardando, leccandosi le labbra.
«Ecco...» disse Arack, facendosi indietro con espressione trionfante, i pugni serrati, il sangue sulle nocche. «Ricordati quest’urlo. I gonzi lo adoreranno.»
Ma quando si trattava di recitare, Caramon appariva inadeguato. Anche quando urlava, assomigliava più a una «donzella alla quale fosse stato pizzicato il sedere che a qualcuno in punto di morte» come dichiarò Arack con disgusto. E poi, un giorno, il nano ebbe un’idea.
Gli venne in mente mentre stava seguendo la sessione di addestramento di quel pomeriggio. Si dava il caso che in quel momento ci fosse un piccolo pubblico. Di tanto in tanto Arack permetteva l’ingresso a certi membri del pubblico, avendo scoperto che questo faceva bene agli affari. In questa occasione stava intrattenendo un nobile, che aveva viaggiato fin lì insieme alla sua famiglia da Solamnia. Il nobile aveva due affascinanti figlie che, dall’istante in cui erano entrate nell’arena, non avevano mai distolto gli occhi da
Caramon.
«Perché non l’abbiamo visto combattere ieri sera?» chiese una delle figlie al padre.
Il nobile rivolse al nano un’occhiata interrogativa.
«E nuovo,» replicò Arack, burbero. «E ancora in addestramento. E pressoché pronto, intendiamoci. In effetti, stavo pensando di farlo partecipare, quando avete detto che sareste tornati a vedere i Giochi.»
«Non abbiamo detto che saremmo tornati,» cominciò a dire il nobile, ma le figlie dettero entrambe in un grido di costernazione.
«Be’...» si corresse il nobile, «forse, se potessimo trovare dei biglietti.»
Tutte e due le ragazze batterono le mani e il loro sguardo tornò a Caramon che si stava esercitando alla scherma con Pheragas. Il corpo abbronzato del giovane luccicava di sudore, i capelli gli si erano appiccicati al viso in tanti riccioli umidi, e si muoveva con la grazia di un atleta bene addestrato. Vedendo lo sguardo ammirato delle ragazze, il nano si rese conto d’un tratto che Caramon era un giovane uomo straordinariamente bello.
«Deve vincere,» disse una delle ragazze con un sospiro. «Non potrei sopportare di vederlo perdere!»
«Vincerà,» dichiarò l’altra. «È destinato a vincere. Ha l’aspetto del vincitore.»
«Certo! Questo risolve tutti i miei problemi!» esclamò il nano all’improvviso, inducendo il nobile e la sua famiglia a fissarlo perplessi. «Il Vincitore! Ecco come lo chiamerò. Mai sconfitto! Non sa che cosa sia perdere! Ha giurato di togliersi la vita, se qualcuno fosse mai riuscito a batterlo!»
«Oh, no!» gridarono sgomente le due ragazze. «Non dirci questo.» «È vero,» disse solennemente il nano fregandosi le mani. «Verranno da molte miglia tutt’intorno,» disse il nano a Raag quella sera,
«sperando di essere presenti la sera in cui perderà. E, naturalmente, non perderà, non per un bel pezzo. Nel frattempo sarà uno spezzacuori. Sì, adesso proprio me l’immagino. E ho anche il costume adatto...»
Nel frattempo Tasslehoff trovava molto interessante la sua vita nell’arena. All’inizio era rimasto profondamente offeso quando gli avevano detto che non poteva fare il gladiatore (Tas aveva già visto se stesso come un altro Kronin Thistleknot, l’eroe di Kenderhome), e aveva vagato per alcuni giorni in preda alla noia. Questo stato di cose però era terminato bruscamente il giorno in cui era stato quasi ucciso per mano di un minotauro inferocito, il quale aveva scoperto il kender che stava felicemente esaminando la sua stanza e quello che c’era dentro.
I minotauri erano irascibili. Combattevano nell’arena per il solo amore dello sport, si consideravano una razza superiore e vivevano e mangiavano separati dagli altri. I loro alloggi erano sacri e inviolabili.
Il minotauro aveva trascinato il kender davanti ad Arack esigendo che gli venisse permesso di squartarlo e di bere il suo sangue. Il nano avrebbe anche potuto acconsentire, non sapendo proprio cosa farsene del kender, ma si era ricordato il colloquio che aveva avuto con Quarath subito dopo l’acquisto dei due schiavi. Per qualche motivo la più alta autorità religiosa del paese aveva interesse che non capitasse niente a quei due.
Perciò, aveva dovuto rifiutare la richiesta del minotauro ma lo aveva ammorbidito procurandogli un cinghiale da massacrare per sport. Poi Arack aveva preso da parte Tas, lo aveva schiaffeggiato alcune volte energicamente, ma infine gli aveva dato il permesso di uscir fuori dall’arena e di esplorare la città, se il kender gli avesse garantito che sarebbe tornato per la notte.
Tas, che comunque era già uscito di nascosto dall’arena, ne rimase elettrizzato, e aveva ripagato la gentilezza del nano portandogli tutti quei piccoli ninnoli che pensava potessero piacergli.
Apprezzando queste attenzioni, Arack si era limitato a picchiare il kender con un bastone quando lo aveva sorpreso a tentare di portare dei dolci a Caramon di nascosto, invece di frustarlo come era solito fare con i disubbidienti.
Così, Tas andava e veniva per Istar come gli piaceva, imparando assai presto ad evitare le guardie della città, le quali mostravano una irragionevole antipatia per i kender. E fu così che Tasslehoff riuscì perfino a intrufolarsi nel Tempio.
Pur impegnato con l’addestramento, la dieta e altri problemi, Caramon non aveva mai perso di vista il suo vero scopo. Aveva ricevuto un messaggio, alquanto freddo, da Crysania, così sapeva che lei stava bene. Ma questo era tutto. Di Raistlin non c’era alcun segno.
Dapprima Caramon disperò di poter ritrovare suo fratello o Fistandantilus, dal momento che non gli veniva mai concesso di uscire dall’arena. Ma ben presto si rese conto che Tas poteva andare in giro e vedere le cose con molta più facilità di quanto avrebbe potuto fare lui se fosse stato libero. La gente aveva la tendenza a trattare i kender alla stessa maniera dei bambini, come se non esistessero.
E Tas era ancora più esperto della maggior parte dei kender nel fondersi con le ombre ed evitare di esser visto, nascondendosi dietro le tende o percorrendo furtivo e silenzioso i corridoi.
Inoltre c’era il vantaggio che il Tempio medesimo era talmente vasto e pieno di gente che andava e veniva a quasi tutte le ore, che un singolo kender [?• veniva facilmente ignorato o, al massimo, gli veniva intimato in tono acre di togliersi dai piedi. Un’ulteriore facilitazione fu il fatto che parecchi schiavi kender lavoravano nelle cucine, e c’erano perfino alcuni chierici kender che andavano e venivano liberamente.
A Tas sarebbe piaciuto moltissimo farseli amici e far loro domande sulla sua terra, in particolare ai chierici kender, dal momento che non aveva mai saputo della loro esistenza. Ma non osava.
Caramon l’aveva ammonito a non parlare troppo e, una volta tanto, Tas aveva preso seriamente l’avvertimento. Aveva scoperto che era esasperante fare continuamente attenzione a non parlare di draghi o del Cataclisma o di qualunque altra cosa in grado di sconvolgere l’ascoltatore, per cui aveva deciso che la cosa migliore era evitare del tutto la tentazione. Così, si accontentava di ficcare il naso in giro per il Tempio e di raccogliere informazioni.
«Ho visto Crysania,» riferì una sera a Caramon, quando questi fu di ritorno dalla cena e da un incontro di lotta con Pheragas. Tas era disteso sul letto mentre Caramon si esercitava con una mazza e una catena al centro della stanza, poiché Arack voleva che fosse capace di maneggiare altre armi oltre alla spada. Vedendo che Caramon aveva bisogno di fare ancora molta pratica, Tas strisciò fino al lato opposto del letto, tenendosi ben lontano da alcune delle più inconsulte sventole dell’omone.
«Come sta?» chiese Caramon, lanciando un’occhiata interessata al kender.
Tas scosse la testa. «Non Io so. Sembra a posto, credo. Per lo meno non sembra malata. Ma così come l’ho vista non mi è sembrata felice. Ha la faccia pallida e quando ho cercato di parlarle mi ha ignorato. Non credo che mi abbia riconosciuto.»
Caramon corrugò la fronte. «Vedi di scoprire cos’è successo,» disse. «Ricordati che anche lei cercava Raistlin. Forse lui c’entra per qualche cosa.»
«D’accordo,» rispose il kender, poi si abbassò di scatto quando la mazza gli sibilò vicino alla testa.
«Ehi, dico, stai attento, tirati più in là!» Si toccò con ansia il ciuffo per vedere se c’era ancora.
«A proposito di Raistlin,» riprese Caramon con voce sommessa, «immagino che neppure oggi avrai scoperto qualcosa.»
Tas scosse la testa. «L’ho chiesto a un mucchio di gente. Fistandantilus ha apprendisti che vanno e vengono. Ma nessuno ha mai visto qualcuno che corrisponda alla descrizione di Raistlin. E sai che gli individui con la pelle dorata e gli occhi a clessidra hanno la tendenza a risaltare in mezzo ad una folla. Ma,» il kender si mostrò più allegro, «potrei scoprire qualcosa molto presto. Ho sentito che Fistandantilus è tornato.»
«Davvero?» Caramon smise di far roteare la mazza e si girò verso Tas.
«Sì. Io non l’ho visto, ma alcuni dei chierici ne parlavano. Immagino sia ricomparso la scorsa notte, proprio nella Sala delle Udienze del Gran Sacerdote. Proprio così: pufl, ed eccolo là. Molto d’effetto.»
«Già,» grugnì Caramon. Facendo roteare distrattamente la mazza, rimase zitto per così tanto tempo che Tas sbadigliò e cominciò a scivolare nel sonno. La voce di Caramon lo riportò alla piena coscienza con un sussulto.
«Tas,» esclamò Caramon, «questa è la nostra possibilità.» «Possibilità di che?» Il kender sbadigliò di nuovo.
«La nostra possibilità di assassinare Fistandantilus,» disse con calma il guerriero.
Capitolo settimo.
La gelida affermazione di Caramon fece risvegliare di colpo il kender.
«A... assassinarlo? Credo, uh, credo che dovresti pensarci, Caramon,» balbettò Tas. «Voglio dire, insomma, cerca di vedere la cosa in questo modo. Questo Fistandantilus è davvero, sì, davvero, in gamba, vo... voglio dire che è un fruitore di magia molto dotato. Meglio ancora di Raistlin e Par-Salian messi insieme, se tutto quello che dicono è vero. Tu litui arrivi furtivo alle spalle d’un tipo del genere e lo ammazzi, così, semplicemente. Soprattutto quando non hai mai assassinato nessuno! Non sto mica dicendo che dovremmo fare pratica, intendiamoci, ma...» «Dovrà pur dormire, no?» chiese Caramon.
«Be’,» replicò Tas con voce esitante, «suppongo di sì. Tutti devono dormire , immagino, perfino i fruitori di magia...» «Soprattutto i fruitori di magia,» lo interruppe con freddezza Caramon. «Non ricordi quanto s’indeboliva Raistlin, se non dormiva? E questo vale per tutti gli stregoni, anche quelli più potenti. Per questo hanno perso le grandi battaglie: le Battaglie Perdute, appunto. Dovevano riposare. E smettila di dire “noi”. Lo farò io. Tu non dovrai neppure accompagnarmi. Basterà che tu scopra dov’è la sua stanza, quali difese ci siano, e quando va a letto. Da lì in avanti, me ne occuperò io.»
«Caramon,» cominciò a dire Tas, incerto, «credi davvero che sia giusto? Voglio dire, so che è questo il motivo per cui i maghi ti hanno mandato fin qui, indietro nel tempo. Per lo meno io penso che sia questo il perché. Ma qui ha finito per essere tutto un pasticcio, in un certo senso. e so che questo Fistandantilus, a quanto pare, è una persona davvero malvagia, indossa le Vesti Nere, e tutto il resto ma, poi, è giusto assassinarlo? Voglio dire, a me pare che questo ci faccia diventare altrettanto malvagi, non ti pare?»
«Non m’importa,» dichiarò Caramon senza mostrare emozione, con gli occhi sulla mazza che stava lentamente ruotando avanti e indietro. «Si tratta della sua vita o di quella di Raistlin, Tas. Se ucciderò Fistandantilus adesso, in quest’epoca, lui non sarà in grado di farsi avanti e d’impadronirsi di Raistlin. Potrei liberare Raistlin da quel corpo infranto, Tas, e farne una persona intera! Una volta che avrò estirpato da lui il male di quell’uomo, allora saprò che sarà tornato ad essere il vecchio Raist, il fratellino che amavo.» La voce di Caramon era diventata nostalgica e gli occhi gli si erano inumiditi. «Potrebbe venire a vivere con noi, Tas.»
«E Tika?» chiese Tas, esitante. «Che cosa proverà al pensiero che hai assassinato qualcuno?»
Gli occhi castani di Caramon lampeggiarono per la collera. «Te l’ho già detto altre volte, non parlarmi di lei, Tas!» «Ma Caramon...» «Parlo sul serio, Tas!»
E questa volta nella voce dell’omone c’era quella nota acuta la quale indicava che lui, come ben sapeva, era andato troppo oltre. Il kender si sedette sul letto, tutto curvo e con un’espressione infelice. Lanciandogli un’occhiata, Caramon sospirò.
«Ascolta, Tas,» disse con calma, «te l’ho già spiegato una volta. Non... non mi sono comportato bene con Tika. Ha avuto ragione a buttarmi fuori. Adesso lo capisco, anche se c’è stato un tempo in cui ero convinto che non l’avrei mai perdonata.» L’omone rimase silenzioso per un momento, mettendo ordine fra i suoi pensieri. Poi, con un altro sospiro, continuò: «Una volta le dissi che fintanto che Raistlin fosse vissuto, sarebbe sempre venuto lui per primo nei miei pensieri. L’avvertì di cercarsi qualcuno che potesse darle tutto il suo amore. Dapprima pensai che io avrei potuto farlo, quando Raistlin se ne andò per conto suo. Ma,» scosse la testa, «non ho potuto, non ha funzionato. E devo far così, adesso più che mai, non capisci? Non posso pensare a Tika! Lei... lei non fa altro che interferire...»
«Ma Tika ti ama tanto! » fu tutto quello che Tas riuscì a replicare. E, naturalmente, era la cosa sbagliata. Caramon si accigliò e riprese a roteare la mazza.
«D’accordo, Tas,» annuì, con una voce così profonda che avrebbe potuto provenire da sotto i piedi del kender. «Immagino che questo significhi un addio. Chiedi al nano un’altra stanza. Io lo farò. Se qualcosa dovesse andare storto, non vorrei cacciarti in un guaio...»
«Caramon, tu sai che non intendevo dire che non ti avrei aiutato,» borbottò Tas. «Hai bisogno di me!»
«Già, immagino di sì,» borbottò Caramon, arrossendo. Poi, guardando in direzione di Tas, ebbe un sorriso di scusa. «Mi spiace. Soltanto, non parlare più di Tika, va bene?»
«Va bene,» replicò Tas, infelice. A sua volta sorrise a Caramon, guardandolo mentre metteva via le armi e si preparava ad andare a letto. Ma v’era un flebile sorriso, e quando a sua volta strisciò dentro al proprio letto, Tas si sentì depresso e infelice come non si era più sentito dalla morte di Flint.
«Lui non avrebbe approvato, questo è sicuro,» disse Tas tra sé, ripensando al vecchio e burbero nano. «Adesso mi pare di sentirlo. “Stupido pomolo di porta di un kender!” direbbe. “Assassinare degli stregoni! Perché non risparmi guai a tutti e non ti ammazzi?”. E poi c’è Tanis,» pensò ancora Tas, mentre la sua infelicità cresceva. «Immagino quello che direbbe lui!». Girandosi sull’altro fianco, Tas si tirò le coperte fin sotto il mento. «Vorrei che fosse qui! Vorrei tanto che qualcuno fosse qui ad aiutarci ! Caramon non pensa bene, so che è così ! Ma cosa posso fare? Devo aiutarlo. E mio amico. Ed è probabile che si caccerà in un interminabile mare di guai senza di me!»
Il giorno seguente fu il primo in cui Caramon partecipò ai Giochi. Tas fece la sua visita al Tempio di prima mattina e fu di ritorno in tempo per assistere al combattimento di Caramon che avrebbe avuto luogo nel pomeriggio. Seduto sul letto, facendo dondolare avanti e indietro le tozze gambe, il kender fece il suo rapporto mentre Caramon camminava nervosamente su e giù per la stanza, aspettando che il nano e Pheragas gli portassero il suo costume.
«Hai ragione,» ammise Tas con riluttanza. «Fistandantilus ha bisogno di dormire un mucchio di tempo, a quanto pare. Va a letto presto ogni notte e dorme come un morto... voglio dire,» farfugliò correggendosi, «dorme profondamente fino alla mattina.»
Caramon lo fissò con espressione truce.
«Guardie?»
«No,» disse Tas, scrollando le spalle. «E neppure chiude la porta. Nessuno chiude le porte, al Tempio. Dopotutto, è un luogo sacro, e immagino che ognuno si fidi di tutti gli altri... oppure non hanno niente che valga la pena d’esser tenuto sotto chiave. Sai,» aggiunse il kender dopo una breve riflessione, «ho sempre detestato le serrature, ma adesso ho deciso che la vita senza di esse sarebbe davvero noiosa. Sono stato dentro ad alcune stanze del Tempio,» Tas ignorò beatamente l’espressione inorridita di Caramon, «e, credimi, non ne valeva proprio la pena. Ti verrebbe da pensare che con un fruitore di magia le cose possano essere diverse, ma Fistandantilus non tiene là dentro nessuno dei suoi trucchi per gli incantesimi. Immagino che usi quella stanza soltanto per passarvi la notte quando è in visita a corte. Inoltre,» fece notare il kender con un improvviso lampo di logica, «è l’unica persona malvagia a corte, perciò non ha bisogno di proteggersi da nessuno, a parte se stesso!»
Caramon, che già da tempo aveva smesso di ascoltarlo, borbottò qualcosa e continuò ad andare su e giù. Tas corrugò la fronte, a disagio. D’un tratto gli era venuto in mente che adesso anche lui e Caramon rientravano nelle alte sfere dei fruitori di magia malvagia. Questo lo aiutò a decidersi.
«Senti, mi spiace, Caramon,» disse Tas, un attimo dopo. «Ma, malgrado tutto, non credo di poterti aiutare. Talvolta i kender non sono molto scrupolosi nei confronti delle loro cose, o di quelle degli altri, se è per questo, ma non credo che nessun kender nella propria vita abbia mai assassinato qualcuno!». Sospirò, poi continuò con voce tremante: «E ho pensato a Flint e... e a Sturn. Tu sai che Sturm non approverebbe! Lui aveva talmente il senso dell’onore. Non è giusto, Caramon. Questo ci riduce a esser cattivi tanto quanto Fistandantilus. O forse peggio.»
Caramon aprì la bocca e stava giusto per rispondere quando la porta si aprì di colpo e Arack fece irruzione.
«Come stiamo andando, grassone?» esclamò il nano, sollevando lo sguardo su Caramon con un sorriso di scherno. «Un bel cambiamento da quando sei arrivato qui, non è vero?». Batté con ammirazione la mano sui muscoli duri dell’omone poi, stringendo la mano a pugno, sferrò all’improvviso un colpo in pancia a Caramon. «Duro come l’acciaio,» commentò, sogghignando e scuotendo la mano per il dolore.
Caramon lanciò un’occhiata infuriata e carica di disgusto al nano sotto di lui, guardò Tas e poi sospirò. «Dov’è il mio costume?» grugnì. «È quasi l’ora.»
Il nano alzò un sacco verso di lui. «È qui dentro, non preoccuparti. Non impiegherai molto a vestirti.»
Afferrando il sacco con un gesto nervoso, Caramon l’aprì. «Dov’è il resto?» chiese a Pheragas, che era appena entrato nella stanza.
«È tutto qui!» ridacchiò Arack. «Te l’ho detto che non avresti impiegato molto a vestirti!»
Il volto di Caramon divenne d’un rosso cupo. «Non... non posso indossare... soltanto questo...» balbettò, chiudendo frettolosamente il sacco. «Hai detto che ci sarebbero state delle signore...»
«E a loro piace ogni centimetro di pelle abbronzata!» gridò il nano. Poi la risata scomparve dalla sua faccia spezzettata, sostituita da un cipiglio cupo e minaccioso. «Mettitelo addosso, tanghero. Per cosa mai pensi che paghino... per veder cosa? Una scuola di danza? No. Pagano per vedere dei corpi coperti di sudore e di sangue. Più corpo, più sudore e più sangue, e ancora meglio se sangue vero!»
«Sangue vero?» Caramon sollevò lo sguardo, i suoi occhi castani lampeggiarono. «Che vuoi dire? Pensavo che tu avessi detto...»
«Bah! Preparalo, Pheragas. E mentre lo fai, spiega i fatti della vita a questo moccioso viziato. E tempo che tu cresca, Caramon, mio bel piccino.»
Con queste parole e una rauca risata il nano uscì a grandi passi.
Pheragas si fece da parte per lasciar passare il nano, poi si fece avanti nella piccola stanza. Il suo volto, di solito allegro e gioviale, era una maschera priva d’espressione. Né l’avevano i suoi occhi, che evitarono di fissare direttamente Caramon.
«Cosa voleva dire? Crescere? Sangue vero?»
«Ecco qui,» disse Pheragas, ignorando la domanda. «Ti do una mano con queste fìbbie. All’inizio ci vuole un po’ di tempo per abituarsi. Sono rigorosamente ornamentali, fatte per rompersi facilmente. Al pubblico piace se un pezzo del costume si molla o cade giù.»
Estrasse dalla borsa un guardiaspalla decorato e cominciò ad affibbiarlo a Caramon, lavorando dietro di lui e tenendo gli occhi fissi sulle fibbie.
«Questo è d’oro,» disse Caramon, calcando sulle parole.
Pheragas grugnì.
«Il burro fermerebbe un pugnale meglio di questa roba,» continuò Caramon, tastandolo. «E guarda tutta questa chincaglieria! La punta di una spada vi s’impiglierebbe e vi resterebbe incastrata.»
«Già.» Pheragas rise, ma era una risata forzata. «Come puoi vedere, è quasi meglio esser nudi piuttosto che indossare questa roba.»
«Allora non devo preoccuparmi molto,» osservò Caramon in tono truce, tirando fuori il perizoma di cuoio che era l’unico oggetto rimasto nel sacco, oltre all’elmo decorato. Anche il perizoma era decorato in oro, e gli copriva in maniera a malapena decente le pudende. Quando si fu completamente vestito con l’aiuto di Pheragas, perfino il kender arrossì alla vista di un Caramon guardato da dietro.
Pheragas fece per andarsene, ma Caramon lo fermò, con la mano sul braccio. «Farai meglio a dirmelo, amico mio. Se sei sempre mio amico, s’intende.»
Pheragas puntò gli occhi sul viso di Caramon per qualche istante, poi scrollò le spalle. «Pensavo che a quest’ora tu avessi già capito. Useremo armi affilate. Oh, le lame delle spade sono ancora rientranti,» si affrettò ad aggiungere, quando vide gli occhi di Caramon che si stringevano. «Ma !se verrai colpito, sanguinerai sul serio. È per questo che ci siamo esercitati con i nostri affondi.»
«Vuoi dire che la gente resterà davvero ferita? Che io potrei far del male a qualcuno? A qualcuno come Kiiri, Rolf, il Barbaro?». La voce di Caramon si alzò incollerita. «Che altro sta succedendo? Che altro non mi hai detto, amico?»
Pheragas fissò Caramon con freddezza. «Dove pensi che mi sia procurato queste cicatrici? Giocando con la mia bambinaia? Ascolta, un giorno capirai. Adesso non c’è tempo per spiegartelo. Fidati di noi, di Kiiri e me. Segui il nostro esempio. E... tieni d’occhio i minotauri. Combattono per proprio conto, non per qualche padrone o proprietario. Non rispondono a nessuno. Oh, accettano di attenersi alle regole, devono farlo altrimenti il Gran Sacerdote li rispedirebbe a Mithas. Ma... insomma, sono i favoriti della folla. Alla gente piace vedere che spillano sangue. E possono sia prendere sia dare, altrettanto bene.»
«Vai via!» ringhiò Caramon.
Pheragas rimase a fissarlo per un momento, poi si voltò e fece per uscire. Una volta sulla soglia, però, si fermò.
«Ascolta, amico,» disse con severità, «queste cicatrici che mi procuro nell’arena sono distintivi d’onore, buoni quanto gli speroni che qualche cavaliere si guadagna in un torneo! È il solo genere di onore che possiamo ancora procurarci da questo spettacolo pacchiano! L’arena ha un proprio codice, Caramon, e non ha dannatamente niente a che fare con quei cavalieri e nobili che se ne stanno seduti là fuori a guardare noi schiavi che sanguiniamo per il loro divertimento. Loro parlano del proprio onore. Bene, noi abbiamo il nostro. È quello che ci tiene in vita.» Si azzittì, parve che stesse per dire qualcos’altro, ma lo sguardo di Caramon era puntato sul pavimento, l’omone si rifiutava cocciutamente di ammettere le sue parole e la sua presenza.
Alla fine, Pheragas disse: «Hai cinque minuti,» e se ne andò sbattendo la porta alle proprie spalle.
Tas ardeva dalla voglia di dire qualcosa ma, vedendo la faccia di Caramon, perfino il kender seppe che era il momento di stare zitto.
Vai in battaglia con il sangue cattivo e verrà versato entro il calar della notte. Caramon non riusciva a ricordare quale vecchio e burbero comandante gli avesse detto questo, ma l’aveva giudicato sempre un buon assioma. La propria vita dipendeva spesso dalla lealtà di coloro con i quali si combatteva. Era una buona idea appianare qualunque controversia, prima. E neppure gli piaceva portar rancore: di solito serviva soltanto a scombussolargli lo stomaco.
Fu facile a Caramon, perciò, stringere la mano a Pheragas quando il nero fece per voltargli le spalle prima di entrare nell’arena, e fargli le scuse. Pheragas le accettò con calore mentre Kiiri, che ovviamente aveva saputo dell’episodio da Pheragas, mostrò la propria approvazione con un sorriso.
E mostrò anche la sua approvazione per il costume che Caramon indossava, fissandolo con una tale, palese ammirazione dai suoi lampeggianti occhi verdi che Caramon arrossì per l’imbarazzo.
I tre stavano parlando nei corridoi che correvano sotto l’arena, aspettando di entrare. Insieme a loro c’erano gli altri gladiatori che oggi avrebbero combattuto: Rolf, il Barbaro, e il Minotauro Rosso.
Sopra le loro teste potevano udire di tanto in tanto i ruggiti della folla, ovattati dalla distanza.
Allungando il collo, Caramon potè vedere la porta d’ingresso. Desiderò che giungesse subito il momento di cominciare. Poche volte si era sentito tanto nervoso. Si rese conto che era ancora più nervoso che se avesse dovuto andare in battaglia.
Anche gli altri avvertivano la tensione. Ciò appariva ovvio dalle risate di Kiiri, troppo forti e stridule, e dal sudore che colava lungo il viso di Pheragas. Ma era una buona tensione, mista com’era all’eccitazione. D’un tratto Caramon si rese conto di non veder l’ora di entrare nell’arena.
«Arack ha chiamato i nostri nomi,» annunciò Kiiri. Lei, Pheragas e Caramon vennero avanti: il nano aveva deciso, visto che lavoravano bene insieme, che avrebbero combattuto come una squadra (sperava anche che i due professionisti nascondessero gli eventuali errori di Caramon!).
La prima cosa che Caramon notò quando uscì fuori nell’arena fu il rumore. Si abbatté su di lui in onde tonanti, l’una dopo l’altra, provenendo in apparenza dal cielo intriso di luce solare sopra di lui.
Per un attimo si sentì smarrito nella confusione. L’arena ormai familiare, dove avevano lavorato e si erano esercitati tanto duramente durante quegli ultimi mesi, era divenuta d’un tratto un luogo estraneo. Il suo sguardo andò alle grandi file circolari di tribune che circondavano l’arena, e si sentì sopraffare alla vista delle migliaia di persone, tutte, a quanto pareva, in piedi che urlavano, pestavano sulle gradinate e applaudivano.
Il caleidoscopio dei colori gli travolse gli occhi: gli stendardi che gioiosi sbattevano al vento annunciando un Giorno di Giochi, i vessilli di seta di tutte le famiglie nobili di Istar, e le più umili bandiere di coloro che vendevano di tutto, dalla fratta ghiacciata al tè tarbeano, a seconda della stagione dell’anno. E tutto pareva in movimento creandogli una sensazione di stordimento e una nausea improvvisa. Sentì la mano fresca di Kiiri sul suo braccio. Voltandosi, vide che gli rivolgeva un sorriso rassicurante. Vide la familiare arena dietro di lei, vide Pheragas e gli altri suoi amici.
Sentendosi meglio, riportò la sua attenzione all’imminente azione. Avrebbe fatto bene a tenere la sua mente concentrata sul lavoro, si disse con severità. Se avesse mancato anche una singola mossa di quelle che aveva ripassato durante le prove, non soltanto avrebbe fatto la figura dello sciocco, ma avrebbe potuto accidentalmente far del male a qualcuno. Ricordava quanto Kiiri fosse stata meticolosa nel raccomandargli di sincronizzare con la massima precisione i suoi fendenti. Adesso, pensò trucemente, ne capiva il perché.
Tenendo gli occhi puntati sui suoi compagni e sull’arena, ignorando il rumore e la folla, prese il suo posto, in attesa di cominciare. Per qualche motivo l’arena gli parve diversa, e per un attimo non riuscì a spiegarsene la ragione. Poi si rese conto che, proprio come loro erano in costume, il nano aveva decorato anche l’arena. Qui c’erano le stesse piattaforme coperte di segatura dove aveva combattuto ogni giorno, ma adesso erano adorne dei simboli che rappresentavano i quattro angoli del mondo.
Intorno a queste quattro piattaforme, ardevano carboni roventi, il fuoco ruggiva, l’olio ribolliva e gorgogliava. Ponti di legno attraversavano i Pozzi della Morte, come venivano chiamati, collegando le quattro piattaforme. Questi pozzi avevano a tutta prima allarmato Caramon. Ma aveva appreso, ancora agli inizi, che erano messi lì soltanto per fare effetto. Al pubblico piaceva follemente quando un guerriero veniva spinto fuori dall’arena sui ponti. Farfugliavano entusiasti quando il Barbaro teneva Rolf sospeso per i calcagni sopra l’olio bollente. Avendo visto tutto durante le prove, Caramon poteva ridere insieme a Kiiri contemplando l’espressione terrorizzata sulla faccia di Rolf e gli sforzi frenetici che faceva per salvarsi, i quali, tutte le volte, vedevano il Barbaro colpito sulla testa da una delle poderose braccia di Rolf.
Il sole raggiunse lo zenit e un bagliore dorato indusse Caramon a volgere lo sguardo verso il centro dell’arena. Là si ergeva la Guglia della Libertà: un’alta struttura fatta d’oro, così delicata e decorata che pareva fuori posto in quell’ambiente così rozzo. In cima era appesa una chiave, la chiave che avrebbe aperto la serratura di qualsiasi collare di ferro. Caramon aveva visto quella guglia più e più volte durante gli allenamenti, ma non aveva mai visto la chiave, che veniva accuratamente custodita nell’ufficio di Arack. Al solo guardarla ebbe l’impressione che il collare di ferro intorno al suo collo fosse insolitamente pesante. Gli occhi gli si riempirono improvvisamente di lacrime. La libertà...
Svegliarsi al mattino e poter uscire dalla porta e andare dovunque lui avesse voluto in quell’ampio mondo. Era una cosa così semplice. E quanto ne sentiva la mancanza adesso!
Poi sentì Arack chiamare il suo nome, e vide che indicava il suo gruppo. Stringendo la propria arma Caramon si voltò per fronteggiare Kiiri, con l’immagine della chiave dorata ancora nella sua mente. Alla fine dell’anno, qualunque schiavo che si fosse comportato bene durante i Giochi, poteva combattere per il diritto di arrampicarsi su per quella guglia e prendere la chiave. Era tutta una finta, naturalmente. Arack sceglieva sempre quelli che davano la garanzia di attrarre il pubblico più numeroso. Caramon non ci aveva mai pensato prima, poiché le sue uniche preoccupazioni erano state suo fratello e Fistandantilus. Ma adesso si rese conto di avere un nuovo obbiettivo. Con un urlo selvaggio, levò in alto a mo’ di saluto la sua spada truccata.
Ben presto Caramon cominciò a rilassarsi e a divertirsi. Scoprì che gli piacevano i ruggiti e gli applausi della folla. Immedesimato nella loro eccitazione, scoprì che stava recitando per loro, proprio come Kiiri gli aveva detto che avrebbe fatto. Le poche ferite che aveva ricevuto durante gli scontri iniziali, giusto per scaldarsi, non erano nulla, soltanto graffi. Non sentiva neppure il dolore. Rise fra sé delle sue preoccupazioni. Pheragas aveva avuto ragione a non far parola di una cosa tanto sciocca. Gli dispiacque di aver fatto tante storie.
«Gli piaci,» disse Kiiri, sorridendogli durante uno dei loro momenti di riposo. Ancora una volta il suo sguardo percorse con ammirazione il corpo muscoloso e praticamente nudo di Caramon. «Non li biasimo. Non vedo l’ora di lottare con te.»
Kiiri rise, quando lui arrossì, ma Caramon vide nei suoi occhi che non stava scherzando, e fu d’un tratto acutamente consapevole della sua femminilità, qualcosa che non gli era mai capitato durante gli allenamenti. Forse era dovuto al suo costume succinto, che pareva concepito apposta per rivelare tutto nascondendo allo stesso tempo ciò che era più desiderabile. Caramon si sentì bruciare il sangue, sia per la passione sia per il piacere che provava in battaglia. Confusi ricordi di Tika gli vennero alla mente, e si affrettò a distogliere lo sguardo da Kiiri, rendendosi conto di aver detto con i propri occhi più di quanto intendeva.
La manovra gli riuscì solo in parte poiché si trovò a fissare le tribune, e gli occhi di molte bellissime donne che lo guardavano con ammirazione e che, risultava ovvio, stavano cercando di catturare la sua attenzione. «Tocca di nuovo a noi.» Kiiri gli dette di gomito e, riconoscente, Caramon ritornò nell’arena.
Sorrise al Barbaro, e l’uomo alto di statura venne avanti. Questo era il loro grande numero, e lui e Caramon vi si erano esercitati molte volte. Il Barbaro strizzò l’occhio a Caramon, mentre si fronteggiavano con le facce contorte in un’espressione di odio feroce. Ringhiando e grugnendo come animali entrambi gli uomini si rannicchiarono guatandosi e girando tutt’intorno nell’arena per un adeguato periodo di tempo, per far crescere la tensione. Caramon si sorprese sul punto di sorridere, e fu costretto a ricordarsi che avrebbe dovuto apparire cattivo. Gli piaceva il Barbaro, era un uomo delle pianure e per molti aspetti gli ricordava Riverwind: alto, con i capelli scuri, anche se il suo aspetto non era altrettanto severo. Anche il Barbaro era uno schiavo, ma il collare intorno al suo collo era vecchio e graffiato da innumerevoli combattimenti. Sarebbe stato lui il prescelto di quell’anno che si sarebbe impadronito della chiave d’oro, questo era certo.
Caramon vibrò un affondo con la spada retrattile. Il Barbaro lo schivò con facilità e, facendo lo sgambetto a Caramon con il calcagno lo fece cadere lungo disteso. Caramon stramazzò con un ruggito. Il pubblico gemette (le donne sospirarono), ma vi furono molti applausi per il Barbaro, che era uno dei favoriti. Il Barbaro si lanciò su Caramon, ancora a terra, puntando una lancia. Le donne urlarono per il terrore. All’ultimo istante Caramon con un guizzo balzò di lato e, afferrando il piede del Barbaro, lo fece cadere sulla piattaforma coperta di segatura.
Applausi tonanti. I due uomini si avvinghiarono, rotolando al suolo. Kiiri si precipitò in avanti per aiutare il compagno caduto, e il Barbaro li respinse entrambi, con grande delizia della folla. Poi Caramon, con un gesto galante, ordinò a Kiiri di ritirarsi. Risultò ovvio alla folla che si sarebbe occupato lui stesso di quell’insolente avversario.
Kiiri dette a Caramon una pacca sul sedere (questo non era nel copione, e Caramon quasi si dimenticò della mossa successiva), poi corse via. Il Barbaro si scagliò contro Caramon, il quale sfoderò il suo pugnale retrattile. Come avevano progettato, quello era il punto culminante dello spettacolo. Passando con un’abilissima manovra sotto il braccio sollevato dell’avversario, Caramon piantò il finto pugnale dritto nel ventre del Barbaro, dov’era stata abilmente nascosta, sotto il pettorale piumato, una vescica colma di sangue di pollo.
Funzionò! Il sangue di pollo schizzò sopra Caramon, scorrendogli sul viso e sul braccio. Caramon guardò il volto del Barbaro, pronto a un altro ammiccamento trionfante...
Qualcosa non andava.
Gli occhi dell’uomo si erano spalancati, com’era nel copione. Ma si erano spalancati per un dolore e uno choc veri. Barcollò in avanti, anche questo era nel copione, ma non il rantolo di agonia.
Neil’afferrarlo, Caramon si rese conto con orrore che il sangue che gli scorreva sul braccio era caldo!
Strappando fuori il pugnale dal corpo dell’altro, Caramon lo fissò, mentre cercava di reggere il Barbaro, il quale gli si era accasciato addosso. La lama non rientrava... era vera!
«Caramon...» esclamò l’uomo con voce soffocata. Il sangue gli sprizzò dalla bocca.
Il pubblico era in visibilio. Erano mesi che non vedeva effetti speciali come quelli!
«Barbaro! Non lo sapevo!» gridò Caramon, fissando con orrore il pugnale. «Lo giuro!»
E poi Pheragas e Kiiri gli furono al fianco, aiutandolo a calare il Barbaro morente sul suolo dell’arena.
«Continua a recitare!» intimò seccamente Kiiri a Caramon.
Caramon fece per colpirla per la collera, ma Pheragas gli bloccò il braccio. «La tua vita, la nostra vita, dipendono da questo!» sibilò il nero. «E la vita del tuo piccolo amico!»
Caramon li fissò in preda alla confusione. Cosa volevano dire? Cosa mai stavano dicendo? Lui aveva appena ucciso un uomo... un amico! Gemendo, si allontanò con uno scatto da Pheragas e s’inginocchiò accanto al Barbaro. Vagamente sentì che la folla applaudiva, e seppe, dentro di sé, che gli spettatori abboccavano. Il Vincitore stava rendendo omaggio al Morto...
«Perdonami,» disse al Barbaro, che annuì.
«Non è colpa tua,» bisbigliò l’uomo. «Non biasimarti...». Gli occhi gli divennero vitrei, una bolla di sangue gli esplose fuori dalle labbra.
«Dobbiamo portarlo fuori dall’arena,» bisbigliò Pheragas a Caramon, in tono asciutto, «e farlo apparire vero. Così come abbiamo fatto durante le prove... Hai capito?»
Caramon annuì scoraggiato. La tua vita... la vita del tuo piccolo amico. Sono un guerriero. Ho ucciso altre volte. La morte non è niente di nuovo, per me. La vita del tuo piccolo amico. Obbedisci agli ordini. Ci sono abituato. Obbedisci agli ordini, poi troverai le risposte.
Ripetendolo più e più volte, Caramon fu in grado di tenere a freno quella parte della sua mente che bruciava di rabbia e di dolore. Con freddezza e con calma aiutò Kiiri e Pheragas a rimettere in piedi il «corpo senza vita» del Barbaro come avevano fatto innumerevoli volte durante le prove.
Pheragas, con un abile movimento del braccio libero, fece anche in modo che il Barbaro «morto» sembrasse eseguire un inchino. Cosa che la folla, alla quale ciò piaceva moltissimo, accolse con applausi frenetici. Poi i tre amici trasportarono il cadavere giù dal palcoscenico, inoltrandosi nelle buie corsie sottostanti.
Una volta laggiù, Caramon li aiutò a distendere il Barbaro sulla fredda pietra. Rimase là per lunghi momenti a fissare il cadavere, vagamente conscio degli altri gladiatori i quali, in attesa del proprio turno di entrare nell’arena, guardavano quel corpo senza vita per poi riconfondersi con le ombre.
Caramon si risollevò lentamente. Girandosi di scatto afferrò Pheragas e, con tutta la forza che aveva, scagliò il nero contro la parete. Estratto dalla cintura il pugnale macchiato di sangue, Caramon lo tenne sospeso davanti agli occhi di Pheragas.
«È stato un incidente,» disse Pheragas a denti stretti.
«Armi affilate!» gridò Caramon, spingendo brutalmente la testa di Pheragas contro la parete di pietra. «Soltanto un po’ di sangue. Adesso, dimmi: in nome dell’Abisso, che cosa sta succedendo?»
«È stato un incidente, tanghero,» giunse una voce piena di scherno.
Caramon si girò. Il nano era lì, davanti a lui, il suo corpo tozzo era una piccola ombra contorta nel corridoio buio e umido sotto l’arena.
«E adesso ti parlerò degli incidenti,» proseguì Arack con voce sommessa e malevola. Dietro di lui si stagliava la gigantesca figura di Raag, con il randello stretto nell’enorme mano. «Lascia andare Pheragas. Lui e Kiiri devono tornare nell’arena a salutare il pubblico. Oggi tutti voi siete stati i Vincitori.»
Caramon fissò Pheragas per un attimo, poi lasciò ricadere la mano. Il pugnale gli scivolò dalle dita snervate cadendo sul pavimento. Quindi, il grosso guerriero si accasciò contro una parete. Kiiri lo guardò con un’espressione di muta comprensione, appoggiando la mano sul suo braccio. Pheragas sospirò, lanciò al nano compiaciuto un’occhiata velenosa, poi lui e Kiiri lasciarono il corridoio. Girarono intorno al corpo del Barbaro che giaceva non toccato sulla pietra.
«Mi avevi detto che nessuno rimane ucciso!» esclamò Caramon con voce soffocata dalla rabbia e dal dolore.
Il nano si avvicinò e si fermò davanti all’omone. «È stato un incidente,» ripetè Arack. «Qui da noi gli incidenti possono accadere. In particolare alla gente che non sta attenta. Potrebbero accadere anche a te, se non stai attento. O a quel tuo piccolo amico. Ora, il nostro Barbaro non è stato attento. O meglio, il suo padrone non è stato attento.»
Caramon sollevò la testa, fissando il nano con gli occhi spalancati per lo choc e l’orrore.
«Ah, vedo che hai capito, finalmente,» disse Arack.
«Quest’uomo è morto perché il suo proprietario ha pestato i piedi a qualcuno,» disse Caramon con voce sommessa.
«Già.» Il nano sogghignò e si tirò la barba. «Civilizzato, vero? Non come ai vecchi tempi. E nessuno sa niente. Salvo il suo padrone, naturalmente. Ho visto la sua faccia, questo pomeriggio. L’ha capito non appena hai infilzato il Barbaro. Era come se gli avessi piantato il pugnale addosso. Ha capito il messaggio, eccome!»
«È un avvertimento?» chiese Caramon con voce soffocata.
Il nano annuì di nuovo e scrollò le spalle.
«Chi?... Chi era il suo proprietario?»
Arack esitò, fissando Caramon beffardo, la sua faccia spezzettata si contorse in un sogghigno di scherno. Caramon quasi potè vedergli nella testa, che faceva i suoi calcoli, cercando di valutare quanto ci avrebbe guadagnato a dirlo, e quanto rimanendo zitto. A quanto parve, i soldi si ammucchiarono con più rapidità nella colonna del «dire», perché Arack non esitò a lungo. Facendo segno a Caramon di chinarsi, gli bisbigliò un nome nell’orecchio.
Caramon parve perplesso.
«Un alto chierico, un Reverendo Figlio di Paladine,» aggiunse il nano. «Il numero due dopo il Gran Sacerdote in persona. Ma si è fatto un brutto nemico.» Arack scosse la testa.
Una lontana esplosione di evviva scrosciò sopra di loro. Il nano sollevò lo sguardo, poi lo riportò su Caramon. «Devi salire e fare un inchino al pubblico. Se l’aspettano. Sei un Vincitore.»
«E lui?» chiese Caramon, il suo sguardo andò al Barbaro. «Lui non salirà. Non se ne chiederanno il perché?»
«Un muscolo stirato. Succede spesso. Non può fare l’ultimo inchino,» disse il nano con indifferenza. «Spargeremo la voce che è andato in pensione dopo che gli è stata ridata la libertà.»
Ridata la libertà! Le lacrime gli riempirono gli occhi. Caramon distolse lo sguardo, fissò l’estremità del corridoio. Scoppiò un altro applauso. Doveva andare. Per forza. La tua vita. Le nostre vite. La vita del tuo piccolo amico.
«È per questo,» disse Caramon con voce rauca, «è per questo che me l’hai fatto uccidere! Perché adesso mi hai incastrato. Sai che non parlerò...»
«Lo sapevo comunque,» ribatté Arack, sogghignando con cattiveria. «Diciamo che farlo uccidere da te è stato soltanto un piccolo tocco in più. Ai clienti la cosa piace, dimostra che mi prendo a cuore le cose. Vedi, è stato il tuo padrone a mandare questo avvertimento! Ho pensato che avrebbe apprezzato vederlo eseguire dal suo schiavo. Naturalmente, questo ti mette un po’ in pericolo. La morte del Barbaro dovrà venir vendicata. Ma farà meraviglie per gli affari, una volta che la voce si spargerà.»
«Il mio padrone!» esclamò Caramon a bocca spalancata. «Ma sei stato tu a comperarmi! La scuola...»
«Ah, io ho fatto soltanto da agente,» ridacchiò il nano. «Già, forse non lo sapevi...»
«Ma chi è il mio...». E poi Caramon seppe la risposta. Neppure sentì le parole che il nano disse.
Non riuscì a sentirle sopra il rombo che gli echeggiò all’improvviso nel cervello. Una marea rossosangue lo sommerse, soffocandolo. I polmoni gli facevano male, gli venne voglia di vomitare e si sentì venir meno le gambe. La vertigine passò. Caramon rantolò e sollevò la testa, scuotendosi di dosso la stretta dell’orco.
«Sto bene,» disse attraverso le labbra esangui.
Raag gli lanciò un’occhiata, poi guardò il nano.
«Non possiamo portarlo là fuori in queste condizioni,» disse Arack, guardando Caramon con disgusto. «Non con l’aspetto di un pesce a pancia in su. Portalo nella sua stanza.»
«No,» disse una vocina dall’oscurità. «Mi... mi occuperò io di lui.»
Tas strisciò fuori dall’ombra, il volto pallido almeno quanto quello di Caramon.
Arack esitò, poi ringhiò qualcosa e facendo un gesto all’orco si allontanò, salendo frettolosamente le scale per consegnare i premi ai vincitori.
Tasslehoff s’inginocchiò accanto a Caramon, con la mano sul braccio dell’omone. Lo sguardo del kender andò al cadavere che giaceva dimenticato sul pavimento di pietra. Anche lo sguardo di Caramon andò nella stessa direzione. Vedendo il dolore e l’angoscia nei suoi occhi, Tas sentì un nodo alla gola. Non riuscì a dire una parola, ma soltanto a battere una mano sul braccio di Caramon.
«Quanto hai sentito?» chiese Caramon con voce roca.
«Quel che basta,» rispose Tas con un filo di voce. «Fistandantilus.»
«Ha progettato tutto questo sin dall’inizio.» Caramon sospirò e reclinò la testa all’indietro, chiudendo stancamente gli occhi. «E così che si sbarazzerà di noi. E non dovrà neppure farlo lui stesso. Lascerà che questo... questo chierico...»
«Quarath.»
«Già, lascerà che questo Quarath ci ammazzi.» Caramon strinse i pugni. «Le mani dello stregone saranno pulite! Raistlin non sospetterà mai niente. E d’ora in avanti, tutte le volte che ci sarà un combattimento, mi chiederò: sarà vero quel pugnale che Kiiri impugna?». Riaprendo gli occhi, Caramon guardò il kender. «E tu, Tas, anche tu ci sei dentro. Il nano l’ha detto chiaramente. Però... io non posso andarmene, ma tu sì! Devi lasciare questo posto!»
«E dove mai potrei andare?» replicò Tas, disperato. «Mi ritroverebbe, Caramon. È il più potente fruitore di magia che sia mai vissuto. Neppure i kender possono nascondersi da gente come lui.»
Per qualche istante, i due rimasero seduti insieme in silenzio, con il ruggito della folla che continuava ad echeggiare sopra di loro. Poi, lo sguardo di Tas colse un luccichio metallico sull’altro lato del corridoio. Riconoscendo l’oggetto, si alzò in piedi e andò a recuperarlo.
«Posso farti entrare nel Tempio insieme a me,» disse, tirando un profondo respiro e cercando di mantenere ferma la voce. Raccolse dal pavimento il pugnale macchiato di sangue, lo portò indietro e lo porse a Caramon.
«Posso farlo stanotte.».
Capitolo ottavo.
La luna d’argento, Solinari, occhieggiò all’orizzonte. Levandosi al di sopra della torre centrale del l’empio del Gran Sacerdote, la luna sembrava la fiamma d’una candela che bruciasse su un lucignolo alto e scanalato. Quella notte Solinari era piena e luminosa, talmente luminosa che i servizi dei portaluce stradali non erano richiesti e i ragazzi che si guadagnavano da vivere illuminando con le loro bizzarre lampade d’argento la strada ai festaioli che andavano da una casa all’altra, passavano le ore notturne a casa, maledicendo la sfolgorante luce della luna che li derubava dei loro guadagni.
La gemella di Solinari, la rossosangue Lunitari, non era sorta, né sarebbe sorta per parecchie ore ancora, inondando le strade con il suo arcano splendore purpureo. In quanto alla terza luna, quella nera, la sua oscura rotondità in mezzo alle stelle venne notata da un uomo che la guardò per un breve istante, mentre si spogliava delle sue vesti nere, appesantita dai componenti degli incantesimi, indossando la più semplice e morigerata vestaglia nera da camera. Calandosi il cappuccio nero sopra la testa per escludere la luce fredda e penetrante di Solinari, si distese sul letto e scivolò nel sonno tranquillo così necessario a lui e alla sua Arte.
Per lo meno, era ciò che Caramon immaginò stesse facendo, mentre lui e il kender percorrevano le strade affollate illuminate dalla luce della luna. La notte era animata dai divertimenti. Passarono accanto a un gruppo dopo l’altro di gaudenti, comitive di uomini che ridevano sfrenatamente e discutevano dei Giochi; e comitive di donne che restavano in gruppo pur lanciando timide occhiate a Caramon con la coda dell’occhio. I loro indumenti sottili sbattevano intorno ai corpi alla morbida brezza, che era mite per essere autunno inoltrato. Un gruppo di queste donne riconobbe Caramon e il grosso guerriero si mise quasi a correre temendo che chiamassero le guardie per farlo ricondurre nell’arena.
Ma Tas, più esperto nelle cose del mondo, lo trattenne da gesti inconsulti. Il gruppo di donne contemplava Caramon con sguardo incantato. L’avevano visto combattere nell’arena quel pomeriggio, e si era già conquistato il loro cuore. Gli fecero banali domande sui Giochi, poi non ascoltarono le sue risposte, il che era comunque lo stesso. Caramon, infatti, era talmente nervoso che le sue risposte avevano pochissimo senso. Alla fine le donne se ne andarono ridendo per la loro strada, dopo avergli augurato buona fortuna. Caramon lanciò un’occhiata al kender, interrogandosi su tutto questo, ma Tas si limitò a scuotere la testa.
«Perché mai pensi che ti abbia fatto vestire?» il kender chiese a Caramon poco dopo.
E infatti Caramon si era interrogato proprio su questo punto. Tas aveva insistito perché indossasse il mantello di seta dorata che portava nell’arena, oltre all’elmo che aveva inalberato quel pomeriggio. Tutto ciò non pareva affatto adatto a entrare di nascosto nel Tempio: Caramon si era immaginato di dover strisciare attraverso le fogne o arrampicarsi sui tetti. Ma quando si era mostrato recalcitrante, gli occhi di Tas erano divenuti freddi. O Caramon faceva come lui gli aveva detto, oppure poteva dimenticarsene, gli aveva sbattuto in faccia, secco.
Sospirando, Caramon si era vestito come gli era stato ordinato, indossando il mantello sopra la camicia floscia e le brache di cuoio che portava di solito. Si era infilato alla cintura il pugnale macchiato di sangue. Istintivamente aveva cominciato a pulirlo, poi aveva smesso. No, sarebbe stato meglio lasciarlo così.
Era stato semplice per il kender aprire loro la porta dopo che Raag li aveva chiusi sotto chiave per la notte, e i due erano sgusciati attraverso il dormitorio dei gladiatori senza incidenti; la maggior parte dei guerrieri era addormentata o, nel caso dei minotauri, ubriachi fradici.
I due si erano incamminati per le strade senza cercare di nascondersi, con grande disagio di Caramon. Ma il kender appariva imperturbato. Insolitamente imbronciato e silenzioso, Tas continuava a ignorare le ripetute domande di Caramon. Ormai, erano vicinissimi al Tempio, il quale si stagliava davanti a loro in tutta la sua argentea e perlacea radiosità, e Caramon finì per fermarsi.
«Aspetta un momento, Tas,» disse a bassa voce, tirando il kender in un angolo in ombra, «come pensi di farci entrare là dentro?»
«Attraverso la porta principale,» rispose Tas, con calma.
«La porta principale?» ripetè Caramon, stupefatto. «Sei matto? Le guardie ci fermeranno...».
«È un tempio, Caramon,» replicò Tas con un sospiro. «Un tempio agli dei. Le creature malvagie semplicemente non entrano.»
«Fistandantilus entra,» ribatté Caramon, in tono burbero.
«Ma soltanto perché il Gran Sacerdote lo permette,» replicò Tas, scrollando le spalle. «Altrimenti non potrebbe entrare là dentro. Gli dei non lo permetterebbero. Per lo meno, questo mi ha detto uno dei chierici quando gliel’ho chiesto.»
Caramon corrugò la fronte. Il pugnale che aveva alla cintura gli parve all’improvviso pesante, il metallo gli premeva rovente contro la pelle. Era soltanto la sua immaginazione, si disse. Dopotutto, non era la prima volta che portava su di sé dei pugnali. Infilando una mano sotto il mantello, lo toccò per rassicurarsi. Poi, stringendo con forza le labbra, si avviò in direzione del Tempio. Dopo un attimo di esitazione, Tas lo raggiunse.
«Caramon,» disse il kender con una vocina sottile, «credo di sapere quello che stavi pensando. Io ho pensato la stessa cosa... E se per caso gli dei impedissero a noi di entrare?»
«Siamo venuti per distruggere il Male,» disse Caramon con voce tranquilla, la mano sul pugnale.
«Ci aiuteranno, non ci ostacoleranno. Vedrai.»
«Ma, Caramon...». Adesso era Tas a fare domande e Caramon, cupo in volto, a ignorarle. Alla fine raggiunsero la splendida gradinata che < conduceva al Tempio.
Caramon si arrestò, fissando l’edificio. Sette torri svettavano alte nel cielo, come una lode perenne agli dei per la loro creazione. Ma ce n’era una che si elevava a spirale al di sopra di tutte le altre.
Luccicando al bagliore di Solinari, pareva che non lodasse gli dei, ma piuttosto che volesse rivaleggiare con loro. La bellezza del Tempio, i suoi marmi rosati e perlacei che mandavano morbidi riflessi alla luce della luna, le sue pozze d’acqua immobile che riflettevano le stelle, i suoi ampi giardini costellati di fiori meravigliosi e fragranti, le sue decorazioni d’oro e d’argento... tutto questo lasciò Caramon senza fiato, trafiggendogli il cuore. Non riusciva a muoversi, era rimasto là come pietrificato da quello splendore.
lì poi, nei recessi della sua mente, come se fosse stata in agguato, fece cupolino una sensazione di orrore. Lui aveva già visto tutto questo! soltanto che l’aveva visto in un incubo: le torri contorte e deformi... confuso, chiuse gli occhi. Dove? Come? Poi, gli ritornò alla memoria. Il Tempio di Neraka dov’era stato imprigionato! Il Tempio della Regina delle Tenebre! Era stato proprio quello stesso Tempio, pervertito, corrotto e trasformato in una cosa orrenda dalla sua malvagità. Caramon tremò. Sopraffatto da quel terribile ricordo, chiedendosi cosa mai presagisse, per un attimo pensò di voltarsi e scappare.
Poi sentì Tas che lo tirava per il braccio. «Vai avanti!» gli ordinò il kender. «Così, desti sospetti!»
Caramon scosse la testa sgombrandola da quegli stupidi ricordi che non significavano nulla, come si disse. I due si avvicinarono alle guardie accanto alla porta.
«Tas!» disse Caramon all’improvviso, afferrando il kender per la spalla e stringendogliela con tanta forza da farlo squittire per il dolore. «Tas, questa è una prova! Se gli dei ci lasceranno entrare, saprò che stiamo facendo la cosa giusta! Avremo la loro benedizione!»
Tas non rispose subito. «È questo che pensi?» chiese poi, esitante.
«Naturalmente!». Gli occhi di Caramon luccicarono al vivido chiarore di Solinari. «Vedrai. Vieni.»
L’omone, recuperata la fiducia in se stesso, salì a grandi passi la gradinata. Caramon costituiva uno spettacolo imponente, con il mantello di seta dorata che gli svolazzava intorno e l’elmo dorato che sfavillava alla luce della luna. Le sentinelle smisero di parlare tra loro e si voltarono a guardarlo.
Una dette di gomito all’altra e gli! disse qualcosa, facendo un rapido movimento che mimava una pugnalata. Il suo compagno sogghignò e scosse la testa, fissando Caramon con ammirazione.
Caramon seppe subito cosa significava quella pantomima, e quasi si fermò, sentendo una volta ancora il sangue caldo schizzargli sulla mano... e le ultime parole soffocate del Barbaro. Ma era arrivato troppo oltre, ormai, per tornare indietro. E forse, si disse, quello era un segno. Lo spirito del Barbaro che si attardava lì accanto, bramoso di vendetta.
Ansioso, Tas levò lo sguardo su di lui. «Sarà meglio che lasci parlare me,» bisbigliò il kender.
Caramon annuì, deglutendo innervosito.
«Salute, gladiatore,» lo chiamò una delle guardie. «Sei nuovo ai Giochi, non è vero? Stavo dicendo al mio compagno che oggi si è perso un bel combattimento. E non soltanto questo, ma gli hai anche fatto guadagnare sei pezzi d’argento. Com’è che ti chiamano?»
«È il “Vincitore”,» interloquì, garrulo, Tas. «E oggi è stato soltanto l’inizio. Non è mai stato sconfitto in battaglia, e mai lo sarà.» «E tu chi sei, piccolo tagliaborse? Il suo agente?» La frase fu accolta con una fragorosa risata dall’altra guardia, a cui Caramon fece eco con una risata nervosa e stridula. Poi il grosso guerriero abbassò lo sguardo su Tas e seppe subito che erano nei guai! Tas si era sbiancato in viso. Tagliaborse! L’insulto più orribile, la cosa peggiore al mondo che si potesse dire ad un kender! La grossa mano di Caramon si serrò sopra la bocca di Tas.
«Sicuro,» annuì Caramon, tenendo ben stretto il kender che si dibatteva. «Ed è anche molto in gamba.»
«Be’, tienilo d’occhio,» aggiunse l’altra guardia, ridendo ancora di più. «Vogliamo vedere che tagli gole, non borse!»
Gli orecchi di Tasslehoff, l’unica parte della sua testa visibile sopra l’ampia mano di Caramon, divennero scarlatte. Suoni incoerenti giungevano da dietro il palmo di Caramon. «Cre... credo che faremo meglio a entrare,» balbettò il grosso guerriero, chiedendosi per quanto tempo sarebbe riuscito a trattenere Tas. «Siamo in ritardo.»
Le guardie si scambiarono un’occhiata, con l’aria di chi la sapeva lunga, e gli strizzarono l’occhio.
Una delle due scosse la testa con invidia. «Ho visto le donne che ti guardavano, oggi,» disse, volgendo lo sguardo alle ampie spalle di Caramon. «Avrei dovuto immaginare che saresti stato invitato qui per... uhm... cena.»
Di che cosa mai stavano parlando? L’espressione perplessa di Caramon indusse le guardie a scoppiare in un’altra risata.
«In nome degli dei!» sbottò una delle due. «Ma guardalo, è proprio nuovo!»
«Vai pure.» L’altra guardia gli fece cenno di passare. «Buon appetito!»
Altre risate. Arrossendo, non sapendo cosa dire e sempre cercando di tenere stretto Tas, Caramon entrò nel Tempio. Ma, mentre procedeva, udì le guardie che si scambiavano battute volgari, le quali gli fecero capire all’improvviso e con chiarezza quello che intendevano dire. Trascinando il kender, che non la smetteva di dibattersi, lungo un corridoio, svoltò di corsa al primo angolo.
Non aveva la più pallida idea di dove si trovava.
Lasciò andare Tas una volta che le guardie furono scomparse alla vista e fuori portata dalle loro voci. Il kender era pallido e stralunato.
«Quei... quei... io... se ne pentiranno...»
«Tas!» Caramon lo scosse. «Piantala. Calmati. Ricordati perché siamo qui.»
«Tagliaborse! Come se fossi un comune ladro!». Tas aveva praticamente la schiuma alla bocca.
«Io...»
Caramon lo fissò inferocito e il kender soffocò le sue proteste. Recuperando il controllo di sé, tirò un profondo respiro, e poi fece uscire lentamente l’aria dai polmoni. «Adesso sto bene,» disse, imbronciato. ti ho detto che sto bene!» sbottò, quando vide che Caramon lo stava ancora guardando dubbioso.
«Oh, insomma, siamo entrati, anche se non esattamente come mi aspettavo,» bofonchiò Caramon.
«Hai sentito quello che dicevano?»
«No... non dopo “ta... taglia..., dopo quella parola. Con la tua mano mi hai schiacciato anche buona parte degli orecchi,» replicò Tas con tono di accusa.
«Pare... pare che le signore... invitino gli uo... uomini qui dentro pe... per... sai cosa...»
«Ascolta, Caramon,» ribatté Tas, esasperato. «Hai avuto il tuo segno. ti hanno fatto entrare. È probabile che ti stessero soltanto prendendo in giro. Tu sei troppo credulone! Crederesti a qualunque cosa, Tika lo dice sempre.»
Un ricordo di Tika balenò nella mente di Caramon. Potè quasi sentirla che diceva quelle precise parole, ridendo. Ebbe l’impressione che la lama di un coltello gli tagliasse la pelle. Fissando Tas con furore, respinse subito quel ricordo.
«Già,» disse in tono amaro, arrossendo. «Probabilmente hai ragione, si stavano divertendo alle mie spalle. E io ci sono anche cascato! Ma...» sollevò la testa e per la prima volta contemplò intorno a sé la grandezza del Tempio. Cominciò a rendersi conto di dove si trovava: quel luogo sacro, quel palazzo degli dei. Ancora una volta sentì la reverenza e il timore che aveva provato nel guardarlo dall’esterno, illuminato dalla luce radiosa di Solinari. «Hai ragione, gli dei ci hanno dato il nostro segno!»
C’era un corridoio nel Tempio in cui pochi andavano e nessuno, di quelli che lo facevano, ci andava volontariamente. Se erano costretti a recarsi fin là per qualche incarico, svolgevano in fretta il loro compito e ; se ne andavano quanto più rapidamente possibile.
Non c’era niente di sbagliato nel corridoio in sé. Era splendido tanto quanto gli altri corridoi e le altre sale del Tempio. Meravigliosi arazzi realizzati ] in colori tenui davano grazia alle sue pareti, morbidi tappeti coprivano il pavimento di marmo, deliziose statue riempivano le alcove I immerse nell’ombra. Porte di legno decorate da sculture si aprivano su di esso, conducendo a stanze piacevolmente adorne come ogni altra stanza del Tempio. Ma quelle porte non si aprivano più.
Erano tutte chiuse a chiave. Tutte le stanze erano vuote. Tutte, tranne una.
Quella stanza si trovava proprio all’estremità del corridoio, che era! buia e silenziosa perfino durante il giorno. Era come se l’occupante di quella singola stanza proiettasse una cappa plumbea sul pavimento stesso dove camminava, nell’aria stessa che respirava. Quelli che entravano in quel corridoio si lamentavano dicendo che’ si sentivano soffocare. Annaspavano come qualcuno che stesse morendo dentro una casa in fiamme.
Quella era la stanza di Fistandantilus. Era sua da anni, da quando il Gran Sacerdote era salito al potere cacciando via i fruitori di magia dalla loro Torre di Palanthas, la Torre in cui Fistandantilus aveva regnato come capo del Conclave.
Che accordo avevano mai concluso le forze trainanti del Bene, e quelle del Male nel mondo? Quale intesa era stata raggiunta per consentire all’Oscuro di vivere all’interno del luogo più bello e più sacro di Krynn? Nessuno lo sapeva, molti facevano le più svariate ipotesi. Molti credevano che fosse per grazia del Gran Sacerdote, un gesto nobile nei confronti di un nemico sconfitto.
Ma perfino lui, perfino il Gran Sacerdote, non percorreva quel corridoio. Almeno in quel luogo, il grande mago regnava nel buio e con terrificante supremazia.
All’estremità opposta del corridoio si apriva un’alta finestra. Pesanti tende di velluto erano tirate sopra di essa, escludendo la luce del sole, durante il giorno, ed i raggi della luna, nelle ore notturne.
Ma quella notte, forse perché i servi erano stati incitati dal Capo della Servitù a pulire ed a raccogliere la polvere dal corridoio, le tende erano lievemente scostate, lasciando che la luce argentea di Solinari risplendesse nel corridoio cupo e vuoto. I raggi della luna che i nani chiamavano Candela della Notte, penetravano l’oscurità come una lunga lama sottile di lucido acciaio.
forse come il dito bianco e sottile di un cadavere, pensò Caramon, lasciando scorrere il suo sguardo lungo quel silenzioso corridoio. attraversando il vetro, quel dito di luce lunare percorreva il pavimento coperto dal tappeto per tutta la sua lunghezza, arrivando a sfiorargli i piedi, là dove si trovava.
«Quella è la sua porta,» disse il kender, con un sussurro talmente sommesso che Caramon riuscì appena a sentirlo sopra il battito del proprio cuore. «Sulla sinistra.»
Caramon infilò ancora una volta la mano sotto il mantello, cercando l’elsa del pugnale, la sua rassicurante presenza. Ma l’impugnatura era fredda. Caramon rabbrividì quando la toccò e si affrettò a ritrarre la mano.
Pareva una cosa tanto semplice percorrere quel corridoio. Eppure non riusciva a muoversi. Forse era l’enormità di quello che aveva in mente di fare: prendere la vita di un uomo, non in battaglia ma mentre dormiva. puccidere un uomo nel sonno, di tutti i momenti quello in cui siamo più indifesi, quando ci affidiamo alla mano degli dei. Poteva esserci un crimine più orrendo, più codardo?
Gli dei mi hanno dato un segno, si ricordò Caramon, e con durezza si costrinse anche a ricordarsi del Barbaro morente. Si costrinse a ricordare i tormenti di suo fratello nella Torre. Ricordò quant’era potente quel mago malvagio quand’era sveglio. Caramon tirò un profondo respiro e afferrò con decisione l’elsa del pugnale. Stringendola con forza, anche se non estrasse l’arma dalla cintura, prese ad avanzare lungo il corridoio silenzioso. Adesso pareva che la luce della luna lo chiamasse.
Sentì una presenza alle sue spalle, così vicina che, quando si fermò, Tas andò a sbattergli contro.
«Rimani qui,» gli ordinò Caramon.
«No...» cominciò a protestare Tas, ma Caramon lo zittì.
«Devi farlo. Qualcuno deve fare la guardia a questa estremità del corridoio. Se dovesse venir qualcuno, fai un rumore, qualcosa, insomma.»
«Ma...»
Caramon abbassò lo sguardo sul kender. Alla vista dell’espressione truce e dello sguardo freddo e privo di emozioni dell’omone, Tas deglutì e annuì. «Be’... resterò qui, in quell’ombra.» Gli indicò il punto e sgusciò via.
Caramon aspettò fino a quando fu sicuro che Tas non l’avrebbe «accidentalmente» seguito. Ma il kender si rannicchiò miserevolmente all’ombra d’un enorme albero rimasto piantato in un vaso dopo che era morto mesi prima. Caramon si voltò e proseguì.
Ai piedi del fusto rinsecchito dell’albero, le cui foglie frusciavano ad ogni suo minimo movimento, Tas seguì con lo sguardo Caramon che avanzava lungo il corridoio. Vide l’omone raggiungerne l’estremità, allungare una mano e afferrare la maniglia della porta. Vide Caramon dare una leggera spinta. La porta cedette alla sua pressione e si aprì in silenzio. L’omone scomparve all’interno della stanza.
Tasslehoff cominciò a tremare. Un’orribile sensazione di disagio gli si diffuse dallo stomaco a tutto il corpo, un gemito gli sfuggì dalle labbra. Schiacciandosi una mano contro la bocca, così da impedirsi di urlare, il kender si appiattì contro il muro e si convinse che sarebbe morto in solitudine, lì al buio.
Caramon infilò il suo grande corpo nella porta, aprendola all’inizio soltanto d’uno spiraglio, nel caso in cui i cardini si fossero messi a cigolare. Ma non vi fu il minimo rumore. Tutto, nella stanza, era silenzioso. Nessun rumore da nessuna parte del Tempio entrava in quella stanza, come se tutta la vita fosse stata inghiottita da quella soffocante oscurità. Caramon si sentì bruciare i polmoni, e ricordò vividamente il giorno in cui era quasi morto nel Mare di Sangue di Istar. Ma, con uno sforzo, mantenne regolare il respiro, evitando di ansimare fragorosamente.
Attese per qualche istante sulla soglia, cercando di placare il cuore che gli batteva frenetico, e diede un’occhiata alla stanza. La luce di Solinari entrava attraverso uno squarcio nelle pesanti tende che coprivano la finestra. Una sottile scheggia di luce argentea tagliava l’oscurità, penetrando come una sottile incisione che conduceva dritta al letto all’estremità opposta della stanza.
La mobilia, là dentro, era scarsa. Caramon vide la massa informe d’una pesante veste nera distesa sopra una sedia di legno. Accanto ad essa c’era un paio di stivali di cuoio morbido. Nessun fuoco ardeva dietro la grata, la notte era troppo calda. Stringendo l’elsa del pugnale, Caramon lo estrasse con lentezza e attraversò la stanza, guidato dalla luce argentea della luna.
Un segno degli dei, pensò Caramon, con il battito del cuore che quasi lo soffocava. Provò una sensazione di paura, una paura quale non aveva mai sperimentato nella sua vita: una paura che gli torceva lo stomaco, che gli strizzava le budella e faceva sussultare i muscoli e gl’inaridiva la gola.
Con un empito di disperazione si costrinse a inghiottire così da non tossire e svegliare il dormiente. Devo agire in fretta! si disse, già afferrato dal timore di sentirsi male o, addirittura, di perdere i sensi. Attraversò la stanza. Il soffice tappeto soffocò il rumore dei suoi rapidi passi. Adesso poteva vedere il letto e la nera figura addormentata sopra di esso. Poteva vedere la figura con chiarezza, la luce della luna tracciava una linea nitida sul pavimento fino alla lettiera, sopra la coperta, piegandosi poi verso l’alto fino alla testa appoggiata sul cuscino, con il cappuccio calato sul viso per escludere la luce.
«Così gli dei mi indicano la strada,» mormorò Caramon, inconsapevole di aver parlato ad alta voce.
Si avvicinò furtivo al fianco del letto, ristette, col pugnale stretto nel pugno, ascoltando il tranquillo respiro della vittima, cercando di avvertire qualche cambiamento nel ritmo profondo e costante che gli avrebbe detto d’essere stato scoperto.
Dentro e fuori... dentro e fuori... il respiro era forte, profondo e pacifico. Il respiro di un uomo giovane e sano. Caramon rabbrividì ricordando quanto avrebbe dovuto essere vecchio quello stregone, rievocando le storie tenebrose che aveva sentito raccontare su come Fistandantilus rinnovava la sua giovinezza. Il respiro dell’uomo continuava perfettamente regolare, non c’era nessuna interruzione, nessuna accelerazione. La luce della luna entrava, gelida, silenziosa, sempre uguale, un segno...
Caramon sollevò il pugnale. Un solo colpo, rapido e preciso, affondato in pieno petto, e tutto sarebbe finito. Si protese in avanti, poi esitò. No, ?rima di colpire avrebbe guardato quel viso... il viso dell’uomo che aveva torturato suo fratello.
No! Sciocco! urlò una voce dentro a Caramon. Pugnalalo adesso, presto! Caramon giunse a sollevare una seconda volta il pugnale, ma la mano gli tremava. Doveva vedere quel viso!
Allungando una mano tremante, sfiorò appena il cappuccio nero. Il tessuto era morbido e cedevole.
Lo scostò.
La luce argentea di Solinari toccò la mano di Caramon, poi scivolò sul volto del mago addormentato, inondandolo di radiosità. La mano di Caramon s’irrigidì, diventando bianca e fredda come quella di un cadavere mentre fissava il volto sul cuscino.
Non era il volto d’uno stregone antico e malvagio, coperto dalle cicatrici d’innumerevoli peccati.
Non era neppure il volto di un essere tormentato, la cui vita fosse stata rubata dal corpo per tenere in vita il mago morente.
era il volto di un giovane fruitore di magia, affaticato da lunghe notti trascorse sopra i suoi libri, ma adesso rilassata, immersa com’era in un tranquillo riposo. Era il volto di qualcuno la cui tenace sopportazione del costante dolore era contrassegnata dalle rughe profondamente incise e Inflessibili, un volto che aveva placato con dell’acqua fresca...
la mano che stringeva il pugnale calò fulminea affondando la lama dentro il materasso. Vi fu un urlo selvaggio, subito soffocato, e Caramon cadde in ginocchio accanto al letto, stringendo la coperta con le dita contorte per l’angoscia. Il suo grosso corpo era scosso dalle convulsioni, squassato da frementi singhiozzi.
Raistlin aprì gli occhi e si rizzò a sedere, sbattendo le palpebre al vivo bagliore di Solinari. Si calò ancora una volta il cappuccio sugli occhi, poi, sospirando per l’irritazione, sollevò una mano e con cautela sfilò il pugnale dalla stretta infiacchita di suo fratello.
Capitolo nono.
«Questo è stato davvero stupido da parte tua, fratello mio,» dichiarò Raistlin, rigirando il pugnale tra le dita sottili e studiandolo distrattamente. «Trovo difficile crederlo, perfino da parte tua.»
Inginocchiato sul pavimento accanto al letto, Caramon sollevò lo sguardo sul suo gemello. Il suo volto era smunto, tirato e pervaso d’un pallore mortale. Aprì la bocca.
«Non capisco, Raist,» lo precedette Raistlin, rifacendogli il verso.
Caramon serrò le labbra, il suo volto s’indurì in una maschera cupa e amara. I suoi occhi andarono al pugnale che suo fratello teneva ancora in mano. «Forse sarebbe stato meglio se non avessi scostato il cappuccio,» borbottò.
Raistlin sorrise, anche se suo fratello non se ne accorse.
«Non avevi scelta,» gli rispose. Poi sospirò e scosse la testa. «Fratello mio, pensavi sul serio di poter entrare così facilmente nella mia stanza e assassinarmi mentre dormivo? Tu sai quant’è leggero il mio sonno... è sempre stato leggero.»
«No, non te!» gridò Caramon con voce rotta, sollevando lo sguardo. «Credevo...». Non riuscì a proseguire.
Raistlin lo fissò perplesso, per un attimo, poi d’un tratto cominciò a ridere. Era un’orribile risata, sgradevole e beffarda, e Tasslehoff, che si trovava ancora all’estremità del corridoio, si tappò gli orecchi con le mani nell’udire quel suono, mentre cominciava ad avanzare furtivo lungo il corridoio verso l’origine di quella risata per vedere quello che stava succedendo.
«Tu volevi assassinare Fistandantilus,» disse Raistlin, fissando suo fratello con aria divertita. Rise di nuovo a quel pensiero. «Caro fratello, mi ero dimenticato di quanto puoi essere spassoso.»
Caramon arrossì e si alzò in piedi incerto.
«Avevo intenzione di farlo... per te,» rispose. Avvicinatosi alla finestra, aprì del tutto la tenda e fissò di cattivo umore il cortile del Tempio che risplendeva perlaceo e argenteo alla luce di Solinari.
«Certo,» esclamò Raistlin, una traccia dell’antica amarezza gli s’insinuò nella voce. «Quando mai hai fatto qualcosa che non fosse per me?»
Pronunciando con voce imperiosa un comando, Raistlin fece in modo che la stanza fosse illuminata da una vivida luce che si sprigionò dal Bastone di Magius appoggiato contro la parete in un angolo.
Il mago buttò indietro la coperta e si alzò dal letto. Avvicinandosi alla grata, prò- ; nunciò un’altra parola e le fiamme balzarono fuori dalla pietra nuda. La loro luce arancione illuminò il suo volto esile e pallido, riflettendosi sui! suoi limpidi occhi castani.
«Be’, sei in ritardo, fratello mio,» continuò Raistlin, protendendo le mani per riscaldarle al fuoco, flettendo più volte le dita sottili. «Fistandantilus è morto. Per mano mia.»
Caramon si girò di scatto fissando suo fratello, colpito dallo strano tono della voce di Raistlin. Ma suo fratello rimase accanto al fuoco, a fissare le fiamme.
«Tu pensavi di entrare e di pugnalarlo mentre dormiva,» mormorò Raistlin, con un sorriso severo sulle labbra sottili. «Il più grande mago che sia vissuto... fino ad ora.»
Caramon vide suo fratello appoggiarsi al caminetto come in preda a un’improvvisa debolezza.
«È rimasto sorpreso di vedermi,» proseguì Raistlin con voce sommessa, «e mi ha dileggiato, come mi aveva dileggiato nella Torre. Ma aveva paura. Potevo vederlo nei suoi occhi.
«“Così, piccolo mago,” mi ha schernito Fistandantilus, “come hai fatto ad arrivare qui? È stato il grande Par-Salian a mandarti?”
«“Sono venuto da solo,” gli ho risposto. “Adesso sono io il padrone della Torre.”
«Questo non se l’era aspettato. “Impossibile,” mi ha risposto, ridendo. “Io sono colui la cui venuta è stata predetta dalla profezia. Sono io il maestro del passato e del presente. Quando sarò pronto tornerò alla mia proprietà.”
«Ma già mentre parlava la paura è cresciuta nei suoi occhi, poiché leggeva i miei pensieri. “Sì,” ho risposto alla sua tacita domanda, “la profezia non ha funzionato come speravi. Tu intendevi viaggiare dal passato al presente utilizzando la forza vitale che mi hai strappato per rimanere in vita. Ma hai dimenticato, o forse non ci hai badato, che io potevo attingere alla tua forza spirituale! Dovevi tenermi vivo per potermi succhiare la linfa vivente. E, a questo fine, mi hai dato parole e mi hai insegnato a usare il Globo dei Draghi. Quando sono giaciuto morto ai piedi di Astinus, hai alitato aria in questo sventurato corpo che avevi torturato. Mi hai portato dalla Regina delle Tenebre implorandola di darmi la Chiave per disserrare i misteri degli antichi testi magici che non potevo leggere. E, quando alla fine sono stato pronto, avevi intenzione di entrare nel guscio spezzato del mio corpo per rivendicarlo come tuo.»
Raistlin si voltò verso suo fratello, e Caramon arretrò di un passo, spaventato dall’odio e dal furore che vide bruciare dentro quegli occhi più luminosi delle fiamme che danzavano nel fuoco.
«Così, aveva pensato di mantenermi debole e fragile. Ma io l’ho combattuto» ripetè Raistlin con voce sommessa e fremente, lo sguardo fisso lontano. «L’ho usato! Ho usato il suo spirito, sono vissuto con il dolore e l’ho vinto! “Tu sei il maestro del passato,” gli ho detto, “ma ti manca la forza per accedere al presente. Io sono il maestro del presente, e sto per diventare il maestro del passato!”»
Raistlin sospirò, lasciò ricadere la mano, la luce tremolò nei suoi occhi e si spense, lasciandoli bui e tormentati. «L’ho ucciso,» mormorò, «ma è stata una battaglia amara.»
«L’hai ucciso? Ma di... dicevano che eri tornato per imparare da lui,» balbettò Caramon. La confusione gli distorceva il viso.
«L’ho fatto,» disse Raistlin con voce sommessa. «Ho passato con lui lunghi mesi sotto altra guisa, rivelandogli la mia vera identità soltanto quando sono stato pronto. E questa volta io l’ho prosciugato!»
Caramon scosse la testa. «È impossibile. Quella notte sei partito alla stessa ora in cui siamo partiti noi... Per lo meno è quello che ha detto l’elfo scuro.»
Raistlin scosse la testa, irritato. «Fratello mio, per te il tempo è un viaggio dall’alba al tramonto. Per quelli di noi, invece, che hanno padroneggiato i segreti, è un viaggio al di là dei soli. I minuti diventano anni, le ore millenni. Sono mesi ormai che percorro questi corridoi come Fistandantilus. Durante queste ultime settimane ho visitato tutte le Torri della Grande Stregoneria, quelle ancora in piedi s’intende, per studiare e imparare. Sono stato con Lorac, nel regno degli elfi, e gli ho insegnato a usare il Globo dei Draghi, un dono micidiale per qualcuno così debole e vano come lui. Più tardi lo intrappolerò. Ho passato lunghe ore insieme ad Astinus nella Grande Biblioteca. E prima ancora ho studiato con il grande Fistandantilus. Ho visitato altri luoghi ancora, vedendo orrori e meraviglie al di là di ogni tua immaginazione. Ma per Dalamar, ad esempio, sono rimasto via soltanto un giorno e una notte. Come per te.»
Ciò andava al di là della comprensione di Caramon. Disperatamente, cercò di aggrapparsi a qualche brandello della realtà.
«Allora... significa forse che stai... bene, adesso? Voglio dire, nel presente? Nel nostro tempo?».
Fece un gesto. «La tua pelle non è più dorata, hai perso quegli occhi a clessidra. Hai l’aspetto che avevi... quand’eri giovane e abbiamo cavalcato fino alla Torre, sette anni or sono. Sarai ancora così quando ritorneremo?»
«No, fratello mio,» rispose Raistlin, parlando con la pazienza che si usa per spiegare le cose a un bambino. «Par-Salian te l’avrà certamente spiegato... o forse no, non l’ha fatto. Il tempo è un fiume. Io non ho cambiato il suo corso. Mi sono semplicemente arrampicato fuori, rituffandomi in un punto più a monte. Mi trasporta con sé. Io...»
Raistlin smise all’improvviso di parlare, lanciando una rapida occhiata alla porta. Poi, con un rapido movimento della mano, la fece spalancare di colpo e Tasslehoff Burrfoot ruzzolò dentro, cadendo per terra a faccia in giù.
«Oh, ciao,» esclamò Tas con allegria, tirandosi su dal pavimento. «Stavo giusto per bussare.»
Spolverandosi, si rivolse a Caramon con entusiasmo. «Ho capito adesso! Vedi, era Fistandantilus che è diventato Raistlin che è diventato Fistandantilus. Soltanto che adesso è Fistandantilus che diventa Raistlin che diventa Fistandantilus, per poi ridiventare Raistlin. Capito?»
No, Caramon non aveva capito. Tas si rivolse al mago. «È giusto, non è vero, Raist...»
Il mago non rispose. Stava fissando Tas con un’espressione così strana e pericolosa negli occhi che il kender si girò a guardare, inquieto, Caramon. Si avvicinò di un passo o due al guerriero, giusto nel caso in cui Caramon avesse avuto bisogno di aiuto, s’intende.
D’un tratto la mano di Raistlin fece un rapido, lieve movimento evocatore. Tasslehoff non avvertì nessuna sensazione di movimento ma per mezzo battito di cuore la stanza si trasformò in una macchia confusa, poi si trovò trattenuto per il colletto a pochi pollici dal volto sottile di Raistlin.
«Perché mai Par-Salian ha mandato te?» chiese il giovane mago con una voce sommessa che fece “tremare” la pelle del kender, come aveva avuto l’abitudine di dire Flint.
«Oh, ha pensato che Caramon avrebbe avuto bisogno di aiuto, naturalmente, e...» Raistlin accentuò la stretta, i suoi occhi divennero due sottili fessure. Tas balbettò: «Uh, in realtà non credo che avesse davvero l’intenzione di mandarmi.» Tas cercò di torcere la testa per guardare Caramon con espressione implorante ma la stretta di Raistlin era forte e potente, e lo stava quasi soffocando. «È... è stato più o meno un incidente, credo, per lo meno per quello che ri... riguardava lui. E pò... potrei parlare meglio se mi lasciassi respirare... ogni tanto.»
«Continua!» gli ordinò Raistlin, dandogli una leggera scrollata.
«Raist, smettila...» cominciò Caramon, facendo un passo verso di lui, corrugando la fronte.
«Chiudi il becco!» gl’intimo Raistlin, furibondo, senza mai distoglieré gli occhi fiammeggianti dal kender. «Continua.»
«C’era... sì, c’era un anello che qualcuno aveva lasciato cadere... be’, forse non era caduto...» balbettò Tas, abbastanza allarmato dall’espressione negli occhi di Raistlin da essere indotto a dire la verità, o per lo meno quella porzione di verità che un kender era in grado di dire. «Cre... credo di essere, in un certo senso, entrato nella stanza di qualcun altro e de... dev’essermi caduto nella borsa, immagino, perché non so come sia privato fin là, ma quando Fu... uomo vestito di rosso ha mandato a casa Bupu, ho saputo che il prossimo sarei stato io. E non potevo abbandonare Caramon! Così, ho... ho detto una preghiera a F... Fizban, voglio dire paladine, e mi sono infilato l’anello e... puff»
Tas alzò le mani, «ero diventato un topo!»
Il kender fece una pausa in quel momento drammatico, sperando in una reazione adeguatamente stupita da parte del suo pubblico. Ma gli occhi di Raistlin non fecero altro che dilatarsi per l’impazienza e la sua mano torse ancora di più il colletto del kender, così Tas si affrettò a continuare, poiché gli riusciva sempre più difficile respirare.
«E così sono stato in grado di nascondermi,» squittì, non diversamen-B dal topo che era stato, «e mi sono intrufolato nel labra... lavaratorio di Par-Salian, e lui stava facendo delle cose bellissime, e le rocce cantavano I Crysania giaceva là per terra, tutta pallida, e Caramon pareva terrorizzato e io non potevo lasciarlo andare da solo, così... così...». Tas scrollò le spalle e guardò Raistlin con disarmante innocenza, «... eccomi qui.»
Raistlin continuò a stringerlo per un po’ ancora, divorandolo con lo sguardo, come se avesse voluto strappargli via la pelle dalle ossa e vedere dentro la sua anima. Poi, in apparenza soddisfatto, il mago lasciò cadere il kender sul pavimento e si voltò a fissare il fuoco. I suoi pensieri vagarono lontano.
«Che cosa significa questo?» mormorò. «Un kender... tutte le regole della magia lo proibiscono! Significa forse che il corso del tempo può venir alterato? Sta dicendo la verità? Oppure è così che progettano di fermarmi?»
«Che hai detto?» chiese Tas, interessato, sollevando lo sguardo mentre sedeva, sul tappeto cercando di riprender fiato. «Il corso del tempo alterato? Da me? Vuoi dire che io potrei...»
Raistlin si girò di scatto fissando il kender con tanta cattiveria che Tas chiuse la bocca e con un moto quasi impercettibile si spostò verso il punto in cui si trovava Caramon.
«Sono rimasto molto sorpreso di trovare tuo fratello. E tu no?» chiese Tas a Caramon, ignorando lo spasimo di dolore che solcava il volto del grosso guerriero. «Anche Raistlin è rimasto sorpreso di vederci, vero? E strano, perché l’avevo visto al mercato degli schiavi e avevo pensato che anche lui ci avesse visto...»
«Il mercato degli schiavi!» esclamò Caramon all’improvviso.
Basta con quei discorsi sui fiumi del tempo... Questo era qualcosa che poteva capire! «Raist... hai detto che sei qui da mesi, questo significa che sei tu colui che ha fatto creder loro che io abbia aggredito Crysania! Sei tu che mi hai comperato! Sei tu che mi hai spedito ai Giochi!»
Raistlin fece un gesto d’impazienza, irritato che i suoi pensieri fossero stati interrotti.
Ma Caramon insistette. «Perché?» volle sapere, con rabbia. «Perché quel posto?»
«Oh, in nome degli dei, Caramon!» Raistlin si voltò di nuovo, con gli occhi gelidi. «Di che utilità potevi mai essermi nelle condizioni in cui ti trovavi quando sei arrivato qui? Io ho bisogno d’un guerriero forte nel luogo in cui stiamo per andare, non di un grassone ubriaco.»
«E... e hai ordinato la morte del Barbaro?» chiese Caramon con occhi lampeggianti. «Hai mandato un avvertimento a come-si-chiama?... a Quarath?»
«Non essere stupido, fratello mio,» replicò Raistlin con voce arcigna. «Cosa m’importa di questi meschini intrighi di corte? Dei loro giochetti insensati? Se volessi sbarazzarmi di un nemico, la sua vita si spegnerebbe nel giro di pochi istanti. Quarath si compiace di credere che io gli dedichi un simile interesse, ma...»
«Ma il nano ha detto...»
«Il nano sente soltanto il suono del denaro che gli vien fatto cadere nel palmo della mano. Ma... credi pure quello che vuoi.» Raistlin scrollò le spalle. «M’importa assai poco.»
Caramon rimase silenzioso per lunghi momenti, riflettendo. Tas aprì la bocca: c’erano almeno cento domande che moriva dalla voglia di fare a Raistlin, ma Caramon lo guardò furibondo e il kender si affrettò a chiuderla. Caramon, ripassando lentamente nel proprio cervello tutto ciò che suo fratello gli aveva detto, sollevò d’un tratto lo sguardo.
«Cosa vuoi dire con “dove stiamo per andare”?»
«Questo è un mio segreto,» rispose Raistlin. «Lo saprai quando verrà il momento, per così dire. Qui il mio lavoro progredisce, ma non è ancora del tutto finito. C’è qualcun altro, qui, che deve venir ammorbidito e riplasmato.»
«Crysania,» mormorò Caramon. «Questo ha qualcosa a che fare con la sfida alla Regina delle Tenebre, vero? Come hanno detto? Ti serve un chierico...»
«Sono molto stanco, fratello mio,» lo interruppe Raistlin. A un suo gesto le fiamme del caminetto scomparvero. A una sua parola, la luce che s’irradiava dal Bastone si spense. L’oscurità scese gelida e desolante sui tre che si trovavano là. Perfino la luce di Solinari era scomparsa, dopo che la luna era affondata dietro gli edifici. Raistlin attraversò la stanza diretto verso il suo letto. Le sue vesti nere frusciarono sommesse. «Lasciatemi al mio riposo. In ogni caso non dovreste rimanere qui troppo a lungo, senza alcun dubbio delle spie avranno già riferito la vostra presenza, e Quarath può essere un nemico mortale. Cercate di evitare di farvi ammazzare. Mi darebbe terribilmente fastidio dover addestrare un’altra guardia del corpo. Addio, fratello mio. Sii pronto. La mia convocazione arriverà presto. Ricorda la data.»
Caramon aprì la bocca, ma si trovò a parlare a una porta. Lui e Tas si trovavano all’esterno del corridoio, adesso immerso nel buio.
«È davvero incredibile!» esclamò il kender, esalando un sospiro deliziato. «Non ho provato la minima sensazione di movimento... e tu? Un istante prima eravamo là, e quello successivo qui. Con un semplice gesto della mano. Dev’essere meraviglioso essere un mago,» concluse Tas con desiderio, fissando la porta chiusa. «Sfrecciare attraverso il tempo e lo spazio e le porte chiuse.»
«Su, vieni,» lo sollecitò Caramon d’un tratto, voltandosi e incamminandosi a grandi passi lungo il corridoio.
«Senti, Caramon,» disse Tas con voce sommessa, correndogli dietro, «Cosa voleva dire Raistlin con “Ricorda la data”? Forse siamo vicini al suo Giorno del Dono della Vita o qualcosa del genere? Gli devi fare un regalo?»
«No,» borbottò Caramon. «Non essere sciocco.» «Non sono sciocco,» protestò Tas, offeso.
«Dopotutto, mancano poche settimane alla Festa dei Reciproci Doni ed è probabile che si aspetti un regalo per allora. Per lo meno, suppongo che la Festa qui a Istar cada negli stessi giorni in cui la celebriamo noi, nel nostro tempo. Tu pensi che...».
Caramon si fermò di colpo.
«Cosa c’è?» chiese Tas, allarmato dall’espressione inorridita sulla faccia dell’omone. Il kender si guardò rapidamente intorno, serrando la mano sull’elsa del piccolo pugnale che portava infilato alla cintura. «Cosa hai visto? Io non...»
«La data!» gridò Caramon. «La data, Tas! La Festa ! A Istar!». giirandosi di scatto, afferrò lo stupefatto kender per il bavero. «Che anno è? Che anno?»
«Diamine... » Tas deglutì a fatica, sforzandosi di pensare. «Credo... sì, qualcuno mi ha detto che era il...»
Caramon gemette, allargò le dita lasciando cadere Tas, e si prese la testa fra le mani.
«Cosa c’è?» chiese Tas.
«Pensa, Tas, pensa!» disse Caramon, con voce soffocata. Poi, stringendosi la testa, infelice, il grosso guerriero avanzò lungo il corridoio alla cieca, nel buio, con passo barcollante. «Che cosa vogliono che faccia? Cosa posso fare?»
Tas lo seguì più lentamente. «Vediamo,» rimuginò tra sé, «siamo ormai alla Festa dei Reciproci Doni dell’anno 962. Un numero così ridicolmente alto. Per qualche motivo mi sembra familiare. La Festa dei: Reciproci Doni, l’anno 962... Oh, sì, adesso ricordo!» esclamò con voce trionfante. «È stata l’ultima Festa dei Reciproci Doni subito prima... subito prima...»
L’improvvisa rivelazione fece mancare il respiro al kender.
«Subito prima del Cataclisma!» bisbigliò.
Capitolo decimo.
Denubis mise giù la penna d’oca e si sfregò gli occhi. Sedeva nella quiete della stanza delle trascrizioni, con la mano sugli occhi, sperando che un breve momento di riposo gli fosse d’aiuto. Ma non servì. Quando aprì gli occhi e strinse la penna d’oca per ricominciare il suo lavoro, le parole che stava cercando di tradurre nuotavano ancora assieme in un guazzabuglio senza senso.
Si rimproverò con severità e ordinò a se stesso di concentrarsi e, alla fine, le parole cominciarono ad acquistare un senso e a disporsi in ordine. Ma era un’impresa ardua. La testa gli faceva male.
Gli sembrava che gli facesse male da giorni, ormai, con un dolore sordo e pulsante che era presente perfino nei suoi sogni.
«Non è strano questo clima?» si disse più volte. «Troppo caldo per l’inizio della stagione della Festa.»
faceva troppo caldo, stranamente caldo. L’aria era densa di umidità, pesante e oppressiva. A quanto pareva, le brezze fresche erano state Inghiottite dal calore. Aveva sentito dire che a Kathay, lontana cento miglia, il mare si stendeva calmo e piatto sotto il sole cocente, talmente calmo che nessuna nave poteva salpare. Erano tutte alla fonda nei porti, con i loro capitani che imprecavano e i carichi che marcivano.
Asciugandosi la fronte, Denubis cercò di continuare a lavorare con diligenza, traducendo i Dischi di Mishakal in solamnico. Ma la sua mente divagava. Le parole gli facevano pensare a una storia che aveva sentito dibattere la sera prima fra alcuni Cavalieri di Solamnia: una storia macabra che Denubis tentava di bandire dalla propria mente.
Un cavaliere chiamato Soth aveva sedotto una giovane chierica elfo e poi l’aveva sposata, portandola nel suo castello di Dargaard Keep come sua moglie. Ma questo Soth era già stato sposato, così avevano detto quei cavalieri, e c’era più d’una ragione per credere che la sua prima moglie avesse fatto una fine orrenda.
I Cavalieri avevano mandato una delegazione per arrestare Soth e pro cessarlo, ma si diceva che adesso Dargaard Keep fosse una fortezza armata: i cavalieri fedeli a Soth difendevano il loro signore. Ciò che rendeva la cosa particolarmente tormentosa era che la donna elfo sedotta dal’ signore era rimasta con lui, salda nel suo amore e nella sua fedeltà verso l’uomo, anche se la sua colpevolezza era stata provata.
Denubis rabbrividì e cercò di bandire il pensiero. Ecco! Aveva commesso un errore. Non c’era niente da fare! Fece per mettere giù di nuovo, la penna d’oca, poi sentì che la porta della stanza delle trascrizioni si apriva. Si affrettò a sollevare la penna d’oca e riprese rapidamente a scrivere.
«Denubis,» disse una voce sommessa ed esitante.
Il chierico sollevò lo sguardo. «Crysania, mia cara,» rispose con un sorriso.
«Sto disturbando il tuo lavoro? Posso ritornare più tardi...»
«No, no,» l’assicurò Denubis. «Sono contento di vederti. Molto contento.» Questo era verissimo.
Crysania riusciva con la sua sola presenza a farlo sentire calmo e tranquillo. Perfino il suo mal di testa pareva attenuarsi. Lasciando lo sgabello dall’alto schienale, cercò una sedia per lei e una per sé, poi si sedette accanto a lei, chiedendosi perché fosse venuta.
Quasi in risposta, Crysania contemplò la stanza tranquilla e pacifica intorno a sé, e sorrise. «Mi piace, qui,» dichiarò. «È così tranquillo e, sì, privato.» Il suo sorriso si affievolì. «Talvolta mi stanco di... d’incontrare così tanta gente,» disse, andando con lo sguardo alla porta che dava accesso alla sezione principale del Tempio.
«Sì, è tranquillo, qui,» convenne Denubis. «Adesso, per lo meno. Non era così gli anni scorsi. Quando sono arrivato qui la prima volta, era pieno di scribi, intenti a tradurre le parole degli dei nelle varie lingue, in modo che tutti potessero leggerle. Ma il Gran Sacerdote non riteneva che questo fosse necessario e uno alla volta se ne sono andati tutti, trovando cose più importanti da fare. Salvo io.» Sospirò. «Sono troppo vecchio, immagino,» aggiunse con gentilezza, scusandosi. «Ho cercato di pensare a qualcosa d’importante da fare, e non ci sono riuscito. Perciò sono rimasto qui. Non pare che la cosa abbia importato a qualcuno... non molto, comunque.»
Non potè fare a meno di accigliarsi un po’, ricordando quelle lunghe discussioni con il Reverendo Figlio Quarath, il quale lo stuzzicava e lo pungolava perché dedicasse se stesso a qualcosa di significativo. Alla fine, il Sommo Chierico aveva rinunciato, dichiarando a Denubis che con lui non c’erano speranze. Così Denubis era tornato al suo lavoro, sedendo giorno dopo giorno in pacifica solitudine, traducendo le pergamene I i tomi, e mandando le traduzioni a Solamnia dove giacevano, senza che nessuno le leggesse, in qualche grande biblioteca.
«Ma basta parlare di me,» aggiunse, vedendo il volto pallido di Crysania. «Cosa succede, mia cara? Non ti senti bene? Perdonami, ma non ho potuto fare a meno di notare come tu sia parsa infelice durante queste ultime settimane.»
Crysania fissò le proprie mani in silenzio, poi risollevò lo sguardo sul chierico. «Denubis,» cominciò a dire, esitante, «tu pensi... pensi che la chiesa sia... quello che dovrebbe essere?»
Non era affatto questo che si era aspettato. Lei aveva più l’aspetto di una giovane ragazza ingannata dal suo amante. «Diamine, certo, mia cara,» rispose Denubis con una certa confusione.
«Davvero?». Crysania lo fissò negli occhi con tanta intensità da indurre Denubis a fare una pausa.
«Tu sei con la chiesa da moltissimo tempo, ? prima dell’avvento del Gran Sacerdote e di Quar... dei suoi ministri. Mi parli dei vecchi tempi. L’hai vista cambiare. E migliore, adesso?»
Denubis aprì la bocca per rispondere che, sì, certamente, era migliore. Come avrebbe potuto essere altrimenti con un uomo buono e santo come il Gran Sacerdote alla sua testa? Ma d’un tratto si rese conto che gli occhi grigi di Dama Crysania guardavano dritti nella sua anima e sentì il loro sguardo scrutatore e penetrante illuminare tutti gli angoli oscuri in cui sapeva di aver nascosto delle cose per anni. Con una sensazione di disagio si sovvenne di Fistandantilus.
«Be’, certo... è soltanto che...» finì per farfugliare. Se ne accorse e Tossendo si azzittì. Crysania annuì con aria grave, come se si fosse aspettata quella risposta.
«No, è meglio,» disse con fermezza, non volendo arrecare guasti alla sua giovane fede com’era capitato alla propria. Si sporse in avanti, prendendole la mano. «Io sono soltanto un vecchio uomo di mezza età, mia cara. E ai vecchi di mezza età non piacciono i cambiamenti. Tutto qui. per noi ogni cosa era migliore ai vecchi tempi. Ebbene,» ridacchiò, «Perfino l’acqua pareva avere un sapore migliore. Non sono abituato ai periodi moderni. Mi riesce difficile capirli. La chiesa sta facendo un sacco di bene, mia cara. Sta portando ordine al paese ed alle strutture della città...»
«Che la società lo voglia o no,» borbottò Crysania, ma Denubis la Ignorò.
«Sta sradicando il male,» continuò, e d’un tratto la storia di quel cavaliere, di quel Lord Soth, gli fluttuò spontanea alla superficie della mente. Si affrettò, frenetico, a sprofondarla, ma non prima di aver perso il filo del discorso. Annaspando, cercò di recuperarlo, ma era troppo tardi.
«Davvero?» gli stava chiedendo Dama Crysania. «Sta sradicando il male? Oppure siamo come bambini lasciati soli a casa di notte, che i< accendono una candela dopo l’altra per tener lontana l’oscurità... Non ci accorgiamo che l’oscurità ha uno scopo, anche se potremmo non essere in grado di capirlo, e così, in preda al nostro terrore, finiamo per bruciare la casa!»
Denubis ammiccò più volte, non riuscendo affatto a capire quelle parole. Ma Crysania continuò, diventando sempre più inquieta a mano a mano che parlava. Era ovvio, si rese conto Denubis a disagio, che se l’era tenuto dentro per settimane.
«Noi non cerchiamo di aiutare quelli che hanno perso la strada a trovarla di nuovo! Noi voltiamo loro la schiena, chiamandoli indegni, oppure ci sbarazziamo di loro! Sai,» si voltò verso Denubis,
«che Quarath ha proposto di eliminare dal mondo le razze degli orchi?»
«Ma, mia cara, dopo tutto gli orchi sono un branco di scellerati assassini...» azzardò Denubis, protestando debolmente.
«Creati dagli dei, proprio come noi,» ribatté Crysania. «Abbiamo forse diritto, nella nostra imperfetta comprensione del grande schema delle cose, di distruggere qualcosa che è stato creato dagli dei?»
«Perfino i ragni?» chiese Denubis malinconico, senza riflettere. Vedendo l’espressione irritata di lei, sorrise. «Non ha importanza. Sono le farneticazioni di un vecchio.»
«Sono venuta qui convinta che la chiesa fosse tutto ciò che c’è di buono e sincero, e adesso... adesso...». Si prese la testa fra le mani.
A Denubis il cuore faceva male tanto quanto la sua testa. Allungando una mano tremante, accarezzò delicatamente i lisci capelli azzurro-neri di lei, confortandola come avrebbe confortato la figlia che non aveva mai avuto.
«Non vergognarti delle tue domande, bambina,» disse, cercando di dimenticare che aveva provato vergogna per la sua. «Vai a parlare al Gran Sacerdote. Risponderà ai tuoi dubbi. Ha molta più saggezza di me.»
Crysania sollevò lo sguardo, speranzosa.
«Tu pensi...»
«Certo,» sorrise Denubis. «Vallo a trovare stasera, mia cara. Terrà udienza. Non aver timore. Domande del genere non lo incolleriscono.» «Molto bene,» fece Crysania con espressione decisa.
«Hai ragione. È stato sciocco da parte mia lottare con me stessa senza aiuto. Lo chiederò al Gran Sacerdote. Certamente potrà trasformare in luce questa tenebra.»
Denubis sorrise, e si alzò in piedi insieme a Crysania. D’impulso, la donna si sporse in avanti e lo baciò con delicatezza sulla guancia. «Grazie, amico mio,» disse con voce sommessa. «Ti lascerò al tuo lavoro.»
Neil’osservarla mentre usciva dalla stanza silenziosa illuminata dalla luce del sole, Denubis provò un improvviso, inesplicabile dolore e, poi, un’immensa paura. Era come se si trovasse in un luogo invaso da una vivida luce e la vedesse incamminarsi verso un’enorme e terribile oscurità. La luce intorno a lui diventava sempre più viva, mentre l’oscurità intorno a lei diventava più orribile, più densa. Confùso, Denubis si portò la mano agli occhi. La luce era reale! Stava entrando a fiotti in quella stanza inondandolo d’una radiosità così brillante e splendida che non riusciva a guardarla. La luce penetrò il suo cervello, il dolore che avvertiva alla testa era lancinante. Ma, pensò disperato, devo avvertire Crysania, devo fermarla...
La luce lo inghiottì, riempiendo la sua anima d’un bagliore accecante. poi, d’un tratto, quella vivida luce scomparve. Si trovava di nuovo nella biblioteca illuminata dal sole. Ma non era solo. Sbattendo le palpebre, cercò subito di abituare i suoi occhi a quella relativa oscurità, si guardò intorno e vide un elfo nella stanza insieme a lui, che lo stava osservando con comprensione. L’elfo era anziano, quasi calvo, con una barba bianca lunga e meticolosamente curata. Indossava lunghe vesti bianche e il medaglione di Paladine gli pendeva dal collo. L’espressione del viso dell’elfo era triste, d’una tristezza così intensa che a Denubis venne voglia di piangere, anche se non aveva nessuna idea del motivo.
«Mi spiace,» disse Denubis con voce rauca. Portandosi la mano alla testa, si rese conto d’un tratto che non gli faceva più male. «Non... non ti avevo visto entrare. Posso fare qualcosa per te? Stai cercando qualcuno?» ; «No, ho trovato colui che cercavo,» replicò l’elfo con calma, ma sempre con la stessa espressione triste, «se tu sei Denubis.»
«Sono Denubis,» rispose il chierico, perplesso. «Ma perdonami, non riesco a ricordare...» I «Il mio nome è Loralon,» disse l’elfo.
A Denubis mancò il fiato. Il più grande dei chierici elfi, Loralon, anni addietro si era opposto all’ascesa al potere di Quarath. Ma Quarath era troppo forte. Forze potenti lo appoggiavano. Le parole di Loralon di riconciliazione e di pace non erano state apprezzate. In preda al dolore il vecchio chierico era ritornato al suo popolo, nella meravigliosa terra di Silvanesti che amava, giurando di non volgere mai più lo sguardo su Istar.
Cosa faceva qui?
«Certamente tu cerchi il Gran Sacerdote,» balbettò Denubis. «Io...»
«No. C’è soltanto una persona in questo Tempio che sto cercando, e quella sei tu, Denubis,» ribadì Loralon. «Adesso, vieni. Ci aspetta un lungo viaggio.»
«Viaggio!» ripetè Denubis, scioccamente, chiedendosi se non stesse impazzendo. «E impossibile, non ho più lasciato Istar da quando sono arrivato qui, trent’anni fa...»
«Vieni, Denubis,» disse Loralon, con gentilezza.
«Dove? Come? Non capisco...» gridò Denubis. Vide Loralon al centro di quella pacifica stanza illuminata dalla luce del sole, che lo osservava, sempre con quell’espressione di profonda, indicibile tristezza. Sollevando una mano, Loralon si toccò il medaglione che portava al collo.
E poi Denubis seppe. Paladine aveva dato al suo chierico la vista interiore... Aveva visto il futuro.
Scosse la testa, sbiancandosi in volto I inorridito.
«No,» bisbigliò. «È troppo orribile.»
«Tutto non è ancora deciso. I piatti della bilancia si stanno inclinando, ma non hanno ancora traboccato. Questo viaggio potrebbe esser breve oppure durare per un periodo incalcolabile. Vieni, Denubis, qui la tua presenza non è più necessaria.»
Il sommo chierico elfo gli tese la mano. Denubis si sentì gratificato da una sensazione di pace e di comprensione che non aveva mai provato prima, perfino in presenza del Gran Sacerdote. Chinando la testa, allungò il braccio e prese la mano di Loralon. Ma, mentre faceva questo, non riuscì a trattenersi dal piangere...
Crysania sedeva in un angolo della sontuosa Sala delle Udienze del Gran Sacerdote, le mani incrociate tranquillamente in grembo, il volto pallido ma composto. Guardandola, nessuno avrebbe intuito il tumulto della sua anima. Nessuno, salvo forse un uomo, che era entrato nella stanza senza essere notato da nessuno e che adesso si trovava nell’ombra di 1 un’alcova e la stava osservando.
Là seduta, ascoltando la voce musicale del Gran Sacerdote, sentendolo discutere d’importanti questioni di stato con i suoi ministri, udendolo passare dalla politica alla soluzione dei grandi misteri dell’universo insieme ad altri ministri, Crysania arrossì al pensiero di aver anche ] soltanto considerato la possibilità di avvicinarlo con le sue insignificanti domande.
Le parole di Elistan le tornarono alla mente: «Non andare da altri per ottenere le risposte. Guarda nel tuo cuore, cerca la tua fede. Troverai le risposte, oppure arriverai a capire che la risposta l’hanno gli dei stessi, e non gli uomini.»
E così Crysania sedeva là, preoccupata per i propri pensieri, scrutando il proprio cuore.
Sfortunatamente la pace che cercava continuava a eluderla, e D’un tratto decise che forse non c’erano risposte alle sue domande. Poi sentì una mano sul braccio. Trasalendo, Crysania levò lo sguardo.
«Ci sono risposte alle tue domande, Reverenda Figlia,» disse una voce ; che trasmise attraverso i suoi nervi un brivido sconvolgente di riconoscimento, «ci sono risposte, ma tu ti rifiuti di ascoltarle.»
Conosceva la voce ma, scrutando ansiosa in mezzo alle ombre del cappuccio, non riuscì a riconoscere il volto. Lanciò un’occhiata alla mano posata sul suo braccio, credendo di conoscere quella mano. Le vesti nere ricadevano intorno alla persona, e il suo cuore dette in un sussulto. Ma non c’erano rune d’argento sulla veste che lui indossava. Ancora una volta fissò quel viso. Tutto quello che riuscì a vedere fu il luccicare di quegli occhi nascosti, la pelle pallida... Poi la mano lasciò il suo braccio e. sollevandosi, rovesciò all’indietro la parte anteriore del cappuccio.
Dapprima Crysania provò un amaro disappunto. Gli occhi del giovane non erano dorati, né avevano quella forma di clessidra che era diventata il suo simbolo. La pelle non era tinta d’oro, il volto non era fragile e malaticcio. Il volto di quell’uomo era pallido, come avrebbe potuto essere dopo ore di studio, ma era sano, perfino bello, salvo per quell’espressione di amaro e perpetuo cinismo. Gli occhi erano castani, limpidi e caldi come il vetro, riflettendo tutto quello che vedevano, senza rivelare niente di ciò che c’era dietro. Il corpo dell’uomo era snello ma muscoloso. Le vesti nere, disadorne che indossava rivelavano i contorni di un paio di spalle robuste, non la struttura curva e infranta del mago. E poi l’uomo sorrise e le sue labbra sottili si dischiusero.
«Sei tu!» alitò Crysania, balzando in piedi.
L’uomo le appoggiò una mano sulla spalla, esercitando una lieve pressione che la costrinse a riprendere posto sulla sedia. «Per favore, rimani seduta, Reverenda Figlia,» le disse. «Mi siederò con te. Qui c’è quiete, e potremo parlare senza essere interrotti.» Voltandosi, fece un gesto aggraziato e tutt’ad un tratto una sedia che si era trovata sul lato opposto della stanza comparve accanto a lui. Crysania cacciò un lieve singulto e lanciò un’occhiata intorno a sé. Ma se qualcun altro aveva notato la scena, ma tutti si davano da fare per ignorare il mago. Crysania si voltò e vide Raistlin che la stava osservando divertito, e sentì una vampa di calore sulla pelle.
«Raistlin,» disse con voce priva d’espressione, per celare la sua confusione, «sono contenta di vederti.»
«Ed io sono contento di vedere te, Reverenda Figlia,» lui rispose, con quella voce beffarda che le dava sui nervi. «Ma non mi chiamo Raistlin.»
Crysania lo fissò, adesso arrossendo ancora di più per l’imbarazzo. «Perdonami,» disse, scrutando con attenzione il suo viso, «ma mi ricordi moltissimo qualcuno che conosco... che conoscevo una volta.»
«Forse questo chiarirà il mistero,» disse lui con voce sommessa. «Per quelli che ci circondano, il mio nome è Fistandantilus.»
Crysania rabbrividì involontariamente, le luci nella sala parvero oscurarsi per un attimo. «No,» disse scuotendo lentamente la testa, «non può essere! Sei tornato indietro... per imparare da lui!»
«Sono tornato indietro per diventare lui,» rispose Raistlin.
«Ma... ho sentito raccontare delle storie. È malvagio, immondo...». Si ritrasse da Raistlin, fissandolo inorridita.
«Il malvagio non c’è più,» rispose Raistlin. «È morto.»
«Tu?» La parola fu un bisbiglio.
«Mi avrebbe ucciso, Crysania,» rispose Raistlin con semplicità, «così come aveva assassinato innumerevoli altri. Si trattava della mia vita o della sua.»
«Abbiamo scambiato un male con un altro,» replicò Crysania, in tono triste e disperato. Gli voltò le spalle.
Raistlin si rese subito conto che la stava perdendo. La fissò in silenzio. Crysania si era spostata sulla sedia, girando il viso altrove. Poteva vedere il suo profilo, freddo e puro come la luce di Solinari. La studiò con freddezza, proprio come studiava i piccoli animali che capitavano sotto il suo coltello quando sondava i segreti della vita stessa. Proprio come li scuoiava della loro pelle per vedere il cuore che pulsava sotto, così scuoiò j mentalmente Dama Crysania delle sue difese esterne per vedere la sua anima.
«Fistandantilus aveva in mente di venire nel nostro tempo per uccidermi, occupare il mìo corpo e riprendere l’opera là dove la Regina delle Tenebre l’aveva lasciata in sospeso. Aveva in mente di portare sotto il suo controllo i draghi malvagi. I Signori dei Draghi, come mia sorella Kitiara, sarebbero accorsi sotto il suo stendardo. Il mondo sarebbe piombato un’altra volta nella guerra.»
Raistlin fece una pausa. «Adesso la minaccia non c’è più,» disse con voce sommessa.
I suoi occhi imprigionavano Crysania proprio come la sua mano le imprigionava il polso.
Guardando dentro di essi, Crysania si vide riflessa nella loro superficie a specchio. E vide se stessa non come il chierico pallido, severo e studioso come si era sentita definire più di una volta, ma come qualcosa di bello e desiderabile. Quell’uomo era venuto da lei fiducioso, e lei l’aveva deluso.
Il dolore nella sua voce era insopportabile, e Crysania cercò ancora una volta di parlare, ma Raistlin continuò, attirandola ancora più vicina:
«Tu conosci le mie ambizioni,» le disse. «A te ho aperto il mio cuore. È forse mia intenzione rinnovare la guerra? E forse mio desiderio conquistare il mondo? Mia sorella Kitiara è venuta da me a chiedermi proprio questo, a cercare il mio aiuto. Ho rifiutato e tu, temo, ne hai pagato le conseguenze.» Raistlin sospirò e abbassò gli occhi. «Le avevo parlato di te, Crysania, della tua bontà e del tuo potere. Si è incollerita e ha mandato il suo cavaliere della morte a ucciderti, pensando così di porre fine alla tua influenza su di me.»
«Allora, io ho influenza su di te?» chiese Crysania con voce sommessa, senza più cercare di liberarsi dalla stretta di Raistlin. La sua voce tremava di gioia. «Posso sperare che tu abbia visto le vie della chiesa e...» «Le vie di questa chiesa?» chiese Raistlin. La sua voce era di nuovo amara e beffarda. Ritirando d’un tratto la mano, si appoggiò allo schienale della sedia, raccogliendo le vesti nere intorno a sé e fissando Crysania con un sorriso di scherno.
L’imbarazzo, la rabbia e un senso di colpa chiazzavano le guance di’ Crysania d’un rosso pallido. I suoi occhi grigi si oscurarono fino a diventare d’un azzurro profondo. Il colore delle sue guance si diffuse alle labbra, e all’improvviso fu bella, qualcosa che Raistlin osservò senza volerlo. Il pensiero lo infastidì oltre ogni limite, minacciando di sconvolgere la sua concentrazione. Lo respinse irritato.
«Conosco i tuoi dubbi, Crysania,» continuò d’un tratto. «So quello che hai visto. Hai scoperto che la chiesa, si occupa molto più della gestione del mondo piuttosto che indicare la via degli dei. Hai visto i suoi chierici fare il doppio gioco, darsi alla politica, spendere soldi per esibirsi quando avrebbero potuto impiegarli per i poveri. Hai pensato di ristabilire il primato della Chiesa quando fossi tornata, per scoprire invece che altri avevano indotto gli dei a scagliare, nella loro giusta collera, su coloro che li avevano abbandonati!, la montagna di fuoco. Avevi cercato di darne la colpa... ai fruitori di magia, forse.»
Il rossore di Crysania divenne più intenso, non riusciva più a guardarlo e. rivolse il volto altrove, ma la sua pena e la sua umiliazione erano ovvie.
Raistlin continuò senza pietà. «Il tempo del Cataclisma si avvicina, già i veri chierici hanno lasciato il paese... Sì, non lo sapevi? Il tuo amico Denubis se n’è andato. Tu, Crysania, sei l’unico vero chierico rimasto nel paese.»
Crysania fissò Raistlin sbigottita. «È... è impossibile,» bisbigliò. lanciò un’occhiata alla sala intorno a sé. E per la prima volta riuscì a sentire le conversazioni di quelli che avevano formato capannelli lontano dal gran Sacerdote. Sentì parlare dei Giochi, sentì discussioni sulla distribuzione dei fondi pubblici, l’instradamento degli eserciti, i modi migliori per riportare sotto controllo una nazione ribelle, tutto nel nome della chiesa.
E poi, come per soffocare le altre voci aspre, la voce dolce e musicale del Gran Sacerdote si gonfiò nella sua anima, calmando il suo spirito turbato. Il Gran Sacerdote era ancora là. Voltando le spalle alla tenebra, guardò verso la sua luce e sentì la sua fede ancora una volta forte e pura che si levava per difenderla. Freddamente riportò lo sguardo su Raistlin.
«C’è ancora bontà nel mondo,» disse severa. Alzandosi in piedi, fece per andarsene. «Fintanto che quel sant’uomo, di sicuro benedetto dagli dei, governa, non posso credere che gli dei abbiano scatenato la loro collera contro la chiesa. Diciamo piuttosto che è stato contro il mondo, per aver ignorato la chiesa,» continuò, con voce bassa e appassionata. Anche Raistlin si era alzato e, tenendole gli occhi puntati addosso, le si avvicinò di più.
Lei non parve accorgersene, ma continuò: «O per aver ignorato il Gran Sacerdote! Deve averlo previsto! Forse perfino in questo momento sta tentando di prevenirlo! Implorando gli dei di aver pietà!»
«Guarda quell’uomo,» bisbigliò Raistlin, «... quell’uomo “benedetto” dagli dei.» Tendendo un braccio, il mago prese Crysania tra le sue forti mani e la costrinse a guardare il Gran Sacerdote. Sopraffatta da un senso di colpa per aver dubitato e arrabbiata con se stessa per aver imprudentemente permesso a Raistlin di vedere dentro di lei, Crysania tentò con rabbia di liberarsi dalla sua presa, ma lui la strinse con fermezza, bruciandole la pelle con le dita.
«Guarda!» ripetè Raistlin. Scuotendola leggermente, le fece sollevare la testa così da obbligarla ad appuntare il suo sguardo direttamente nella luce e nella gloria che circondavano il Gran Sacerdote.
Raistlin sentì il corpo che teneva così stretto al suo che cominciava a tremare, e sorrise soddisfatto.
Avvicinando a Crysania la sua testa avvolta nel cappuccio nero, le bisbigliò all’orecchio, mentre l’alito le accarezzava la guancia:
«Cosa vedi, Reverenda Figlia?»
L’unica risposta che ricevette fu un lamento straziante.
Il sorriso di Raistlin si accentuò. «Dimmelo,» insistè.
«Un uomo,» balbettò Crysania, tenendo il suo sguardo appuntato sul Gran Sacerdote. «Soltanto un uomo... umano. Sembra stanco e... e spaventato. Ha la pelle floscia. Sono molte notti che non dorme. I suoi pallidi occhi azzurri guizzano qua e là in preda alla paura...». D’un tratto si rese conto di ciò che aveva detto. Acutamente conscia della vicinanza di Raistlin, del calore e della sensazione che emanavano da quel forte corpo muscoloso sotto le morbide vesti nere, Crysania si liberò dalla sua stretta.
«Che razza d’incantesimo è questo che mi hai lanciato?» chiese con rabbia, voltandosi per affrontarlo.
«Nessun incantesimo, Reverenda Figlia,» rispose Raistlin, con calma. «Ho invece spezzato l’incantesimo che egli intesse intorno a sé per la paura che prova. È quella paura che causerà la sua rovina e porterà la distruzione sul mondo.»
Crysania fissò Raistlin con occhi spiritati. Voleva che mentisse. Voleva fermamente che mentisse.
Ma poi si rese conto che, anche se stava mentendo, la cosa non aveva importanza. Lei non poteva più mentire a se stessa.
Confusa, spaventata e sconcertata, Crysania si girò e, semiaccecata dalle lacrime, corse fuori dalla Sala delle Udienze.
Raistlin la seguì con lo sguardo, senza provare né esultanza né soddisfazione per quella sua vittoria.
Dopotutto, non era niente di più di quanto si era aspettato.
Tornando a sedersi accanto al fuoco, scelse un’arancia da una fruttiera su un tavolo e la sbucciò con noncuranza fissando pensieroso le fiamme.
Un’altra persona nella stanza aveva osservato Crysania che fuggiva dalla Sala delle Udienze. E ora osservò Raistlin che mangiava l’arancia, prima succhiandone il sugo per poi divorarne la polpa.
Con il volto pallido per la rabbia che lottava con la paura, Quarath lasciò la Sala delle Udienze e fece ritorno nella sua stanza dove camminò nervosamente avanti ed indietro fino all’alba.
Capitolo undicesimo.
La notte durante la quale i veri chierici lasciarono
Krynn divenne poi nota nella storia scritta come la Notte del Giudizio. Dove fossero andati e quale fosse stato il loro destino, non lo riferisce neppure Astinus. Qualcuno dice che sono stati vistitrecento anni più tardi durante i giorni amari e desolati della Guerra delle Lance. Ci sono molti elfi pronti a giurare su tutto ciò che hanno di più caro che Loralon, il più grande e devoto dei chierici elfi, abbia percorso le terre torturate di Silvanesti piangendone la caduta e benedicendo gli sforzi di coloro che avevano dedicato se stessi alla sua ricostruzione.
Ma per la maggior parte degli abitanti di Krynn, la dipartita dei veri chierici passò inosservata. Però quella notte si rivelò per altri, e in molti modi, la Notte del Giudizio.
Crysania fuggì dalla Sala delle Udienze del Gran Sacerdote in preda alla confusione e alla paura.
La sua confusione era facilmente spiegabile. Aveva visto la più grande delle creature, il Gran Sacerdote, l’uomo che perfino i chierici della sua epoca riverivano ancora, ridotto a un essere umano intimorito della sua ombra, un umano che si nascondeva dietro agli incantesimi e lasciava che altri governassero per lui. Tutti i dubbi e le apprensioni che aveva sviluppato dentro di sé sulla sua azione e il destino di Krynn erano tornati. In quanto a ciò che temeva, questo non poteva o non voleva definirlo.
In un primo momento, dopo aver lasciato la sala, andò avanti alla cieca, incespicando, senza una chiara idea di dove stesse andando, o di quello che stava facendo. Poi, cercò rifugio in un angolo, si asciugò le lacrime e si ricompose. Vergognandosi della sua momentanea perdita di controllo, seppe subito quello che doveva fare.
Doveva trovare Denubis. Avrebbe dimostrato che Raistlin si era sbagliato. Percorrendo i corridoi vuoti, rischiarati dalla luce morente di Lunitari, Crysania si recò nella stanza di Denubis. Quella storia dei chierici i che scomparivano non poteva esser vera. In realtà, Crysania non avrebbe in seguito creduto alle antiche leggende della Notte del giudizio... le considerava storielle per bambini. Ora, tornata nel passato, negava ancora di crederci. Raistlin doveva essersi... sbagliato.
Si affrettò a proseguire senza fermarsi, conoscendo bene la strada. Aveva fatto visita a Denubis nella sua stanza parecchie volte per discutere di teologia o di storia, o per ascoltare i racconti della sua terra natia. bussò alla porta.
Non vi fu risposta.
«Sta dormendo,» si disse Crysania, irretita dal brivido improvviso che scuoteva il suo corpo.
«Certo, è passata l’ora della Veglia Profonda. Tornerò domattina.»
Ma bussò di nuovo, e perfino chiamò con voce sommessa: «Denubis.»
Ancora nessuna risposta.
«Tornerò. Dopotutto sono passate soltanto poche ore da quando l’ho visto,» si disse di nuovo, ma trovò la propria mano sulla maniglia, intenta ad abbassarla con delicatezza. «Denubis?» bisbigliò, con il cuore che le balzava in gola. La stanza era buia: dava su un cortile interno, per cui non lasciava filtrare niente del chiarore della luna. Per un attimo, Crysania sentì venir meno la sua forza di volontà. «E ridicolo!» si rimproverò, già immaginando l’imbarazzo di Denubis e il proprio se l’uomo si fosse svegliato sorprendendola a strisciare nella sua camera da letto in piena notte.
Crysania spalancò la porta con un movimento deciso, lasciando che la luce delle torce nel corridoio illuminasse la piccola stanza. Era proprio come l’aveva lasciata: ordinata, pulita e... vuota. Be’, non vuota del tutto. I libri di Denubis, le sue penne d’oca, perfino i suoi indumenti erano ancora là, come se fosse uscito soltanto per pochi minuti, con l’intenzione di tornare subito. Ma lo spirito della stanza non c’era più, l’aveva lasciata fredda e vuota, con il letto ancora fatto.
Per un attimo, le luci del corridoio si offuscarono davanti agli occhi di Crysania. Sentì le gambe che le s’indebolivano e si appoggiò contro la porta. Poi, come pochi istanti prima, si costrinse ad essere calma, a pensare razionalmente. Con fermezza chiuse la porta, e con fermezza ancora maggiore s’indusse a percorrere i corridoi addormentati verso la propria stanza.
Molto bene, la Notte del Giudizio era giunta. I veri chierici se n’erano andati. Era quasi il giorno della Festa dei Reciproci Doni. Tredici giorni dopo la Festa, il Cataclisma si sarebbe abbattuto.
Questo pensiero la costrinse ad arrestarsi. Sentendosi debole e sofferente, si appoggiò a una finestra e fissò l’interno di un giardino inondato dal bianco bagliore della luna senza nulla vedere. Così, quella era la fine dei suoi piani, dei suoi sogni dei suoi obbiettivi. Sarebbe stata costretta a far ritorno al proprio tempo senza poter riferire nulla se non un desolante fallimento.
L’argenteo giardino ondeggiò alla sua vista. Aveva trovato una chiesa corrotta, col Gran Sacerdote in apparenza responsabile della terribile distruzione del mondo. Aveva perfino fallito nella sua originaria convinzione di sottrarre Raistlin alle pieghe della tenebra. Raistlin non l’avrebbe mai ascoltata. Era probabile che in quel preciso momento stesse facendosi beffe di lei...
«Reverenda Figlia?» le giunse una voce.
Asciugandosi in fretta gli occhi, Crysania si voltò. «Chi è?» Chiamò, cercando di schiarirsi la gola.
Fissò il buio, poi trattenne il respiro quando una figura ammantata emerse dalle ombre. Non riuscì a parlare.
La voce le venne meno.
«Raistlin!» Esclamò. «Ero diretto alle mie stanze quando ti ho visto qui, immobile,» le disse la voce, e non rideva né la dileggiava. Era fredda e venata di cinismo, ma aveva una strana qualità, una sorta d, calore che faceva tremare
«Spero che tu non stia male,» disse Raistlin, avvicinandosi. Non poteva distinguere il suo volto nascosto dalle ombre del tenebroso cappuccio Ma poteva vedere i suoi occhi che luccicavano limpidi e freddi alla luce della luna. «No,» mormorò Crysania, confusa, e girò altrove il viso, sperando ardentemente che ogni traccia delle sue lacrime fosse scomparsa. Ma servì a ben poco. La stanchezza, la tensione e le sue stesse debolezze la sopraffecero. Malgrado cercasse disperatamente di controllarle, le laccrime le sgorgarono un’altra volta, scendendole lungo le guance
«Vai via, per favore,» disse, serrando gli occhi ed inghiottendo le lacrime come un’amara medicina. Sentì un calore avvilupparla e la morbidezza delle vesti di velluto nero sfiorarle il braccio nudo. Sentì il dolce profumo delle spezie e dei petali di rosa e un vago olezzo appiccicoso di putrefazione: forse ali di pipistrello o il cranio di qualche animale, quelle cose misteriose di cui i maghi si servivano per lanciare i loro incantesimi. E poi sentì una mano , toccarle la guancia, dita sottili, sensibili e forti e ardenti di quello strano calore.
Crysania non fu certa se fossero state le dita ad asciugarle le lacrime o se queste non si fossero disseccate al loro calore bruciante. Poi le mani sollevarono con delicatezza il suo mento e girarono la testa lontano dal chiarore della luna. Crysania non riusciva a respirare, il battito del cuore la soffocava. Tenne gli occhi chiusi, temendo quello che avrebbe potuto vedere. Ma poteva sentire il corpo snello di Raistlin, duro sotto le vesti morbide, premerle addosso. Poteva percepire quel terribile calore
Crysania volle d’un tratto che quell’oscurità l’avvolgesse, la nascondesse e la confortasse. Voleva che quel calore bruciasse via il gelo che era dentro di lei. Bramosa, alzò le braccia e protese le mani... e Raistlin non c’era più. Potè udire il fruscio delle sue vesti che si allontanava nel silenzio del corridoio.
Sorpresa, Crysania aprì gli occhi. Poi, piangendo di nuovo, premette la guancia contro il freddo vetro. Ma queste erano lacrime di gioia.
«Paladine!» bisbigliò sommesso, «grazie. La mia via, ora, è spianata. Non fallirò.»
Una figura abbigliata di scuro si aggirava furtiva per i corridoi del Tempio. E quelli che l’incontravano si ritraevano in preda al terrore... si ritraevano davanti a qualcosa che poteva venir percepito, se non visto, su quel volto incappucciato. Infine Raistlin entrò nel proprio corridoio deserto, colpì impetuosamente la porta della sua stanza al punto quasi da infrangerla, e fece guizzare le fiamme nel caminetto con niente di più di un’occhiata. Il fuoco ruggì su per il camino e Raistlin prese a camminare avanti e indietro, lanciando imprecazioni contro se stesso, fino a quando non fu troppo stanco. Allora si lasciò cadere su una sedia e fissò il fuoco con sguardo febbricitante.
«Sciocco,» ripetè più volte. «Questo avrei dovuto prevederlo!». Serrò il pugno. «Avrei dovuto saperlo. Questo corpo, malgrado tutta la sua forza, ha la più grande debolezza nota all’umanità. Non importa quanto sia intelligente e disciplinata la mente, quanto siano controllate le emozioni, quello aspetta tra le ombre come una grande bestia, pronta a balzar fuori e a prendere il sopravvento.»
Ringhiò per la rabbia e si affondò le unghie nel palmo della mano fino a quando non ne sprizzò il sangue. «Posso ancora vederla! Posso vedere la sua pelle color avorio, le sue labbra pallide e morbide. Posso sentire l’odore dei suoi capelli, percepire le dolci curve del suo corpo accanto al mio! No!». Fu un vero, autentico urlo acuto. «Questo non deve succedere, non bisogna permettere che succeda! O forse...». Un pensiero. «E se la seducessi? Questo non la porrebbe ancora di più in mio potere?». Il pensiero era più che tentatore e causò un tale impeto di desiderio al giovane che tutto il suo corpo fu scosso da un tremito.
Ma la parte fredda, logica e calcolatrice della mente di Raistlin prese il sopravvento. «Cosa ne sai, tu, dell’arte di fare all’amore?» si chiese, con una risata di scherno. «Cosa ne sai della seduzione? In questo sei un bambino, più stupido di quella mostruosità di tuo fratello.»
I ricordi della sua giovinezza gli irruppero nella memoria come un’inondazione. Fragile e malaticcio, famoso per il suo mordace sarcasmo e per i suoi modi sornioni, Raistlin non aveva certo mai attirato l’attenzione delle donne, non come il suo aitante fratello. Immerso nei suoi studi di magia, ossessionato da essi, non aveva sentito molto quella perdita. Oh, una volta aveva sperimentato. Una delle ragazze di Caramon, annoiata dalle facili conquiste, aveva pensato che il gemello dell’omone avrebbe potuto rivelarsi più interessante. Pungolato dalle frecciate di suo fratello e dei suoi compagni, Raistlin aveva ceduto alla sua grossolana seduzione. Era stata un’esperienza deludente per entrambi. La ragazza era tornata con gratitudine fra le braccia di Caramon. Per Raistlin era stata la semplice dimostrazione di ciò che aveva sempre sospettato, che la vera estasi si trovava soltanto nella sua magia.
Ma questo corpo, più giovane, più forte, più simile a quello di suo fratello, ardeva di una passione che non aveva mai provato prima. Eppure non poteva cedere ad essa. «Finirei per distruggere me stesso.» Questo lui lo capiva con gelida chiarezza. «E, lungi dal favorire il mio obbiettivo, potrei benissimo danneggiarlo. Lei è vergine, pura nella mente e nel corpo. Quella purezza è la sua forza. Mi serve appannata, ma mi serve intatta.»
Avendo deciso questo con estrema fermezza e avendo una lunga esperienza nell’esercitare il più rigido controllo mentale sulle sue emozioni, il giovane mago si rilassò e tornò a prender posto sulla sua sedia, lasciando che la stanchezza lo invadesse. Col fuoco ormai morente nel camino, i suoi occhi si chiusero nel riposo che avrebbe restaurato il suo potere infiacchito.
Ma prima di cadere nel sonno, sempre là, seduto, vide ancora una volta, con non voluta vivezza, una singola lacrima che luccicava nel chiarore lunare.
La Notte del Giudizio continuò. Un accolito venne svegliato dal sonno profondo, con l’ordine di presentarsi a Quarath. Trovò il chierico elfo seduto nelle sue stanze.
«Mi hai mandato a chiamare, mio signore?» chiese l’accolito, sforzandosi di soffocare uno sbadiglio. Appariva assonnato, e le sue vesti erano spiegazzate. Addirittura, nella fretta di rispondere alla convocazione, si era infilato gli indumenti alla rovescia.
«Qual è il significato di questo rapporto?» volle sapere Quarath, battendo la mano su un pezzo di carta sulla scrivania.
L’accolito si chinò per guardar meglio, sfregandosi via il sonno dagli occhi quel tanto che bastava a rendergli comprensibile la scrittura.
«Oh, quello,» annuì un istante dopo. «Proprio quello che dice, mio signore.»
«Che Fistandantilus non è responsabile della morte del mio schiavo? Trovo molto difficile crederlo.»
«Nondimeno, mio signore, puoi interrogare tu stesso il nano. Ha confessato, dopo una grande dose di persuasione pecuniaria, di essere stato in realtà assoldato dal signore citato qui, il quale, a quanto pare, si è molto irritato per l’esproprio, da parte della chiesa, delle sue proprietà alla periferia della città.»
«So ben io quanto lo irrita!» esclamò Quarath. «Far uccidere il mio schiavo non sarebbe proprio tipico di Onygion, non è così subdolo e spregevole da non affrontarmi a faccia a faccia.»
Quarath rimase seduto, pensieroso. «Allora, perché mai il fallo commesso da quel grosso schiavo?» chiese d’un tratto, scoccando all’accolito un’occhiata d’intesa.
«Il nano ha dichiarato che si è trattato di qualcosa deciso in privato li,tra lui e Fistandantilus. A quanto pare, il primo lavoro di questa natura che si fosse presentato, andava affidato a quello schiavo, Caramon.»
«Questo non sta scritto nel rapporto,» disse Quarath, fissando il giovane con severità.
«No,» ammise l’accolito, arrossendo. «Non... non mi piace affatto mettere per iscritto qualcosa sui... fruitori di magia. Qualunque cosa del genere, dove possa essere letta...»
«No. Immagino di non poterti biasimare,» borbottò Quarath. «Molto bene, puoi andare.»
L’accolito annuì, fece un inchino, e tornò riconoscente al suo letto. Quarath, invece, non si coricò per molte ore ancora, ma rimase seduto nel suo studio, esaminando e riesaminando il rapporto. Poi sospirò. «Sto peggiorando come il Gran Sacerdote, sussultando alla vista di ombre che non ci sono. Se Fistandantilus avesse voluto sbarazzarsi di me, avrebbe potuto farlo nel giro di pochi istanti. Avrei dovuto rendermi conto che questo non è il suo stile.» Alla fine si alzò in piedi. «Comunque, era insieme a lei, stanotte. Mi chiedo cosa questo significhi... Forse niente. Certamente il corpo nel quale è comparso questa volta è assai migliore di quelli che di solito ripesca.»
L’elfo esibì un truce sorriso mentre metteva ordine sul suo tavolo e metteva via con cura il rapporto. «La Festa è alle porte. Tornerò a occuparmi di questa faccenda solo quando sarà finita la stagione delle vacanze. Dopotutto, si sta avvicinando in fretta il momento in cui il Gran Sacerdote si appellerà agli dei perché sradichino tutto il male dalla faccia di Krynn. Ciò spazzerà via questo Fistandantilus e tutti i suoi seguaci, facendoli ripiombare nella tenebra che li ha generati.»
Sbadigliò e si stiracchiò. «Ma prima mi occuperò di Lord Onygion.»
La Notte del Giudizio era quasi finita. Il mattino illuminava il cielo mentre Caramon giaceva nella sua cella, fissando la luce grigia. Domani ci sarebbe stato un altro Gioco, il suo primo dopo l’«incidente».
La vita non era stata piacevole per il grosso guerriero durante quegli ultimi giorni. Esteriormente niente era cambiato. Gli altri gladiatori erano per la maggior parte coriacei veterani, da lungo tempo abituati alla vita dei Giochi.
«Non è un brutto sistema,» aveva detto Pheragas con una scrollata di spalle quando Caramon l’aveva affrontato il giorno del suo ritorno dal
Tempio. «Certo, è assai meglio così che vedere migliaia di uomini che si i ammazzano sui campi di battaglia. Qui, se un nobile si ritiene offeso da un altro, la faida viene regolata segretamente, in privato, con soddisfazione di tutti.»
«Salvo per l’innocente che muore per una causa che non gl’interessa o non capisce!» aveva replicato Caramon con rabbia.
«Non essere così bambino!» aveva sbuffato Kiiri, intenta a lucidare uno dei suoi pugnali retrattili.
«A quanto hai raccontato, tu stesso hai lavorato anche come mercenario. Allora capivi, o t’importava delle cause per le quali combattevi? Non combattevi e uccidevi perché eri pagato bene? Avresti combattuto se non ti avessero pagato? Non vedo la differenza.»
«La differenza è che avevo una scelta!» aveva risposto Caramon, accigliandosi. «E conoscevo la causa per la quale combattevo! Non avrei mai combattuto per qualcuno che, stando alle mie convinzioni, non fosse stato nel giusto! Non importava quanto mi avessero pagato! Mio fratello la pensava allo stesso modo. Lui ed io...». D’un tratto Caramon si era zittito.
Kiiri lo aveva guardato in modo strano, poi aveva scosso la testa con i un sogghigno. «Inoltre,» aveva aggiunto, in tono disinvolto, «aggiunge un 1 sapore piccante... una punta di vera tensione. D’ora in avanti combatterai i meglio, vedrai.»
Ripensando a quella conversazione mentre giaceva lì nel buio, Caramon cercò di ragionare a fondo, nella sua maniera lenta e metodica. | Forse Kiiri e Pheragas avevano ragione. Forse lui si comportava proprio da bambino, mettendosi a piangere perché il giocattolo lucente col quale gli era piaciuto trastullarsi l’aveva d’un tratto tagliato. Ma, riesaminando la cosa da ogni angolo possibile, non riusciva ancora a credere di aver torto. Un uomo meritava una scelta, meritava di poter scegliere il proprio modo di vivere, il proprio modo di morire. Nessun altro aveva il diritto di decidere questo per lui.
E poi, a quella luce antelucana, un peso schiacciante parve abbattersi su Caramon. Si rizzò a sedere, appoggiato a un gomito, fissando, senza I vederla, la cella grigia. Se questo era vero, se ogni uomo meritava una scelta, allora, com’era la questione con suo fratello? Raistlin aveva fatto una scelta, quella di percorrere le strade della tenebra invece che quelle della luce. Caramon aveva il diritto di strappar via suo fratello da quei I sentieri?
La sua mente riandò a quei giorni che senza volerlo aveva richiamato alla memoria parlando con Kiiri e Pheragas, quei giorni immediatamente precedenti la Prova, quei giorni che erano stati i più felici della sua vita, i giorni in cui aveva lavorato come mercenario insieme a suo fratello.
Avevano combattuto bene insieme ed erano stati sempre bene, accolti dai nobili. Malgrado i guerrieri fossero comuni quanto le foglie degli alberi, i fruitori di magia che potevano, ed erano disposti a partecipare a Un combattimento, erano tutt’altra cosa. Nonostante non pochi nobili si fossero mostrati un po’ dubbiosi davanti all’aspetto fragile e malaticcio di Raistlin, ben presto erano rimasti colpiti dal suo coraggio e dalla sua parità. I due fratelli venivano pagati bene e ben presto erano stati molto richiesti. Ma avevano sempre scelto con cura la causa per la quale combattere.
«Quella era opera di Raistlin,» bisbigliò Caramon fra sé con nostalgia, io avrei combattuto per chiunque, la causa m’importava assai poco. Ma Raistlin insisteva a dire che la causa doveva essere giusta. Abbiamo rinunciato a più d’un lavoro perché lui diceva che riguardava un uomo forte che cercava di diventare più forte divorandone altri...»
«Sì, quella era opera di Raistlin!» ripetè Caramon con voce sommessa, fissando il soffitto. «... Oppure non E appunto questo, come dicono i fruitori di magia, che lui sta facendo. Ma posso fidarmi di loro? È stato Par-Salian a coinvolgerlo, lo ha ammesso lui stesso! Raistlin ha liberato Il mondo da quella creatura, Fistandantilus. A detta di tutti è un’ottima cosa. E Raist mi ha detto di non aver avuto nulla a che fare con la morte del Barbaro. Così, in realtà, non ha fatto niente di male. Forse l’abbiamo giudicato male... Forse noi non abbiamo nessun diritto di tentare di costringerlo a cambiare...»
Caramon sospirò. «Cosa posso fare?»
Chiuse gli occhi, in preda a una disperata stanchezza, e infine si addormentò... e ben presto il profumo delle focaccine appena sfornate gli riempi la mente.
Il sole sfolgorò nel cielo. La Notte del Giudizio terminò. Tasslehoff si alzò dal suo letto, salutando con foga il nuovo giorno, e decise che lui, Personalmente, avrebbe fermato il Cataclisma.
Capitolo dodicesimo.
«Alterare il tempo!» esclamò Tasslehoff, in tono deciso, scivolando furtivo oltre il muro del giardino che circondava l’area sacra del tempio e lasciandosi cadere, atterrando infine in un’aiuola.
Alcuni chierici stavano camminando nel giardino, intenti a conversare fra loro dei giorni lieti e vivaci dell’imminente! Festa dei Reciproci Doni. Piuttosto che interrompere la loro conversazione, Tas fece quello che giudicò una cortesia e si appiattì tra i fiori fino a quando non si furono allontanati, anche se ciò significava sporcare i suoi gambali azzurri.
Era piuttosto piacevole giacere in mezzo alle rose rosse della Festa, così chiamate perché crescevano soltanto in quella stagione. Il clima era caldo, troppo caldo, diceva la maggior parte della gente. Tas sogghignò!» Vatti a fidare degli umani... Se il clima fosse stato freddo, il tipico clima della ricorrenza della Festa dei Reciproci Doni, si sarebbero ugualmente lamentati. Tas pensava, da parte sua, che il clima era delizioso. Un pochino difficile respirare con quell’aria pesante, forse, ma, in fin dei conti, non si poteva avere tutto.
Tas aveva ascoltato con interesse i discorsi dei chierici. La Festa dei Reciproci Doni doveva essere qualcosa di splendido, pensò, e per un istante soppesò la possibilità di parteciparvi. L’inizio era in programma proprio per quella sera: il Benvenuto alla Festa.
Sarebbe terminato presto, poiché tutti volevano dormire parecchio per prepararsi in piena forma per i grandi festeggiamenti successivi, quelli veri, che sarebbero cominciati all’alba di domani, continuando poi per giorni e giorni. L’ultimo giorno delle celebrazioni avrebbe preceduto l’inverno buio e aspro.
«Forse parteciperò a quei festeggiamenti stasera...» pensò Tas. Aveva supposto che il Benvenuto alla Festa, nel Tempio, sarebbe stato una celebrazione solenne e imponente e, perciò, monotona e noiosa, per lo meno dal punto di vista di un kender. Ma da come avevano parlato quei chierici, sembrava che sarebbe stata una cosa parecchio vivace.
L’indomani Caramon avrebbe combattuto: i Giochi erano uno dei punti salienti della stagione della Festa. Il combattimento di domani avrebbe stabilito quali squadre avrebbero avuto il diritto di affrontarsi nello Scontro finale, l’ultimo Gioco dell’anno prima che l’inverno imponesse la chiusura dell’arena. I vincitori dell’ultimo Gioco avrebbero conquistato la propria libertà. Naturalmente, era già stato stabilito in anticipo chi avrebbe vinto domani: la squadra di Caramon. Ma per qualche motivo questa notizia aveva fatto piombare Caramon in un cupo avvilimento.
Tas scosse la testa. Decise che non sarebbe mai riuscito a capire quell’uomo. Tutto quell’imbronciarsi a proposito dell’onore. Dopotutto, era soltanto un gioco. Comunque, semplificava le cose. Sarebbe stato semplice per lui sgattaiolare via furtivo e spassarsela.
Ma, poi, il kender sospirò. No, aveva faccende serie di cui occuparsi. fermare il Cataclisma era più importante di una festa, forse anche di un paio di feste. Avrebbe sacrificato il divertimento per questa grande causa.
Sentendosi molto ipocrita e nobile (e, d’un tratto, molto annoiato) il kender squadrò con viva irritazione i chierici che si stavano allontanando, desiderando che si spicciassero. Infine entrarono nell’edificio, lasciando sgombro il giardino. Con un sospiro di sollievo, Tas si tirò su e si ripulì dal terriccio. Colta una rosa della Festa, se l’infilò nel ciuffo come decorazione in onore della stagione, poi sgusciò dentro il Tempio.
Anche questo era decorato per i giorni della Festa dei Reciproci Doni, tanta bellezza e splendore lasciarono il kender senza fiato. Si guardò Intorno deliziato, meravigliandosi di vedere le migliaia di rose della Festa che erano state coltivate nei giardini un po’ dappertutto sull’intero Krynn e che erano state portate qui per riempire i corridoi del Tempio con la loro dolce fragranza. Corone di «sempre-in-boccio» aggiungevano un profumo speziato, la luce del sole traeva vividi riflessi dalle loro foglie appuntite intrecciate con velluto rosso e piume di cigno. Cesti di frutta rara ed esotica si trovavano disposti su quasi ogni tavolo, doni giunti da ogni parte di Krynn perché fossero goduti da tutti coloro che si trovavano nel tempio. Vassoi di carni delicate e di dolci meravigliosi erano disposti attorno ad essi. Pensando a Caramon, Tas riempì le proprie borse fino al limite, immaginando con gioia la delizia dell’omone. Non aveva mai visto Caramon avvilito davanti a un pasticcino glassato alle mandorle.
Tas vagò per le sale, smarrito nella felicità. Si era quasi dimenticato il motivo per il quale era venuto qui, ed era costretto a rinfrescarsi in continuazione la memoria sulla sua Importante Missione. Nessuno gli prestava attenzione. Tutti quelli a cui passava accanto erano presi dalla festa imminente o impegnati a dirigere il governo o la chiesa o tutte e due le Cose. Pochi rivolgevano a Tas una seconda occhiata. Di tanto in tanto una guardia lo fissava con astio, ma Tas si limitava a rispondere con un sorriso allegro e un agitare di mano a mo’ di saluto, proseguendo per la sua strada. Era un vecchio proverbio kender: Non cambiare di colore per diventare uguale a quello delle pareti. Dai l’impressione di essere a casa tua, e le pareti cambieranno colore per diventare uguali a te.
Alla fine, dopo molti giri e molte curve (e parecchie fermate per esaminare oggetti interessanti, ad alcuni dei quali capitò di finire nelle sue tasche), Tas si trovò nell’unico corridoio che non era decorato, che non era pieno di gente allegra intenta a prendere gioiosi accordi per la Festa, in cui non echeggiavano i cori intenti a provare i loro inni. In quel corridoio le tende erano ancora tirate, negando l’ingresso al sole. Era freddo e buio, e lo era ancora di più per contrasto con il resto del mondo.
Tas strisciò lungo il corridoio, avanzava a passi sommessi non per qualche particolare motivo, ma soltanto perché quel corridoio era così tetro, silenzioso e triste che pareva aspettarsi da tutti coloro che vi entravano quell’identico comportamento, offendendosi moltissimo se non vi si fossero conformati. L’ultima cosa che Tas intendeva fare era offendere un corridoio, si disse, per cui camminò in silenzio. La possibilità di riuscire ad arrivare fino a Raistlin con passo furtivo senza che il mago se ne accorgesse e intravedere qualche meraviglioso esperimento di magia non attraversò di certo la mente del kender, mai e poi mai.
Avvicinandosi alla porta, sentì Raistlin che parlava e, dal tono della sua voce, pareva che avesse un visitatore.
«Dannazione,» fu il primo pensiero del kender, «adesso, prima di riuscire a parlargli, dovrò aspettare che questa persona se ne vada. E ho anche una Importante Missione da assolvere... Che sconsiderati! Chissà quanto tempo ci metteranno.»
Accostando l’orecchio al buco della serratura, per riuscire a calcolare quanto tempo ancora quella persona aveva intenzione di restare, Tas rimase sorpreso nell’udire la voce di una donna che rispondeva al mago.
«Questa voce mi sembra familiare,» si disse il kender, schiacciando ancora di più l’orecchio contro la serratura per ascoltare. «Ma certamente! Crysania! Perché mai è qui?»
«Hai ragione, Raistlin,» la sentì dire con un sospiro, «questo è assai più riposante dei corridoi variopinti. Quando sono venuta qui la prima volta avevo paura. Tu sorridi ! Ma è così, lo ammetto. Questo corridoio mi appariva così desolato, squallido e freddo. Ma adesso i corridoi del Tempio sono invasi da un calore oppressivo e soffocante. Perfino le decorazioni ] per la Festa mi opprimono. Vedo così tanti sprechi, tanto denaro buttato al vento che potrebbe essere usato per aiutare i bisognosi.»
Smise di parlare e Tas sentì un fruscio. Dal momento che nessuno più parlava, il kender smise di ascoltare e accostò l’occhio al buco della serratura. Poteva vedere con chiarezza l’interno della stanza. Le pesanti tende erano tirate, ma la stanza era illuminata dalla morbida luce d’una candela. Crysania era seduta proprio davanti a lui. A quanto pareva, il fruscio da lui udito era stato prodotto da lei che si era mossa per l’impazienza o la frustrazione. Crysania aveva appoggiato la testa sulla mano, e l’espressione sulla sua faccia era di confusione e perplessità.
Ma non fu questo che fece sgranare gli occhi al kender. Crysania era cambiata! Erano cambiate le vesti bianche semplici e disadorne, la severa acconciatura dei capelli. Indossava vesti bianche come le altre femmine chierico, ma queste erano decorate con raffinati ricami. Aveva le braccia nude, pur ostentando al polso un sottile bracciale dorato che metteva in risalto il limpido pallore della sua pelle. I capelli le ricadevano da una scriminatura centrale avvolgendole le spalle con la morbidezza di tante piume. Le sue guance erano vivificate da un soffuso rossore, il suo sguardo, animato da intimo calore, si attardava sulla figura abbigliata di nero che le sedeva davanti, volgendo la schiena a Tas.
«Umpf,» mormorò tra sé il kender con interesse. «Tika aveva ragione.»
Tas sentì Crysania che diceva, dopo un breve silenzio: «Non so perché sono venuta qui.»
Io sì, pensò il kender, tutto giulivo, riaccostando rapidamente l’orecchio al buco della serratura, così da poter sentire meglio.
La voce di Crysania proseguì: «Mi sento talmente colma di speranza quando vengo a trovarti, ma mi congedo sempre depressa e infelice, volendo mostrarti il cammino della giustizia e della verità, convincerti che soltanto seguendo questo cammino possiamo sperare di riportare la pace nel nostro mondo. Ma tu capovolgi sempre le mie parole, le rovesci come un guanto.»
Tas sentì Raistlin che rispondeva: «Gli interrogativi sono tuoi.» E vi fu un altro suono, come se il mago si fosse avvicinato di più alla donna, Io mi limito semplicemente ad aprire il tuo cuore in modo che tu possa ascoltarli. Certamente Elistan ti avrà consigliato di guardarti dalla fede i cieca...»
Tas aveva percepito una nota sarcastica nella voce del mago, ma a quanto pareva Crysania non se n’era accorta, poiché rispose subito, e con sincerità: «Certo. C’incoraggia a porci dei dubbi e spesso ci ricorda l’esempio di Goldmoon, e come i suoi interrogativi condussero al ritorno dei veri dei. Ma gli interrogativi dovrebbero condurci a una miglior comprensione, e i tuoi interrogativi mi rendono soltanto più confusa e infelice!»
«Come conosco bene quella sensazione,» mormorò Raistlin così sommessamente che Tas quasi non lo udì. Il kender sentì Crysania che si muoveva sulla sedia e rischiò una rapida sbirciata. Il mago le era accanto, con una mano appoggiata sul suo braccio. Mentre lui diceva queste parole, Crysania gli si avvicinò, ancora di più, appoggiando una mano sulla sua. Quando parlò, c’erano tanto amore, speranza e gioia nella sua voce che Tas si sentì invadere da un immenso calore.
«Dici davvero?» chiese Crysania al mago. «Le mie povere parole toccano qualche parte in te? No, non guardare altrove! Posso vedere dalla tua espressione che ci hai riflettuto e le hai meditate. Siamo così simili, noi due! L’ho saputo la prima volta che ci siamo incontrati. Ah, sorridi di nuovo, prendendoti gioco di me. Fai pure. Io conosco la verità. Mi hai detto la stessa cosa sulla Torre. Hai detto che ero ambiziosa quanto te. Ci ho riflettuto: hai ragione. Le nostre ambizioni assumono forme diverse, ma forse non sono così dissimili come credevo un tempo. Viviamo entrambi vite solitarie, dedicate ai nostri studi. Non apriamo il nostro cuore a nessuno, neppure a coloro che ci sono più vicini. Tu ti circondi di tenebra ma, Raistlin, io ho visto al di là di quella tenebra. Il calore, la luce...»
Tas riappiccicò prontamente l’occhio alla serratura. Sta per baciarla, pensò, in preda a un’incontenibile eccitazione. E meraviglioso. Aspetta che lo dica a Caramon!
«Su, sciocco!» intimò poi a Raistlin, con impazienza, mentre il mago sedeva là, immobile, con la mano sul braccio di Crysania. «Come puoi resistere?» borbottò, fissando le labbra dischiuse della donna, i suoi occhi sfavillanti.
D’un tratto Raistlin si scostò da Crysania e le voltò le spalle, alzandosi di scatto dalla sedia. «Sarà meglio che tu vada,» disse con voce roca. Tas sospirò e si ritrasse dalla porta disgustato. Si appoggiò alla parete e scosse la testa.
Si udirono dei colpi di tosse, aspri e profondi, e la voce di Crysania, gentile e preoccupata.
«Non è niente,» disse Raistlin, mentre apriva la porta. «Sono parecchi giorni che non mi sento bene. Non riesci a indovinarne la ragione?» chiese, con la porta semichiusa. Tas si appiattì contro la parete perché non lo vedessero, non volendo interrompere (o perdersi) qualcosa. «Non l’hai percepito?»
«Ho percepito qualcosa,» mormorò Crysania col fiato mozzo. «Cosa vuoi dire?»
«La collera degli dei,» rispose Raistlin, e fu chiaro per Tas che non era questa la risposta che Crysania aveva sperato. Parve afflosciarsi. Raistlin non se ne accorse, ma continuò: «Il loro furore mi martella, come se il sole si avvicinasse sempre di più a questo sventurato pianeta. Forse è per questo che ti senti depressa e infelice.»
«Forse,» mormorò Crysania.
«Domani s’inizia la grande Festa,» mormorò Raistlin con voce sommessa. «Tredici giorni dopo, il Gran Sacerdote farà la sua richiesta. ( già lui e i suoi ministri la progettano. Gli dei lo sanno. Gli hanno mandato un avvertimento: la scomparsa dei chierici. Ma lui non vi ha badato. Ogni giorno, dall’inizio della Festa in poi, i segni ammonitori si faranno più intensi, più chiari. Hai letto le Cronache degli Ultimi Tredici Giorni di Astinus? Non sono una piacevole lettura, e sarà ancora meno piacevole viverli.»
Crysania lo guardò e il suo volto s’illuminò. «Torna indietro con noi prima di allora!» esclamò, tutta infervorata. «Par-Salian ha dato a Caramon un congegno magico che ci riporterà nel nostro tempo. Il kender mi ha detto...»
«Quale congegno magico?» volle sapere Raistlin all’improvviso, e lo strano tono della sua voce fece provare un brivido al kender, cogliendo di sorpresa Crysania. «A cosa assomiglia? Come funziona?». I suoi occhi ardevano di febbre.
«Non... non lo so,» esclamò Crysania, esitante.
«Te lo dirò io.» Tas si staccò all’improvviso dalla parete, presentandosi ai loro sguardi. «Scusatemi, non volevo spaventarvi. Soltanto... non ho potuto fare a meno di sentire. Felice Festa dei Reciproci Doni a tutti e due, a proposito.» Tas tese la piccola mano, ma nessuno dei due gliela strinse.
Sia Raistlin sia Crysania lo stavano fissando con la stessa espressione ?di chi, d’un tratto, ha scoperto un ragno nella minestra, a cena. Imperturbabile, Tas continuò a cinguettare allegramente, infilandosi una mano in tasca. «Di che stavamo parlando? Oh, il congegno magico. Sì, siii,» si affrettò a proseguire sempre più rapidamente vedendo gli occhi di Raistlin socchiudersi in maniera allarmante, «quando si apre, ha la forma di uno... di uno scettro e ha una... una sfera a un’estremità, tutta scintillante di gioielli. È grande press’a poco così,» il kender allargò le mani, distanziandole di circa un braccio, «quando è aperto del tutto. Poi, Par-Salian ha fatto qualcosa e il congegno si è...»
«... ripiegato su se stesso,» concluse per lui Raistlin, «fino a poterlo infilare in tasca.»
«Sì, è proprio così!» esclamò Tas tutto eccitato. «Esatto! Come facevi a saperlo?»
«L’oggetto mi è familiare,» rispose Raistlin, e Tas colse di nuovo una strana eco nella voce del mago, un tremore, una tensione... Paura? euforia? Il kender non riuscì a capirlo. Anche Crysania se ne accorse.
«Cosa c’è?» volle sapere.
Raistlin non rispose subito, all’improvviso il suo volto era divenuto una maschera indecifrabile, impassibile, fredda. «Esito a dirlo,» rispose. «Devo prima studiare questa faccenda.» Scoccando un’occhiata al kender. «Cos’è che vuoi? Oppure stavi soltanto origliando dal buco della serratura?»
«Certo che no!» ribatté Tas, offeso. «Sono venuto per parlarti... se tu e Dama Crysania avete finito, s’intende,» si affrettò a correggersi, lanciando un’occhiata a Crysania.
Lei lo guardò con espressione assai poco amichevole, pensò il kender, poi tornò a rivolgersi a Raistlin: «Ti vedrò domani?» gli chiese.
«Non credo,» lui rispose. «Naturalmente, io non parteciperò alla Festa dei Reciproci Doni.»
«Oh, ma non intendo andarci neppure io...» cominciò Crysania.
«Si aspetteranno di vederti,» disse Raistlin, d’un tratto. «Inoltre ho trascurato per troppo tempo i miei studi nel piacere della tua compagnia.»
«Capisco,» rispose Crysania. La sua voce era fredda e distante e,,Tasslehoff lo intuì, ferita e delusa.
«Arrivederci, signori,» disse Crysania un attimo dopo, quando fu chiaro che Raistlin non avrebbe aggiunto nient’altro. Con un lieve inchino, si girò e s’inoltrò nel buio corridoio, le sue bianche vesti parvero portarsi via la luce mentre si allontanava.
«Dirò a Caramon che gli hai mandato i tuoi saluti,» le gridò Tas, ma Crysania non si voltò. Il kender si girò verso Raistlin con un sospiro. «Temo che Caramon non le abbia fatto una grande impressione. Ma d’altronde era sbronzo a causa dello spirito dei nani...»
Raistlin tossì. «Sei venuto qui per discutere di mio fratello?» lo interruppe con freddezza. «Perché, se è così, te ne puoi andare...»
«Oh, no,» si affrettò a replicare Tas. Poi sollevò lo sguardo sul mago con un sorriso. «Sono venuto per impedire il Cataclisma!»
Per la prima volta nella sua vita, il kender ebbe la soddisfazione di vedere che le sue parole avevano lasciato Raistlin assolutamente stupefatto. Ma non fu una soddisfazione che godette a lungo. Il volto del mago impallidì e s’irrigidì, i suoi occhi simili a specchi parvero infrangersi, permettendo a Tas di vedere dentro a quelle profondità buie e ardenti chi” Raistlin teneva nascoste.
Mani forti come gli artigli di un uccello da preda affondarono nelle spalle del kender, facendogli male. Nel giro di pochi istanti Tas si trovò scagliato dentro la stanza di Raistlin. La porta si chiuse di colpo con uno schianto assordante.
«Cosa ti ha dato questa idea?» volle sapere Raistlin.
Sorpreso, Tas arretrò cercando di farsi il più piccolo possibile, e lanciò un’occhiata inquieta intorno a sé. Il suo istinto di kender gli diceva che avrebbe fatto meglio a cercare un posto dove nascondersi.
«Uh... Sei stato tu,» balbettò Tas. «Be’... non proprio. Ma hai detto qualcosa sulla m... mia venuta qui nel passato che avrebbe permesso di cambiare il tempo. E ho pensato che fer... fermare il Cataclisma sarebbe stata una specie di opera di bene...»
«E come avevi in mente di fare?» gli chiese Raistlin, e i suoi occhi ardevano di un fuoco così rovente che Tas si sentì sudare al solo guardarli.
«Oh... avevo in mente di discuterne con te, naturalmente,» disse il kender, sperando che Raistlin fosse ancora sensibile alle lusinghe, «e poi pensavo, se tu avessi detto che andava bene, di andare a parlarne con il Gran Sacerdote, per dirgli che stava facendo davvero un grosso errore, uno dei Più Grossi Errori di Tutti i Tempi, se capisci quello che voglio dire. E, sono sicuro che una volta che gliel’avessi spiegato, mi avrebbe ascoltato...»
«Ne sono sicuro,» replicò Raistlin, con voce più che mai fredda e controllata. Ma, cosa strana, a Tas parve d’individuare una nota di immenso sollievo. «Così,» il mago gli voltò le spalle, «hai intenzione di parlarne al Gran Sacerdote. E se per caso lui si rifiutasse di ascoltare? Allora, cosa succederebbe?»
Tas fece una pausa, rimanendo a bocca aperta. «Immagino di non averci pensato,» disse, un attimo dopo. Sospirò, poi scrollò le spalle. «Ce ne torneremo a casa.»
«C’è un altro modo,» disse Raistlin con voce sommessa, prendendo posto su una sedia e fissando il kender con i suoi occhi simili a specchi. «Un modo sicuro! Un modo che ti permetterebbe di fermare il Cataclisma senza il pericolo di fallire.»
«C’è?» esclamò Tas con foga. «E qual è?»
« congegno magico,» rispose Raistlin, allargando le mani sottili. «I suoi poteri sono immensi, vanno molto al di là di ciò che Par-Salian ha raccontato a quell’idiota di mio fratello. Attivalo il giorno del Cataclisma e la sua magia distruggerà la montagna di fuoco che si trova in alto sopra Il mondo, cosicché non potrà far del male a nessuno.» «Davvero?». Tas era rimasto a bocca aperta.
«È magnifico.» Poi corrugò la fronte. «Ma come posso esserne sicuro? Supponi che non funzioni...»
«Cos’hai da perdere,» gli chiese Raistlin, «se per qualche motivo dovesse fallire, cosa della quale io sinceramente dubito?». Il mago sorrise dell’ingenuità del kender. «Dopotutto, è stato creato dalla cerchia più ; alta dei fruitori di magia...»
«Come i globi dei draghi?» lo interruppe Tas.
«Come i globi dei draghi,» sbottò Raistlin, irritato dall’interruzione. «Ma se dovesse fallire, potresti sempre usarlo per fuggire all’ultimo momento.»
«Con Caramon e Crysania,» aggiunse Tas.
Raistlin non gli rispose, ma nella sua eccitazione il kender non se ne accorse. Poi gli venne in mente qualcosa.
«E se Caramon dovesse decidere di andarsene prima?» chiese intimorito.
«Non lo farà,» rispose Raistlin con voce sommessa. «Fidati di me,» aggiunse vedendo che Tas stava per ribattere.
Il kender rifletté di nuovo, poi sospirò. «Mi è appena venuto in mente una cosa. Non credo che Caramon mi permetterà di prendere quell’ogetto. Par-Salian gli ha ingiunto di difenderlo con la propria vita. Non lo perde mai di vista e lo chiude a chiave in una cassapanca quando deve andar via. E sono sicuro che non mi crederebbe se cercassi di spiegargli perché Io voglio.»
«Non dirglielo. Il giorno del Cataclisma è il giorno della Sbronza Finale,» disse Raistlin scrollando le spalle. «Se il congegno scomparirà per un breve periodo, lui non se ne accorgerà mai.»
«Ma vorrebbe dire rubare,» disse Tas sconvolto.
Le labbra di Raistlin si contrassero. «Diciamo prendere a prestito,» lo corresse con voce suadente.
«E per una causa tanto nobile! Caramon non si arrabbierà. Conosco mio fratello. Pensa a quanto sarà orgoglioso di te!»
«Hai ragione,» disse Tas con gli occhi che gli sfavillavano. «Sarò un vero eroe, ancora più grande dello stesso Kronin Thistleknot in persona! Come si fa a farlo funzionare?»
«Ti darò le istruzioni,» disse Raistlin, alzandosi in piedi. Ricominciò a tossire. «Torna da me... fra tre giorni. E adesso... devo riposare.»
«Sicuro» disse Tas in tono allegro, alzandosi in piedi. «Spero che tu ti senta meglio.» Andò verso la porta. Una volta là, però, esitò. «Oh, scusa, non ho un regalo per te, mi spiace...»
«Mi hai fatto un dono,» disse Raistlin, «un dono d’inestimabile valore. Grazie.»
«Davvero?» fece Tas, stupefatto. «Oh, vuoi dire fermare il Cataclisma. Be’, lascia perdere. Io...»
D’un tratto Tas si trovò in mezzo al giardino, intento a fissare i cespugli di rose e un chierico estremamente sorpreso che, a quanto pareva, aveva visto il kender materializzarsi dal nulla proprio in mezzo al sentiero.
«Per la barba del grande Reorx! Vorrei proprio sapere come si fa,» disse Tas, pieno di desiderio.
Capitolo tredicesimo.
Con l’inizio della Festa dei Reciproci Doni giunse la prima di quelle che più tardi sarebbero divenute note come le Tredici Calamità. (Astinus, notate, le registra nelle Cronache come i Tredici Ammonimenti.)
Il giorno spuntò caldo e soffocante. Era il più caldo giorno inaugurale della Festa che chiunque, perfino gli elfi, riuscisse a ricordare. Nel Tempio le rose della Festa si afflosciarono e appassirono, le corone di «sempre-in-boccio» presero a puzzare talmente che parevano essere state cotte nel forno, la neve che raffreddava il vino nelle coppe d’argento fondeva così in fretta che i servi non fecero nient’altro, tutto il giorno, se non correre avanti e indietro dalle profondità delle cantine scavate nella roccia alle sale in cui avevano luogo i festeggiamenti, portando secchi di neve semi fusa.
Raistlin si svegliò quella mattina, nell’ora buia prima dell’alba, così malato da non riuscire ad alzarsi dal letto. Giaceva nudo, coperto di sudore, in preda ad allucinazioni febbrili che l’avevano spinto a strapparsi di dosso gli indumenti e le coperte. Gli dei erano davvero vicini, ma era la vicinanza di una divinità in particolare, la sua dea, la Regina delle Tenebre, che aveva effetto su di lui. Poteva sentire la sua collera, come poteva sentire la collera di tutti gli dei a causa del tentativo del Gran Sacerdote di distruggere l’equilibrio che cercavano di stabilire nel mondo. Così, Raistlin aveva sognato la sua Regina, ma lei aveva scelto di non apparirgli nella sua collera, come ci si sarebbe potuti aspettare. Raistlin non aveva sognato il terribile drago a cinque teste, il Drago di Tutti i Colori e di Nessuno, che avrebbe cercato di fare schiavo il mondo nella Guerra delle Lance.
Non l’aveva vista come il Guerriero Oscuro che Conduceva le sue legioni alla morte e alla distruzione. No, gli era comparsa come la Tentatrice Oscura, la più bella di tutte le donne, la più seducente, e così aveva passato la notte con lui, allettandolo con la debolezza e la gloria della carne.
Con gli occhi chiusi, rabbrividendo nella stanza che era più fredda di qualche grado del calore esterno, Raistlin aveva richiamato l’immagine di quei IMI grandi capelli scuri, sospesi davanti a lui; aveva sentito il suo tocco, il suo calore. Alzando le mani, lasciandosi affondare sotto la sua malia, aveva scostato quei capelli aggrovigliati e aveva visto il volto di Crysania!
Il sogno era terminato, infranto quando la mente aveva ripreso il controllo. E adesso giaceva sveglio, esultante nella sua vittoria, conoscenti! però il prezzo che aveva pagato. Uno squassante accesso di tosse si presentò a ribadirlo.
«Non mi arrenderò,» farfugliò, non appena potè respirare. «Non riuscirai a conquistarmi così facilmente, mia Regina.» Scendendo dal letto con passo barcollante, talmente debole che dovette fermarsi più volte a recuperare il fiato, si infilò le vesti nere e andò verso la scrivania Maledicendo il dolore che aveva nel petto, aprì un antico testo sugli attrezzi magici e cominciò la sua laboriosa ricerca.
Anche Crysania aveva dormito male. Come Raistlin, sentiva la vicinanza di tutti gli dei, ma del suo dio, Paladine, più di ogni altro. Sentiva la sua collera, ma era venata di un dolore così profondo e devastante che Crysania non riusciva a sopportarlo. Sopraffatta da un senso di colpa, voltò le spalle a quel volto gentile e cominciò a correre. Continuò a correre, piangendo, incapace di vedere dove stava andando. Incespicò cadde nel nulla, l’anima lacerata dalla paura. Poi delle braccia robuste l’afferrarono. Venne avvolta da morbide vesti nere, tenuta accanto ad un corpo muscoloso. Dita sottili le accarezzarono i capelli, calmandola, Sollevò lo sguardo su un viso...
Campane... delle campane ruppero l’immobilità. Sorpresa, Crysania si rizzò a sedere sul letto, guardandosi intorno con occhi spiritati. Poi, ricordando il volto che aveva visto, ricordando il calore del suo corpo e il conforto che vi aveva trovato, si prese la testa dolorante fra le mani e pianse.
La prima cosa che Tasslehoff provò nello svegliarsi fu una sensazione di disappunto. Ricordò che oggi iniziava la Festa dei Reciproci Doni, ma anche il giorno in cui, stando a quanto Raistlin aveva detto, sarebbero cominciate ad accadere Cose Spaventose. Guardandosi intorno alla grigia luce che filtrava attraverso la finestra, l’unica cosa spaventosa che Tas vide fu Caramon, sul pavimento, intento alla ginnastica mattutina, chi sbuffava come un mantice.
Nonostante le giornate di Caramon fossero piene di esercizi con le armi eseguiti con i membri della sua squadra per sviluppare nuovi aspetti della loro routine, l’omone combatteva ancora una interminabile battaglia con il suo peso. Non era più a dieta e poteva mangiare lo stesso cibo degli altri. Ma il nano, con il suo occhio acuto, si era subito accorto che
Caramon mangiava cinque volte più di chiunque altro!
Un tempo l’omone aveva mangiato per il puro piacere. Adesso, depresso, infelice e ossessionato dal pensiero di suo fratello, Caramon cercava consolazione nel cibo allo stesso modo in cui qualcun altro poteva cercare consolazione nel bere. (Infatti, una volta Caramon ci aveva provato, chiedendo a Tas di portargli di nascosto una bottiglia di spirito dei nani. disabituato a quel forte alcolico, era stato colto da un violento malessere con grande e segreto sollievo del kender.) di conseguenza, Arack aveva decretato che Caramon avrebbe potuto mangiare soltanto se avesse eseguito tutta una serie di strenui esercizi tutti i giorni. Caramon si chiedeva spesso come il nano potesse sapere se lui saltava un giorno, poiché faceva gli esercizi la mattina presto, prima che gli altri si svegliassero. Ma in qualche modo Arack lo sapeva.
L’unica mattina in cui Caramon aveva saltato gli esercizi, gli era stato proibito l’accesso alla mensa da un Raag sogghignante col randello in mano!
Annoiato di dover ascoltare i grugniti, i gemiti e le imprecazioni di Caramon, Tas si arrampicò su una sedia e sbirciò fuori dalla finestra per vedere se all’esterno stesse accadendo qualcosa di spaventoso. Si sentì molto rallegrato.
Capitolo quattordicesimo.
«Sono le forze del male che operano per sconfiggermi!» gridò il Gran Sacerdote, la sua voce musicale trasmise un fremito di coraggio alle anime di coloro che ascoltavano. «Ma non mi arrenderò! Né dovete farlo voi! Dobbiamo esser forti davanti a questa minaccia...»
«No,» mormorò Crysania fra sé, in preda alla disperazione. «No, hai capito male! Come puoi essere così cieco?»
Assisteva alle Preghiere del Mattino, dodici giorni dopo che il Primo dei Tredici Ammonimenti era stato dato, senza però che alcuno gli avesse prestato ascolto. Da allora erano arrivati rapporti da ogni parte del continente che riferivano di altri strani avvenimenti, ogni giorno uno nuovo.
«Re Lorac riferisce che a Silvanesti gli alberi hanno pianto sangue per tutta la giornata,» riferì il Gran Sacerdote, con un’accresciuta intensità nella voce per lo sgomento e l’orrore causati dagli eventi che raccontava. «La città di Palanthas è coperta da una densa nebbia bianca, talmente fitta che gli abitanti si smarriscono se escono di strada.
«A Solamnia nessun fuoco vuole ardere. I loro focolari sono freddi e spogli. Le forge sono chiuse, il carbone potrebbe benissimo essere ghiaccio, visto il calore che sprigiona. Eppure, sulle pianure di Abanasinia, l’erba della prateria ha preso fuoco. Le fiamme infuriano senza nessun controllo, riempiendo il cielo di fumo nero e scacciando gli uomini delle pianure dalle loro capanne tribali.
«Proprio questa mattina i grifoni hanno portato la notizia che la città elfa di Qualinost è stata invasa dagli animali della foresta, diventati d’un tratto strani, e selvaggi...»
Crysania non ce la fece più. Malgrado le donne la guardassero sbigottite quando si alzò, ignorò le loro occhiate furiose e abbandonò i Riti, fuggendo per i corridoi del Tempio.
Un lampo frastagliato l’accecò, l’aspro e feroce rimbombare del tuono che seguì subito dopo la indusse a coprirsi il volto con le mani.
«Tutto questo deve cessare, altrimenti impazzirò,» mormorò con voce rotta, rifugiandosi spaventata in un angolo.
Da dodici giorni, da quando si era scatenato il ciclone, una tempesta infuriava su Istar, inondando la città di pioggia e di grandine. Il bagliore dei lampi e il rombo dei tuoni erano quasi continui, facendo tremare il Tempio, rendendo impossibile il sonno, martellando la mente. Tesa, intontita dalla fatica, esausta e terrorizzata, Crysania si accasciò su una sedia.
Un tocco delicato sul braccio la fece sussultare, inducendola a balzare in piedi allarmata. Si trovò davanti un giovane aitante avvolto in un mantello inzuppato d’acqua. Potè intravedere i contorni di un paio di spalle forti e muscolose.
«Scusami, Reverenda Figlia, non intendevo spaventarti,» disse il giovane con una voce che le era vagamente familiare come il suo volto.
«Caramon!» esclamò Crysania con un singulto di sollievo, aggrappandosi a lui come a qualcosa di vero e solido. Vi fu un altro lampo accecante e un frastuono assordante. Crysania strinse gli occhi, serrando i denti, mentre sentiva che perfino il corpo forte e muscoloso di Caramon diventava teso per il nervosismo. Lui la sorresse, impedendole di cadere.
«Do... dovevo presenziare alle Preghiere del Mattino,» balbettò Crysania quando la sua voce fu di nuovo udibile. «Dev’essere orribile là fuori. Sei inzuppato fino al midollo!»
«Sono giorni che cerco d’incontrarti...» cominciò a dire Caramon.
«Lo... Lo so,» ansimò Crysania. «Mi spiace. È soltanto che ho... ho avuto da fare...»
«Dama Crysania,» l’interruppe Caramon, cercando di mantenere calma la voce. «Non stiamo parlando di un invito alla Festa dei Reciproci Doni. Domani questa città cesserà di esistere! Io...»
«Zitto!» gli ordinò Crysania. Lanciò un’occhiata nervosa intorno a sé. «Qui non possiamo parlare.»
Il bagliore di un lampo e uno schianto assordante la spinsero a rannicchiarsi, ma recuperò il controllo quasi subito. «Vieni con me.»
Caramon esitò, poi, corrugando la fronte, la seguì mentre Crysania gli faceva strada attraverso il Tempio fino a una delle molte stanze interne, immerse nella penombra. Per lo meno, qui la luce dei lampi non poteva penetrare e il rombo dei tuoni giungeva ovattato. Facendo attenzione a chiudere la porta, Crysania prese posto su una sedia e fece segno a Caramon di fare lo stesso.
Caramon rimase interdetto per un istante, poi si sedette, a disagio e con i nervi a fior di pelle, acutamente conscio delle circostanze del loro Ultimo incontro, quando la sua ubriachezza aveva quasi causato la morte di loro tutti. Forse anche Crysania aveva pensato la stessa cosa. Lo guardava con occhi che erano freddi e grigi come l’alba. Caramon arrossì.
«Sono lieta di vedere che la tua salute è migliorata,» disse Crysania, sforzandosi di tenere la severità fuori dalla sua voce... e fallendo del tutto.
Il rossore di Caramon divenne ancora più intenso. Abbassò lo sguardo sul pavimento.
«Mi spiace,» disse Crysania d’un tratto. «Per favore, perdonami. Sono... sono molte notti che non dormo, da quando è cominciato.» Si portò una mano tremante alla fronte. «Non riesco a pensare,» aggiunse con voce roca. «Questo frastuono incessante...»
«Capisco,» disse Caramon levando lo sguardo su di lei. «E hai ogni diritto di disprezzarmi. Io disprezzo me stesso per quello che ero, ma questo, adesso, non ha davvero importanza. Dobbiamo andarcene, Dama Crysania.»
«Sì, hai ragione.» Crysania tirò un profondo sospiro. «Dobbiamo andarcene da qui. Ci rimangono soltanto poche ore per fuggire. Ne sono ben consapevole, credimi.» Sospirando abbassò lo sguardo sulle proprie mani. «Ho fallito,» aggiunse con voce opaca. «Ho continuato a sperare, fino all’ultimo momento, che in qualche modo le cose potessero cambiare. Ma il Gran Sacerdote è cieco. Cieco!»
«Comunque, non è per questo che mi hai evitato, vero?» chiese Caramon, con voce senza espressione. «Per impedirmi di andarmene?» a
Adesso toccò a Crysania di arrossire. Abbassò lo sguardo sulle sue; mani che si stava torcendo in grembo. «No,» disse con voce talmente bassa che Caramon la udì appena. «No, non... non volevo andarmene senza... senza...»
«...Raistlin,» terminò Caramon. «Dama Crysania, lui ha la sua magia. È stato grazie ad essa, soprattutto, che è venuto qui. Ha fatto la sua scelta. Me ne sono reso conto, infine. Noi dovremmo andarcene...»
«Tuo fratello è stato terribilmente malato,» disse Crysania, all’improvviso.
Caramon alzò gli occhi a fissarla, il volto teso per la preoccupazione.
«Ho tentato per giorni di vederlo, ancora all’inizio della Festa, ma ha rifiutato l’ingresso a tutti, perfino a me. E adesso, oggi, mi ha mandato a chiamare,» proseguì Crysania, sentendo il viso bruciarle sotto lo sguardo penetrante di Caramon. «Gli parlerò, cercherò di convincerlo a venire con noi. Se la sua salute è menomata, non avrà la forza di usare la sua magia.»
«Sì,» mormorò Caramon, pensando alle difficoltà che comportava il lancio di un incantesimo così potente e complesso. Par-Salian aveva impiegato giorni per farlo, ed era in buona salute. «Cos’è che non va in Raist?» chiese all’improvviso.
«La vicinanza degli dei influisce su di lui,» rispose Crysania, «così come influisce su altri, anche se rifiutano di ammetterlo.» La sua voce si smorzò, dolente, ma Crysania strinse con forza le labbra, per un attimo, poi continuò: «Dobbiamo esser pronti a muoverci in fretta nel caso in cui acconsenta a venire con noi...»
«E se non acconsentirà?» chiese Caramon.
Crysania arrossì. «Credo che... lo farà,» disse, sopraffatta dalla confusione, i suoi pensieri riandarono a quei momenti, nella camera di lui, quando si erano trovati così vicini, all’espressione bramosa, piena di desiderio, nei suoi occhi, all’ammirazione... «Gli ho... parlato... dell’erroneità del suo comportamento. Gli ho mostrato come il male non possa mai costruire o creare, ma sia in grado soltanto di distruggere e rivolgersi contro se stesso. Ha ammesso la validità delle mie argomentazioni e ha promesso di pensarci.»
«E ti ama,» disse Caramon con voce sommessa.
Crysania non riuscì a guardarlo negli occhi. Non riuscì a rispondere. Il cuore le batteva talmente forte che per un momento non riuscì più a sentire nessun altro rumore al di sopra del pulsare del suo sangue. Poteva sentire gli occhi scuri di Caramon che la fissavano mentre il tuono rimbombava e scuoteva il Tempio tutt’intorno a loro. Crysania rinserrò le mani l’una sull’altra per arrestare il loro tremito, poi si avvide che Caramon si stava alzando in piedi.
«Mia signora,» disse il guerriero con voce sommessa e solenne, «se hai ragione, se la tua bontà e il tuo amore potranno distoglierlo da quei sentieri tenebrosi che sta percorrendo, per sua propria scelta, riconducendolo alla luce, io... io...» Caramon parve soffocare e si affrettò a girare la testa dall’altra parte.
Sentendo tutto quell’amore nella voce dell’omone e vedendo le lacrime che cercava di nascondere, Crysania venne sopraffatta dal dolore e dal rimorso. Cominciò a chiedersi se non l’aveva mal giudicato. Alzandosi in piedi, toccò delicatamente il grosso, muscoloso braccio del guerriero, sentendolo pieno di tensione mentre lottava per recuperare il controllo di sé.
«Devi tornare? Non puoi rimanere...»
«No.» Caramon scosse la testa. «Devo andare a prendere Tas e il congegno che Par-Salian mi ha dato. È chiuso sotto chiave. E poi, ho degli amici... Ho tentato di convincerli a lasciare la città. Potrebbe essere troppo tardi, ma devo fare un ulteriore tentativo...»
«Certo,» annuì Crysania. «Capisco. Torna più presto che puoi. Incontriamoci... incontriamoci nelle stanze di Raistlin.»
«Lo farò, mia signora,» rispose Caramon con fervore. «E adesso devo andare, prima che i miei amici vadano ad allenarsi.» Prendendole la mano nella sua, la strinse con fermezza, poi si affrettò ad allontanarsi. Crysania lo seguì con lo sguardo mentre si allontanava nel corridoio, dove la luce delle torce risplendeva schiarendo appena la penombra. Il grosso guerriero si stava muovendo con rapidità e sicurezza, e neppure sussultò quando passò davanti a una finestra all’estremità del corridoio e venne illuminato all’improvviso da un vivido lampo di luce. Era la speranza che teneva ancorato il suo spirito, pur nel turbinare della tempesta, la stessa speranza che Crysania aveva d’un tratto sentito gonfiarsi dentro di sé.
Caramon sparì nel buio e Crysania, sollevando le vesti bianche con una mano per evitare che strisciassero sul pavimento, si voltò e salì rapidamente la scala che conduceva a quella parte del Tempio che ospitava il mago dalla Veste Nera.
Il suo morale e la sua speranza le vennero un po’ meno quando entrò in quel corridoio. Qui tutto il furore della tempesta pareva scatenarsi senza nessun freno. Neppure le pesanti tende riuscivano a tener fuori i lampi accecanti, le pareti più spesse non riuscivano a smorzare il rombo dei tuoni.
Forse a causa di qualche finestra difettosa, perfino il vento sembrava esser penetrato dentro le mura del Tempio. Qui non ardeva nessuna torcia, non che ve ne fosse bisogno, talmente incessanti erano i lampi.
I capelli neri le vennero soffiati negli occhi, le vesti le svolazzarono intorno. Quando si avvicinò alle stanze del mago in fondo al corridoio, potè sentire il crepitio della pioggia contro il vetro. L’aria era fredda e umida. Rabbrividendo, affrettò il passo e già aveva alzato la mano per bussare alla porta quando d’un tratto il corridoio sfrigolò del bagliore biancoazzurro di un lampo. La simultanea esplosione del tuono mandò a sbattere Crysania contro la porta. Questa si spalancò di colpo e lei si ritrovò tra le braccia di Raistlin.
Era come nel suo sogno. Quasi singhiozzando per il terrore, si strinse alla morbidezza vellutata delle sue vesti nere e si scaldò al calore del suo corpo. Dapprima il corpo accanto al suo era teso, poi sentì che si rilassava. Le sue braccia le si strinsero intorno quasi convulsamente, una mano si levò ad accarezzarle i capelli, calmandola, confortandola.
«Su, su,» bisbigliò lui, quasi che stesse rassicurando una bambina spaventata. «Non temere la tempesta, Reverenda Figlia. Esultane! Assapora la potenza degli dei, Crysania! Così essi spaventano gli sciocchi. Non possono farci del male, no, se hai scelto di fare altrimenti.»
Gradualmente i singhiozzi di Crysania diminuirono. Le parole di Raistlin non erano il dolce mormorio di una madre. Colse in pieno il loro significato. Sollevò la testa e lo guardò.
«Cosa vuoi dire?» chiese con voce esitante, tutt’a un tratto spaventata. Una crepa era comparsa nei suoi occhi simili a specchi, permettendole di vedere l’anima che bruciava dentro.
Involontariamente cominciò a scostarsi da lui, ma Raistlin allungò una mano e, lisciandole la cascata di capelli neri, scostandoli dal suo viso con mani tremanti, bisbigliò: «Vieni con me, Crysania! Vieni con me nell’epoca in cui sarai l’unico chierico al mondo, nell’epoca in cui potremo varcare il portale e sfidare gli dei, Crysania! Pensaci! Governare, mostrare al mondo una potenza come questa!»
Raistlin lasciò la stretta. Sollevando le braccia, con le vesti nere che parevano risplendergli intorno quando i lampi avvampavano e i tuoni scrosciavano, scoppiò a ridere. E allora Crysania colse il luccichio febbrile dei suoi occhi e le chiazze di vivido colore sulle sue guance mortalmente pallide.
Era magro, molto più magro di quando l’aveva visto l’ultima volta.
«Sei malato,» lei disse, arretrando, con le mani dietro la schiena, cercando la maniglia della porta.
«Cercherò aiuto...»
«No!» L’urlo di Raistlin fu più forte del tuono. I suoi occhi riacquistarono la loro superficie a specchio, il suo volto era freddo e composto. Allungando una mano, le afferrò il polso in una stretta dolorosa e tornò a trascinarla, con uno scatto, nella stanza. La porta si chiuse alle spalle di Crysania sbattendo. «Sono malato,» disse Raistlin con maggior calma, «ma non c’è nessun aiuto possibile, nessuna cura per la mia malattia se non quella di fuggire da questa follia. I miei piani sono quasi completi. Domani, il giorno del Cataclisma, l’attenzione degli dei sarà rivolta alla lezione che devono infliggere a questi poveri disgraziati. La Regina delle Tenebre non sarà in grado di fermarmi mentre opererò la mia magia e mi trasporterò verso quell’unico momento della storia quando lei è vulnerabile al potere di un vero chierico!»
«Lasciami andare!» gridò Crysania, il dolore e l’indignazione sommergevano la sua paura.
Rabbiosamente, liberò con uno strattone il proprio braccio dalla stretta di Raistlin. Ma ricordava ancora il suo abbraccio, il tocco delle sue mani... Offesa e vergognosa, Crysania si voltò dall’altra parte. «Devi operare il tuo male senza di me,» disse, con la voce soffocata dalle sue stesse lacrime.
«Non verrò con te.» «Allora morirai,» disse Raistlin con tono sinistro. «Come osi minacciarmi?» gridò Crysania, girandosi di scatto per fronteggiarlo. Lo choc e il furore le avevano inaridito gli occhi.
«Oh, non per mano mia,» precisò Raistlin con uno strano sorriso. «Morirai per mano di coloro che ti hanno mandato qui.»
Crysania sbatté le palpebre, stordita. Poi riacquistò la sua compostezza. «Un altro espediente?» chiese, con freddezza, arretrando da lui, provando un dolore così intenso nel cuore per quel suo tentativo d’ingannarla che era più di quanto lei potesse sopportare. Voleva soltanto andarsene, prima che lui si accorgesse di quanto era riuscito a ferirla...
«Nessun espediente, Reverenda Figlia,» replicò Raistlin, semplicemente. Indicò con un gesto un libro rilegato in rosso che giaceva aperto sulla scrivania. «Guarda tu stessa. Ho studiato a lungo...».
Indicò con un ampio gesto della mano le file e file di libri allineati lungo la parete. Crysania rimase senza fiato. L’ultima volta che aveva visitato quella stanza non c’erano libri. Guardandola, lui annuì. «Sì, li ho portati da luoghi remoti, ho viaggiato lontano per cercarne molti. Questo, sono finalmente riuscito a trovarlo nella Torre della Grande Stregoneria di Wayreth, come ho sempre sospettato che dovesse accadere. Vieni a dare un’occhiata.»
«Cos’è?» Crysania fissò il volume come se fosse un serpente velenoso avvolto in spire.
«Un libro, nulla più.» Raistlin ebbe uno stanco sorriso. «Ti posso assicurare che non si trasformerà in un drago portandoti via ad un mio ordine. Ripeto, è un libro, una enciclopedia, se vuoi. Molto antica, scritta durante l’Era dei Sogni.»
«Perché vuoi che lo veda? Cos’ha a che fare con me?» chiese Crysania insospettita. Ma aveva smesso di avvicinarsi furtivamente alla porta. Il calmo comportamento di Raistlin la rassicurava.
Per il momento aveva perfino smesso di prestare attenzione ai lampi e agli schianti della tempesta che infuriava all’esterno.
«È un’enciclopedia di congegni magici prodotti durante l’Era dei Sogni,» proseguì Raistlin imperturbabile, senza mai distogliere gli occhi da Crysania, dando l’impressione di attirarla sempre più vicino con u suo sguardo mentre rimaneva accanto alla scrivania. «Leggi...»
«Non posso leggere il linguaggio della magia,» disse Crysania accigliandosi, poi la sua fronte si spianò. «Oppure intendi tradurmelo?» chiese con alterigia.
Gli occhi di Raistlin balenarono di rabbia per un istante, ma quasi subito la rabbia venne sostituita da un’espressione di tristezza e fatica che toccarono in pieno il cuore di Crysania. «Non è scritto nel linguaggio della magia,» disse, con voce sommessa. «Altrimenti non ti avrei chiesto di venire qui.»
Abbassando lo sguardo sulle vesti nere che indossava, le esibì quel fin troppo familiare sorriso triste e contorto. «Molto tempo fa ho volontariamente pagato lo scotto. Non so perché avrei dovuto sperare che tu ti fidassi di me.»
Mordendosi il labbro, provando una profonda vergogna anche se non aveva nessuna idea del perché, Crysania passò sull’altro lato della scrivania. Rimase là, esitante. Sedendosi, Raistlin le fece cenno di avvicinarsi, e lei avanzò d’un passo, fermandosi accanto al libro aperto. Il mago pronunciò un ordine, e il bastone che era appoggiato alla parete vicino a Crysania esplose in una marea di luce gialla, facendola sussultare quasi quanto i lampi.
«Leggi,» disse Raistlin, indicandole la pagina. Cercando di ricomporsi, Crysania abbassò lo sguardo, scorrendo la pagina, anche se non aveva nessuna idea di cosa stesse cercando. Poi la sua attenzione venne catturata. Congegno del viaggio nel tempo diceva una delle voci e, accanto ad essa, c’era l’immagine di un congegno simile a quello che il kender aveva descritto.
«È questo?» chiese, levando lo sguardo su Raistlin. «Il congegno che Par-Salian ha consegnato a Caramon per farci tornare?»
Il mago annuì, i suoi occhi rifletterono la luce del bastone.
«Leggi,» lui ripetè con voce sommessa.
Incuriosita, Crysania scorse il testo. C’era poco più d’un paragrafo che descriveva il congegno che il grande mago, adesso dimenticato, aveva concepito e fabbricato e i requisiti per il suo uso. La maggior parte della descrizione andava al di là della sua capacità di comprensione, trattandosi di cose arcane. Ne afferrò il significato a spizzichi...
... trasporterà la persona già sotto l’incantesimo del tempo avanti o indietro... deve venir montato in maniera corretta e le sfaccettature devono venir orientate nell’ordine prescritto... trasporterà soltanto una persona, la persona alla quale è stato dato nel momento in cui l’incantesimo è stato lanciato...
L’uso del congegno è ristretto agli elfi, agli umani ed agli orchi... non è richiesto nessun incantesimo... Crysania giunse alla fine e sollevò lo sguardo su Raistlin, incerta. Lui la stava guardando con una strana espressione ansiosa. Là, c’era qualcosa che Raistlin aspettava che lei trovasse. E, nel profondo del suo intimo, avvertiva un’inquietudine, una paura, un torpore, come se il suo cuore comprendesse il testo con più rapidità del suo cervello.
«Di nuovo,» disse Raistlin.
Cercando di concentrarsi, malgrado una volta ancora fosse disturbata dalla tempesta che infuriava all’esterno, aumentando ulteriormente d’intensità, Crysania esaminò di nuovo il testo.
Ed eccolo là. Le parole le balzarono addosso, afferrandola alla gola, soffocandola.
Trasporterà soltanto una persona...
Trasporterà soltanto una persona!
Crysania sentì che le gambe le cedevano. Per fortuna Raistlin spostò una sedia dietro di lei, altrimenti sarebbe stramazzata sul pavimento.
Rimase immobile per lunghi istanti, a fissare la stanza. Malgrado fosse illuminata dalla luce dei lampi e dalla magica radiosità del bastone, per lei era diventata d’un tratto un antro tenebroso.
«E lui... lo sa?» chiese infine, attraverso le labbra intorpidite.
«Caramon?» sbuffò Raistlin. «Certo che no. Se gliel’avessero rivelato, Caramon si sarebbe rotto il suo collo da imbecille per cercare di fartelo avere, e ti avrebbe supplicato in ginocchio di adoperarlo e di concedergli il privilegio di morire al tuo posto. Riesco a immaginare ben poco d’altro che potrebbe farlo più felice.
«No, Dama Crysania, lo avrebbe usato fiduciosamente, con te accanto a lui oltre al kender, senza alcun dubbio. E sarebbe rimasto sconvolto quando gli avessero spiegato per quale motivo era ritornato solo. Mi chiedo come Par-Salian sperasse di riuscirci,» aggiunse Raistlin, con un truce sorriso. «Caramon è capacissimo di fargli crollare la Torre addosso. Ma ciò che abbiamo qui non appartiene né a questo né a quello.»
Lo sguardo di Raistlin si fissò su quello di Crysania, anche se lei avrebbe voluto evitarlo. La costrinse, con la sua forza di volontà, a guardarlo negli occhi. E, ancora una volta, lei vide se stessa, sola e terribilmente spaventata.
«Ti hanno mandato qui indietro nel tempo per farti morire, Crysania,» disse Raistlin, con una voce che era poco più di un sospiro, pur penetrando fin nell’animo di Crysania, echeggiando nella sua mente con maggior forza del tuono. «È questo il Bene di cui mi parlavi? Bah! Anche loro vivono nella paura come il Gran Sacerdote! Temono te come temono me. L’unico sentiero che porta al bene, Crysania, è il mio sentiero! Aiutami a sconfiggere il Male. Ho bisogno di te...»
Crysania chiuse gli occhi. Poteva vedere di nuovo, vividamente, la calligrafia di Par-Salian sul biglietto che aveva trovato. La tua vita o la tua anima- conquista l’una e perderai l’altra! Ci sono molti modi per tornare indietro, e uno di questi è tramite Caramon. Par-Salian l’aveva fuorviata di proposito! Che altra maniera esisteva, oltre a quella di Raistlin? Era questo che il mago aveva inteso dire? Chi mai avrebbe potuto risponderle, qui? C’era qualcuno, chiunque potesse essere, in quel mondo tetro e desolato di cui potesse fidarsi?
Con i muscoli che le si contraevano, che le si contorcevano, Crysania si alzò dalla sedia. Non guardò Raistlin, tenne gli occhi fissi davanti a sé, sul nulla. «Devo andare...» mormorò con voce rotta. «Devo pensare...»
Raistlin non cercò di fermarla e non accennò ad alzarsi. Non disse una parola, fino a quando lei non ebbe raggiunto la porta.
«Domani...» allora bisbigliò. «Domani...».
Capitolo quindicesimo
Ci volle tutta la forza di Caramon, più quella di altre due guardie, per aprire le grandi porte del Tempio e farlo uscire in mezzo alla tempesta. Il vento lo colpì con tutta la sua violenza, respingendo l’omone contro la parete di pietra e tenendovelo inchiodato per un istante, come se non fosse più grande e massiccio di Tas. Caramon lottò contro il vento e alla fine vinse, la forza delle raffiche si attenuò quel tanto che bastava a permettergli di scendere la scalinata.
La furia della tempesta era un po’ meno intensa quando s’inoltrò in mezzo agli alti edifici della città, ma era pur sempre difficile procedere. In alcuni punti l’acqua era profonda un piede e gli vorticava intorno alle gambe, minacciando più di una volta di travolgerlo. I lampi quasi lo accecavano, i tuoni erano assordanti. Superfluo dire che vide pochissima gente. Gli abitanti di Istar si erano rifugiati in casa in preda alla paura, maledicendo o invocando gli dei a seconda degli stati d’animo e delle convinzioni personali. L’occasionale passante che incrociava, spinto in mezzo alla tempesta da chissà quale disperata ragione, si schiacciava contro le facciate degli edifici oppure rimaneva pietosamente rannicchiato nei vani delle porte.
Ma Caramon continuò ad avanzare, seppure a fatica, desideroso di ritornare all’arena. Il suo cuore era pieno di speranza, il suo morale era alto malgrado la tempesta. O, forse, a causa della tempesta.
Era certo che adesso Pheragas e Kiiri l’avrebbero ascoltato, invece di rivolgergli delle strane, gelide occhiate, quando cercava di convincerli a fuggire da Istar.
«Non posso dirvi come lo so... lo so, e basta!» li implorava. «E imminente un disastro. Ne sento l’odore!»
«Per perdere il torneo finale!» esclamava Kiiri con freddezza.
«Non ci sarà nessun torneo finale, con questo tempo!» Caramon agitava le braccia.
«Nessuna tempesta così violenta è mai durata a lungo!» ribatteva Pheragas. «Si esaurirà, e avremo una bellissima giornata. Inoltre,» socchiudeva gli occhi, «cosa faresti senza di noi, nell’arena?»
«Diamine, se necessario combatterò da solo,» replicava Caramon, un po’ turbato. Quando fosse giunto il momento di combattere, lui aveva in mente di esser già partito da un bel pezzo, lui e Tas e Crysania, e forse... forse...
«Se necessario...» aveva ripetuto Kiiri con un tono di voce strano a aspro, scambiando un’occhiata con Pheragas. «Grazie per aver pensato a noi, amico,» aveva detto con un’occhiata sarcastica al collare di ferro di Caramon, un collare uguale al suo, «ma no, grazie. La nostra vita sarebbe finita, schiavi fuggiaschi! Quanto tempo pensi che potremmo vivere la fuori?»
«Non avrà importanza, non dopo... non dopo...» Caramon aveva sospirato scrollando la testa, infelice. Cosa poteva dire? Come poteva farsi capire? Ma non gli avevano dato nessuna possibilità.
Si erano allontanati senza dire un’altra parola, lasciandolo solo nella mensa.
Ma adesso l’avrebbero di sicuro ascoltato! Avrebbero capito che quella non era una comune tempesta. Avrebbero avuto il tempo per riuscire a mettersi in salvo? Caramon corrugò la fronte e per la prima volta desiderò di aver prestato maggior attenzione ai libri. Non aveva nessuna idea di quanto sarebbe stata grande l’area entro la quale si sarebbero visti gli effetti devastanti della montagna di fuoco. Scosse la testa. Forse era già troppo tardi.
Be’, lui aveva tentato, si disse, mentre procedeva a fatica sguazzando nell’acqua. Distogliendo con uno sforzo i propri pensieri dalla situazione dei suoi amici, si costrinse a pensare a cose più allegre.
Ben presto se ne sarebbe andato da quel luogo terribile. Ben presto tutto gli sarebbe parso come un brutto sogno.
Sarebbe tornato a casa da Tika. Forse con Raistlin! «Terminerò di costruire la nuova casa,» disse, pensando con rincrescimento a tutto il tempo che aveva sprecato. Un’immagine gli venne alla mente. Poteva vedere se stesso accanto al fuoco, nella loro nuova casa, la testa di Tika appoggiata alle sue ginocchia. Le avrebbe raccontato le avventure che avevano vissuto. Raistlin avrebbe passato le serate con loro, a leggere, a studiare, abbigliato di bianco...
«Tika non crederà a una sola parola su tutto questo,» disse Caramon fra sé. «Ma non avrà importanza. Avrà di nuovo a casa l’uomo del quale si è innamorata. E questa volta non la lascerò mai più, per nessun motivo!». Sospirò, quasi sentendo i suoi crespi riccioli rossi che gli si attorcigliavano intorno alle dita, vedendoli risplendere al riflesso del fuoco del camino.
Questi pensieri accompagnarono Caramon in mezzo alla tempesta fino all’arena. Il grosso guerriero estrasse dal muro il blocco di pietra mobile che scopriva il passaggio usato da tutti i gladiatori per le loro scorribande notturne (Arack sapeva della sua esistenza ma, per tacito accordo, faceva finta di non vedere finché non avessero abusato di quel privilegio ed entrò. Naturalmente, non c’era nessuno nell’area dei combattimenti. Gli allenamenti erano stati tutti annullati. Tutti si erano rifugiati all’interno, maledicendo il tempo schifoso e scommettendo se avrebbero oppure no combattuto l’indomani.
Arack era di un umore quasi altrettanto schifoso degli elementi. Aveva ormai calcolato più e più volte quanti pezzi d’oro gli sarebbero scivolati via dalle mani se avesse dovuto cancellare lo Scontro Finale, l’evento sportivo dell’anno a Istar. Cercò di consolarsi al pensiero che «lui» gli aveva promesso bel tempo. E «lui» fra tutti avrebbe dovuto saperlo. Comunque, il nano guardava ugualmente fuori con espressione fosca.
Dal punto in cui si trovava, una finestra in alto nella torre sovrastante i terreni dell’arena, vide Caramon strisciare attraverso la parete di pietra.
«Raag!» indicò il grosso guerriero all’orco. Abbassando lo sguardo, Raag annuì mostrando di aver capito e, afferrando il gigantesco randello, aspettò che il nano mettesse via i suoi libri contabili.
Caramon si affrettò a raggiungere la cella che divideva con il kender, ansioso di raccontargli di Crysania e di Raistlin. Ma quando entrò, la piccola stanza era vuota.
«Tas,» fece, guardandosi intorno per accertarsi che non si trovasse in qualche angolo in mezzo alle ombre. Ma il bagliore d’un lampo illuminò la stanza con intensità maggiore della luce del giorno.
Non c’era alcun segno del kender.
«Tas, vieni fuori! Non è questo il momento di mettersi a giocare!» ordinò Caramon con voce severa. Un giorno Tasslehoff l’aveva spaventato a morte nascondendosi sotto il letto per poi balzar fuori quando Caramon gli aveva voltato la schiena. Accesa una torcia, l’omone si mise carponi, brontolando, e diresse la luce sotto il letto. Tas non c’era.
«Spero che quel piccolo sciocco non abbia tentato di uscir fuori con questa tempesta!» si disse Caramon, mentre la sua irritazione si trasformava all’improvviso in preoccupazione. «Verrà soffiato via fino a Solace. ( ) forse è andato alla mensa e mi sta aspettando. Forse è insieme a Kiiri e a Pheragas. Ecco, dev’essere così. Prendo il congegno e lo raggiungo...»
Continuando a parlare tra sé, Caramon si avvicinò alla piccola cassapanca di legno dove teneva la sua armatura. Aprendola, tirò fuori il costume dorato. Gratificandolo di un’occhiata di disprezzo, ne buttò i pezzi sul pavimento. «Per lo meno non dovrò più indossare quella tenuta,» esclamò in tono riconoscente. «Anche se,» sogghignò un po’ vergognoso, «sarebbe divertente vedere la reazione di Tika se comparissi davanti a lei rivestito di questa armatura! Chissà come si metterebbe a ridere... Ma scommetto che le piacerebbe lo stesso.» Fischiettando allegramente, Caramon si affrettò a tirar fuori tutto quello che c’era nella cassapanca e,! usando il filo di una delle spade retrattili, sollevò con attenzione il doppio fondo che aveva creato all’interno.
Smise di colpo di fischiettare.
Il doppio fondo era vuoto.
Caramon frugò freneticamente all’interno della cassapanca, tastando dappertutto, anche se era ovvio che un ciondolo grande come il congegno magico avrebbe avuto ben poche possibilità di scivolare attraverso una fessura. Con il cuore che gli batteva all’impazzata per la paura, Caramon si alzò in piedi e cominciò a frugare la stanza, illuminando ogni angolo con la luce della torcia, sbirciando ancora una volta sotto i letti. Lacerò perfino il proprio materasso di paglia e stava per cominciare a fare altrettanto con quello di Tas quando, all’improvviso, notò qualcosa.
Non soltanto il kender se n’era andato, ma lo stesso era capitato alle sue borse, a tutti i suoi amati averi. E anche al suo mantello.
E poi Caramon seppe: era stato Tas a prendere il congegno.
Ma perché?... Per un momento Caramon ebbe l’impressione che un lampo l’avesse folgorato, l’improvvisa comprensione si aprì sfrigolando la strada dal suo cervello al suo corpo con uno choc che lo paralizzò.
Tas aveva visto Raistlin, gliel’aveva raccontato. Ma cosa aveva fatto, Tas, in quel posto? Perché era andato a trovare Raistlin? D’un tratto Caramon si rese conto che il kender aveva abilmente distolto la conversazione da quel punto.
Caramon gemette. Naturalmente, il curiosissimo kender gli aveva chiesto del congegno... ma Tas era sempre parso soddisfatto delle sue risposte. Di certo non aveva mai tentato d’impadronirsene. Di tanto in tanto Caramon aveva controllato, per accertarsi che fosse ancora là, una cosa che andava sempre fatta quando si viveva con un kender. Ma se il congegno avesse incuriosito Tas quanto bastava, allora il kender lo avrebbe portato da Raistlin... L’aveva fatto spesso ai vecchi tempi, quando aveva scoperto qualcosa di magico.
O forse Raistlin aveva ingannato Tas, inducendo il kender a portarglielo! Una volta entrato in possesso di quel congegno, Raistlin poteva costringerli ad andare con lui. Aveva forse complottato per questo fin dall’inizio? Aveva ingannato Tas e raggirato Crysania? Caramon sentì la mente incespicargli nella testa in preda alla confusione. O forse...
«Tas!» gridò Caramon, aggrappandosi d’un tratto a un’azione concreta e positiva. «Devo trovare Tas! Devo fermarlo!»
Febbrilmente l’omone ghermì il suo mantello inzuppato. Era appena uscito dalla porta quando una gigantesca ombra scura gli bloccò il passaggio.
«Fuori dai piedi, Raag,» ringhiò Caramon, dimenticandosi completamente, nella sua ansia, del luogo in cui si trovava.
Raag glielo ricordò all’istante, la sua mano titanica si richiuse sulla massiccia spalla di Caramon.
«Dove vai, schiavo?»
Caramon cercò di scrollarsi di dosso la stretta dell’orco, ma Raag si limitò semplicemente a stringere ancora di più la morsa. Si udì uno scricchiolio, e Caramon rantolò per il dolore.
«Non fargli male, Raag,» ingiunse una voce da qualche punto vicino alla rotula di Caramon.
«Domani deve combattere. Cosa ancora più importante, deve vincere!»
Raag respinse Caramon dentro la cella con lo stesso sforzo d’un adulto che avesse spinto, scherzando, un bambino. Il grosso guerriero barcollò all’indietro, cadendo pesantemente sul pavimento di pietra.
«Hai proprio molto da fare, oggi,» commentò Arack, in tono disinvolto, entrando nella cella e lasciandosi andare su un letto.
Rizzandosi a sedere, Caramon si sfregò la spalla dolorante. Lanciò una rapida occhiata a Raag, il quale era ancora in piedi e bloccava la porta. Arack continuò:
«Sei già uscito una volta in questo tempo schifoso, e adesso stavi per uscire di nuovo?». Il nano scosse la testa. «No, no. Non posso permetterlo. Potresti prenderti un raffreddore...»
«Ehi,» disse Caramon, sorridendo debolmente e leccandosi le labbra aride, «stavo giusto andando alla mensa per cercare Tas...». Si ritrasse involontariamente quando una saetta esplose all’esterno.
Vi fu un crepitio assordante, con un improvviso odore di legno bruciato.
«Dimenticatene, il kender se n’è andato,» disse Arack scrollando le spalle. «E ho avuto l’impressione che se ne sia andato una volta per tutte. ha impacchettato tutte le sue cose.»
Caramon deglutì, schiarendosi la gola. «Lascia che vada a cercarlo, allora...» cominciò a dire.
Il sogghigno di Arack si contorse d’un tratto in un perfido cipiglio. «Non m’importa un dannato accidente di quel piccolo bastardo! Immagino di averci rimesso i soldi che mi ha fruttato a causa di quello che mi ha rubato. Ma su di te ho fatto un grosso investimento. Il tuo piccolo piano di fuga è fallito, schiavo.»
«Fuga?» Caramon sbottò in una risata. «Non ho mai... Non capisci...»
«Così, non capisco?» ringhiò Arack. «Non capisco che hai tentato di far fuggire due dei miei migliori combattenti? Cercavi di rovinarmi, vero?» La voce del nano divenne uno stridio acuto al di sopra dell’ululato del vento, all’esterno. «Chi ti ha indotto a farlo?». L’espressione di Arack divenne d’un tratto astuta. «Non è stato il tuo padrone, perciò non mentire. È venuto a trovarmi.»
«Rais... uhm, Fistandantilus...» balbettò Caramon, rimanendo a bocca spalancata.
Il nano sorrise compiaciuto. «Già. E Fistandantilus mi ha avvertito che avresti potuto tentare qualcosa del genere. Mi ha detto di sorvegliarti con attenzione. Ha perfino suggerito una punizione adatta per te. Il combattimento finale di domani non avverrà fra la tua squadra e i minotauri. Sarai tu contro Kiiri e Pheragas e il Minotauro Rosso!» Il nano È sporse in avanti, sbirciando maliziosamente Caramon. «E le loro armi” saranno vere!»
Caramon fissò Arack per un attimo senza capire. Poi: «Perché?» borbottò desolato. «Perché vuole uccidermi?»
«Ucciderti?» Il nano ridacchiò. «Non vuole ucciderti! Pensa che tu vincerai! “È una prova,” mi ha detto, “non voglio uno schiavo che non sia il migliore! E questo lo dimostrerà. Caramon mi ha dimostrato quello che poteva fare contro il Barbaro. Quella è stata la sua prima prova. Facciamo in modo che questa prova sia più ardua per lui,” ha concluso. Oh, è un tipo raro il tuo padrone!»
Il nano sghignazzò, battendosi le ginocchia a quel pensiero e perfino Raag dette in un grugnito che avrebbe potuto essere un’indicazione di divertimento.
«Non combatterò,» dichiarò Caramon, mentre il volto gli s’induriva in truci linee sottili.
«Uccidetemi! Non combatterò contro i miei amici. E loro non combatteranno contro di me!»
«Lui ha previsto che avresti detto proprio questo!» esclamò il nano, scoppiando in una fragorosa risata. «Non è così, Raag? Proprio le identiche parole. Per Gar, se ti conosce! Si potrebbe pensare che siate gemelli! “Così,” mi ha detto, “se rifiuterà di combattere, e lo farà, non ho alcun dubbio che gli dirai che i suoi amici combatteranno al suo posto, soltanto che combatteranno contro il Minotauro Rosso, e sarà il minotauro ad avere le armi vere!”»
Caramon ricordava vividamente il giovane che si dibatteva nell’agonia sul pavimento di pietra mentre il veleno del tridente del minotauro gli scorreva attraverso il corpo.
«In quanto ai tuoi amici,» lo schernì il nano, «Fistandantilus si è preso cura anche di quello. Dopo quello che ha detto loro, credo che saranno ansiosissimi di scendere nell’arena!»
Caramon affondò la testa nel petto. Cominciò a tremare. Il suo corpo era scosso da brividi di gelo, lo stomaco gli si attorcigliò. L’enormità della malvagità di suo fratello lo sopraffaceva, la sua mente si riempì di oscurità e di disperazione. Raistlin ci ha ingannati tutti, ha ingannato Crysania, Tas e me! È stato Raistlin a farmi uccidere il Barbaro. Mi ha mentito! Ha mentito anche a Crysania. Non è capace di amarla più di quanto la luna scura sia capace d’illuminare i cieli notturni. La sta usando! E
Tas? Tas! Caramon chiuse gli occhi. Ricordava l’espressione di Raistlin quando aveva scoperto il kender, le sue parole: «Il kender può alterare il tempo... è così che progettano di fermarmi?» Tas era un pericolo per lui, una minaccia!
Adesso non aveva più alcun dubbio, là dov’era andato Tas...
Il vento all’esterno ululava e strideva, ma non con la stessa intensità del dolore e dell’angoscia nell’anima di Caramon. Stordito e nauseato, squassato da spasimi di gelo simili ad aghi acuminati, il grosso guerriero perse completamente ogni comprensione di ciò che stava accadendo intorno a lui.
Non vide il gesto di Arack, né sentì le mani gigantesche di Raag che lo afferravano. Non sentì neppure i legami ai suoi polsi...
Fu soltanto più tardi, quando l’orribile sensazione di nausea e di dolore passò, che si rese nuovamente conto del luogo in cui si trovava...
Si trovava in una minuscola cella senza finestre molto in profondità nel sottosuolo, probabilmente al di sotto dell’arena. Raag dopo aver collegato una catena al collare di ferro intorno al suo collo, stava adesso imbullonando l’altra estremità a un anello nel muro di pietra. Poi l’orco lo fece cadere sul pavimento con una spinta e controllò le cinghie di cuoio che legavano i polsi di Caramon.
Il grosso guerriero sentì la voce del nano che l’ammoniva: «Non troppo stretto. Domani deve combattere...»
Vi fu un lontano rombo di tuono, udibile perfino così in profondità nel sottosuolo. A quel frastuono, Caramon sollevò speranzoso lo sguardo. Non potremo combattere con questo tempo...
Il nano sogghignò mentre seguiva Raag fuori della porta di legno. Fece per chiuderla sbattendola, poi sporse la testa da dietro l’angolo, agitando la barba per il godimento quando vide l’espressione sul volto di Caramon.
«Oh, a proposito, Fistandantilus dice che domani sarà una giornata bellissima. Un giorno che tutti su Krynn ricorderanno a lungo...»
La porta sbatté e venne chiusa a chiave.
Caramon sedette in solitudine, immerso in quell’oscurità densa e umida. La sua mente era calma, la nausea e lo choc l’avevano ripulita come una lavagna da ogni sensazione, da qualunque emozione.
Era solo, perfino Tas se n’era andato. Non c’era nessuno a cui poteva rivolgersi per chiedere consiglio, non c’era più nessuno che potesse prendere le decisioni al posto suo.
Adesso seppe. Adesso comprese. Era per questo che i maghi l’avevano rimandato indietro nel tempo. Essi conoscevano la verità. Ma volevano che lui l’imparasse da solo. Il suo gemello era perduto, non avrebbe potuto mai più essere recuperato.
Raistlin doveva morire.
Capitolo sedicesimo
Ad Istar quella notte nessuno dormì. Il furore della tempesta crebbe ancora fino a quando non sembrò che dovesse distruggere ogni cosa lungo il suo cammino. Il sibilo del vento era come il gemito mortifero d’una banshee, penetrando perfino gli schianti continui dei tuoni. Frastagliate saette danzavano in mezzo alle strade, facendo cadere pietre e mattoni dalle case, infrangendo perfino i vetri più spessi, permettendo al vento e alla pioggia di precipitarsi all’interno delle abitazioni come tanti selvaggi conquistatori. Le acque delle inondazioni ruggivano attraverso le strade, portandosi via le bancarelle del mercato, i recinti degli schiavi, i carri e i carrelli.
Eppure nessuno rimase ferito.
Era come se gli dei, in quell’ultima ora, tenessero le mani piegate a coppa sopra i vivi per proteggerli, sperando, implorandoli che prestassero ascolto agli ammonimenti.
All’alba la tempesta cessò. D’un tratto il mondo si riempì d’un profondo silenzio. Gli dei aspettavano, non osando neppure respirare, per timore di perdere quel singolo piccolo grido che avrebbe ancora potuto salvare il mondo.
Il sole si levò in un pallido cielo azzurro, gravido d’acqua.
Non ci fu uccello che cantò per dargli il benvenuto, nessuna foglia frusciò alla brezza del mattino, poiché non c’era nessuna brezza del mattino. L’aria era immobile e mortalmente calma. Il fumo si alzava verticale dai camini fino al cielo, le acque dell’inondazione si ritrassero rapidamente come se fossero state risucchiate da un enorme canale di scolo. La gente strisciò fuori dalle porte, guardandosi intorno, incredula che i danni non fossero peggiori e poi, esausta a causa delle molte notti insonni, tornò a letto.
Ma, malgrado tutto, c’era stata una persona a Istar che aveva dormito pacificamente per tutta quella notte. In effetti, fu l’improvviso silenzio a svegliarla.
Come a Tasslehoff Burrfoot piaceva raccontare: aveva parlato agli spettri della Foresta Scura, aveva incontrato parecchi draghi (e volato su due di loro), si era avvicinato moltissimo al maledetto Bosco di Shoikan (la vicinanza era sempre più stretta ad ogni narrazione), aveva rotto un globo dei draghi, ed era stato personalmente responsabile della sconfitta della Regina delle Tenebre (con un po’ di aiuto). Una pura e semplice tempesta, anche come quella che si era scatenata quelle notti, aveva ben poche possibilità di spaventarlo, e ancora meno di turbare il suo sonno.
Recuperare il congegno magico era stata una faccenda molto semplice. Tas scosse la testa al pensiero dell’ingenuo orgoglio di Caramon nel ritenere intelligente la scelta del nascondiglio. Tas si era astenuto dal dirlo all’omone, ma quel doppio fondo avrebbe potuto venir individuato da qualunque kender al di sopra dei tre anni di età.
Tas sollevò ansioso il congegno magico fuori dalla scatola, fissandolo con deliziata meraviglia.
Aveva dimenticato quanto fosse affascinante e piacevole a vedersi, così ripiegato in forma di ciondolo ovale. Gli pareva impossibile che le sue mani fossero in grado di ritrasformarlo in un congegno capace di compiere un simile miracolo!
In fretta e furia Tas ripassò le istruzioni di Raistlin che si era impresso nella mente. Il mago gliele aveva fornite soltanto pochi giorni prima, obbligandolo a mandarle a memoria, immaginando che Tas avrebbe perso subito delle istruzioni scritte, come gli aveva rinfacciato in tono caustico.
Non erano difficili, e in pochi attimi ritornarono alla memoria di Tas:
Il tuo tempo è il tuo anche se ci viaggi attraverso.
Le sue distese vedrai
turbinanti nell’eternità.
Non ostruire il suo flusso.
Afferra con fermezza la fine e l’inizio,
rigirali su se stessi come un guanto, e
tutto ciò che è sciolto sarà ancorato.
Il destino sarà sopra la tua testa.
Il congegno era così bello che Tas avrebbe potuto fermarsi lì a contemplarlo per ore. Ma non aveva tempo a disposizione. Così, si affrettò a cacciarlo in una delle sue borse, agguantò anche le altre - giusto nel caso in cui lui avesse trovato qualcosa che valeva la pena di portare con sé, o qualcosa avesse trovato lui...) indossò il mantello e corse fuori. Lungo il percorso ripensò alla sua ultima conversazione col mago pochi giorni prima.
«Prendi “a prestito” l’oggetto la notte prima,» gli aveva consigliato Raistlin. «La tempesta sarà spaventosa, e Caramon potrebbe mettersi In testa di andarsene. Inoltre, sarà facilissimo per te intrufolarti nella stanza conosciuta come la Camera Sacra del Tempio senza farti notare, mentre infuria la tempesta. La tempesta cesserà all’alba, e poi il Gran Sacerdote ed i ministri inizieranno la processione. Andranno nella Camera Sacra, sarà qui che il Gran Sacerdote farà le sue richieste agli dei.
«Tu dovrai trovarti nella Camera Sacra e attiverai il congegno nel momento stesso in cui il Gran Sacerdote cesserà di parlare...»
«Come fermerà il Cataclisma?» l’aveva interrotto Tas con foga. «vedrò scoccare un raggio di luce verso il cielo o qualcosa del genere-Fara stramazzare al suolo il Gran Sacerdote?»
«No,» gli aveva risposto Raistlin, con un lieve accesso di tosse, «non,,, uhm... non farà stramazzare al suolo il Gran Sacerdote. Ma hai ragione per quanto riguarda la luce.»
«Davvero?». Tas era rimasto a bocca aperta. «Ho soltanto tirato a indovinare! E fantastico! Si vede che sto migliorando con queste cose magiche.»
«Sì, aveva risposto Raistlin in tono asciutto. «Adesso, per continuare, prima che venissi interrotto...»
«Mi spiace, non succederà più,» si era scusato Tas. Poi aveva chiuso la bocca, mentre Raistlin lo fissava furioso.
«Devi sgusciare dentro la Camera Sacra durante la notte. Lo spazio dietro l’altare è tutto coperto da tende. Nasconditi là e non verrai scoperto.»
«Poi fermerò il Cataclisma, tornerò da Caramon e gli dirò tutto! Sarò un eroe...» Tas si era interrotto, un improvviso pensiero gli aveva attraversato la mente. «Ma posso essere un eroe se fermerò qualcosa che non è mai cominciato? Voglio dire, come farà la gente a sapere che ho fatto qualcosa... che non ho fatto?»
«Oh, loro lo sapranno...» aveva replicato Raistlin con voce sommessa.
«Lo sapranno? Ma non riesco lo stesso a capire... Oh, tu hai da fare immagino. Suppongo che dovrei andare. Va bene. Ehi... già, tu te ne andrai, dopo che tutta questa faccenda sarà finita,» aveva detto Tas, trovandosi sospinto in maniera piuttosto energica verso la porta dalla mano di Raistlin appoggiata sulla sua spalla. «Tu, dove andrai?»
«Dove sceglierò,» aveva detto Raistlin.
«Potrei venire con te?» aveva chiesto Tas, avidamente.
«No, ci sarà bisogno di te nel tuo tempo,» aveva risposto Raistlin, fissando il kender in maniera molto strana, o così aveva pensato Tas in quel momento. «Per badare a Caramon...»
«Sì, immagino che tu abbia ragione,» aveva sospirato il kender. «Bisogna stargli dietro.» Avevano raggiunto la porta. Tas l’aveva guardata per un momento, poi aveva sollevato su Raistlin uno sguardo carico di desiderio. «Immagino che non potresti... spedirmi da qualche parte come hai fatto l’ultima volta? È un gran bel divertimento...»
Reprimendo un sospiro, Raistlin aveva spedito cortesemente il kender dentro uno stagno in mezzo alle anatre, con grande spasso di Tas. In effetti il kender non riusciva a ricordare un’altra volta in cui Raistlin fosse stato così gentile con lui.
Dev’essere dovuto al fatto che porrò fine al Cataclisma, aveva deciso Tas. È probabile che mi sia davvero grato... soltanto non sa esprimerlo in maniera adeguata. O forse non gli è permesso dimostrare gratitudine dal momento che è malvagio.
Quello era stato un pensiero interessante che Tas aveva preso in considerazione mentre usciva a guado dallo stagno per far ritorno tutto gocciolante all’arena.
Tas se l’era ricordato di nuovo quando, la notte prima del Cataclisma-che-non-ci-sarebbe-stato, era uscito un’altra volta. Ma i suoi pensieri su Raistlin erano stati brutalmente interrotti. Non si era reso conto di quanto la tempesta fosse peggiorata, e la ferocia del vento l’aveva un po’ sconcertato, sollevandolo letteralmente da terra e sbattendolo contro il muro esterno dell’arena, non appena aveva messo il naso fuori. Dopo essersi fermato un attimo per riprender fiato e controllare se non si fosse rotto qualcosa, il kender si era tirato su e si era rimesso in cammino verso il Tempio, con il magico congegno stretto saldamente in pugno.
Questa volta aveva avuto sufficiente presenza di spirito da tenersi rasente gli edifici, avendo scoperto che lì il vento non lo sballottava poi tanto. In realtà, camminare in mezzo alla tempesta era risultata un’esperienza piuttosto esilarante. A un certo punto un fulmine aveva colpito un albero accanto a lui, riducendolo in frantumi. In un altro punto del tragitto aveva mal calcolato la profondità dell’acqua che scorreva lungo la strada ed era stato trascinato via lungo l’isolato a gran velocità. Questo era divertente, e sarebbe stato ancora più spassoso se lui fosse stato in grado di respirare. Alla fine l’acqua l’aveva scaricato in maniera piuttosto brusca in un vicolo, dove aveva potuto rialzarsi in piedi e proseguire il suo viaggio.
Tas era stato quasi dispiaciuto di raggiungere il Tempio mettendo fine a tante avventure, ma ricordando la sua Missione Importante, era scivolato attraverso il giardino facendosi strada all’interno. Una volta là, come Raistlin aveva predetto, gli era stato facile mimetizzarsi attraverso la confusione creata dalla tempesta. I chierici correvano dappertutto, cercando di asciugare i pavimenti con gli stracci e di ripulirli dai vetri rotti delle finestre, riaccendendo le torce spente dal vento, confortando coloro che non ce la facevano più a resistere alla tensione.
Non aveva idea di dove si trovasse la Camera Sacra, ma non c’era niente che gli piacesse di più del vagare per luoghi strani e sconosciuti.
Due o tre ore (e parecchie borse rigonfie) più tardi si era imbattuto in una stanza che coincideva esattamente con la descrizione di Raistlin. qui giunto, essendo piuttosto affaticato, Tas era stato contento di riposare Dopo aver esaminato la stanza e averla trovata noiosamente vuota, avev oltrepassato l’altare, (vuoto anche quello,) e si era acquattato dietro tende, sperando (anche se era stanco) di trovare qualche tipo di caverna segreta dove il Gran Sacerdote stesse celebrando riti sacri vietati agli occhi dei comuni mortali.
Guardandosi intorno, aveva sospirato. Niente... niente più di una parete coperta da tende. Sedendosi dietro le tende, aveva disteso il suo mantello per farlo asciugare, si era strizzato l’acqua dal ciuffo, e con l’aiuto del bagliore dei lampi che entrava dalle finestre di vetro colorato aveva cominciato a mettere ordine tra gli oggetti interessanti che erano finiti nelle sue borse.
Dopo un po’ le sue palpebre erano diventate troppo pesanti per riuscire a tenerle aperte e gli sbadigli avevano cominciato a fargli male alle mascelle. Acciambellandosi sul pavimento era scivolato nel sonno, soltanto un po’ infastidito dal rombo dei tuoni. Il suo ultimo pensiero era stato per Caramon... Si era già accorto della sua assenza e, a causa di ciò, era molto arrabbiato?
La cosa successiva che Tas aveva notato, era il silenzio. Perché mai questo avesse dovuto destarlo da un sonno perfettamente tranquillo fu sulle prime un mistero. Era anche un mistero il luogo in cui si trovava, ma poi se ne ricordò.
Oh, sì. Si trovava nella Camera Sacra del Tempio del Gran Sacerdote di Istar. Oggi era il giorno del Cataclisma. Trovando che tutto questo lo confondeva parecchio... alterare il tempo era un tale fastidio... Tas decise di non pensarci e di cercare invece di capire perché ci fosse tanto silenzio.
Poi se ne rese conto. La tempesta era cessata! Proprio come Raistlin aveva detto che sarebbe successo. Alzandosi in piedi, Tas sbirciò fuori, attraverso le tende, nella Camera Sacra. Attraverso le finestre poteva vedere la viva luce del sole. Tas deglutì per l’eccitazione.
Non aveva nessuna idea di che ora fosse ma, a giudicare dal bagliore del sole, doveva essere quasi metà mattina. Ricordò che la processione sarebbe cominciata tra poco, e avrebbe impiegato un po’ per dipanarsi attraverso il Tempio. Il Gran Sacerdote avrebbe invocato gli dei all’Alta Veglia, una volta che il sole avesse raggiunto il suo zenit nel cielo.
E infatti, mentre Tas pensava a questo, le campane si misero a suonare a distesa proprio sopra di lui, o per lo meno così gli parve, e il loro clangore lo sorprese più del tuono. Per un momento si chiese se non fosse condannato a passare il resto della vita con quei rintocchi che gli echeggiavano nelle orecchie... Poi le campane della Torre sopra di lui smisero di suonare, e qualche istante dopo lo fecero anche le campane dentro la sua testa. Sospirò di sollievo, e sbirciò di nuovo fuori dalle pieghe delle tende dentro la Camera Sacra, chiedendosi se non ci fosse la possibilità che arrivasse qualcuno a far le pulizie, quando vide una figura indistinta sgusciare dentro la stanza.
Tas si ritrasse. Tenendo le tende scostate soltanto di uno spiraglio, guardò con un occhio solo. La figura teneva la testa china, i suoi passi erano lenti e incerti. Sostò un attimo per appoggiarsi a uno dei banchi di pietra che fiancheggiavano l’altare, come se fosse troppo stanca per proseguire, poi cadde in ginocchio. Anche se indossava le vesti bianche come chiunque altro nel Tempio, a Tas parve che quella figura avesse un aspetto familiare perciò, quando fu abbastanza sicuro che l’attenzione della figura non era rivolta a lui, si arrischiò ad allargare lo spiraglio.
«Crysania!» disse fra sé con interesse. «Mi chiedo perché sia arrivata così presto...». Poi venne colto da un improvviso, sconfortante disappunto. E se anche lei si fosse trovata là per fermare il Cataclisma? «Accidentaccio! Raistlin ha detto che io potevo riuscirci...» borbottò.
Poi si rese conto che Crysania stava parlando: stava dicendo qualcosa fra sé, oppure pregava, Tas non ne fu ben sicuro. Tenendosi accostato alla tenda quanto più osava, ascoltò le parole sommesse da lei pronunciate.
«Paladine, dio dell’eterna bontà, il più grande e il più saggio, ascolta la mia voce in questo giorno di suprema tragedia. So che non posso fermare ciò che sta per giungere. E, forse è segno di mancanza di fede che io metta anche soltanto in dubbio ciò che fai. Ti chiedo soltanto questo, aiutami a capire! Mostrami che non ho fallito, tornando qui indietro nel tempo per compiere tutto ciò che mi ero proposta.
«Concedimi di poter restare qui, senza essere vista, e di ascoltare ciò che nessun mortale ha mai udito, né è sopravvissuto per poterlo riferire: le parole del Gran Sacerdote. È un brav’uomo, forse troppo bravo.» Crysania si prese la testa fra le mani. «La mia fede è appesa a un filo,» disse con voce talmente sommessa che Tas a stento riuscì a sentirla. «Mostrami qualche giustificazione per questo terribile gesto. Se è un tuo capriccio, morirò come è stato stabilito, forse insieme a tutti coloro che da tempo hanno perduto la fede nei veri dei...»
«Non dire che hanno perduto la loro fede, Reverenda Figlia.» Dall’aria sgorgò una voce che sorprese talmente il kender da farlo quasi cadere fuori dalle tende. «Di’ piuttosto che la loro fede nei veri dei è stata sostituita dalla loro fede in quelli falsi: il denaro, il potere, l’ambizione...»
Crysania sollevò la testa con un gemito, al quale Tas fece eco, ma fu la vista del suo volto, non la vista d’una risplendente figura bianca che si stava materializzando accanto a lei, che indusse il kender a trattenere il respiro. Era ovvio che Crysania non aveva dormito per molte notti, i suoi occhi erano grandi, cerchiati di scuro e infossati. Le guance erano scavate, le labbra secche e screpolate. Non si era data la pena di pettinarsi, i capelli le ricadevano sul viso come nere ragnatele mentre fissava timorosa e allarmata quella strana figura spettrale.
«Chi... chi sei?» balbettò.
«Mi chiamo Loralon. E sono venuto a condurti via. La tua morte non è contemplata, Crysania. Adesso sei l’ultimo vero chierico su Krynn e puoi unirti a noi che ce ne siamo andati molti giorni addietro.»
«Loralon, il grande chierico di Silvanesti,» mormorò Crysania. Lo fissò per lunghi istanti, stringendo nervosamente le mani davanti a sé mentre s’inginocchiava. «Non ancora. Devo ascoltare il Gran Sacerdote. Devo capire...»
«Non hai capito già abbastanza?» le chiese Loralon con severità. «Cosa hai sentito nella tua anima, quella notte?»
Crysania deglutì, poi si scostò i capelli dal viso con mano tremante. «Sgomento, umiltà,» bisbigliò.
«Certamente tutti devono sentire questo davanti alla potenza degli dei...»
«Nient’altro?» insistè Loralon. «Invidia, forse? Il desiderio di emularli? Di esistere al loro stesso livello?»
«No!» rispose Crysania con rabbia, poi arrossì, volgendo altrove la faccia.
«Adesso vieni con me, Crysania,» insistette Loralon. «Una vera fede non ha bisogno di dimostrazioni, di nessuna giustificazione, per credere a ciò che nel proprio cuore sa che è giusto.»
«Le parole del mio cuore echeggiano vuote nella mia mente,» replicò Crysania. «Sono soltanto ombre. Devo vedere la verità, che risplende alla limpida luce del giorno! No, non verrò via con te. Rimarrò a sentire quello che dirà! Saprò se gli dei sono giustificati!»
Loralon la guardò con un’espressione che era più di pietà che di collera. «Non guardi la luce, anche se ti trovi davanti ad essa. L’ombra che vedi proiettarsi davanti a te è la tua. La prossima volta che vedrai con chiarezza, Crysania, sarà quando verrai accecata dalla tenebra... la tenebra interminabile. Addio, Reverenda Figlia.»
Tasslehoff sbatté le palpebre e si guardò intorno. Il vecchio elfo se n’era andato! Si era mai trovato veramente là? Il kender se lo chiese con! inquietudine. Ma doveva esserci stato, poiché Tas poteva ancora ricordare le sue parole. Si sentiva raggelato e confuso. Cosa aveva voluto dire? Tutto gli era suonato così strano. E che cosa aveva voluto dire Crysania dichiarando che era stata mandata là a morire?
Poi il kender si rasserenò. Nessuno dei due sapeva che il Cataclisma non ci sarebbe stato. Non c’era da stupirsi che Crysania si sentisse triste e depressa.
«È probabile che si rallegri non poco quando scoprirà che dopotutto il mondo non verrà affatto devastato,» si disse Tas.
E poi il kender udì delle voci lontane levarsi in un canto. La processione! Stava cominciando. Per l’eccitazione Tas fu quasi sul punto di lanciare un evviva. Temendo di venir scoperto, si affrettò a tapparsi la bocca con le mani. Poi diede un’ultima rapida sbirciata a Crysania. Sedeva sconsolata, facendosi piccola piccola al suono della musica. Distorta dalla distanza, questa suonava stridente, aspra e sgradevole. Il volto di Crysania era cinereo, al punto che Tas, per un attimo, si allarmò, ma poi vide che stringeva le labbra con fermezza, con lo sguardo che le s’incupiva.
«Ti sentirai bene molto presto,» le disse Tas in silenzio, poi il kender si ritrasse dietro la tenda per tirar fuori dalla sua borsa il meraviglioso congegno magico. Si sedette, tenendo il congegno fra le mani, e attese.
La processione parve durare un’eternità, per lo meno dal punto di vista del kender. Sbadigliò. Le Missioni Importanti erano decisamente noiose, decise con irritazione, e sperò che qualcuno avrebbe apprezzato quello che lui aveva dovuto sopportare, una volta che tutto fosse finito. Gli sarebbe piaciuto da matti giocherellare con quel congegno magico, ma Raistlin gli aveva bene inculcato nella mente che doveva lasciarlo stare fino a quando non fosse giunto il momento, e poi seguire le istruzioni alla lettera. Talmente intensa era stata l’espressione negli occhi di Raistlin e talmente gelida la sua voce da penetrare perfino l’atteggiamento incurante del kender. Tas sedeva là, tenendo stretto l’oggetto magico, quasi timoroso di muoversi.
Poi, proprio quand’era sul punto di rinunciare, in preda alla disperazione (e il suo piede sinistro stava lentamente perdendo ogni sensibilità) sentì un’esplosione di voci bellissime subito fuori della porta! Una luce brillante penetrò le tende. Il kender combatté la propria curiosità, ma alla fine non riuscì a resistere alla tentazione di dare una sbirciatina. Dopotutto, non aveva mai visto il Gran Sacerdote. Dicendosi che aveva bisogno di vedere quello che stava succedendo, lanciò un’altra occhiata attraverso la fessura.
La luce quasi lo accecò.
«Grande Reorx!» farfugliò il kender, coprendosi gli occhi con le mani. Ricordò che una volta, da bambino, aveva sollevato lo sguardo sul sole, cercando di capire se era davvero una gigantesca moneta d’oro e, se era così, in qual modo avrebbe potuto toglierla dal cielo. Era stato costretto a letto per tre giorni, con degli stracci inzuppati sugli occhi.
«Chissà come ci riesce?» si chiese Tas, mentre arrischiava un’altra occhiatina attraverso le dita.
Fissò il cuore di quella luce, come aveva fissato il sole. E vide la verità. Il sole non era una moneta d’oro. Il Gran Sacerdote era soltanto un uomo.
Il kender non provò il tremendo choc che aveva scosso Crysania quando aveva visto l’uomo vero che c’era dietro l’illusione. Forse ciò era dovuto al fatto che Tas non aveva preconcetti su come il Gran Sacerdote avrebbe dovuto essere. I kender non si lasciavano mai sgomentare da niente o da nessuno (anche se Tas doveva ammettere di sentirsi un po’ strano nelle vicinanze del cavaliere della morte, Lord Soth.) Rimase perciò solo moderatamente sorpreso nel vedere che il tanto sacro Gran Sacerdote era niente più di un umano di mezza età, mezzo calvo, con pallidi occhi azzurri, e l’espressione terrorizzata di un cervo intrappolato in una macchia. Tas rimase sorpreso, e deluso.
«Mi sono preso tutti questi fastidi per niente,» pensò il kender, irritato. «Non ci sarà nessun Cataclisma. Non credo che quest’uomo riuscirebbe a farmi arrabbiare abbastanza da indurmi a lanciargli addosso una torta, per non parlare di un’intera montagna di fuoco.»
Ma Tas non aveva nient’altro da fare (e moriva davvero dalla voglia di far funzionare il congegno magico), perciò decise di rimanere là ad osservare e ad ascoltare. Malgrado tutto, qualcosa avrebbe potuto succedere. Cercò di vedere Crysania, chiedendosi cosa provasse, ma l’alone di luce che circondava il re sacerdote era così luminoso che non riusciva a, vedere nient’altro nella stanza.
Il Gran Sacerdote camminò fin davanti all’altare, muovendosi lentamente, con lo sguardo che guizzava a destra e a sinistra. Tas si chiese se, il Gran Sacerdote avrebbe visto Crysania, ma a quanto pareva era accecato anche lui dalla propria luce, poiché il suo sguardo le passò sopra senza notarla. Arrivato all’altare, non s’inginocchiò a pregare come aveva fatto Crysania. Tas ebbe l’impressione che fosse sul punto di farlo, ma poi il Gran Sacerdote scosse rabbiosamente la testa e rimase là in piedi.
Dal suo punto di visuale, direttamente dietro e un po’ sulla sinistra dell’altare, Tas era in grado di contemplare senza difficoltà la faccia dell’uomo. Ancora una volta il kender strinse il magico congegno in preda all’eccitazione, poiché l’espressione di puro terrore in quegli occhi acquosi era stata nascosta dalla maschera dell’arroganza.
«Paladine,» strombazzò il Gran Sacerdote, dando a Tas la chiara impressione che quell’uomo si stesse rivolgendo a un subalterno. «Paladine, vedi il male che mi circonda! Sei stato testimone delle calamità che hanno flagellato Krynn nei giorni scorsi. Tu sai che questo male è diretto contro la mia persona, poiché io sono il solo che lo combatte! Certamente, adesso devi aver capito che questa dottrina dell’equilibrio non può funzionare!»
La voce del Gran Sacerdote perse quello squillo aspro, per diventare morbida e sommessa come un flauto. «Capisco, naturalmente. Ai vecchi tempi, quand’eri debole, dovevi praticare questa dottrina. Ma adesso hai me, il tuo braccio destro, il tuo vero rappresentante su Krynn. Con la nostra potenza unita, posso spazzare via il Male da questo mondo. Posso distruggere la razza degli orchi! Mettere in riga i capricciosi umani! Trovare nuove terre lontane per i nani e i kender e gli gnomi, quelle razze che non hai creato...»
Che insulto! pensò Tas, irritatissimo. Ho una mezza idea di lasciare che procedano e gli facciano cascare addosso la montagna!
«E regnerò nella gloria,» la voce del Gran Sacerdote divenne un crescendo, «dando inizio a un’epoca in grado di rivaleggiare perfino con la favolosa Era dei Sogni!» Il Gran Sacerdote spalancò le braccia. «Paladine, hai dato questo e anche di più a Huma, il quale altri non era che un cavaliere rinnegato di infimi natali! Esigo che tu dia anche a me il potere di cacciare le ombre del Male che oscurano questa terra.»
Il Gran Sacerdote a questo punto tacque, aspettando, con le braccia sollevate.
Tas trattenne il fiato, aspettando anche lui, stringendo il magico congegno fra le mani.
E poi il kender sentì la risposta. L’orrore s’impadronì di lui, una paura che non aveva mai provato prima, neppure in presenza di Lord Soth o vicino al Bosco di Shoikan. Tremando, il kender cadde sulle ginocchia e chinò la testa, piagnucolando e tremando, implorando misericordia e perdono da qualche forza invisibile. Potè sentir giungere, da oltre la tenda, in risposta al suo farfugliare incoerente, un’eco, e seppe che Crysania era là, e anche lei sentiva quell’orribile collera rovente che si stava abbattendo su di loro come il tuono della tempesta.
Ma il Gran Sacerdote non disse una sola parola. Rimase là a fissare speranzoso il cielo che non poteva vedere attraverso le massicce mura e i soffitti del suo Tempio... il cielo che non poteva vedere a causa della propria luce.
Capitolo diciassettesimo.
Fermamente deciso ad agire, Caramon piombò in un sonno esausto e, per alcune ore, fu benedetto dall’oblio. Si svegliò con un sussulto e trovò Raag chino su di lui intento a spezzargli le catene.
«E questi?» gli chiese Caramon, sollevando i polsi imprigionati.
Raag scosse la testa. Anche se Arack non pensava proprio che lo stesso Caramon sarebbe stato così pazzo da tentare, disarmato, di sopraffare l’orco, il nano aveva visto abbastanza follia negli occhi dell’uomo, la sera prima, da non voler correre rischi.
Caramon sospirò. Sì, aveva preso davvero in esame quella possibilità, come ne aveva esaminate molte altre quella notte, ma l’aveva scartata. La cosa più importante era rimanere in vita, per lo meno fino a quando non si fosse assicurato che Raistlin era morto. Dopo, niente avrebbe più avuto importanza...
Povera Tika... Avrebbe atteso, atteso, fino a quando un giorno si sarebbe svegliata rendendosi conto che lui non sarebbe mai più tornato a casa.
«Muoviti!» grugnì Raag.
Caramon si mosse, seguendo l’orco su per le scale umide e contorte che conducevano fuori dai magazzini sotto l’arena. Scosse la testa, sgombrandola dai pensieri su Tika. Questi avrebbero potuto indebolire la sua determinazione, e lui non poteva permetterselo. Raistlin doveva morire. Era come se la notte scorsa il lampo avesse illuminato una parte della mente di Caramon che era rimasta al buio per anni. Infine, aveva visto la vera portata delle ambizioni di suo fratello, la sua bramosia di potere. Infine, Caramon aveva smesso di cercare delle scusanti per lui. Lo irritava ammetterlo, ma perfino l’elfo scuro, Dalamar, conosceva Raistlin assai meglio di lui, suo fratello gemello.
L’amore l’aveva accecato e, a quanto pareva, aveva accecato anche Crysania. Caramon ricordò un detto di Tanis: «Non ho mai visto nulla fatto per amore che abbia portato al male». Sbuffò. Be’, c’era una prima volta per tutto (questo era stato uno dei detti favoriti di Flint). Una prima volta... e un’ultima.
Caramon non aveva nessuna idea di come avrebbe fatto a uccidere suo fratello. Ma non era preoccupato. Dentro di sé provava una strana sensazione di pace. Stava pensando con una chiarezza e una logica che lo lasciavano stupefatto. Sapeva di poterlo fare. E neppure Raistlin avrebbe potuto fermarlo, non questa volta. L’incantesimo magico del viaggio nel tempo avrebbe richiesto la completa concentrazione del mago. L’unica cosa che avrebbe potuto fermare Caramon era la morte stessa.
E perciò, si disse Caramon trucemente, dovrò vivere.
Rimase tranquillo, senza muovere un muscolo o pronunciare una parola, mentre Arack e Raag si sforzavano di farlo entrare nella sua armatura.
«Non mi piace,» borbottò il nano più di una volta rivolto all’orco, mentre vestivano Caramon.
L’espressione calma, impassibile dell’omone rendeva il nano ancora più inquieto che se si fosse trovato davanti a un toro infuriato. L’unica volta che Arack vide un guizzo di vita sulla faccia stoica di Caramon fu quando gli affibbiò la spada corta alla cintura. L’omone abbassò lo sguardo su di essa, riconoscendo l’inutile materiale di scena per quello che era. Arack lo vide sorridere amaramente.
«Tienilo d’occhio,» ordinò Arack, e Raag annuì. «E tienilo lontano dagli altri finché non entrerà nell’arena.»
Raag annuì di nuovo, poi condusse Caramon, con le mani legate, dentro i corridoi sotto l’arena dove gli altri aspettavano. Kiiri e Pheragas lanciarono un’occhiata a Caramon quando entrò. Il labbro di Kiiri si arricciò, e gli voltò freddamente le spalle. Caramon incontrò lo sguardo di Pheragas senza batter ciglio, senza pregare o implorare con gli occhi. Questo non era ciò che Pheragas si era aspettato, a quanto pareva. Dapprima il nero parve confuso poi, dopo che Kiiri gli ebbe bisbigliato qualche parola, anche lui gli voltò le spalle. Ma Caramon vide anche le spalle di Pheragas abbassarsi all’improvviso, mentre l’uomo scuoteva la testa.
Poi un fragore si levò dalla folla, e Caramon spostò lo sguardo su ciò che poteva vedere delle tribune. Era quasi mezzogiorno. I Giochi sarebbero cominciati all’Alta Veglia in punto. Il sole risplendeva nel cielo, la gente, essendo riuscita a dormire un po’, era numerosa e di umore particolarmente buono. Erano previsti alcuni combattimenti preliminari, per stuzzicare l’appetito della folla e accrescere la tensione. Ma la vera attrazione era lo Scontro Finale, quello che avrebbe stabilito chi sarebbe stato il campione, lo schiavo che avrebbe vinto la propria libertà o, nel caso del Minotauro Rosso, abbastanza ricchezze da durargli per anni.
Arack, saggiamente, mantenne alta l’andatura dei primi combattimenti, rendendoli leggeri, perfino comici. Per l’occasione aveva importato qualche nano dei burroni, e li aveva mandati nell’arena dando loro delle vere armi (che, naturalmente, non avevano nessuna idea di come usare). Il pubblico ululava la sua contentezza, ridendo fino alle lacrime alla vista dei nani che inciampavano sulle loro stesse spade, vibrandosi stoccate feroci con l’elsa dei pugnali, oppure voltando le spalle e scappando fuori dall’arena strillando a squarciagola. Naturalmente il pubblico non si godette il numero quanto gli stessi nani che, alla fine, buttarono via tutte le armi e si lanciarono in un combattimento con il fango. Dovettero esser portati fuori dall’arena a viva forza.
La folla applaudì, ma adesso molti cominciarono a pestare i piedi esigendo, di buonumore ma ugualmente impazienti, l’attrazione principale. Arack tirò la cosa alquanto in lungo ben sapendo, da quell’uomo di spettacolo che era, quanto fosse utile espandere la loro eccitazione. Aveva ragione.
Ben presto le tribune giunsero a oscillare a causa della folla che applaudiva frenetica, batteva i piedi e cantava.
E fu così che nessuno tra la folla sentì il primo tremore.
Caramon lo sentì, e lo stomaco gli sobbalzò quando il suolo tremò sotto i suoi piedi. Si sentì raggelare dalla paura... non la paura di morire, ma la paura di morire senza riuscire a portare a compimento il suo obbiettivo. Sollevando con ansia lo sguardo al cielo, cercò di ricordare ogni singola leggenda che aveva udito sul Cataclisma. Gli parve di ricordare che si era abbattuto verso la metà del pomeriggio. Ma c’erano stati terremoti, eruzioni vulcaniche, spaventosi disastri naturali di ogni genere su tutto Krynn ancora prima che la montagna di fuoco si schiantasse sulla città di Istar facendola affondare talmente in profondità nel suolo che il mare l’aveva sommersa.
Caramon ricordava vividamente le rovine di quella città condannata come le aveva viste dopo che la loro nave era stata risucchiata dentro il vortice di quello che, nel suo tempo, era conosciuto come il Mare di Sangue di Istar. Allora gli elfi del mare li avevano salvati, ma non ci sarebbe stata nessuna salvezza per quella gente. Vide ancora una volta gli edifici contorti e infranti. La sua anima si ritrasse per l’orrore e si rese conto, con un sussulto, di aver tenuto lontano dalla sua mente quel terribile spettacolo.
Non ho mai creduto sul serio che sarebbe successo, si rese conto, rabbrividendo, per la paura, mentre il terreno fremeva quasi per solidarietà. Ho soltanto poche ore a disposizione, forse neppure tanto. Devo uscire da qui. Devo raggiungere Raistlin!
Poi si calmò. Raistlin lo aspettava. Raistlin aveva bisogno di lui, o per lo meno aveva bisogno di un «guerriero addestrato». Raistlin si sarebbe assicurato che lui avesse tempo in abbondanza, tempo di vincere e di arrivare fino a lui. Oppure tempo per perdere e venir sostituito.
Ma fu con una sensazione di enorme sollievo che Caramon sentì cessare il tremito, poi udì la voce di Arack provenire dal centro dell’arena che annunciava lo Scontro Finale.
«Un tempo hanno combattuto come una squadra, signore e signori, e come voi tutti sapete, è stata la migliore squadra che abbiamo mai visto da molti anni a questa parte. Molte volte avete visto uno di loro rischiare la propria vita per salvare quella di un compagno di squadra. Erano come fratelli,»
Caramon trasalì a queste parole, «ma adesso sono acerrimi nemici, signore e signori, poiché quando si tratta della libertà, della ricchezza, di vincere questo Gioco, il più grande di tutti, l’amore deve accontentarsi dell’ultima fila. Daranno tutto di se stessi, di questo potete essere sicuri, signore e signori. Questo è un combattimento all’ultimo sangue fra Kiiri, la Sirine, Pheragas di Ergoth, Caramon il Vittorioso, e il Minotauro Rosso. Non lasceranno questa arena se non con i piedi in avanti!»
La folla applaudì e ruggì. Anche se sapevano che era una finta, adoravano convincere se stessi che non lo era. Il ruggito crebbe d’intensità quando il Minotauro entrò, la sua faccia bestiale come sempre sdegnosa. Kiiri e Pheragas gli lanciarono un’occhiata, guardarono il tridente che impugnava, poi si scambiarono un’occhiata. La mano di Kiiri si serrò intorno al pugnale.
Caramon sentì che il terreno aveva ripreso a tremare. Poi Arack chiamò il suo nome. Era giunto il momento dell’inizio del Gioco.
Tasslehoff sentì il primo tremito e per un momento pensò che fosse soltanto la sua immaginazione, una reazione a quella terribile collera che rullava intorno a loro. Poi vide le tende ondeggiare avanti e indietro e si rese conto che, sì, il suolo tremava davvero...
Attiva il congegno! echeggiò all’improvviso una voce nel suo cervello. Con le mani che gli tremavano, gli occhi puntati sul ciondolo, Tas ripetè le istruzioni:
«Il tuo tempo è il tuo, vediamo, giro la faccia verso di me. ecco. anche se ci viaggi attraverso. sposto questa piastra da destra a sinistra. vedi come si espande, la piastra posteriore cade, formando due dischi collegati da aste... funziona!»
Eccitatissimo, Tass continuò:
«...attraverso l’eternità, giro la cima rivolta verso di me in senso antiorario dal fondo. non ostacolare il suo scorrere. Assicurati che la catenella del ciondolo sia libera... ecco, esatto. Adesso, stringi con mano ferma l’inizio e la fine. Tieni i dischi ad entrambe le estremità. girali su se stessi, così, e tutto quello che è sciolto sarà assicurato. La catenella si arrotolerà da sola dentro il corpo! Non è meraviglioso? Lo sta proprio facendo! Adesso, il destino sarà sopra la tua testa. Lo tengo sopra la mia testa e... aspetta! C’è qualcosa che non va! non credo che debba succedere questo...»
Un minuscolo pezzo ingioiellato cadde dal congegno, colpendo Tas sul naso. Poi un altro, e un altro ancora, fino a quando il kender, sconvolto, si ritrovò in mezzo ad una vera pioggia di frammenti multicolori.
«Cosa?» Tas fissò con occhi spiritati il congegno che teneva sollevato sopra la testa. Con movimenti frenetici girò di nuovo le estremità. Questa volta la pioggia dei frammenti divenne un rovescio, tintinnando sul pavimento con note squillanti simili ai rintocchi delle campane.
Tasslehoff non ne era sicuro, ma non credeva proprio che il comportamento dovesse essere quello.
Comunque, non si poteva mai sapere, specialmente quando si trattava dei giocattoli degli stregoni.
Lo guardò, trattenendo il fiato, aspettando la luce...
D’un tratto il terreno gli sobbalzò sotto i piedi, scagliandolo oltre le tende e facendolo finire lungo disteso sul pavimento ai piedi del Gran Sacerdote. Ma l’uomo non si accorse della presenza del kender dal volto cinereo. Il Gran Sacerdote si guardava intorno con perfetta serenità, osservando con spassionata curiosità le tende che s’increspavano come onde, le minuscole crepe che all’improvviso avevano cominciato a ramificarsi attraverso l’altare di marmo. Sorridendo fra sé, come rassicurato che quella fosse l’acquiescenza degli dei, il Gran Sacerdote voltò le spalle all’altare che si andava sbriciolando e tornò indietro lungo la corsia centrale, passando davanti ai banchi che tremavano e uscendo nella sezione principale del Tempio.
«No!» gemette Tas, scuotendo il congegno. In quell’istante, i sottili cilindri che collegavano le due estremità dello scettro si separarono fra le sue mani. La catena gli scivolò fra le dita. Lentamente, tremando quasi quanto il pavimento sul quale giaceva, Tasslehoff si rialzò, stringendo in mano i pezzi rotti del congegno magico.
«Cos’ho fatto?» gemette Tas. «Ho seguito le istruzioni di Raistlin, sono sicuro di averle seguite! Io...»
E d’un tratto il kender seppe. Attraverso le lacrime tutti quei frammenti luccicanti divennero una macchia confusa. «È stato così carino con: me,» mormorò Tas. «Mi ha fatto ripetere le istruzioni più e più volte, per essere sicuro che tu abbia capito bene, mi aveva detto.» Tas serrò gli occhi, bramando ardentemente che quando li avesse riaperti tutto gli fosse apparso come un brutto sogno.
Ma quando li riaprì, non fu così.
«Ho fatto tutto nel modo giusto. Voleva che lo rompessi!» Tas piagnucolò, rabbrividendo.
«Perché? Per farci arenare qui! Per farci morire tutti? No! Vuole Crysania, lo hanno detto i maghi della Torre. Ecco!» Tas si girò di scatto. «Crysania!»
Ma il chierico non lo sentì né lo vide. Con lo sguardo fisso davanti a sé, immobile, malgrado il pavimento le tremasse sotto i ginocchi là dov’era genuflessa, gli occhi di Crysania ardevano di un’arcana luce interiore. Le sue mani, ancora congiunte come in preghiera, erano serrate con tale forza l’una sull’altra che le dita erano diventate d’un rosso scarlatto e le nocche bianchissime.
Le sue labbra si muovevano. Stava pregando?
Correndo di nuovo dietro le tende, Tas si affrettò a raccogliere ogni più minuscolo frammento del congegno ingioiellato. Raccolse la catenella che era scivolata quasi del tutto dentro una crepa del pavimento, poi ficcò il tutto in una borsa e la chiuse accuratamente. Dando un’ultima occhiata al pavimento, strisciò fuori nella Camera Sacra.
«Crysania,» bisbigliò. Detestava dover disturbare le sue preghiere, ma la faccenda era troppo urgente.
«Crysania?» disse ancora, avvicinandosi e fermandosi accanto a lei, dal momento che appariva ovvio che non era neppure consapevole della sua presenza.
Osservando le sue labbra, vi lesse le parole silenziose:
«So...» stava dicendo Crysania, «so qual è stato il-mio errore! Forse a me gli dei concederanno quello che hanno negato a lui!»
Tirando un profondo respiro, abbassò la testa. «Grazie, Paladine. Grazie!» la sentì intonare Tas, con fervore. Poi, Crysania si alzò rapidamente in piedi. Lanciando un’occhiata un po’ stupita agli oggetti che tutt’intorno a lei nella stanza si agitavano in una danza mortale, il suo sguardo guizzò sopra la testa del kender senza vederlo.
«Crysania!» barbugliò il kender, questa volta tirandola per le vesti bianche, «Crysania, l’ho rotto! L’unica nostra via di scampo per tornare! Una volta ho rotto un globo dei draghi. Ma quel giorno lo feci apposta! Questo non ho mai avuto intenzione di romperlo. Povero Caramon! Devi aiutarmi! Vieni con me, parla a Raistlin, fa’ in modo che l’aggiusti!»
Il chierico abbassò su Tasslehoff uno sguardo privo d’espressione, come se il kender fosse un estraneo che l’avesse accostata per strada, «Raistlin!» mormorò, staccando con gentilezza ma con fermezza le mani del kender dalla sua veste. «Certo! Aveva cercato di dirmelo, ma io non ho voluto ascoltare. E adesso so. Conosco la verità!»
Spingendo via Tas, Crysania raccolse le sue morbide vesti bianche, corse fuori dalla fila dei banchi e si precipitò lungo la corsia centrale senza guardare una sola volta dietro di sé, mentre le fondamenta stesse del Tempio sobbalzavano.
Fu soltanto quando Caramon ebbe cominciato a salire le scale che conducevano fuori nell’arena che Raag rimosse i legacci che imprigionavano i polsi del gladiatore. Flettendo le dita e sogghignando, Caramon seguì Kiiri e Pheragas e il Minotauro Rosso fino al centro dell’arena. Il pubblico l’applaudì. Caramon, prendendo il suo posto fra Kiiri e Pheragas, lanciò un’occhiata nervosa al cielo. Era passata l’Alta Veglia e il sole aveva incominciato la sua lunga discesa.
Istar non sarebbe mai vissuta per vedere il tramonto.
Pensando a questo, e pensando che anche lui non avrebbe mai più rivisto i raggi del sole inondare lo sperone d’una fortezza, o fondersi con il mare, o illuminare le cime dei vallenwood, Caramon sentì le lacrime pungergli gli occhi. Non piangeva tanto per sé, quanto per quelli che gli erano accanto, i quali quel giorno dovevano morire, e per tutti gli innocenti che sarebbero periti senza capirne il perché.
Piangeva anche per il fratello che aveva amato, ma le sue lacrime per Raistlin erano per qualcuno che era morto molto tempo addietro.
«Kiiri, Pheragas,» disse Caramon a bassa voce quando il minotauro avanzò a grandi passi per inchinarsi da solo davanti agli spettatori, «non so che cosa il mago vi abbia detto, ma io non vi ho mai traditi.»
Kiiri si rifiutò anche soltanto di guardarlo. Vide il suo labbro che si arricciava. Pheragas, lanciandogli un’occhiata con la coda dell’occhio, vide la chiazza delle lacrime sul volto di Caramon ed esitò, corrugando la fronte, prima di volgere anche lui altrove lo sguardo.
«In realtà non ha importanza,» continuò Caramon, «che mi crediate o no. Potete uccidervi tra di voi per la chiave, se volete, poiché io troverò la mia libertà a modo mio.»
Adesso Kiiri lo guardò, con gli occhi spalancati per l’incredulità. La folla era in piedi, urlando il nome del minotauro, il quale stava compiendo il giro dell’arena, agitando il tridente sopra la testa.
«Sei pazzo!» bisbigliò, con la voce più alta che osava emettere. Girò significativamente lo sguardo su Raag. Come al solito l’enorme corpo giallastro dell’orco bloccava l’unica uscita.
Imperturbabile, Caramon seguì la direzione dello sguardo di Kiiri senza che la sua faccia cambiasse espressione.
«Le nostre armi sono vere, amico mio,» disse Pheragas, aspro. «Le tue non lo sono!»
Caramon annuì ma non rispose.
«Non farlo!» Kiiri gli si avvicinò di più. «Oggi ti aiuteremo noi a fingere nell’arena. Cre... credo che nessuno di noi due abbia davvero creduto a quell’uomo dalle Vesti Nere. Devi ammettere che sembrava strano che tu cercassi di far lasciare la città a noi due! Abbiamo pensato, come ha detto lui, che tu volessi il premio tutto per te. Ascolta, fingi di essere ferito proprio all’inizio. Fatti portar fuori. Stanotte ti aiuteremo noi a scappare.»
«Non ci sarà stanotte,» disse Caramon con voce sommessa. «Non per me, non per nessuno di noi. Non ho molto tempo. Non posso spiegare. Tutto quello che chiedo è questo, non cercate di fermarmi.»
Pheragas tirò un sospiro, ma le parole gli morirono sulle labbra quando un altro tremito, questa volta più forte, scosse il terreno.
Adesso tutti se ne accorsero. L’arena ondeggiò sulle sue fondamenta, i ponti sopra i Pozzi della Morte scricchiolarono, il pavimento si alzò e ricadde, facendo quasi perdere l’equilibrio al Minotauro Rosso. Kiiri si afferrò a Caramon. Pheragas piantò i piedi per terra come un marinaio a bordo di un vascello in balia delle onde. La folla delle tribune tacque all’improvviso quando i sedili oscillarono sotto i corpi degli spettatori. Sentendo il crepitio del legno qualcuno urlò. Parecchi balzarono in piedi. Ma il tremito cessò con la stessa rapidità con cui era cominciato. Tutto era ritornato tranquillo... troppo tranquillo. Caramon sentì i capelli che gli si rizzavano sulla testa e gli venne la pelle d’oca. Nessun uccello cantava, non un cane abbaiava. La folla era silenziosa, aspettava in preda alla paura. Devo uscire di qui! decise Caramon. I suoi amici non avevano più importanza, niente aveva importanza. Aveva un unico obbiettivo: fermare Raistlin.
E doveva agire adesso, prima che arrivasse la prossima scossa e prima che la gente si fosse ripresa da quella appena finita. Lanciando una rapida occhiata intorno a sé, Caramon vide Raag accanto all’uscita, il volto giallastro e chiazzato dell’orco era corrugato, perplesso, il suo lento cervello stava cercando di capire quello che stava succedendo. Arack era comparso all’improvviso accanto a lui e si stava guardando intorno. Probabilmente sperava di non trovarsi costretto a rifondere i soldi ai suoi clienti. Già la folla aveva cominciato a quietarsi, anche se molti continuavano a lanciare occhiate incerte tutt’intorno.
Caramon tirò un profondo respiro poi, stringendo Kiiri fra le braccia, la sollevò con tutte le sue forze e scagliò la donna stupefatta addosso a Pheragas, facendoli rotolare tutti e due per terra.
Dopo averli visti cadere Caramon si girò di scatto e, preso lo slancio, si avventò con tutto il peso del suo corpo massiccio contro l’orco, piantando le spalle nello stomaco di Raag con tutta la forza che gli era stata data da quei mesi di allenamento. Era un colpo che avrebbe ucciso un essere umano, ma fece soltanto mancare il fiato all’orco. La violenza della carica di Caramon li mandò a sbattere violentemente tutti e due contro il muro.
Disperatamente, mentre Raag annaspava per riprendere il fiato, Caramon cercò di afferrare il robusto randello dell’orco. Ma proprio mentre lo strappava dalla stretta di Raag, l’orco si riprese.
Ululando per la collera Raag sollevò entrambe le mani massicce sotto il mento di Caramon, sferrando un colpo che fece schizzare il grosso guerriero dentro l’arena.
Atterrando pesantemente, per qualche istante Caramon non riuscì a vedere assolutamente niente, salvo il cielo e la terra che turbinavano tutt’intorno a lui. Ma, anche se stordito per il colpo, il suo istinto di guerriero prese il sopravvento. Cogliendo un movimento alla sua sinistra, Caramon guizzò via rotolando sul fianco, proprio nell’istante in cui il tridente del minotauro si piantava nel punto in cui si era trovato il braccio col quale di solito Caramon impugnava la spada. Sentì il minotauro che ringhiava e grugniva in preda ad una furia bestiale.
Caramon lottò per rimettersi in piedi, scrollando la testa per schiarirsela, ma sapeva che non avrebbe mai potuto sperare di evitare il secondo colpo del minotauro. E poi un corpo nero s’interpose fra lui e il Minotauro Rosso. Vi fu un lampeggiare d’acciaio quando la spada di Pheragas bloccò il colpo del tridente che avrebbe finito Caramon. Barcollando, Caramon arretrò per riprendere fiato e sentì le mani fresche di Kiiri che lo aiutavano a sorreggersi.
«Stai bene?» borbottò.
«Un’arma!» riuscì a rantolare Caramon, con la testa che ancora gli rintronava a causa del colpo infertogli dall’orco.
«Prendi la mia,» gli disse Kiiri, spingendo la sua spada corta tra le mani di Caramon. «Poi riposati un momento. Mi occupo io di Raag.»
L’orco, impazzito per la rabbia e l’eccitazione della battaglia, si era lanciato contro di loro come un bolide, con le mascelle sbavanti spalancate.
«No! Ne hai bisogno...» cominciò a protestare, ma Kiiri si limitò a rivolgergli un sogghigno.
«Osserva!» esclamò, poi pronunciò strane parole che richiamarono vagamente a Caramon il linguaggio della magia. Queste, però, avevano un lieve accento che ricordava la lingua elfa.
E d’un tratto Kiiri non c’era più. Al suo posto si ergeva un’orsa gigantesca. Caramon rimase senza fiato, incapace per un momento di capire cos’era successo. Poi ricordò: Kiiri era una sirine, dotata del potere di’ cambiar forma!
Inalberandosi sulle zampe posteriori, l’orsa torreggiò sopra l’enorme orco. Raag si arrestò di colpo, spalancando gli occhi, allarmato a quella vista. Kiiri ruggì per la rabbia, facendo balenare i denti aguzzi. La luce del sole si rifletté vivida sui suoi artigli quando una delle sue enormi zampe sferzò l’aria e colpì l’orco sulla faccia chiazzata.
L’orco ululò per il dolore, rivoli di sangue giallastro colarono dai segni lasciati dall’artiglio, un occhio scomparve in mezzo a una sanguinolenta massa gelatinosa. L’orsa balzò addosso all’orco.
Guardando, in preda allo sgomento, Caramon riuscì a vedere soltanto, in un turbine, la pelle gialla, la pelliccia marrone e il sangue.
Anche la folla, che pure all’inizio aveva lanciato un urlo deliziato, era divenuta d’un tratto conscia che quel combattimento non era simulato. Questo era reale. Qualcuno stava per morire. Vi fu un momento di scioccato silenzio, poi, qua e là, qualcuno applaudì. Ben presto i battimani e le urla divennero assordanti.
Ma Caramon dimenticò rapidamente la gente nelle tribune. Vide la sua possibilità. Adesso soltanto il nano gli bloccava l’uscita, e il volto di
Arack, anche se contorto per la rabbia, tradiva ugualmente, nelle sue smorfie, la paura. Caramon poteva facilmente passare...
In quel momento udì un grugnito di piacere del minotauro. Voltandosi, Caramon vide Pheragas accasciarsi al suolo per il dolore, colpito al plesso solare dal manico del tridente. Il minotauro invertì l’arma, alzandola per uccidere, ma Caramon cacciò un urlo, distraendo il minotauro quel tanto che bastava per fargli perdere lo slancio.
Il Minotauro Rosso si voltò per affrontare quella nuova sfida, con un sogghigno sulla faccia rossa e pelosa. Vedendo Caramon armato soltanto di una spada corta, il sogghigno del minotauro si allargò.
Scagliandosi addosso a Caramon, il minotauro cercò di affrettare la fine del combattimento. Ma Caramon lo schivò con destrezza; sollevando il piede sferrò un calcio, frantumando la rotula del minotauro. Fu un colpo doloroso e paralizzante, che lo fece ruzzolare al suolo.
Sapendo che il suo avversario era fuori combattimento, almeno per qualche istante, Caramon corse accanto a Pheragas. Il nero era ancora rannicchiato al suolo e si stringeva lo stomaco.
«Suvvia,» grugnì Caramon, cingendolo alla vita con un braccio. «Ti ho visto altre volte beccarti colpi del genere per poi alzarti e andare a trangugiare un pasto di cinque portate. Cosa succede?»
Ma non vi fu risposta. Caramon sentì il corpo dell’uomo tremare con- v vulsamente, e vide che la lucida pelle nera era bagnata di sudore. Poi Caramon vide i tre tagli sanguinanti che il tridente aveva lasciato sul braccio di Pheragas...
Pheragas sollevò lo sguardo verso il suo amico. Vedendo l’orrore nei suoi occhi, si rese conto che Caramon aveva capito. Rabbrividendo per il dolore causatogli dal veleno che scorreva nelle sue vene, Pheragas cadde in ginocchio. Il grosso braccio di Caramon lo cingeva alla vita.
«Prendi... prendi la mia spada.» Pheragas soffocò. «Presto, sciocco!» Sentendo, dai suoni che produceva il suo nemico, che il minotauro era di nuovo in piedi, Caramon esitò solo un istante, poi prese la grande spada dalla mano di Pheragas.
Pheragas rantolò al suolo contorcendosi per il dolore.
Stringendo la spada, con le lacrime che gli accecavano gli occhi, Caramon si sollevò e si girò di scatto, bloccando l’improvviso affondo del minotauro. Anche se zoppicava da una gamba, la forza del minotauro era tale da riuscire a compensare facilmente quella dolorosa lesione. Inoltre il minotauro sapeva che bastava soltanto un nonnulla per uccidere la sua vittima, e Caramon avrebbe dovuto entrare nell’arco d’azione del tridente per usare la spada.
I due si guatarono, mentre si giravano intorno lentamente. Caramon non sentiva più la folla che pestava i piedi e fischiava e applaudiva impazzita alla vista del vero sangue. Non pensava più alla fuga, non aveva più alcuna idea di dove si trovasse. I suoi istinti di guerriero avevano preso il sopravvento. Sapeva una sola cosa: doveva uccidere.
E così, aspettò. Pheragas gli aveva insegnato che i minotauri avevano un grosso difetto. Credendosi indistintamente superiori a tutte le altre razze, i minotauri sottovalutavano l’avversario. Facevano errori, bastava aspettarli al varco. Il Minotauro Rosso non faceva eccezione. Caramon poteva avvertire con chiarezza i pensieri del minotauro: dolore e collera indignazione per l’insulto subito, il desiderio bramoso di metter fine alla vita di quell’insignificante e stupido umano.
I due si stavano avvicinando sempre di più al punto in cui Kiiri era ancora avvinta a Raag in un combattimento, che da quello che Caramon poteva giudicare dagli schianti, i ringhii e le urla acute dell’orco era feroce. D’un tratto, in apparenza distrattosi a guardare Kiiri, Caramon scivolò su una pozza di viscido sangue giallo. Il Minotauro Rosso, ululando deliziato, si scagliò in avanti per impalare sul tridente quel corpo umano
Ma la scivolata era una finta. La spada di Caramon balzò alla luce del sole. Il minotauro, avvedendosi di essere stato raggirato, cercò di riprendersi dallo slancio in avanti. Ma si era dimenticato del ginocchio lesionato. Questo non poteva sorreggere il suo peso, e il Minotauro Rosso crollò al suolo mentre la spada di Caramon troncava di netto quella testa bestiale.
Disincagliando la spada con uno strattone, Caramon udì un orribile ringhio alle sue spalle e si voltò giusto in tempo per vedere le mascelle della grande orsa che si chiudevano sul gigantesco collo di Raag. Con un energico scuotimento del capo, Kiiri morse in profondità la giugulare. j bocca dell’orco si spalancò in un urlo che nessuno avrebbe mai sentito
Caramon fece per avvicinarsi, quando notò un improvviso movimento alla sua destra. Si girò fulmineo, ogni nervo vibrante, quando Arack gli sfrecciò accanto: il volto del nano era un’orrenda maschera di dolore e di furore. Caramon vide balenare il pugnale nella mano del nano, e si lanciò in avanti, ma era ormai troppo tardi. Non riuscì a fermare la lama prima che affondasse nel petto dell’orsa. Subito la mano del nano fu innondata di caldo sangue rosso. La grande orsa ruggì per il dolore e la collera. Una enorme zampa saettò in avanti. Afferrando il nano con le ultime, convulse energie, Kiiri sollevò Arack e lo scagliò attraverso l’arena. Il corpo del nano andò a schiantarsi contro la Guglia della Libertà dov’era appesa la chiave d’oro, impalandosi su una delle numerose decorazioni argentate. Il nano cacciò un urlo stridulo, spaventoso, poi l’intero pinnacolo crollò, abbattendosi dentro il pozzo sottostante colmo di fiamme.
Kiiri cadde, il sangue sgorgava dallo squarcio che aveva sul petto. La folla era in delirio, gridava e urlava il nome di Caramon. L’omone non li sentiva. Chinandosi, prese Kiiri tra le braccia.
L’incantesimo che aveva intessuto si sciolse. L’orsa non c’era più, era Kiiri quella che stringeva al petto.
«Hai vinto, Kiiri,» bisbigliò Caramon. «Sei libera.»
Kiiri levò lo sguardo su di lui e sorrise. Poi i suoi occhi si spalancarono, la vita li lasciò. Il suo sguardo morente rimase fisso sul cielo, quasi (così parve a Caramon) in attesa, come se adesso sapesse quello che stava per accadere.
Dopo aver disteso delicatamente il suo corpo sul terreno dell’arena inzuppato di sangue, Caramon si risollevò. Vide il corpo di Pheragas immobilizzarsi negli ultimi spasimi dell’agonia. Vide gli occhi fìssi e ciechi di Kiiri.
«Risponderai di questo, fratello mio,» disse Caramon con voce sommessa.
Udì un rumore alle sue spalle, un mormorio come quello rabbioso d’un mare in tempesta. Truce in volto, Caramon strinse la spada e si voltò, preparandosi ad affrontare qualunque nuovo nemico l’aspettasse. Ma non c’era nessun nemico, soltanto gli altri gladiatori. Alla vista del volto di Caramon, macchiato di sangue e rigato dalle lacrime, si trassero da parte ad uno ad uno, facendogli strada.
Guardandoli, Caramon capì che, finalmente, era libero. Libero di cercare suo fratello, libero di metter fine per sempre alla schiavitù. Sentì la sua anima librarsi, la morte aveva poco significato per lui, e non gli faceva nessuna paura. L’odore del sangue era nelle sue narici, e si sentiva colmato dalla dolce follia della battaglia.
Adesso, in preda alla più intensa bramosia di vendetta, Caramon corse fino ai margini dell’arena, preparandosi a scendere le scale che conducevano giù nelle gallerie che correvano sotto di essa, quando il primo dei terremoti frantumò la città condannata di Istar.
Capitolo diciottesimo
Crysania non vide né udì Tasslehoff. La sua mente era accecata da una miriade di colori che turbinavano dentro le sue profondità, sfavillando come splendidi gioielli, poiché all’improvviso aveva capito. Era per questo che Paladine l’aveva riportata qui, non per redimere il ricordo del Gran Sacerdote, ma per imparare dai suoi errori. E sapeva, sapeva nella sua anima, di aver imparato.
Poteva appellarsi agli dei e questi le avrebbero risposto, non con la collera, ma con il potere! La fredda oscurità dentro di lei spezzò il guscio e la creatura liberata esplose alla luce del sole.
Come in una visione contemplò se stessa che teneva sollevato in alto con una mano il medaglione di Paladine, la cui superficie di platino lampeggiava al sole. Con l’altra mano chiamava a sé legioni di credenti, e questi si affollavano intorno a lei con espressioni rapite e adoranti mentre li conduceva verso terre di una bellezza al di là di ogni immaginazione.
Sapeva di non possedere ancora la chiave che apriva la porta. E non poteva accadere qui, l’ira degli dei era troppo grande perché lei potesse penetrarla. Ma dove trovare la Chiave, o perfino la porta?
Quella danza di colori la stordiva, non riusciva a vedere e neppure a pensare. E poi sentì una voce, una piccola voce, e delle mani la tirarono per le vesti. «Raistlin...» sentì che la voce diceva, il resto delle parole andò smarrito. Ma d’un tratto la sua mente si schiarì. I colori sparirono, così come la luce, lasciandola sola in quella tranquilla oscurità che leniva la sua anima.
«Raistlin,» mormorò. «Lui ha cercato di dirmelo...»
Ma quelle mani la stringevano ancora. Con fare assente se le staccò di dosso e le spinse via.
Raistlin l’avrebbe condotta fino al Portale, l’avrebbe aiutata a trovare la Chiave. Il male si rivolge contro se stesso, aveva detto Elistan. Così Raistlin l’avrebbe aiutata senza volerlo. L’anima di Crysania cantava un inno di gioia a Paladine. Quando tornerò nella mia gloria, con la bontà in mano, quando tutto il male del mondo sarà stato vinto, allora lo stesso Raistlin vedrà la mia potenza, e finirà per capire e credere.
«Crysania!»
Il suolo tremò sotto i piedi di Crysania, ma lei non si accorse del tremito. Sentì una voce che chiamava il suo nome, una voce sommessa, rotta da colpi di tosse.
«Crysania,» disse ancora la voce. «Non c’è molto tempo. Fai presto!»
La voce di Raistlin! Guardandosi intorno con occhi spiritati, Crysania lo cercò, ma non vide nessuno. E poi si rese conto che stava parlando alla sua mente, che la stava guidando. «Raistlin,» mormorò, «ti sento. Sto arrivando.»
Voltandosi, corse lungo la corsia e uscì dal Tempio. Il grido del kender alle sue spalle cadde su orecchie sorde.
«Raistlin?» si chiese Tas, perplesso, guardandosi intorno. Poi capì. Crysania stava andando da Raistlin! In qualche modo, magicamente, lui la stava chiamando e lei lo avrebbe trovato! Tasslehoff si precipitò a sua volta fuori nel corridoio del Tempio, inseguendo Crysania. Certo, avrebbe indotto Raistlin a riparare il congegno...
Una volta fuori, Tas guardò nelle due direzioni, e vide subito Crysania. Ma il cuore quasi gli balzò dal petto: correva così rapidamente che aveva raggiunto l’estremità del corridoio.
Accertandosi che i frammenti del congegno frantumato fossero al sicuro nella sua borsa, Tas, con espressione risoluta, si lanciò all’inseguimento di Crysania, tenendo d’occhio le bianche vesti svolazzanti.
Sfortunatamente la cosa non durò molto a lungo. Crysania scomparve ben presto dietro un angolo.
Il kender corse come non aveva mai corso prima, neppure quando gli immaginari terrori del Bosco di Shoikan l’avevano perseguitato. Il ciuffo dei capelli sbatteva al vento dietro di lui, le sue borse gli rimbalzavano intorno all’impazzata, spargendo fuori il loro contenuto, lasciandosi dietro una scia luccicante di anelli, braccialetti e altri ninnoli.
Stringendo saldamente la borsa che conteneva il congegno magico, Tas raggiunse l’estremità del corridoio e slittò intorno ad essa, andando a sbattere, nella fretta, contro la parete opposta. Oh, no! Il cuore, dopo avergli sobbalzato in petto, gli cadde ai calcagni con un tonfo. Cominciò a desiderare, con uno scatto irritato, che il suo cuore se ne stesse tranquillo. Le sue acrobazie cominciavano a dargli la nausea.
Il corridoio era gremito di chierici, tutti vestiti di bianco! Come avrebbe mai potuto rintracciare Crysania? Poi la intravide a metà strada verso il fondo del corridoio, i suoi capelli neri che luccicavano alla luce delle torce. Vide anche che i chierici si giravano di scatto sulla sua scia, urlando o fissandola furiosamente.
Tas si lanciò al suo inseguimento, mentre la speranza rinasceva in lui: nella sua fuga precipitosa Crysania era adesso ostacolata dalla folla nel Tempio. Il kender sfrecciò in mezzo a loro ignorando le grida d’indignazione, sottraendosi alle mani che cercavano di afferrarlo.
«Crysania!» urlò disperato.
La folla di chierici nel corridoio diventava più fitta, tutti si affrettavano verso le uscite interrogandosi sugli strani tremiti del suolo e cercando d’indovinare quello che preannunciavano.
Tas vide Crysania fermarsi più di una volta, facendosi largo a spintoni in mezzo alla gente. Si era appena liberata quando Quarath sbucò da dietro l’angolo, chiamando il Gran Sacerdote. Senza guardare dove stava andando, Crysania gli finì addosso, e lui l’afferrò.
«Fermati, mia cara!» gridò Quarath, scuotendola, convinto che fosse in preda a un attacco d’isterismo. «Calmati!»
«Lasciami andare!» Crysania cercò di divincolarsi dalla sua stretta.
«È impazzita per il terrore! Aiutatemi a tenerla!» gridò Quarath ai numerosi chierici che si trovavano lì accanto.
D’un tratto Tas si rese conto che Crysania appariva impazzita. Adesso che si stava avvicinando a lei, poteva vedere la sua faccia. I suoi capelli neri erano una massa aggrovigliata, i suoi occhi erano infossati, d’un grigio cupo, del colore d’un grappolo di nubi tempestose, e il suo volto era arrossato per lo sforzo. Pareva non sentisse niente, nessuna voce penetrava la sua coscienza, salvo, forse, una.
Altri chierici l’afferrarono, a un ordine di Quarath. Urlando in maniera incoerente, Crysania lottò anche contro di loro. La disperazione le dava forza e più di una volta fu quasi sul punto di sfuggir loro. Le sue vesti bianche si laceravano fra le mani dei chierici mentre cercavano di trattenerla. A Tas parve di vedere del sangue sul volto di più d’un chierico. Arrivando di corsa, Tas stava per saltare sulla schiena del più vicino dei chierici, dandogli una botta in testa, quando venne accecato da una luce sfolgorante che fece immobilizzare tutti, perfino Crysania.
Nessuno si mosse. Tutto ciò che Tas riuscì a sentire per qualche istante furono gli ansiti di Crysania che cercava di respirare, così come l’ansimare affannoso di quelli che avevano cercato di fermarla.
Poi, una voce parlò.
«Gli dei stanno arrivando,» disse la voce musicale dal centro della luce, «per mio ordine...»
Il suolo sotto i piedi di Tasslehoff sobbalzò, sollevandosi in aria, scagliando via il kender come una piuma. Poi, scese rapidamente mentre Tas continuava a salire, per schizzare un’altra volta in alto e andargli incontro mentre scendeva. Il kender andò a sbattere contro il pavimento. L’impatto mozzò il fiato nel suo piccolo corpo.
Nell’aria vi fu un’esplosione di polvere e vetro e schegge, urla e grida e schianti. Tas non potè far niente se non lottare per cercare di respirare. Disteso sul pavimento di pietra, mentre questo sobbalzava e oscillava sotto di lui, guardò con stupore le colonne che si crepavano e si sbriciolavano, le pareti che si spezzavano, i pilastri che cadevano, e la gente che moriva.
Il Tempio di Istar stava crollando.
Strisciando carponi, Tas cercò disperatamente di non perdere d’occhio Crysania, la quale pareva ignara di ciò che stava accadendo intorno a lei. Adesso, in preda al terrore, quelli che l’avevano trattenuta la lasciarono andare e Crysania, sentendo sempre soltanto la voce di Raistlin, tornò a rimettersi in cammino. Tas urlò, Quarath si era lanciato verso di lei, ma proprio mentre il chierico stava per raggiungerla, una gigantesca colonna di marmo accanto a lei traballò e si abbatté al suolo.
Tas trattenne il respiro. Per qualche istante non riuscì a vedere niente, poi la polvere di marmo si depositò. Di Quarath era rimasta soltanto una massa sanguinolenta sul pavimento. Crysania, in apparenza illesa, stava fissando stordita l’elfo, il cui sangue era schizzato dappertutto sulle sue vesti bianche.
«Crysania!» urlò Tasslehoff con voce roca. Ma lei non lo sentì. Invece si voltò e s’inoltrò incespicando in mezzo alle rovine, senza vedere nulla, senza sentire nulla, salvo quella voce che adesso la chiamava più urgentemente che mai.
Alzatosi in piedi barcollando, con il corpo dolorante e pieno di lividi, Tas la rincorse. Quando furono quasi in fondo al corridoio, Tas vide Crysania girare a destra e scendere una rampa di scale.
Prima di seguirla, Tas arrischiò una rapida occhiata alle sue spalle, attirato da una terribile curiosità.
La luce sfolgorante riempiva ancora il corridoio, illuminando i corpi dei morti e dei morenti. Nelle mura del Tempio le crepe si stavano spalancando sempre più, il soffitto si afflosciava, la polvere rendeva l’aria soffocante. E in mezzo a quella luce, Tas poteva ancora udire la voce, soltanto che adesso la musica incantevole era svanita, diventando aspra, stridula, stonata...
«Gli dei stanno arrivando...»
Fuori della grande arena, correndo attraverso Istar, Caramon lottava per farsi largo attraverso le strade soffocate dalla morte. Proprio come la mente di Crysania, anche la sua udiva la voce di Raistlin. Ma non era lui che stava chiamando. No, Caramon la sentiva così come l’aveva sentita nel grembo della loro madre, udiva la voce del suo gemello, la voce del sangue.
E così Caramon non prestò nessuna attenzione alle urla dei morenti, o alle invocazioni di aiuto che si levavano da coloro che si trovavano intrappolati sotto le rovine. Non prestò nessuna attenzione a ciò che stava accadendo intorno a lui. Gli edifici gli stavano praticamente crollando addosso, le pietre grandinavano sulle strade, sfiorandolo senza colpirlo in pieno. Le sue braccia e la parte superiore del corpo cominciarono ben presto a sanguinare a causa di tanti piccoli tagli frastagliati. Le sue gambe erano ferite in cento e più punti.
Ma non si fermò, non sentì neppure il dolore. Arrampicandosi sopra le macerie, sollevando gigantesche travi di legno e scagliandole lontano dalla propria strada, Caramon avanzò lentamente attraverso le morenti strade di Istar fino al Tempio che scintillava al sole davanti a lui. Nella mano impugnava una spada macchiata di sangue.
Tasslehoff seguì Crysania giù, sempre più giù, nelle viscere stesse del suolo, o perlomeno così parve al kender. Non aveva neppure sospettato che esistessero posti del genere nel Tempio, e si chiese come avesse fatto, durante i suoi molti vagabondaggi, a non accorgersi di tutte quelle scale nascoste. Si chiese anche come Crysania potesse sapere della loro esistenza. Passava attraverso porte segrete che non erano visibili neppure agli acuti occhi da kender di Tas.
Il terremoto cessò, il Tempio tremò ancora per qualche istante, in una sorta di orrendo ricordo, poi fu come percorso da un brivido e ritornò all’immobilità. Fuori c’erano caos e morte, ma all’interno tutto era fermo e silenzioso. A Tas parve che ogni cosa al mondo trattenesse il fiato, in attesa...
Quaggiù, dovunque il quaggiù si trovasse, Tas vide assai pochi danni, forse perché era troppo in profondità nel sottosuolo. La polvere offuscava l’aria, cosicché era assai difficile respirare o vedere, e di tanto in tanto una crepa appariva sulla parete, oppure una torcia cadeva sul pavimento. Ma la maggior parte delle torce era ancora nei supporti sul muro, e continuava ad ardere, proiettando un bagliore arcano sulla polvere che ristagnava nell’aria.
Crysania non si fermò, né diede alcun segno di esitazione, ma proseguì con passo veloce, anche se ben presto Tas perse il senso dell’orientamento e finì per non avere la più pallida idea di dove si trovasse. Era riuscito a rimanere al passo con lei abbastanza facilmente, ma cominciava a sentirsi sempre più stanco e sperò che arrivassero ben presto dovunque stessero andando. Le costole gli facevano maledettamente male. Ogni respiro gli bruciava i polmoni come il fuoco, e gli pareva che le sue gambe appartenessero a un nano con i polpacci enormi e i piedi calzati nel ferro.
Seguì Crysania giù per un’altra rampa di scale marmoree, costringendo i suoi muscoli doloranti a continuare a muoversi. Una volta arrivato in fondo, Tas sollevò stancamente lo sguardo e tanto per cambiare il cuore gli si sollevò. Si trovavano in un corridoio buio e stretto che terminava, grazie al cielo, in una parete, e non proseguiva con un’altra scala!
Qui un’unica torcia ardeva infilata nel suo supporto, sopra una porta buia.
«Ma certo!» si rese conto Tas con gratitudine. «Il laboratorio di Raistlin! Doveva trovarsi qui sotto.»
Correndo in avanti, era arrivato vicinissimo alla porta, quando una grande forma scura gli piombò addosso da dietro,, facendolo cadere. Tas ruzzolò sul pavimento, il dolore nelle costole lo indusse a riprender fiato.
Il kender sollevò lo sguardo e lottando contro il dolore, colse il balenare di un’armatura dorata e il vivido riflesso della torcia sulla lama di una spada. Riconobbe il corpo bronzeo e muscoloso dell’uomo, ma il volto dell’uomo, il volto dell’uomo che avrebbe dovuto essergli così familiare, era il volto di qualcuno che Tas non aveva mai visto prima.
«Caramon?» bisbigliò, mentre l’uomo gli passava accanto come un’ondata. Ma Caramon non lo vide né lo sentì. Freneticamente Tas cercò di alzarsi in piedi.
Poi arrivò la scossa di assestamento e il terreno ondeggiò sotto i piedi di Tas. Barcollando all’indietro e addossandosi a una parete, udì un crepitio sopra di sé, e vide che il soffitto cominciava a cedere.
«Caramon!» gridò, ma la sua voce si smarrì nel fragore delle travi che gli crollarono addosso, colpendolo alla testa. Tas lottò per non perdere i sensi, malgrado il dolore. Ma il suo cervello, come se si rifiutasse cocciutamente di aver qualcosa a che fare con quell’indescrivibile caos, spense le luci, e Tas sprofondò nella tenebra.
Crysania corse senza alcuna esitazione dentro la stanza che stava molto al di sotto del Tempio. Ma nell’entrare i suoi passi zelanti titubarono. Irresoluta, lanciò un’occhiata intorno a sé, con la gola che le pulsava dolorosamente.
Aveva attraversato il Tempio così duramente colpito senza vederne gli orrori, ciecamente. Persino adesso, abbassando lo sguardo sulla propria veste chiazzata di sangue, non riusciva a ricordare come fosse successo. Ma qui, in questa stanza, le cose risaltavano con vivida chiarezza, anche se il laboratorio era illuminato soltanto dalla luce che sgorgava a fiotti da un cristallo posto in cima a un bastone magico. Guardandosi intorno, sopraffatta e sgomenta per la sensazione del male incombente, non riuscì a indursi a varcare la soglia.
D’un tratto sentì un lieve rumore e qualcosa le toccò il braccio. Allarmata, si girò di scatto, e vide creature scure, vive, informi, intrappolate e imprigionate nelle gabbie. Sentendo l’odore del suo sangue caldo, si agitavano alla luce irradiata dal bastone, ed erano state le mani protese di una di queste che aveva sentito su di sé. Rabbrividendo, Crysania si ritrasse da loro e andò a sbattere contro qualcosa di solido.
Era una bara aperta che conteneva il corpo di quello che un tempo avrebbe potuto essere un giovane. Ma la pelle era tesa sulle sue ossa come pergamena, la sua bocca era aperta in un urlo silenzioso e orrendo. Il suolo sobbalzò sotto i suoi piedi, e il corpo nella bara rimbalzò verso l’alto, incontrollato, fissandola dalle occhiaie vuote.
Crysania gemette, ma nessun suono le uscì dalla gola, il suo corpo era raggelato nel sudore freddo.
Stringendosi la testa fra le mani tremanti, strinse le palpebre per non vedere quell’orribile spettacolo. Il mondo cominciò a scivolare via, poi sentì una voce sommessa.
«Vieni, mia cara,» disse la voce che era stata nella sua mente. «Vieni. Con me sei al sicuro, adesso. Le creature create dal Male di Fistandantilus non possono agire contro di te mentre sono qui io.»
Crysania sentì la vita ritornarle nel corpo. La voce di Raistlin le dava conforto. La nausea passò, il suolo smise di tremare, la polvere si depositò. Il mondo piombò in un silenzio di morte.
Grata, Crysania aprì gli occhi. Vide Raistlin a una certa distanza da lei, che la fissava dalle ombre della sua testa incappucciata, con gli occhi che luccicavano del riflesso del bastone magico. Ma mentre lo guardava, Crysania intravide le forme che si contorcevano nelle gabbie. Tremando, tenne lo sguardo fisso sul pallido volto di Raistlin.
«Fistandantilus?» chiese attraverso le labbra aride. «Ha costruito questo?»
«Sì, questo laboratorio è suo,» rispose Raistlin freddamente. «Lo ha creato molti, moltissimi anni or sono. All’insaputa di tutti i chierici ha utilizzato la sua grande magia per rintanarsi sotto il Tempio come un verme, divorando la solida roccia, plasmandola in forma di sale e di porte segrete, lanciando incantesimi su di esse, cosicché pochi sapevano della loro esistenza.»
Crysania vide un sorriso sardonico disegnarsi sulle labbra sottili di Raistlin, quando si girò verso la luce.
«L’ha mostrato a pochi nell’arco degli anni. Soltanto a un manipolo di apprendisti è stato permesso di condividere il segreto.» Raistlin scrollò le spalle. «E nessuno di questi è vissuto per poterlo raccontare.» La sua voce si ammorbidì. «Ma poi Fistandantilus commise un errore. Lo mostrò a un giovane apprendista. Un giovane fragile, brillante, dalla lingua sferzante, il quale osservò e mandò a memoria ogni svolta e ogni angolo dei corridoi nascosti, e studiò ogni parola di ogni incantesimo che rivelava porte segrete, recitandole più e più volte, affidandole alla memoria prima di coricarsi, notte dopo notte. E così noi ci troviamo qui, tu ed io, al sicuro, almeno per il momento, dalla collera degli dei.»
Con un movimento della mano invitò Crysania a raggiungerlo in fondo alla stanza, accanto a una grande scrivania di legno decorato da sculture. Su di essa era appoggiato un libro d’incantesimi rilegato in argento che Raistlin stava leggendo quando lei era arrivata. Un cerchio di polvere d’argento era stato disegnato intorno alla scrivania. «Sì, tieni gli occhi su di me. L’oscurità non è poi così terrificante, dopotutto, non è vero?»
Crysania non potè rispondere. Si rese conto di avergli permesso ancora una volta, nella sua debolezza, di leggere nei suoi occhi più di quanto avrebbe voluto che lui vedesse. Arrossendo, si affrettò a distogliere lo sguardo.
«So... sono rimasta sorpresa. È tutto,» disse. Ma non potè fare a meno di reprimere un brivido quando lanciò una nuova occhiata verso la bara. «Cos’è... o cos’era... quello?» bisbigliò inorridita.
«Uno degli apprendisti di Fistandantilus, senza dubbio,» rispose Raistlin. «Il mago gli ha succhiato la forza vitale per allungare la propria vita. Era qualcosa che faceva... di frequente.»
Raistlin tossì, i suoi occhi s’incupirono come a un terribile ricordo, e Crysania vide uno spasimo di paura e di dolore passargli sopra la faccia solitamente impassibile. Ma prima che potesse chiedere altre cose, si udì lo schianto della porta che andava in frantumi. Il mago vestito di nero riguadagnò rapidamente la sua compostezza. Sollevò gli occhi e andò con lo sguardo al di là di Crysania.
«Ah, entra, fratello mio. Stavo giusto pensando alla Prova, il che naturalmente mi ha indotto a ricordarmi di te.»
Caramon! Sul punto di svenire per il sollievo, Crysania si voltò per dare il benvenuto all’omone e alla sua solida e rassicurante presenza, al suo volto benevolo e gioviale. Ma le parole di benvenuto le morirono sulle labbra, inghiottite dall’oscurità che pareva esser diventata ancora più fitta con l’arrivo del guerriero.
«Parlando di Prove, sono contento che tu sia sopravvissuto alla tua, fratello,» disse Raistlin, il sorriso sardonico gli era tornato un’altra volta sulle labbra. «Questa dama,» lanciò un’occhiata a Crysania, «avrà bisogno di una guardia del corpo là dove stiamo per andare. Non so dirti cosa significhi per me avere qualcuno che conosco e di cui posso fidarmi.»
Crysania si ritrasse davanti a quel terribile sarcasmo, e vide Caramon sussultare come se le parole di Raistlin fossero state tanti minuscoli aculei avvelenati che gli erano stati lanciati contro, penetrandogli nella pelle. Ma il mago non parve accorgersene, o forse la cosa non gì’importava.
Stava leggendo il libro degli incantesimi aperto sulla scrivania, mormorando parole sommesse e tracciando simboli nell’aria con le mani sottili.
«Sì, sono sopravvissuto alla tua prova,» replicò Caramon con calma. Entrò nella stanza e venne illuminato dalla luce del bastone. Crysania trattenne il fiato per la paura.
«Raistlin!» gridò, arretrando da Caramon, quando l’omone avanzò lentamente, con in pugno la spada insanguinata. «Raistlin, guarda!» esclamò Crysania, incespicando contro la scrivania accanto alla quale si trovava il mago, entrando senza saperlo dentro il cerchio di polvere d’argento. Alcuni granelli di polvere rimasero appiccicati al fondo della sua veste, scintillando alla luce del bastone.
Irritato da quell’interruzione, il mago levò lo sguardo.
«Sono sopravvissuto alla tua prova,» ripetè Caramon, «come tu sei sopravvissuto alla Prova della Torre. Là hanno infranto il tuo corpo. Qui tu hai infranto il mio cuore. Adesso al suo posto non c’è nulla, soltanto un gelido vuoto, nero come le tue vesti. E come la lama di questa spada, è intriso di sangue. Un povero, sventurato minotauro è morto trafitto da questa lama. Un amico ha dato la sua vita per me, un’amica è morta fra le mie braccia. Hai mandato il kender a morire, non è vero? E quanti altri sono morti per portare avanti i tuoi malvagi disegni?». La voce di Caramon divenne un letale bisbiglio.
«Questo mette la parola fine a tutto, fratello mio. Nessun altro morirà per causa tua. Salvo uno, io stesso. È giusto, non è vero, Raist? Siamo venuti al mondo insieme, e insieme lo lasceremo.»
Fece un altro passo avanti. Raistlin parve sul punto di parlare, ma Caramon lo interruppe.
«Non puoi usare la tua magia per fermarmi, non questa volta. Conosco questo incantesimo che intendi lanciare. So che richiederà tutta la tua potenza, tutta la tua concentrazione. Se userai anche la più piccola frazione di magia contro di me, non avrai più la forza per lasciare questo posto, e il mio scopo sarà stato ugualmente raggiunto. Se non morirai per mano mia, morirai per mano degli dei.»
Raistlin fissò suo fratello senza fare nessun commento, poi, scrollando le spalle, tornò a leggere il suo libro. Fu soltanto quando Caramon fece un altro passo avanti, e Raistlin sentì sferragliare l’armatura dorata, che il mago sospirò per l’esasperazione e levò lo sguardo sul suo gemello. I suoi occhi, che luccicavano dalle profondità del cappuccio, parevano gli unici punti di luce della stanza.
«Ti sbagli, fratello mio,» disse Raistlin con voce sommessa. «C’è un altro che morirà.» Il suo sguardo simile a uno specchio andò a Crysania, che era rimasta sola fra i due fratelli, con le vesti bianche che spiccavano nel buio.
Gli occhi di Caramon s’intenerirono per la pietà quando anche lui guardò Crysania, ma la determinazione sulla sua faccia non vacillò. «Gli dei la prenderanno con loro,» disse, misurando le parole. «Lei è un vero chierico. Nessuno dei veri chierici è morto nel Cataclisma. È per questo che Par-Salian l’ha mandata indietro nel tempo.» Tendendo la mano, indicò. «Guarda, la ce n’è uno che aspetta.»
Crysania non ebbe bisogno di voltarsi a guardare. Sentiva la presenza di Loralon.
«Vai da lui, Reverenda Figlia,» le disse Caramon. «Il tuo posto è alla luce, non qui nell’oscurità.»
Raistlin non disse niente, non fece movimenti di alcun genere; si limitò a rimanere in silenzio alla scrivania, con la mano sottile appoggiata sul libro degli incantesimi.
Crysania non si mosse. Le parole di Caramon le martellavano nella mente come le ali delle creature malefiche che svolazzavano intorno alla Torre dell’Alta Stregoneria. Udì le parole, ma per lei non avevano alcun significato. Tutto quello che poteva vedere era se stessa, che reggeva nella mano quella luce splendente guidando il popolo. La Chiave... il Portale... Vide Raistlin che teneva in mano la Chiave, lo vide che le faceva segno di avvicinarsi. Ancora una volta sentì il tocco delle labbra di Raistlin che le ardeva sulla fronte.
Una luce tremolò e si spense. Loralon se n’era andato.
«Non posso,» cercò di dire Crysania, ma non si udì nessuna voce. Non ce n’era bisogno. Caramon comprese. Esitò, fissandola per un unico, lungo istante, poi sospirò.
«Così sia,» disse infine Caramon, con freddezza, mentre anche lui avanzava nel cerchio d’argento.
«Un’altra morte non significherà molto per nessuno di noi due, adesso, non è vero, fratello mio?»
Crysania fissava affascinata la spada insanguinata che risplendeva alla luce del bastone.
L’immaginò con grande chiarezza che le trafiggeva il corpo e, sollevando lo sguardo e guardando Caramon negli occhi, vide che anche lui s’immaginava la stessa cosa ma che neppure questo l’avrebbe fatto desistere. Lei non era niente per lui, neppure un essere umano vivente che respirava.
Era soltanto un ostacolo sulla sua strada, che le impediva di arrivare al suo vero obbiettivo, suo fratello.
Che terribile odio! pensò Crysania e poi, guardando nelle profondità di quegli occhi che adesso erano così vicini ai suoi, ebbe un improvviso lampo d’intuizione: che terribile amore!
Caramon le si lanciò addosso con una mano protesa, pensando di afferrarla e di scagliarla da parte.
Spinta dal panico, Crysania schivò la sua stretta, barcollando all’indietro e finendo addosso a Raistlin il quale non fece nessun movimento per toccarla. La mano di Caramon ghermì soltanto una manica della sua veste lacerandogliela e stappandola via. In preda al furore, Caramon scagliò a terra il bianco tessuto, e adesso Crysania seppe di dover morire. Ma continuò a interporre il proprio corpo fra quello di Raistlin e suo fratello.
La spada di Caramon balenò.
Disperata, Crysania strinse il medaglione di Paladine che le cingeva la gola.
«Fermo!». Urlò quell’ordine nel medesimo istante in cui chiudeva gli occhi per la paura. Il suo corpo si ritrasse in attesa del terribile dolore dell’acciaio che le lacerava le carni. Poi udì un gemito e il tonfo metallico di una spada che cadeva sul pavimento di pietra. Il sollievo la invase e fu colta da una debolezza improvvisa; fu sul punto di svenire. Singhiozzando, sentì che stava per cadere.
Ma mani snelle e agili l’afferrarono; braccia sottili e muscolose la strinsero, una voce sommessa pronunciò il suo nome in tono di trionfo. Fu avvolta da una calda oscurità, vi affogò dentro, affondando sempre più in basso. E sentì bisbigliare al suo orecchio le parole della strana lingua della magia. Come mani o ragni che l’accarezzassero, le parole strisciarono sopra il suo corpo. Il salmodiare delle parole divenne sempre più forte, la voce di Raistlin sempre più alta. La luce argentea avvampò, poi scomparve. La stretta del braccio di Raistlin intorno a Crysania si serrò ancor più nell’estasi, e si sentì roteare, imprigionata in quell’estasi, vorticando via insieme a lui in mezzo alla tenebra.
Gli mise le braccia intorno alle spalle, gli appoggiò la testa sul petto e si lasciò affondare nella tenebra. Mentre cadeva, le parole della magia si mescolarono al canto del suo sangue e al canto delle pietre del Tempio...
E in mezzo a tutto questo, una singola nota discordante: un gemito aspro e straziante.
Tasslehoff Burrfoot sentì le pietre che cantavano, ed esibì un sorriso sognante. Ricordò di essere un topo che zampettava in mezzo alla polvere d’argento mentre le pietre cantavano...
Tas si risvegliò all’improvviso. Giaceva su un freddo pavimento di marmo, coperto di polvere e di macerie. Sotto di lui il suolo aveva ricominciato a tremare e a fremere. Tas seppe, a causa della strana e insolita sensazione di paura che andava crescendo dentro di lui, che stavolta gli dei facevano sul serio. Stavolta il terremoto non sarebbe finito.
«Crysania! Caramon!» gridò Tas, ma sentì rispondergli soltanto l’eco della sua voce stridula, che rimbalzò cavernosa dalle pareti sussultanti.
Alzandosi in piedi barcollante, ignorando il dolore alla testa, Tas vide che la torcia ardeva ancora sopra la stanza buia dentro la quale Crysania era entrata... quella parte dell’edificio sembrava non essere stata toccata dai sussulti convulsi del suolo.
Magia, pensò Tas vagamente, entrando nella stanza e riconoscendo cose stregonesche. Cercò segni di vita, ma vide soltanto le orrende creature imprigionate nelle gabbie che si scagliavano contro gli sportelli delle loro celle, sapendo che la fine della loro torturata esistenza era vicina, ma per nulla disposte a rinunciare alla vita, non importava quanto fosse dolorosa.
Tas si guardò intorno con occhi spiritati. Dov’erano mai andati tutti? «Caramon?» chiamò, con un filo di voce. Ma non vi fu nessuna risposta, soltanto un lontano borbottìo a mano a mano che i tremiti del terreno si intensificavano. Poi, alla vaga luce della torcia esterna, Tas intravide un luccichio metallico sul pavimento, vicino a una scrivania. Attraversando il pavimento con passo barcollante, Tas riuscì a raggiungerlo.
La sua mano si chiuse sull’elsa di una spada da gladiatore. Appoggiandosi alla scrivania per sorreggersi, Tas fissò la lama d’argento coperta di nere macchie di sangue. Poi sollevò qualcos’altro che si trovava sul pavimento sotto la spada: i resti d’un tessuto bianco. Vide dei ricami dorati raffiguranti il simbolo di Paladine luccicare opachi al bagliore della torcia. C’era un cerchio di polvere sul pavimento, polvere che un tempo avrebbe potuto essere stata d’argento ma che adesso era bruciata ed annerita.
«Se ne sono andati,» esclamò Tas con voce sommessa, rivolto alle farfuglianti creature chiuse nelle gabbie. «Se ne sono andati... sono rimasi tutto solo.»
Un improvviso sussulto del terreno fece cadere il kender carponi sul pavimento. Vi fu uno schiocco lacerante, così forte che quasi lo assordò. Le rocce si spezzarono, le fondamenta del Tempio si divisero.
E poi il Tempio stesso andò in frantumi. Le mura andarono in pezzi. I marmi si squarciarono. I diversi piani esplosero l’uno dopo l’altro, come i petali d’una rosa che si dischiudono alla luce del mattino... una rosa, questa, che sarebbe morta al calar della notte. Il kender seguì con lo sguardo quel terribile processo fino a quando vide la torre stessa del Tempio spaccarsi in due e crollare al suolo con uno schianto più devastante di un terremoto.
Incapace di muoversi, protetto dai potenti incantesimi delle tenebre lanciati da un mago malefico morto da tempo, Tas rimase nel laboratorio di Fistandantilus con lo sguardo levato al firmamento.
E vide che dal cielo cominciava a piovere fuoco.