Gene Wolfe
La cittadella dell’Autarca
Alle due e mezza del mattino, se apri la finestra ed ascolti, sentirai i passi del Vento che sta andando a chiamare il sole.
E gli alberi nell’ombra frusceranno, e gli alberi sotto la luce lunare brilleranno, e, sebbene sia ancora notte, scura e fonda, sentirai che la notte è finita.
I
IL SOLDATO MORTO
Non avevo mai visto la guerra, né avevo parlato con qualcuno che vi avesse partecipato, ma ero giovane, sapevo qualcosa della violenza, e così credevo che la guerra non sarebbe stata per me altro che una nuova esperienza, come anche altre cose… il possedere autorità a Thrax, per esempio, o la mia fuga dalla Casa Assoluta… erano state esperienze nuove.
La guerra non è una nuova esperienza, è un mondo nuovo. I suoi abitanti sono più differenti dagli esseri umani di quanto lo fossero stati Famulimus ed i suoi amici. Le sue leggi sono nuove, e persino la sua geografia lo è, perché è una geografia in cui insignificanti colline e depressioni ricevono sovente un’importanza pari a quella delle città. Come la nostra familiare Urth contiene mostruosità sul tipo di Erebus, Abaia ed Arioch, così il mondo della guerra è percorso da mostri chiamati battaglie, le cui cellule sono individuali ma posseggono una vita ed un’intelligenza proprie, ed a cui ci si avvicina attraverso un sempre maggiore infittirsi di meraviglie.
Una notte, mi destai prima dell’alba. Tutto sembrava immobile, ed io ebbi paura che qualche nemico mi si fosse avvicinato, tanto che la mia mente si era destata per la sua malvagità. Mi alzai e mi guardai intorno. Le colline erano sperdute nel buio, ed io mi trovavo in un nido d’erba alta, un nido che mi ero fatto calpestando l’erba per giacervi. I grilli cantavano.
Qualcosa attirò il mio sguardo, lontano, a nord: un lampo, pensai, di colore violetto, appena al di sopra dell’orizzonte. Fissai il punto da cui pareva fosse giunto, e, proprio quando mi ero convinto che ciò che credevo di aver scorto non era altro che un difetto della mia vista, magari un tardivo effetto della droga che mi era stata somministrata nella casa del capo del villaggio, ci fu un lampo color magenta leggermente a sinistra del punto che stavo fissando.
Continuai a rimanere in piedi per un turno di guardia o forse più, ricompensato di tanto in tanto da quei misteriosi bagliori. Alla fine, dopo essermi accertato che essi si trovavano ad una grande distanza e che non si avvicinavano, e che inoltre la loro frequenza era costante, uno ogni cinquecento battiti del mio cuore, tornai a distendermi. E, poiché ero ormai del tutto sveglio, mi resi allora conto del fatto che il terreno stava tremando molto leggermente sotto di me.
Quando mi destai di nuovo, il mattino successivo, era tutto finito. Osservai con cura l’orizzonte per qualche tempo, mentre camminavo, ma non vidi nulla che mi turbasse. Erano trascorsi due giorni dall’ultima volta che avevo mangiato, e non avevo più fame, anche se ero consapevole di non possedere la mia forza solita. Due volte, quel giorno, m’imbattei in piccole abitazioni in rovina, ed entrai in ciascuna di esse alla ricerca del cibo. Se era stata lasciata qualcosa, l’avevano già presa da tempo: perfino i topi se n’erano andati. La seconda casa aveva un pozzo, ma vi era stata gettata dentro da qualche tempo qualche carogna, ed in ogni caso non c’era modo di attingere l’acqua puzzolente. Proseguii, desiderando qualcosa da bere ed anche un bastone migliore dei rami marci di cui mi stavo servendo. Quando avevo usato Terminus Est come bastone, sulle montagne, avevo imparato come fosse più facile camminare con l’aiuto di un sostegno.
Verso mezzogiorno, m’imbattei in un sentiero e lo seguii, e, poco dopo, sentii un rumore di zoccoli. Mi nascosi in un punto da cui potevo osservare la strada, e, un momento più tardi, un cavaliere superò la vicina collina e mi passò velocemente dinnanzi. Dalla rapida occhiata che riuscii a dargli, notai che indossava un’armatura sul tipo di quella usata dai comandanti dei dimarchi di Abdiesus, solo che il mantello irrigidito dal vento era di colore verde invece che rosso, e l’elmo aveva una visiera come un cappello militare. Chiunque fosse, quell’uomo possedeva una cavalcatura splendida: la bocca del destriero era coperta di schiuma, ed i suoi fianchi ansavano, eppure esso correva come se il segnale di partenza fosse stato dato solo pochi istanti prima.
Avendo incontrato un cavaliere sul sentiero, m’aspettavo d’incrociarne altri, ma non fu così. Camminai tranquillamente, ascoltando i richiami degli uccelli ed avvistando molta selvaggina. Poi, (con mia inesprimibile gioia) il sentiero attraversò un corso d’acqua. Lo risalii di una dozzina di passi, fino ad un punto in cui l’acqua era più quieta e lenta e scorreva su un letto di granito bianco. I pesciolini d’acqua dolce… la cui presenza indicava sempre se l’acqua era buona o meno da bere, fuggirono davanti ai miei stivali, e l’acqua si rivelò ancora fredda per la provenienza dai picchi montani e dolce per il ricordo della neve da cui era nata. Bevvi ripetutamente, fino a non poterne più, poi mi spogliai e mi lavai, per quanto l’acqua fosse fredda. Quando ebbi finito il bagno e mi fui rivestito, tornando al punto in cui avevo lasciato il sentiero, vidi dall’altra parte alcune tracce ravvicinate fra loro, dove un carlino era andato ad abbeverarsi. Esse erano sovrimpresse alle tracce della cavalcatura dell’ufficiale, e ciascuna era grossa come un piatto, senza che fossero visibili tracce d’artigli. Il vecchio Midan, che era stato il capo cacciatore di mio zio quando io ero la bambina Thecla, mi aveva detto una volta che gli smilodonti bevevano solo dopo essersi riempiti di cibo, e che quando avevano mangiato e bevuto non erano pericolosi, a meno che venissero molestati. Proseguii.
Il sentiero si snodava attraverso una valle alberata, poi saliva verso una sella fra le colline. Quando fui vicino al punto più alto, notai un albero, del diametro di quasi due spanne, che era stato tagliato a metà (così sembrava) all’altezza dei miei occhi. Le estremità del moncone e dell’albero caduto erano lacerate, e non somigliavano affatto al taglio pulito di un’ascia. Nelle successive due o tre leghe che percorsi, ne vidi altri colpiti alla stessa maniera, e, a giudicare dalla mancanza di foglie e talvolta anche di corteccia sulle parti cadute, e dai nuovi germogli sui mozziconi dei tronchi, il danno era stato fatto da un anno e forse più.
Finalmente, il sentiero raggiunse una vera strada, qualcosa di cui avevo sentito parlare spesso ma che non avevo mai percorso, a meno che si trovasse in stato di abbandono. Somigliava molto alla vecchia strada che gli ulani stavano cercando di bloccare quando ero stato separato dal Dr. Talos, da Baldanders, da Jolenta e da Dorcas nel lasciare Nessus, ma non ero preparato alla nube di polvere che era sospesa su di essa. L’erba non vi cresceva, ed era molto più ampia della maggior parte delle strade di città.
Non avevo altra scelta se non quella di seguirla; gli alberi crescevano fitti intorno ad essa, gli spazi intermedi soffocati dai cespugli. All’inizio ebbi paura, rammentando le lance ardenti degli ulani, tuttavia mi parve probabile che la legge che proibiva l’uso delle strade non fosse più in uso quaggiù, altrimenti su quella che stavo seguendo non si sarebbe svolto tutto il traffico di cui scorgevo tracce evidenti. Cosicché quando, poco tempo più tardi, udii alcune voci ed un rumore di piedi in marcia alle mie spalle, mi limitai ad addentrarmi di un passo o due fra gli alberi, osservando apertamente la colonna che stava passando.
Per primo veniva un ufficiale, che cavalcava un bel destriero azzurro, le cui zanne non erano state tagliate ed erano state coperte di turchesi perché s’intonassero alla bardatura ed alla guaina dello stocco del cavaliere. Gli uomini che seguivano a piedi erano antepilani della fanteria pesante, uomini dalle larghe spalle e dalla vita sottile, con volti abbronzati ed inespressivi, armati di korsekes a tre punte, di mezzelune e di vulgi dalla testa pesante. Quella mescolanza di armamenti, insieme ad una certa discrepanza negli emblemi e nell’abbigliamento, m’indusse a ritenere che il contingente fosse formato da quanto rimaneva di precedenti formazioni. Se così era, i combattimenti a cui quegli uomini dovevano aver assistito li avevano resi flemmatici. Essi avanzavano, quattromila circa in tutto, senza mostrare eccitamento, riluttanza o segni di stanchezza, noncuranti nel portamento ma non sciatti, e sembravano tenere la loro andatura senza sforzo.
Carri trainati da grugnenti e stridenti trilofodonti seguivano i soldati. Al loro passaggio, mi accostai alla strada, perché gran parte del bagaglio che trasportavano era chiaramente costituito da cibo; ma lungo i carri c’erano uomini montati, ed uno di essi mi chiamò, chiedendomi a quale unità appartenessi e poi ordinandomi di avvicinarmi. Io fuggii invece di obbedire, e, sebbene fossi certo che non poteva cavalcare fra gli alberi e che non avrebbe abbandonato il suo destriero per inseguirmi, corsi fino a rimanere senza fiato.
Quando finalmente mi fermai, mi trovavo in una radura silenziosa dove la verdastra luce del sole filtrava attraverso i rami degli snelli alberi. Il muschio copriva il terreno di uno strato tanto fitto che ebbi l’impressione di camminare sul soffice tappeto della stanza nascosta nel quadro in cui avevo incontrato il Signore della Casa Assoluta. Per qualche tempo, mi riposai con la schiena appoggiata ai tronchi sottili, ascoltando. Non udii però altro suono che l’ansimare del mio respiro ed il ruggito della marea del mio sangue che mi rimbombava negli orecchi.
Con il tempo, percepii anche un terzo suono, il ronzare di una mosca. Mi asciugai il volto sudato con un lembo del manto della corporazione; quel manto era adesso tristemente liso e scolorito, ed io fui all’improvviso consapevole del fatto che si trattava dello stesso manto che il Maestro Gurloes mi aveva drappeggiato intorno alle spalle il giorno in cui ero diventato un artigiano, come anche del fatto che sarei probabilmente morto indossandolo. Il sudore che esso aveva assorbito era freddo come rugiada, e l’aria era appesantita dall’odore della terra umida.
Il ronzio della mosca cessò, quindi riprese… forse un po’ più insistente, o forse mi parve tale solo perché il mio respiro si era adesso calmato. Assentemente, cercai l’insetto con gli occhi, e lo vidi saettare attraverso un raggio di sole a pochi passi di distanza, per poi posarsi su un oggetto marrone che sporgeva da dietro uno degli alberi.
Uno stivale.
Non avevo alcuna arma, e, di norma, non avrei avuto alcun timore ad affrontare un solo uomo a mani nude, specie in un luogo come quello, in cui maneggiare una spada era impossibile. Ma sapevo che la maggior parte della mia forza era svanita, e stavo scoprendo che il digiuno distrugge anche parte del coraggio di una persona… o forse ne consuma soltanto una parte, lasciandone di meno per altre esigenze.
Comunque fosse, mi avvicinai con cautela, di traverso ed in silenzio, fino a che lo vidi. Giaceva disteso, una gamba ripiegata sotto di sé e l’altra distesa, ed un falcione gli era caduto dalla destra, la cinghia di cuoio ancora avvolta intorno al polso. Il semplice elmetto gli era scivolato dalla testa ed era rotolato ad un passo di distanza. La mosca si arrampicò lungo lo stivale fino a raggiungere la carne nuda al di sotto del ginocchio, poi volò via, con il rumore di una piccola sega.
Sapevo, naturalmente, che quell’uomo era morto, e, sebbene provassi un senso di sollievo, fui di nuovo aggredito dalla consapevolezza del mio isolamento, anche se non mi ero in precedenza accorto che essa fosse svanita. Presi l’uomo per la spalla e lo girai: il suo corpo non si era ancora gonfiato, ma era già sopraggiunto l’odore della morte, per quanto debole. Il volto si era ammorbidito come una maschera di cera posta dinnanzi ad un fuoco, e non si poteva più dire quale espressione avesse avuto al momento della morte. L’uomo era stato giovane e biondo… con uno di quei volti avvenenti e squadrati. Cercai una ferita, ma non ne trovai.
Le cinghie del suo zaino erano tanto strette che non riuscii a scioglierle e neppure ad allentarle, ed alla fine gli presi il coltello dalla cintura e le tagliai, conficcando quindi la punta dell’arma in un albero. C’erano una coperta, un pezzo di carta, una padella annerita dal fuoco, due paia di rozzi calzini (molto bene accetti), e, meglio di tutto, una cipolla ed una mezza forma di pane nero avvolti in una pezza pulita, cinque fette di carne secca ed un pezzo di formaggio avvolti in un’altra.
Mangiai dapprima il pane ed il formaggio, costringendomi, quando scoprii che non riuscivo a mangiare lentamente, ad alzarmi ed a camminare su e giù ogni tre bocconi. Il pane, richiedendo molta masticazione, mi aiutò in questo: esso aveva lo stesso gusto del pane duro che servivamo ai nostri clienti nella Torre di Matachin, e che io avevo rubato, più per monellaggine che per fame, un paio di volte. Il formaggio era secco, salato e puzzolente, ma ugualmente ottimo, tanto che pensai di non averne mai mangiato prima uno simile, e so di non averne più mangiato in seguito: era come se inghiottissi linfa vitale. Mi fece venire sete, ed allora scoprii quanto la cipolla potesse aiutare a placare la sete, stimolando le ghiandole salivari.
Quando alla fine arrivai alla carne, che era anch’essa molto salata, ero abbastanza sazio da poter ragionare se la dovevo conservare per la sera, e decisi di mangiarne una fetta e di metter via le altre.
L’aria era rimasta immota fin dal primo mattino, ma ora una debole brezza prese a soffiare, rinfrescandomi le guance, agitando le foglie ed impadronendosi del pezzo di carta che avevo estratto dallo zaino del soldato morto, spingendolo attraverso la radura e mandandolo a fermarsi contro un albero. Sempre masticando e deglutendo, lo inseguii e lo raccolsi: era una lettera, che il soldato non aveva avuto occasione di spedire o forse di completare. La calligrafia era angolare e più minuta di quanto mi sarei immaginato, anche se questo poteva essere dovuto alla sua ansia di raccogliere molte parole sul piccolo foglio, che sembrava essere l’ultimo in suo possesso.
O mia adorata, ci troviamo ad un centinaio di miglia a nord del luogo da cui ti ho scritto l’ultima volta, avendo avanzato a tappe forzate. Abbiamo abbastanza da mangiare e stiamo caldi di giorno, anche se talvolta le notti sono fredde. Makar, di cui ti ho parlato, si è ammalato ed ha avuto il permesso di rimanere indietro. Molti altri hanno preteso allora di essere malati, ma sono stati costretti a marciare dinanzi a noi senza armi, con zaini doppi e sotto sorveglianza. In tutto questo tempo non abbiamo visto traccia degli Asciani, e ci è stato detto che essi si trovano ancora a parecchi giorni di marcia da qui. I sedizionisti hanno ucciso tre sentinelle per tre notti di fila, fino a quando non abbiamo disposto tre uomini per ciascuna postazione e tenuto pattuglie in movimento fuori dal campo. Sono stato assegnato ad una di queste pattuglie durante la prima notte, e l’ho trovato un compito molto pericoloso, perché temevo che uno dei miei compagni potesse abbattermi nel buio. Ho passato il tempo inciampando nelle radici ed ascoltando i canti intorno al fuoco…
«Quando domani sera dormiremo,
Sarà su un macchiato terreno,
Quindi stanotte tutti molto berremo,
E che la coppa amica circoli in un baleno.
Amico, quando spareranno, è mia speranza,
Che ogni colpo perduto sia,
E ti auguro bottino in abbondanza,
E che il mio posto al tuo fianco fia.
Che la coppa amica circoli in un baleno,
Perché dormiremo su un macchiato terreno».
Naturalmente, non abbiamo visto nessuno. I sedizionisti si fanno chiamare Vodalarii, dal nome del loro capo, e si dice siano combattenti scelti. E ben pagati, perché ricevono aiuti dagli Asciani…
II
IL SOLDATO VIVO
Accantonai la lettera a metà e fissai il soldato che l’aveva scritta: il colpo mortale non era andato perduto per lui, ed ora egli fissava il sole con occhi aperti, uno quasi ammiccante, l’altro spalancato.
Avrei dovuto ricordarmi dell’Artiglio molto prima di quel momento, ma non lo avevo fatto, o forse avevo solo soppresso quel pensiero nella mia ansia di rubare le razioni dallo zaino del morto, senza mai riflettere che avrei potuto essere certo che questi le avrebbe divise con chi lo avrebbe salvato dalla morte. Adesso, nel sentir menzionare Vodalus ed i suoi uomini (che ero certo mi avrebbero aiutato se solo fossi riuscito a trovarli), mi ricordai dell’Artiglio e lo tirai subito fuori. Parve brillare sotto il sole estivo, più vivido di quanto lo avessi mai visto fare senza la sua custodia di zaffiro. Toccai il soldato con esso, poi, spinto da un impulso che non avrei mai saputo definire, lo infilai nella sua bocca. Quando anche questo tentativo non ebbe effetto, lo presi fra il pollice e l’indice e premetti la sua punta contro la morbida pelle della fronte del soldato: questi non si mosse né respirò, ma una goccia di sangue, fresco ed appiccicaticcio come quello di un vivo, sgorgò a macchiarmi le dita.
Le ritirai, e mi pulii la mano con una foglia, dopo di che sarei tornato alla lettura della lettera se non avessi avuto l’impressione di sentire un ramo spezzarsi ad una certa distanza. Per un momento, non riuscii a decidere se nascondermi, fuggire o combattere, ma c’erano ben poche possibilità di riuscire con successo nel primo tentativo e ne avevo avuto abbastanza, della seconda alternativa. Raccolsi il falcione del morto, mi avvolsi nel mio mantello ed attesi.
Non venne nessuno… o, almeno, nessuno che fossi in grado di vedere. Il vento sospirava leggermente fra le cime degli alberi, e la mosca sembrava scomparsa. Forse ciò che avevo udito non era altro che un cervo che balzava nell’oscurità. Avevo viaggiato per tanto tempo senza un’arma che mi permettesse di cacciare, che mi ero quasi dimenticato di quella possibilità, ma adesso esaminai il falcione, sorprendendomi a desiderare che si trattasse invece di un arco.
Qualcosa si agitò dietro di me ed io mi volsi a guardare.
Era il soldato: un tremito sembrava essersi impadronito di lui, e, se non avessi visto il suo cadavere, avrei pensato che stesse morendo allora. Le mani gli tremavano ed aveva un rantolo in gola. Mi chinai e gli toccai la faccia: era fredda come prima, ed avvertii l’improvvisa necessità di accendere un fuoco.
Nello zaino non avevo trovato il necessario per farlo, ma sapevo che ogni soldato doveva disporne. Gli frugai le tasche e trovai qualche aes, una meridiana portatile con cui stabilire l’ora, una pietra focaia ed un’esca. Il legname era abbondante sotto gli alberi, e c’era anzi il pericolo che lo incendiassi tutto. Sgombrai un piccolo spazio con le mani, accumulai nel centro i frammenti di legno, li accesi, quindi aggiunsi qualche ramo marcito, che spezzai e disposi sopra i trucioli.
La luce del fuoco si rivelò maggiore e presto sarebbe sceso il buio. Osservai il morto: le sue mani non tremavano più ed egli giaceva in silenzio. La carne della sua faccia sembrava più calda, ma senza dubbio ciò era dovuto solo all’effetto del fuoco. La goccia di sangue sulla sua fronte si era quasi seccata e sembrava riflettere la luce del sole morente, brillando come una gemma, simile ad un rubino che fosse rotolato fuori dal baule di un tesoro. Sebbene il nostro fuoco facesse poco fumo, quel poco mi sembrava profumato come incenso, e, come l’incenso, saliva in linea retta fino a perdersi nell’oscurità crescente, suggerendo qualcosa che non riuscivo a focalizzare. Scossi il capo e cercai altra legna, rompendola ed ammucchiandola fino ad essere certo di averne abbastanza per tutta la notte. Le serate non erano altrettanto fredde qui ad Orinthya come lo erano state sulle montagne o anche nella regione circostante il Lago Diuturna, per cui, pur ricordandomi della coperta trovata nello zaino del morto, non ne sentii alcun bisogno. L’attività svolta mi aveva riscaldato, il cibo mi aveva rinvigorito ed ora per qualche tempo passeggiai avanti e indietro nella luce del tramonto, brandendo il falcione quando simili atteggiamenti guerreschi si confacevano ai miei pensieri, ma stando sempre attento a tenere il fuoco fra me ed il morto.
Come ho spesso detto in questa cronaca, i miei ricordi sono sempre apparsi nella mia mente con tanta intensità da sembrare quasi allucinazioni, e, quella notte, ebbi l’impressione di potermi perdere per sempre in essi, facendo della mia vita un cappio invece che una linea retta; ma, per una volta, non resistetti alla tentazione, ed indugiai in essi. Tutto quello che ho descritto qui mi si affacciò nella mente, e mille altre cose ancora. Vidi la faccia di Eata e la sua mano lentigginosa mentre cercava di scivolare fra le sbarre del cancello della necropoli, e la tempesta che avevo una volta visto impalata sulle torri della Cittadella, mentre si dibatteva e contorceva con i suoi lampi; sentii ancora la sua pioggia, più fredda e fresca dell’acqua mattutina nel nostro refettorio, gocciolarmi giù per la faccia. La voce di Dorcas mi sussurrò all’orecchio:
— Stavo seduta ad una finestra… alcuni vassoi ed un crocifisso. Che cosa farai, convocherai qualche Erinni per distruggermi?
Sì. Sì, in effetti lo avrei fatto, se avessi potuto. Se fossi stato Hethor, avrei richiamato qualche orrore dall’aldilà, uccelli con le teste di megere e le lingue di vipere. Ad un mio ordine, essi avrebbero mietuto le foreste come campi di grano ed abbattuto le città con le ali… eppure, se avessi potuto, sarei apparso nel momento cruciale per salvarla… non per andarmene poi freddamente nel modo in cui tutti sognamo di fare quando, da bambini, ci vediamo nell’atto di salvare ed umiliare la persona amata che ci ha in qualche modo mancato di riguardo, ma per stringerla fra le braccia.
Allora per la prima volta, credo, compresi quanto fosse stato terribile per lei, che era poco più di una bambina quando era sopraggiunta la morte, e che era rimasta morta per così tanto tempo, essere richiamata in vita.
E, pensando a questo, ricordai il soldato morto di cui avevo mangiato il cibo e di cui impugnavo la spada, e mi soffermai ad ascoltare per verificare se respirava o si muoveva. Eppure, ero tanto perso nei miei ricordi da avere l’impressione che il morbido suolo della foresta che calpestavo provenisse dalla tomba che Hildegrin aveva violato per Vodalus, e che il sussurro delle foglie fosse il fruscio dei cipressi nella nostra necropoli e delle rose purpuree che vi crescevano, e che io stessi ascoltando invano per udire il respiro della donna morta che Vodalus aveva sollevato, avvolta nel bianco sudario, con una corda che le passava sotto le braccia.
Finalmente, il gracchiare di un nottolone mi riportò alla realtà. Mi parve di notare il bianco volto del soldato che mi fissava, ed allora girai intorno al fuoco, frugai fino a trovare la coperta, e vi avvolsi il cadavere.
Dorcas apparteneva, come comprendevo solo ora, a quella vasta categoria di donne (che potrebbe in effetti comprendere tutte le donne) che ci tradiscono, … ed a quel tipo speciale che non ci tradisce per un attuale rivale, ma in nome del passato. Come Morwenna, che avevo giustiziato a Saltus, aveva avvelenato il marito ed il figlio perché ricordava un tempo in cui era stata libera e, forse, vergine, così Dorcas mi aveva lasciato perché non ero esistito (non ero riuscito ad esistere, come lei doveva aver inconsciamente pensato) nel tempo prima che il suo destino si abbattesse su di lei.
(Anche per me, questo è un tempo dorato. Credo di aver custodito con amore il ricordo del rozzo e geniale ragazzo che mi portava in cella libri e boccioli, soprattutto perché sapevo che sarebbe stato il mio ultimo amore prima che il destino si abbattesse su di me, destino che non si era compiuto, come avevo appreso in quella prigione, nel momento in cui il tendaggio mi era stato gettato addosso per soffocare il mio grido, e neppure al mio arrivo nella Vecchia Cittadella di Nessus, neppure quando la porta della cella si era richiusa fragorosamente alle mie spalle, e neanche ancora quando, bagnata in una luce quale non splende mai su Urth, avevo sentito il mio corpo ribellarsi contro di me… bensì in quell’istante in cui mi ero passata sul collo la lama fredda e pietosamente tagliente dell’unto coltello da cucina che egli mi aveva portato. Forse noi giungiamo tutte ad un simile momento, ed è la volontà del Catanya che ciascuna si condanni per quello che ha fatto. Eppure, possiamo davvero essere tanto odiate? Non quando posso ancora rammentare i suoi baci, dati non per respirare il profumo della mia pelle, come lo erano stati quelli di Aphrodisius o di quel giovane, il nipote del chiliarca dei Compagni… ma come se egli fosse realmente affamato della mia carne. Forse che qualcosa ci stava osservando? Adesso egli ha mangiato parte di me. Ridestata dal ricordo, sollevo la mano e passo le dita fra i suoi capelli.)
Dormii fino a tardi, avvolto nel mio mantello. Esiste una forma di compensazione concessa dalla natura a coloro che vengono sottoposti a dure traversie, e cioè il fatto che disagi minori, per i quali persone che hanno fino ad allora vissuto comodamente, si lamenterebbero, appaiono invece confortevoli. Parecchie volte prima di alzarmi, mi destai a mezzo e mi congratulai con me stesso al pensiero di come quella notte fosse trascorsa tranquilla, in confronto a quelle passate sulle montagne.
Finalmente, la luce del sole ed il canto degli uccelli mi svegliarono del tutto. Dall’altra parte del fuoco ormai spento, il soldato si agitò e, mi parve, mormorò qualcosa. Mi alzai a sedere: l’uomo aveva gettato la coperta da un lato e giaceva con il volto girato verso il sole. Era una faccia pallida, con guance incavate, ombre scure sotto gli occhi e pieghe profonde che scendevano lungo la bocca, ma era la faccia di un vivo: gli occhi erano chiusi, ed il respiro scaturiva dalle narici.
Per un momento, ebbi la tentazione di fuggire, mentre il soldato dormiva. Avevo ancora il falcione… feci per rimetterlo a posto ma poi decisi di tenerlo per timore che il soldato se ne servisse per attaccarmi. Il coltello sporgeva ancora dal tronco, e mi fece pensare alla lama ricurva di Agia conficcata nell’imposta di Casdoe. Lo riposi nel fodero alla cintura dell’uomo, soprattutto perché mi vergognavo di pensare che io, armato di spada, potessi aver paura di un uomo munito solo di un coltello.
Le palpebre si agitarono, ed io indietreggiai, rammentando la volta in cui Dorcas si era spaventata, trovandomi chino su di lei al suo risveglio. Per non apparire una figura cupa, gettai indietro il mantello, mostrando le braccia ed il petto nudo, ora abbronzati dal sole di tanti giorni. Potevo sentire il ritmo del respiro, e, quando esso passò dal sonno alla veglia, mi parve un passaggio altrettanto miracoloso quanto quello dalla morte alla vita.
Gli occhi vacui come quelli di un bambino, il soldato si levò a sedere e si guardò intorno. Le sue labbra si mossero ma ne scaturirono solo suoni privi di senso. Gli parlai, tentando di rendere amichevole la mia voce: egli ascoltò, ma non parve comprendere, ed io rammentai quanto fosse rimasto intontito l’ulano che avevo fatto rivivere sulla strada della Casa Assoluta.
Desiderai di avere acqua da offrirgli, ma non ce n’era. Trassi un pezzo della carne salata che avevo preso dal suo zaino, la spezzai in due e la divisi con lui al posto dell’acqua.
L’uomo masticò e parve stare un po’ meglio.
— Alzati — gli dissi, — dobbiamo trovare qualcosa da bere.
Prese la mia mano e mi permise di tirarlo in piedi, ma riuscì a stento a rimanervi. I suoi occhi, inizialmente tanto calmi, si fecero più selvaggi nel divenire più attenti, ed io ebbi la sensazione che avesse il timore che gli alberi potessero venirci addosso come un branco di leoni, anche se non estrasse il coltello né reclamò indietro la spada.
Quando gli ebbi fatto fare tre o quattro passi, barcollò e quasi cadde. Gli permisi di appoggiarsi al mio braccio, e, insieme, ci facemmo largo verso la foresta fino alla strada.
III
IN MEZZO ALLA POLVERE
Non sapevo se dovevamo andare a nord oppure a sud. Da qualche parte, a nord, c’era l’esercito degli Asciani, ed era possibile che, se ci fossimo avvicinati troppo alle loro linee, rimanessimo presi in qualche rapida manovra. Eppure, quanto più ci fossimo spinti a sud, tanto meno probabile sarebbe stato riuscire a trovare qualcuno che ci potesse aiutare, e molto più probabile essere invece arrestati come disertori. Alla fine, mi diressi a nord: senza dubbio, agii soprattutto per abitudine, e, ancora oggi, non saprei dire se feci bene o male.
La rugiada si era già asciugata sulla strada, e la superficie polverosa non recava alcuna impronta. Su entrambi i lati, per tre passi e più di profondità, la vegetazione era di un grigio uniforme. Ben presto, uscimmo dalla foresta, e la strada scese lungo una collina e raggiunse un ponte che sormontava un piccolo fiume sul fondo di una valle costellata di rocce.
A quel punto, lasciammo la strada e scendemmo nella valle per bere e bagnarci la faccia. Non mi ero più raso da quando avevo voltato le spalle al Lago Diuturna, e, sebbene non ne avessi visto uno quando gli avevo preso di tasca acciarino ed esca, mi azzardai a chiedere al soldato se avesse un rasoio.
Cito qui questo insignificante particolare perché quella fu la prima cosa da me detta che egli parve comprendere: annuì, poi, infilata una mano sotto l’usbergo, estrasse una di quelle piccole lame usate dalla gente di campagna, rasoi che i loro fabbri ricavano da metà di consunti ferri per buoi. Lo sfregai contro la pietra per affilare che portavo ancora con me e poi sulla gamba dello stivale, quindi chiesi al soldato se aveva un pezzo di sapone. Se ne aveva, non riuscì a capirmi, e, dopo un momento, sedette su una roccia da cui poteva osservare l’acqua, ricordandomi moltissimo Dorcas. Desideravo fargli qualche domanda sui Campi della Morte, per apprendere tutto ciò che egli rammentava di quel tempo che, forse, è oscuro solo per noi, ma invece mi lavai la faccia con la fredda acqua del fiume e mi sfregai le guance ed il mento meglio che potevo. Quando rinfoderai il rasoio e tentai di restituirglielo, il soldato parve non sapere che cosa farsene, per cui lo tenni io.
Per la maggior parte di quella giornata camminammo, e parecchie volte venimmo fermati e interrogati, mentre molto più spesso fummo noi a fermare e ad interrogare gli altri. A poco a poco, sviluppai un’elaborata bugiano ero il littore di un giudice civile che accompagnava l’Autarca; avevamo incontrato quel soldato lungo la strada ed il mio signore mi aveva ordinato di provvedere a lui, ma, dato che l’uomo non riusciva a parlare, non sapevo da quale unità provenisse. Quell’ultimo particolare era più che vero.
Attraversammo altre strade e, di tanto in tanto, le seguimmo. Due volte, raggiungemmo grandi accampamenti dove decine di migliaia di soldati vivevano in tendopoli; in entrambi i campi, coloro che si occupavano dei feriti mi dissero che, mentre avrebbero potuto fasciare le ferite del mio compagno se questi fosse sanguinante, non si potevano addossare la responsabilità della sua presenza nelle condizioni in cui era. Quando mi trovai a parlare con il responsabile del secondo campo, non chiesi più di essere indirizzato alle Pellegrine, ma soltanto che mi fosse indicato un luogo in cui avremmo potuto trovare rifugio. Era quasi notte.
— C’è un lazzaretto, a tre leghe da qui, dove potrebbero accogliervi. — Lo sguardo del mio informatore si spostò dall’uno all’altro di noi, e parve esprimere altrettanta simpatia per me quanta ne ispirava il mio compagno, che rimaneva silenzioso ed attonito. — Andate ad ovest ed a nord fino a quando non vedrete sulla destra una strada che passa fra due grossi alberi. È larga circa la metà di quella che avete percorso: seguitela. Sei armato?
Scossi il capo; avevo riposto il falcione del soldato nel suo fodero.
— Sono stato costretto a lasciare la spada presso i servitori del mio signore: non avrei potuto trasportarla e sorreggere al contempo quest’uomo.
— Allora devi stare attento alle bestie. Sarebbe meglio se tu avessi un’arma che spara, ma non ho nulla del genere da darti.
Mi volsi per andare, ma l’uomo mi fermò, posandomi una mano sulla spalla.
— Abbandonalo, se vieni attaccato — mi disse, — e non sentirti troppo in colpa se sarai costretto a lasciarlo: ho visto altri casi come il suo prima d’ora, e non è probabile che si riprenda.
— Lui si è sempre ripreso — replicai.
Anche se non intendeva permetterci di rimanere né poteva fornirci un’arma, quell’uomo ci fece tuttavia avere qualcosa da mangiare, e così partii in uno stato d’animo più allegro di quanto non fossi stato da parecchio tempo. Ci trovavamo in una valle le cui colline occidentali avevano coperto il sole più di un turno di guardia prima, e, mentre camminavo a fianco del soldato, scoprii che non era più necessario che lo sorreggessi per un braccio. Adesso potevo lasciarlo andare, ed egli continuava a camminare al mio fianco come un amico. Il suo volto non somigliava affatto a quello di Jonas, che era lungo e stretto, ma una volta, nell’osservarlo di profilo, scorsi in lui qualcosa che mi fece venire in mente Jonas, e mi sentii quasi come se avessi visto un fantasma.
La grigia strada era di una tinta biancoverdastra sotto la luce della luna, mentre gli alberi ed i cespugli sui due lati sembravano neri. Mentre camminavamo, cominciai a parlare, in parte, lo ammetto, per pura e semplice solitudine, ma anche per altri motivi. Indubbiamente, ci sono fiere, come Palzabo, che attaccano gli uomini come le volpi fanno con i polli, ma mi era stato detto che ce n’erano molte altre che fuggivano se avvertite per tempo della presenza di un essere umano. Inoltre, se avessi continuato a parlare al soldato come avrei fatto con qualsiasi altro uomo, qualsiasi malintenzionato che ci avesse uditi non avrebbe potuto intuire quanto poco probabile fosse che il mio compagno opponesse resistenza.
— Ti ricordi della notte scorsa? — esordii. — Hai dormito molto profondamente.
Non ci fu risposta.
— Forse non te l’ho mai detto, ma io ho la capacità di ricordare tutto. Non riesco sempre ad evocare i ricordi quando voglio, ma essi sono sempre là. Alcuni ricordi, sai, sono come clienti, riusciti a fuggire, che vaghino per le nostre segrete. Può darsi che non sia possibile esibirli dietro richiesta, ma essi sono sempre là, non possono andarsene. Tuttavia, ora che ci penso, questo non è del tutto vero. Il quarto e più basso livello della nostra segreta è stato abbandonato… non ci sono comunque mai abbastanza clienti per riempire i primi tre, e, forse, alla fine Maestro Gurloes farà chiudere anche il terzo. Al momento attuale, lo teniamo aperto solo per quei pazzi che nessun ufficiale viene mai a richiedere: se li sistemassimo in uno dei livelli più alti, il rumore che fanno disturberebbe gli altri. Naturalmente, non tutti sono rumorosi: alcuni sono tranquilli quanto lo sei tu.
Ancora una volta non ebbi risposta: alla luce della luna, non avrei potuto dire se mi stava ascoltando o meno, ma, rammentandomi del rasoio, proseguii.
— Io stesso una volta sono uscito da quella parte. Attraverso il quarto livello, voglio dire. Avevo un cane, e lo tenevo laggiù, ma è fuggito, e, nel seguirlo, ho trovato una galleria che usciva dalla nostra segreta. Alla fine, sono strisciato fuori da un piedestallo rotto in un luogo chiamato l’Atrio del Tempo. Era pieno di meridiane, e là ho incontrato una giovane donna, più bella di qualsiasi altra abbia visto da allora… credo perfino più bella di Jolenta, anche se non nello stesso modo.
Il soldato non rispose nulla, eppure ora qualcosa mi diceva che stava ascoltando; forse si trattava soltanto di un leggero movimento della sua testa che avevo notato con la coda dell’occhio.
— Il suo nome era Valeria, e credo fosse più giovane di me, anche se mi parve più matura. Aveva capelli scuri e ricci, come quelli di Thecla, ma i suoi occhi erano anch’essi scuri, mentre quelli di Thecla erano viola. Aveva la pelle più bella che avessi mai visto, come latte fresco misto a succo di pomogranate e fragole.
«Io però non volevo parlare di Valeria, ma di Dorcas. Anche Dorcas è bella, sebbene sia molto magra, quasi una bambina. Il suo volto sembra quello di un genietto, e la sua pelle è costellata di lentiggini simili a pagliuzze d’oro. Prima di tagliarli, aveva i capelli lunghi, e portava sempre un fiore in mezzo ad essi.
Feci un’altra pausa. Avevo continuato a parlare di donne perché questo argomento sembrava aver attirato l’attenzione del soldato, ma ora non avrei saputo dire se mi stava ancora ascoltando o meno.
— Prima di lasciare Thrax, sono andato a trovare Dorcas. Era nella sua stanza, in una locanda chiamata il Nido dell’Anatra. Era a letto, ed era nuda, ma è rimasta avvolta nelle lenzuola, come se non avessimo mai dormito insieme… noi due che avevamo camminato e cavalcato per tante leghe, accampandoci in luoghi dove non era mai stata udita voce umana da quando la terra era emersa dal mare, ed arrampicandoci su colline calpestate fino ad allora solo dai piedi del sole. Stava per lasciarmi, ed io stavo per lasciare lei, e nessuno dei due desiderava veramente che le cose andassero in un altro modo, anche se alla fine Dorcas ha avuto paura e mi ha chiesto di restarle accanto, nonostante tutto.
«Ha detto che, secondo lei, l’Artiglio aveva sul tempo lo stesso potere che si dice gli specchi di Padre Inire abbiano sulla distanza. Sul momento, ho dato poco peso all’osservazione… in effetti, non sono un uomo molto intelligente, suppongo, e non sono affatto un filosofo… ma ora la trovo interessante. Dorcas mi ha detto: “Quando hai richiamato in vita l’Ulano, è stato perché l’Artiglio ha alterato il tempo riportandolo ad un momento in cui egli era ancora in vita. Quando hai parzialmente guarito le ferite del tuo amico, è stato perché ha spostato il tempo ad un momento in cui esse sarebbero state ormai quasi guarite.” Non pensi che questo sia interessante? Poco dopo che ti avevo punto la fronte con l’Artiglio, tu hai emesso uno strano suono, e credo possa essersi trattato del tuo rantolo di morte.
Attesi. Il soldato non parlò, ma, cosa assolutamente inattesa, mi appoggiò una mano sulla spalla. Io avevo continuato a chiacchierare in modo quasi frivolo, ma il tocco della sua mano mi fece ricordare la serietà di quanto stavo dicendo: se era vero, o se anche si avvicinava leggermente alla verità, allora io avevo giocato con poteri che non comprendevo meglio di quanto il figlio di Casdoe, che avevo cercato di trasformare in mio figlio, avesse compreso i poteri del gigantesco anello che gli aveva tolto la vita.
— Non mi meraviglio che tu sia intontito. Dev’essere una cosa terribile tornare indietro nel tempo, ed ancora più terribile muoversi a ritroso ripassando attraverso il momento della propria morte. Stavo per dire che dev’essere come nascere di nuovo, ma credo debba essere molto peggio di così, perché un neonato vive già nel grembo della madre. — Esitai. — Io… Thecla, voglio dire… non ha mai avuto un bambino.
Forse solo perché stavo pensando alla sua confusione mentale, scoprii di essere io stesso confuso, tanto da riuscire a stento a capire chi fossi.
— Mi devi scusare — aggiunsi infine, con voce debole, — ma, quando sono stanco e talvolta quando ho sonno, arrivo quasi al punto di diventare qualcun altro. — (Per chissà quale ragione, quando pronunciai quelle parole, la sua stretta sulla mia spalla si serrò maggiormente.) — È una lunga storia, che non ha nulla a che fare con te. Quello che volevo dire è che, nell’Atrio del Tempo, la rottura del piedestallo aveva fatto inclinare la meridiana in modo tale che le segnalazioni che essa dava non erano più esatte, ed ho sentito raccontare che, quando questo accade, i turni di guardia del giorno si arrestano, oppure scorrono all’indietro per una parte di ciascun giorno. Tu porti una meridiana tascabile, quindi sai che, perché essa dia un risultato esatto, il suo braccio deve essere puntato verso il sole. Il sole rimane immobile, mentre Urth gli danza intorno, ed è grazie a questa sua danza che noi possiamo calcolare il tempo, così come un sordo può ancora indovinare il ritmo di una tarantella osservando i movimenti dei danzatori. Ma, che accadrebbe se il sole stesso prendesse a danzare? Allora, anche il cammino in avanti dei minuti potrebbe diventare una ritirata.
«Non so se tu credi nel Nuovo Sole… io non sono certo di averci mai creduto. Ma, se esiste, egli sarà il Conciliatore ritornato, e così Conciliatore e Nuovo Sole sono solo due diversi nomi per lo stesso individuo, e noi possiamo chiederci perché un simile individuo debba essere chiamato il Nuovo Sole. Cosa ne pensi? Non potrebbe essere a causa del suo potere di smuovere il tempo?
Adesso ebbi realmente l’impressione che il tempo si fosse arrestato: intorno a noi, gli alberi si levavano scuri e silenziosi, la notte aveva rinfrescato l’aria, ed io non riuscii a pensare ad altro da dire, vergognandomi di aver raccontato tante sciocchezze, perché sentivo in qualche modo che il soldato aveva ascoltato con attenzione ogni mia parola. Dinnanzi a noi, scorsi due pini dal tronco molto più massiccio degli altri che fiancheggiavano la strada, e scorsi un pallido sentiero bianco e verde che li attraversava.
— Là! — esclamai.
Quando vi arrivammo, tuttavia, dovetti arrestare il soldato con le mani e girarlo per le spalle prima che mi seguisse. Notai una chiazza scura nella polvere e mi chinai a toccarla: era sangue rappreso.
— Siamo sulla strada giusta — dissi. — È qui che portano i feriti.
IV
LA FEBBRE
Non potei dire quanto ancora camminammo o quanta parte della notte trascorse prima che raggiungessimo la nostra meta. So che cominciai ad incespicare qualche tempo prima di abbandonare la strada principale e che quell’inciampare divenne per me come una sorta di malattia. Proprio come alcuni malati non riescono a smettere di tossire ed altri non riescono ad impedire alle loro mani di tremare, io presi ad inciampare, e, dopo pochi passi, inciampai ancora e poi ancora. A meno che non evitassi di pensare a qualsiasi altra cosa, la punta del mio stivale sinistro s’impigliava nel tallone destro, ed io non riuscivo a concentrare la mia mente a sufficienza… i miei pensieri vagavano altrove ad ogni passo che facevo.
Le lucciole si muovevano fra gli alberi su entrambi i lati del sentiero, e, per qualche tempo, supposi che anche le luci dinnanzi a noi non fossero altro che insetti, e non accelerai il passo. Poi, in un modo che a me parve molto improvviso, ci trovammo sotto un tetto ombrato, dove uomini e donne con lampade gialle andavano su e giù fra le lunghe file di giacigli. Una donna vestita di un abito che mi sembrò nero si occupò di noi e ci guidò in un luogo dove c’erano sedie di cuoio e corno ed un fuoco che ardeva in un braciere. Là, vidi che il suo abito era scarlatto, come anche il suo mantello, e, per un momento, pensai che fosse Cyriaca.
— Il tuo amico è molto malato, vero? — chiese la donna. — Sai che cos’abbia?
— No — replicò il soldato, scuotendo il capo. — Non sono neppure sicuro di chi egli sia.
Ero troppo stordito per parlare. La donna mi prese la mano, poi la lasciò e afferrò quella del soldato.
— Ha la febbre, ed anche tu. Ora che è giunto il calore dell’estate, vediamo sempre più malattie ad ogni giorno che passa. Avreste dovuto far bollire l’acqua e pulirvi il meglio possibile dai pidocchi.
— Tu — aggiunse la donna, rivolgendosi a me, — hai anche molti tagli poco profondi, alcuni dei quali si sono infettati. Frammenti di roccia?
— Non sono io il malato — riuscii a dire. — Ho portato qui il mio amico.
— Siete entrambi malati, e sospetto che ciascuno dei due abbia portato l’altro: dubito che nessuno di voi sarebbe riuscito ad arrivare fino a noi senza il compagno. Sei stato ferito da frammenti di roccia? Una qualche arma del nemico?
— Sì, frammenti di roccia. Un’arma di un amico.
— Questa è la cosa peggiore, mi è stato detto… trovarsi esposti al fuoco della propria gente. Ma la febbre è la preoccupazione maggiore. — La donna esitò, ed il suo sguardo si spostò più volte dal soldato a me. — Adesso, vi vorrei mettere entrambi a letto, ma dovrete prima fare un bagno.
Batté le mani per convocare un uomo massiccio dalla testa rasata. Questi ci prese per un braccio e si avviò per condurci via, ma poi, arrestandosi, mi sollevò e mi trasportò come io avevo un tempo trasportato il piccolo Severian. Pochi istanti dopo, eravamo nudi e seduti in una polla d’acqua riscaldata con alcune pietre. L’uomo massiccio ci versò altra acqua addosso, poi ci fece uscire uno alla volta in modo da poterci tagliare i capelli con un paio di cesoie. Quando ebbe finito, ci lasciò a mollo per un po’.
— Adesso riesci a parlare — dissi al soldato, e lo vidi annuire alla luce delle lampade. — Allora, perché non lo hai fatto, mentre venivamo qui?
Esitò, poi sollevò leggermente le spalle.
— Stavo pensando a molte cose, e tu stesso non hai parlato. Sembravi così stanco. Una volta, ti ho chiesto se non avremmo dovuto fermarci, ma tu non mi hai risposto.
— A me sembrava che le cose stessero diversamente — replicai, — ma forse abbiamo entrambi ragione. Rammenti cosa ti è accaduto prima d’incontrarmi?
— Non ricordo neppure di averti incontrato — rispose, dopo un’altra pausa. — Stavamo camminando lungo un sentiero buio, e tu eri al mio fianco.
— E prima di questo?
— Non lo so. Musica, forse, ed una lunga marcia. Prima alla luce del sole, poi al buio.
— Quel camminare è avvenuto mentre eri con me — spiegai. — Non ricordi niente altro?
— Di volare nel buio. Sì, io ero con te, e siamo giunti in un luogo in cui il sole pendeva proprio sopra le nostre teste. C’era una luce davanti a noi, ma, quando vi sono entrato, è diventata una specie di oscurità.
— Non eri del tutto normale, vedi — spiegai, annuendo. — In un giorno caldo, può sembrare che il sole penda proprio sopra la testa, e, quando tramonta dietro ad una collina sembra che la luce diventi oscurità. Ti ricordi il tuo nome?
A quella domanda, il soldato rifletté per qualche tempo, poi sorrise con aria colpevole.
— L’ho perso da qualche parte lungo la strada. È quel che disse il giaguaro che aveva promesso di far da guida alla capra.
L’uomo massiccio con la testa rasata era tornato senza che nessuno di noi due se ne accorgesse. Mi aiutò ad uscire dalla polla, mi fece asciugare con una salvietta, mi diede una tunica da indossare ed un sacco di tela contenente i miei oggetti personali, che ora odoravano fortemente di fumo. Appena il giorno prima sarei stato tormentato fin quasi alla pazzia se l’Artiglio mi fosse stato sottratto anche per un solo momento, ma quella notte mi ero a stento reso conto della sua scomparsa fino a che non mi era stato restituito, e non verificai che mi fosse stato effettivamente restituito fino a quando mi trovai disteso su uno dei giacigli, sotto la protezione di una zanzariera. Allora, l’Artiglio brillò nella mia mano, dolcemente, come la luna stessa; e la sua forma era come quella che talvolta assume la luna. Sorrisi, al pensiero che il getto di pallida luce verde che essa riflette non è che un riverbero del sole.
Durante la prima notte in cui avevo dormito a Saltus, mi ero svegliato pensando di essere nel dormitorio degli apprendisti nella nostra torre. Adesso, ebbi la stessa esperienza, ma al contrario: mi addormentai, e, nel sonno, scoprii che l’ombrato lazzaretto con le sue silenziose figure e le lampade in movimento non era stato altro che un’allucinazione avuta durante il giorno.
Mi sedetti e mi guardai intorno: mi sentivo bene, meglio, in effetti, di quanto mi fossi mai sentito prima, ma ero caldo, e sembravo splendere internamente. Roche dormiva girato sul fianco, i capelli rossi aggrovigliati, la bocca leggermente aperta, il viso rilassato ed infantile ora che dietro di esso mancava l’energia della mente. Attraverso l’oblò, potevo vedere la neve che scendeva lenta sul Vecchio Cortile, neve caduta da poco e che non recava ancora traccia di uomini o di animali, ma mi venne in mente che nella nostra necropoli dovevano già esserci centinaia di tracce mentre i piccoli animali che vi trovavano rifugio, compagni di gioco dei morti, vagavano in cerca di cibo o per divertirsi nel nuovo paesaggio che la Natura aveva approntato per loro. Mi vestii rapidamente ed in silenzio, portandomi un dito alle labbra ogni qualvolta uno degli altri apprendisti si muoveva, e mi affrettai giù per la stretta scala che occupava il centro della nostra torre.
Mi parve più lunga del solito, e scoprii di avere difficoltà a passare da uno scalino all’altro. Ci rendiamo sempre conto dell’ostacolo rappresentato dalla forza di gravità quando saliamo una rampa di scale, ma diamo per scontato l’aiuto che essa ci fornisce nella discesa. Adesso, quell’aiuto era stato abolito o quasi, ed io ero costretto a forzare i piedi a scendere, ma in un modo che m’impedisse di rimbalzare verso l’alto come mi sarebbe accaduto se avessi colpito con forza lo scalino. In quel modo irreale in cui siamo consapevoli delle cose nei sogni, compresi che tutte le torri della Cittadella si erano finalmente innalzate e stavano compiendo il loro viaggio al di là del cerchio di Dis. Mi sentii felice per quella conoscenza, ma desideravo ancora andare nella necropoli per seguire le tracce delle volpi e dei coati. Mi stavo affrettando a scendere il più presto possibile quando sentii un gemito. La scala non scendeva più, come avrebbe dovuto fare, ma portava in una stanza, così come le scale della torre di Baldanders passavano attraverso i muri delle stanze.
Era la stanza dove il Maestro Malrubius giaceva ammalato. I Maestri hanno diritto a spaziosi alloggi, ma questo era di gran lunga più ampio di quanto lo fosse stata la cabina reale. C’erano due oblò, proprio come io ricordavo, ma erano enormi… come gli occhi del Monte Typhon. Il letto del Maestro Malrubius era molto grande, eppure sembrava perdersi nell’immensità della stanza. Due figure erano chine su di lui, e, sebbene i loro abiti fossero neri, rimasi colpito dal fatto che non avessero la tinta fuligginosa che contraddistingueva gli indumenti della corporazione. Mi accostai, e, quando fui tanto vicino da poter udire il respiro affannoso del malato, esse si raddrizzarono e si volsero a guardarmi: erano la Cumana e la sua accolita, Merryn, le streghe che avevamo incontrato in cima alla tomba nella città di pietra in rovina.
— Ah, sorella, sei venuta finalmente — disse Merryn.
Quando parlò, mi resi conto di non essere, come avevo creduto, l’apprendista Severian, bensì Thecla, come era quando aveva la stessa età, cioè fra i tredici ed i quattordici anni. Provai un profondo imbarazzo, non perché avessi un corpo femminile o perché indossassi abiti maschili (cosa che piuttosto mi faceva piacere), ma perché fino a quel momento non me ne ero reso conto. Sentii anche che le parole di Merryn avevano provocato una magia… che sia Severian che io eravamo stati presenti fino a quel momento e che lei aveva in qualche modo sospinto Severian sullo sfondo. La Cumana mi baciò sulla fronte, e, quando lo ebbe fatto, si pulì il sangue che le macchiava le labbra. Sebbene non parlasse, compresi che quello era una sorta di segnale indicante che io ero diventata in qualche modo anche il soldato.
— Quando dormiamo — mi disse Merryn, — ci spostiamo dalla temporalità all’eternità.
— Quando ci destiamo — sussurrò la Cumana, — perdiamo la capacità di vedere al di là del momento presente.
— Lei non si sveglia mai — si vantò Merryn.
Maestro Malrubius si agitò e gemette, e la Cumana, presa una caraffa d’acqua dal tavolino vicino al letto, ne versò un poco in un bicchiere. Quando tornò a posare la caraffa, qualcosa di vivo si agitò in essa, ed io, per chissà quale ragione, pensai all’ondina. Mi trassi indietro, ma si trattava di Hethor, non più alto della mia mano, la grigia faccia barbuta premuta contro il vetro.
Sentii la sua voce come si può udire lo squittio di un topo.
— Costretto talvolta ad atterrare dalle tempeste di fotoni, dal roteare delle galassie, in un senso o nell’altro, scattando come luce lungo gli oscuri corridoi marini tappezzati delle nostre vele argentee, veleggia il nostro specchio incalzato dai demoni, il nostro albero alto cento leghe sottile come un filo, sottile come aghi d’argento che cuciano con fili di luce stellare, ricamando le stelle su velluto nero, umido per i venti del Tempo che passa precipitoso. L’osso fra i suoi denti! La spuma, la spuma volante del Tempo, gettata su queste spiagge dove vecchi marinai non possono più tenere lontane le loro ossa dall’inquieto universo mai stanco. Dov’è andata? La mia signora, la compagna della mia anima? È andata attraverso le agitate maree dell’Acquario, dei Pesci, dell’Ariete. Andata. Andata nella sua piccola barca, il seno premuto contro la coperta di nero velluto; andata, veleggiando per sempre lontano dalle spiagge lambite dalle stelle, dagli aridi scogli dei mondi abitabili. Lei è la sua nave, lei è la figura scolpita a prua, il capitano. Nostromo, Nostromo, fa calare la lancia! Tessitore di vele, prepara una vela! Ci ha lasciati indietro. Noi l’abbiamo lasciata indietro. Lei è nel passato che noi non abbiamo mai conosciuto ed è nel futuro che noi non vedremo. Issa altre vele, Capitano, perché l’universo ci sta lasciando indietro…
C’era una campana posata sul tavolino accanto alla caraffa. Merryn la fece suonare come per soffocare la voce di Hethor, poi, quando Maestro Malrubius si fu inumidito le labbra con il liquido del bicchiere, lo tolse di mano alla Cumana e gettò per terra quanto vi rimaneva, posando poi il bicchiere rovesciato sul collo della caraffa. Così, Hethor venne zittito, ma l’acqua si sparse sul pavimento, gorgogliando come se fosse alimentata da una qualche sorgente nascosta. Era gelida, e pensai vagamente che la mia governante si sarebbe arrabbiata perché mi ero bagnata le scarpe.
Una cameriera arrivò al suono della campana… la cameriera di Thecla, la cui gamba scorticata avevo ispezionato il giorno dopo aver salvato Vodalus. Adesso era più giovane, come doveva essere stata quando Thecla era ancora una bambina, ma la sua gamba era già stata scorticata ed era coperta di sangue.
— Mi dispiace — dissi. — Mi dispiace così tanto, Hunna. Non sono stata io a farlo… è stato il Maestro Gurloes, con qualcuno degli artigiani.
Il Maestro Malrubius si sollevò a sedere sul letto, e, per la prima volta, notai che il letto era costituito in effetti dalle mani di una donna, con dita più lunghe del mio braccio ed unghie simili ad artigli.
— Stai bene! — disse, come se fossi stata io ad essere quasi in punto di morte. — O quasi bene, almeno.
Le dita della mano cominciarono a chiudersi su di lui, ma egli balzò giù dal letto nell’acqua che ora arrivava al ginocchio.
Un cane… il mio vecchio Triskele… si era tenuto nascosto sotto il letto, a quanto sembrava, o forse era semplicemente disteso dalla parte opposta, fuori vista. Adesso venne verso di noi sguazzando nell’acqua con l’unica zampa anteriore, mentre spingeva attraverso essa l’ampio petto abbaiando gioiosamente. Il Maestro Malrubius prese la mia mano destra e la Cumana mi afferrò la sinistra: insieme, mi condussero verso uno dei grandi occhi della montagna.
Scorsi lo stesso panorama che avevo visto quando Typhon mi aveva condotto là. Il mondo era disteso come un tappeto, e visibile nella sua interezza, ma questa volta lo spettacolo era decisamente più splendido. Il sole stava alle nostre spalle, ed i suoi raggi sembravano avere una forza molto maggiore. Le ombre avevano assunto una tinta dorata, ed ogni pianta sembrava diventare più scura e rinforzarsi mentre guardavo. Potevo vedere il grano maturare nei campi e perfino le miriadi di pesci nel mare andare avanti e indietro con l’infittirsi delle piccole piante di superficie che davano loro il sostentamento. L’acqua proveniente dalla stanza alle nostre spalle si riversò fuori dall’occhio, e, riflettendo la luce, precipitò descrivendo un arcobaleno.
Poi mi destai.
Mentre dormivo, qualcuno mi aveva avvolto in teli coperti di neve (più tardi, appresi che essa veniva trasportata giù dalle cime montane da conducenti di bestie da soma dal passo sicuro). Tremando, desiderai far ritorno al mio sogno, anche se ero già parzialmente conscio dell’immensa distanza che ormai mi separava da esso. Avevo in bocca l’amaro sapore di una medicina, mentre il telo disteso sotto di me mi sembrava duro come il pavimento, e Pellegrine vestite di scarlatto si muovevano avanti e indietro con le lampade in mano, occupandosi degli uomini e delle donne che gemevano nell’oscurità.
V
IL LAZZARETTO
Non credo di aver effettivamente dormito ancora, quella notte, anche se forse sonnecchiai un poco. Quando arrivò l’alba, la neve si era sciolta, e due Pellegrine tolsero i teli, lasciandomi un asciugamano perché mi asciugassi, portandomi quindi coperte asciutte. Volevo dare loro l’Artiglio in quell’occasione… i miei oggetti erano sotto il giaciglio… ma il momento mi parve poco opportuno, quindi mi sdraiai e, sebbene fosse ormai giorno, dormii.
Mi svegliai di nuovo verso mezzogiorno. Il lazzaretto era tranquillo come al solito; da qualche parte, in lontananza, due uomini stavano parlando, ed un altro gridò, ma quelle voci servivano soltanto ad enfatizzare il silenzio circostante. Mi sollevai a sedere e mi guardai intorno, nella speranza di vedere il soldato. Alla mia destra giaceva un uomo i cui capelli rasati m’indussero dapprima a pensare che si trattasse di uno degli schiavi delle Pellegrine. Lo chiamai, ma, quando volse la testa per guardarmi, compresi di essermi sbagliato.
I suoi occhi erano più vacui di quelli di qualsiasi essere umano avessi mai visto, e sembravano fissare spiriti per me invisibili.
— Gloria al Gruppo del Diciassette — disse.
— Buon giorno. Sai qualcosa sul modo in cui funziona questo posto?
Un’ombra parve attraversargli il volto, ed io percepii che la mia domanda lo aveva in qualche modo insospettito.
— Tutti i compiti vengono svolti bene o male fintanto che essi si adeguano al Corretto Pensiero.
— Un altro uomo è stato accolto qui insieme a me. Mi piacerebbe parlargli. È più o meno un mio amico.
— Coloro che fanno la volontà della popolazione sono amici, anche se non abbiamo mai parlato loro. Coloro che non fanno la volontà della popolazione sono nemici, anche se da bambini siamo andati a scuola con loro.
— Non caverai nulla da lui — mi avvisò l’uomo alla mia sinistra. — È un prigioniero.
Mi volsi a guardarlo: il suo volto, per quanto consunto fino a sembrare quasi un teschio, conservava ancora tracce di umorismo, ed i rigidi capelli neri sembravano non essere stati pettinati da mesi.
— Parla in quel modo tutto il tempo, e mai in nessun’altra maniera. Ehi, tu! Verrai battuto!
— Per gli Eserciti della Popolazione — replicò l’altro, — la sconfitta è la molla che porta alla vittoria, e la vittoria la scala per giungere ad altre vittorie.
— Comunque, dice cose più sensate della maggior parte di loro — commentò l’uomo alla mia sinistra.
— Hai detto che è un prigioniero. Che cosa ha fatto?
— Fatto? Come, ma non è morto.
— Temo di non capire. Era stato scelto per qualche tipo di missione suicida?
Il paziente che occupava il letto “al di là dell’uomo alla mia sinistra si levò a sedere… una giovane donna dal volto sottile ma grazioso.
— Lo sono tutti — replicò. — Per lo meno, non possono tornare a casa fino a che la guerra non sarà vinta, ed in effetti sanno che non vinceranno mai.
— Le battaglie esterne sono già vinte, quando le battaglie interiori vengono condotte con Corretto Pensiero.
— Allora è un Asciano — affermai. — È questo che intendi. Non ne avevo mai visto uno prima d’ora.
— La maggior parte di loro muoiono — mi spiegò l’uomo dai capelli neri. — È quanto ti ho detto.
— Non sapevo che parlassero la nostra lingua.
— Non la parlano. Alcuni ufficiali che sono venuti qui ad incontrarsi con lui hanno detto che doveva essere un interprete. Probabilmente, interrogava i nostri soldati quando venivano catturati, solo che ha fatto qualcosa che non andava ed è stato risbattuto fra i ranghi.
— Non credo sia davvero pazzo — precisò la giovane donna, — anche se la maggior parte di loro lo sono. Come ti chiami?
— Mi spiace, mi sarei dovuto presentare. Sono Severian. — Stavo per aggiungere che ero un littore, ma nessuno dei due avrebbe voluto chiacchierare con me se lo avessi detto.
— Io mi chiamo Foila, e questo è Melito. Facevo parte degli Huzzar Azzurri, mentre lui era un oplite.
— Non dovresti dire sciocchezze — brontolò Melito. — Io sono un oplite e tu sei un’huzzar.
Pensai che l’uomo appariva molto più vicino alla morte della ragazza.
— Spero solo che verremo tutti congedati quando staremo abbastanza bene da lasciare questo posto — replicò Foila.
— Ed allora cosa faremo? Mungeremo le mucche di qualcun altro e custodiremo i maiali altrui? — Melito si volse verso di me. — Non lasciarti ingannare dalle sue chiacchiere. Siamo volontari, tutti e due. Stavo per essere promosso, quando sono rimasto ferito, e, quando sarò promosso, sarò in grado di mantenere una moglie.
— Non ti ho permesso di sposarti! — protestò Foila.
— Prendila, così la pianterà di parlarne! — gridò qualcuno, a parecchi letti di distanza.
A quel punto, il paziente che occupava il letto al di là di quello di Foila, si sollevò a sedere. Era grosso, con capelli e carnagione chiara, e parlava con la lenta decisione caratteristica degli abitanti delle gelide isole del sud.
— Sposerà me. Io mi chiamo Hallvard.
— Uniti — annunciò il prigioniero Asciano, prendendomi di sorpresa, — uomini e donne sono più forti; ma una donna coraggiosa desidera figli, e non mariti.
— Combattono anche quando sono incinte — spiegò Foila. — Le ho viste morte sui campi di battaglia.
— Le radici dell’albero sono la popolazione. Le foglie cadono, ma l’albero rimane.
Chiesi a Melito ed a Foila se l’Asciano componeva liberamente le sue osservazioni o se stesse citando una qualche fonte letteraria a me sconosciuta.
— Vuoi dire se sta improvvisando? — chiese Foila. — No, non lo fanno mai. Tutto quello che dicono deve provenire da un testo approvato. Alcuni di loro non parlano affatto, ed altri hanno migliaia… credo addirittura decine o centinaia di migliaia… di frasi fatte ed imparate a memoria.
— È impossibile — replicai.
Melito scrollò le spalle e riuscì a sollevarsi su un gomito.
— Noi della cavalleria leggera — annuì Foila, — andiamo molto spesso in esplorazione, e, qualche volta, veniamo specificatamente mandati in missione per catturare prigionieri. Non si apprende nulla a parlare con la maggior parte di loro, ma il Comando Generale è lo stesso in grado di capire molte cose dal loro equipaggiamento e dalle loro condizioni fisiche. Nel continente settentrionale, da dove essi provengono, solo i bambini più piccoli parlano come facciamo noi.
Pensai al modo in cui il Maestro Gurloes dirigeva la nostra corporazione.
— Ma come possono fare per dire qualcosa del tipo “Prendi tre apprendisti e scarica quel carro”?
— Non dicono assolutamente nulla… si limitano ad afferrare la gente per la spalla e ad indicare il carro, assestano poi loro una spinta. Se si mettono a lavorare, bene, altrimenti il capo citerà qualcosa in merito alla necessità di lavorare per assicurare la vittoria, in presenza di parecchi testimoni. Se dopo di questo, la persona cui stava parlando si rifiuta ancora di andare a lavorare, allora la si fa uccidere… probabilmente indicandola e citando qualcosa a proposito della necessità di eliminare i nemici della popolazione.
— Le grida dei bambini sono le grida della vittoria — citò ancora l’Asciano. — Eppure, la vittoria deve imparare la saggezza.
— Vuole dire — tradusse per lui Foila, — che sebbene i bambini siano necessari, le loro parole sono prive di significato. La maggior parte degli Asciani continuerebbe a considerarci muti anche se imparassimo la loro lingua, perché, per quella gente, gruppi di parole che non rientrino nei testi approvati sono privi di significato. Se ammettessero… anche solo dentro di loro… che un simile modo di parlare significa qualcosa, allora gli sarebbe possibile ascoltare osservazioni sleali, e perfino pronunciarne a loro volta. Questo sarebbe estremamente pericoloso: fintanto che capiscono e citano solo i testi approvati, nessuno li può accusare di nulla.
Volsi il capo per osservare l’Asciano. Era evidente che stava ascoltando attentamente, ma non potevo stabilire con certezza cos’altro esprimesse il suo volto oltre all’attenzione.
— Coloro che scrivono i testi approvati — obiettai, — non possono certo citare a loro volta altri testi approvati, nello scrivere. Pertanto, anche un testo approvato può contenere elementi di slealtà.
— Il Corretto Pensiero è il pensiero della popolazione. La popolazione non può tradire la popolazione né il Gruppo del Diciassette.
— Non insultare la popolazione o il Gruppo del Diciassette — mi ammonì Foila. — Potrebbe tentare di uccidersi. Talvolta lo fanno.
— Non sarà mai una persona normale?
— Ho sentito che alcuni di loro alla fine arrivano a parlare più o meno come facciamo noi, se è questo ciò che intendi dire.
Non riuscii a pensare ad altro da chiedere e, per qualche tempo, tacemmo. Scoprii che ci sono lunghi periodi di silenzio, in luoghi come quello, dove quasi tutti sono ammalati. Sapevamo che dovevamo occupare il tempo un turno di guardia dopo l’altro, e che, se non avessimo detto quel che volevamo dire quel pomeriggio ci sarebbe stata un’altra opportunità per farlo quella sera ed un’altra ancora il mattino successivo. In effetti, chiunque avesse parlato come fanno generalmente le persone sane, per esempio dopo i pasti, là sarebbe riuscito intollerabile.
Tuttavia, quanto era stato detto mi aveva indotto a pensare al nord, facendomi scoprire che non sapevo quasi nulla in proposito. Quando ero stato ragazzo, occupato a lavare i pavimenti e ad espletare incarichi nella Cittadella, la guerra sembrava quasi una cosa infinitamente remota. Sapevo che la maggior parte dei matrossi che governavano le batterie principali vi avevano preso parte, ma lo sapevo nello stesso modo in cui ero consapevole che la luce che cadeva sulla mia mano proveniva dal sole. Io sarei diventato un torturatore, e, in qualità di torturatore, non avrei avuto motivo di entrare a far parte dell’esercito né alcun timore di essere arruolato a forza. Non mi ero mai aspettato che la guerra potesse arrivare alle soglie di Nessus (in effetti quelle stesse soglie erano per me poco più di una leggenda), e non mi ero mai aspettato di dover lasciare la città, o anche solo di dover lasciare quel quartiere della città in cui si trovava la Cittadella.
Il nord, Ascia, mi apparivano allora inconcepibilmente lontani, un luogo distante quanto la più remota galassia, dato che entrambi erano destinati a rimanere per sempre al di fuori della mia portata. Mentalmente, io li confondevo con la cinta di vegetazione tropicale morente che giaceva fra la nostra terra e quella degli Asciani, anche se non avrei avuto difficoltà a fare distinzione fra le due, se il Maestro Palaemon me lo avesse domandato in classe.
Ma di Ascia in sé non avevo la minima idea. Non sapevo se aveva grandi città o se non ne aveva affatto, non sapevo se era montagnosa come la nostra Repubblica o piatta come le nostre pampas. Avevo l’impressione, anche se non potevo essere certo che fosse esatta, che si trattasse di un’unica massa di terra, e non di una catena di isole come quelle che noi avevamo a sud; e, soprattutto, avevo la nettissima sensazione di un’innumerevole popolazione… quella degli Asciani… che era inesauribile come uno sciame che era divenuto quasi una creatura a se stante, come accade ad una colonia di formiche. Pensare a quei milioni e milioni d’individui privi di un linguaggio, oppure costretti a ripetere pappagallescamente frasi proverbiali che dovevano aver perduto da tempo la maggior parte del loro significato, era quasi più di quanto la mente potesse sopportare.
— Deve certo trattarsi di un trucco — osservai, parlando quasi fra me, — oppure di un errore o di una menzogna. Non può esistere una nazione del genere.
E la voce dell’Asciano, non più alta di quanto lo fosse stata la mia, e forse anche più sommessa, replicò:
— Come potrà lo stato essere più vigoroso? Sarà al massimo del vigore quando sarà senza conflitti. E come potrà essere senza conflitti? Quando sarà privo di discordie. Come si potranno evitare le discordie? Eliminando le quattro cause di discordia: menzogne, parole sciocche, discorsi vanagloriosi e discorsi che servono solo a provocare liti. Come si potranno eliminare queste quattro cause? Parlando soltanto secondo il Corretto Pensiero. Allora, lo stato sarà privo di discordie. Essendo privo di discordie, sarà anche privo di conflitti. Essendo privo di conflitti, sarà vigoroso, forte e sicuro.
Avevo avuto la mia risposta, e doppia.
VI
MILES, FOILA, MELITO E HALLVARD
Quella sera, caddi preda del timore che avevo cercato di allontanare dalla mia mente già da qualche tempo. Anche se non avevo più visto traccia dei mostri che Hethor aveva portato con sé da oltre le stelle, da quando il piccolo Severian ed io eravamo fuggiti dal villaggio dei maghi, non avevo dimenticato che egli mi stava cercando. Mentre viaggiavo nelle zone selvagge sovrastanti il Lago Diuturna, non avevo avuto molto timore che mi potesse raggiungere, ma ora non ero più in viaggio, e potevo avvertire la debolezza dei miei arti, perché, nonostante il cibo che mangiavo, ero più debole di quando mi aggiravo affamato fra le montagne.
Inoltre, temevo Agia quasi più di Hethor e delle sue notule, delle salamandre e dei vermi, perché conoscevo il suo coraggio, la sua astuzia e la sua malizia. Una qualsiasi delle Pellegrine che si spostavano fra i giacigli avrebbero potuto essere lei, con un pugnale avvelenato nascosto sotto la gonna. Quella notte dormii male, ma, sebbene sognassi molto, i miei sogni furono indistinti, e non cercherò di riferirli qui. Mi svegliai sentendomi men che riposato. La febbre, di cui ero stato quasi inconsapevole al momento del mio arrivo nel lazzaretto, e che era parsa calare il giorno precedente, era tornata, e ne avvertivo il calore in ogni arto… mi sembrava di risplendere addirittura a causa di quel calore e che gli stessi ghiacciai del sud si sarebbero squagliati se mi fossi addentrato fra essi. Presi l’Artiglio e lo strinsi a me, arrivando perfino a tenerlo in bocca. La febbre scese di nuovo, ma mi lasciò debole ed intontito.
Quella mattina, il soldato mi venne a trovare. Indossava la bianca tunica datagli dalle Pellegrine al posto dell’armatura, ma sembrava essersi perfettamente ripreso, e mi confidò che sperava di poter partire il giorno successivo. Gli risposi che mi sarebbe piaciuto presentargli le persone che avevo conosciuto in quella parte del lazzaretto e gli chiesi se adesso rammentava il suo nome.
— Ricordo molto poco — replicò, scuotendo il capo. — Spero che, quando tornerò fra le unità dell’esercito, riuscirò a trovare là qualcuno che mi conosce.
Lo presentai comunque agli altri, chiamandolo Miles, dato che non mi riuscì di pensare a nulla di meglio. Non conoscevo neppure il nome dell’Asciano, e scoprii che nessuno lo sapeva, neppure Foila. Quando gli chiedemmo come si chiamava, rispose soltanto:
— Io sono Leale al Gruppo del Diciassette.
Per qualche tempo, Foila, Melito, il soldato ed io chiacchierammo fra noi. Melito sembrava avere molta simpatia per il soldato, anche se forse ciò era dovuto soltanto al fatto che il nome da me attribuitogli somigliava molto al suo. Poi il soldato mi aiutò ad issarmi a sedere, e, abbassata la voce, mi sussurrò:
— Adesso ti devo parlare in privato. Come ti ho detto, me ne andrò di qui domattina. A giudicare dalle tue condizioni, credo che tu invece non te ne andrai di qui per parecchi giorni… forse anche per un paio di settimane. Può darsi che non ti riveda mai più.
— Speriamo che non sia così.
— Lo spero anch’io. Ma, se riesco a trovare la mia legione, può darsi che sia già morto quando tu ti sarai ristabilito. E, se non riesco a trovarla, probabilmente mi unirò ad un’altra, per evitare di essere arrestato come disertore. — Fece una pausa.
— Ed io potrei morire qui, per la febbre — aggiunsi, con un sorriso. — Non lo volevi dire. Ho un aspetto tanto brutto, come quello del povero Melito?
— No, non così brutto — replicò, scuotendo il capo. — Penso che tu ce la farai…
— Questo è ciò che disse il tordo mentre la lince inseguiva la lepre intorno all’albero di lauro.
— Hai ragione. — Adesso fu il soldato a sorridere. — Stavo per dirlo io.
— È un’espressione comune in quella parte della Repubblica in cui sei cresciuto?
— Non lo so. — Il sorriso svanì. — Non riesco a ricordare dove sia la mia casa, e questo è in parte il motivo per cui ti devo parlare adesso. Ricordo di aver camminato con te di notte lungo la strada… quella è la sola cosa che ricordo, prima di arrivare qui. Dove mi hai trovato?
— In un bosco, suppongo a cinque o dieci leghe a sud di qui. Ricordi quel che ti ho raccontato a proposito dell’Artiglio, mentre camminavamo?
— Mi pare di rammentare che tua bbia menzionato qualcosa del genere, ma non ricordo le tue parole — replicò, scuotendo il capo.
— Cosa ricordi? Dimmi tutto, ed io aggiungerò quello che so e quello che posso indovinare.
— Camminavo con te. Era molto buio… Sono caduto, o forse volato in esso. Ho visto la mia faccia moltiplicata molte volte. Ed una ragazza, con capelli simili ad oro rosso ed occhi enormi.
— Una bella donna?
— La più bella del mondo — annuì.
Alzando la voce, chiesi se qualcuno aveva uno specchio da prestarci per un momento. Foila ne prese uno da sotto il suo letto ed io lo tenni sollevato davanti al soldato.
— È questo il volto?
— Credo di sì — rispose, esitando.
— Occhi azzurri?
— … Non ne posso essere certo.
Restituii lo specchio a Foila.
— Ti ripeterò quello che ti ho detto lungo la strada, e vorrei che disponessimo di un luogo più appartato in cui parlare. Qualche tempo fa, un talismano è finito nelle mie mani. Vi è giunto in maniera innocente, ma comunque non mi appartiene, ed ha un grande valore… certe volte, non sempre, ma certe volte… esso ha il potere di guarire i malati e perfino di far rivivere i morti. Due giorni fa, mentre viaggiavo verso nord, mi sono imbattuto nel corpo di un soldato morto. Si trovava in una foresta, lontano dalla strada, ed era morto da meno di un giorno: direi che probabilmente era morto durante la notte precedente. In quel momento, ero molto affamato, quindi ho tagliato le cinghie del suo zaino ed ho mangiato la maggior parte del cibo che aveva con sé. Poi mi sono sentito colpevole per quello che avevo fatto, ho preso il talismano ed ho cercato di riportarlo in vita. Aveva fallito altre volte in passato, e per un po’ ho pensato che avrebbe fallito anche questa volta. Ma non è stato così, anche se il soldato è tornato in vita lentamente e, per molto tempo, ha dato l’impressione di non sapere chi fosse né cosa gli stesse accadendo.
— Ed ero io quel soldato?
Annuii, fissando i suoi onesti occhi azzurri.
— Posso vedere il talismano?
Lo tirai fuori e lo tenni sul palmo della mano. Egli lo prese, lo esaminò attentamente da tutti i lati e ne provò la punta contro il polpastrello.
— Non ha l’aria magica — osservò poi.
— Non sono sicuro che magico sia il termine giusto per definirlo. Ho incontrato alcuni maghi, e nulla in loro mi ha fatto pensare al modo in cui il talismano agisce. Qualche volta splende di luce… anche se adesso essa è molto debole e dubito che tu la possa vedere.
— Non ci riesco. Non mi sembra che ci sia alcuna scritta su di esso.
— Vuoi dire un incantesimo, oppure una preghiera. No, non ne ho mai notata nessuna, e l’ho portato con me per molto tempo. In effetti, non so nulla su di esso salvo che agisce talvolta, ma credo si tratti del tipo di oggetto con cui si fanno incantesimi e preghiere, e non un oggetto che derivi da essi.
— Hai detto che non ti appartiene.
— Appartiene a queste sacerdotesse — annuii, — alle Pellegrine.
— Tu sei appena giunto qui, due notti fa, come me.
— Sono venuto a cercare le Pellegrine, per restituirlo. È stato sottratto loro… ma non da me… molto tempo fa, a Nessus.
— E tu hai intenzione di restituirlo? — Mi guardò come se ne dubitasse in qualche modo.
— Alla fine, sì.
Si alzò in piedi, lisciandosi la tunica con le mani.
— Tu non mi credi, vero? — gli chiesi. — Non credi neppure ad una parola.
— Quando sono venuto qui, tu mi hai presentato agli altri, quelli con cui avevi parlato mentre giacevi sul tuo letto. — Si espresse lentamente, e parve riflettere su ogni parola. — Naturalmente, anch’io ho conosciuto alcune persone, là dove mi hanno sistemato. Ce n’è uno che non è ferito in modo molto grave. È solo un ragazzo, un giovane di qualche piccolo villaggio lontano da qui, e per lo più se ne sta seduto sulla sua branda a fissare il pavimento.
— Nostalgia di casa? — chiesi.
— Aveva un’arma ad energia — aggiunse il soldato, scuotendo il capo. — Un korseke… questo è quello che qualcuno mi ha detto. Hai familiarità con quelle armi?
— Non molta.
— Proiettano un raggio in avanti, ed allo stesso tempo due raggi laterali, avanti a sinistra ed avanti a destra. Non hanno un grande raggio di tiro, ma si dice che servano ottimamente per respingere un attacco in massa, e suppongo che sia vero.
Si guardò intorno per un momento, per verificare se qualcuno stesse ascoltando, ma nei lazzaretti è un punto d’onore trascurare completamente una conversazione che non è diretta a te: se così non fosse, i pazienti finirebbero ben presto per prendersi vicendevolmente per la gola.
— La sua centuria venne presa di mira da uno di quegli attacchi di massa e la maggior parte dei suoi compagni cadde in preda al panico e fuggì, ma lui non lo ha fatto, e non lo hanno abbattuto. Un altro uomo mi ha raccontato che alla fine c’erano tre muri di cadaveri davanti a lui. Li aveva abbattuti a mucchi fino a che gli Asciani non avevano dovuto arrampicarsi sui cadaveri per saltargli addosso. Allora è indietreggiato ed ha ripreso ad abbatterli.
— Suppongo abbia avuto una medaglia ed una promozione — osservai. Non potevo essere certo se era la febbre che stava tornando oppure il caldo del giorno, ma mi sentivo appiccicoso e come soffocato.
— No, lo hanno mandato qui. Ti ho detto che era solo un ragazzo di campagna. Ha ucciso in quel solo giorno più persone di quante ne avesse mai viste fino a quando si era arruolato nell’esercito, pochi mesi prima. Non è riuscito a superare la cosa, e forse non ci riuscirà mai.
— E allora?
— Mi sembra che il tuo possa essere un caso simile.
— Non ti capisco — obiettai.
— Tu parli come se fossi appena giunto qui dal sud, e suppongo che, se hai abbandonato la tua legione, questo sia il modo più sicuro di parlare. Comunque, tutti possono vedere che non è vero… la gente non si procura i tagli che avevi tu, a meno che non combatta. Sei stato colpito da schegge di roccia. Questo è quello che ti è accaduto, e la Pellegrina che ci ha parlato la prima notte che siamo arrivati lo ha visto subito. Così, io credo che tu ti trovi al nord da più tempo di quanto voglia ammettere, forse da più tempo di quanto tu stesso creda. Se hai ucciso un mucchio di gente, può essere bello per te credere di avere un mezzo per riportarla in vita.
— E questo ragionamento dove ti lascia? — replicai, tentando di sorridere.
— Dove sono adesso. Non sto cercando di dire che non ti devo nulla. Avevo la febbre, e tu mi hai trovato. Forse ero in delirio, ma credo più probabile che fossi privo di sensi, il che ti ha indotto a pensare che fossi morto. Se tu non mi avessi portato qui, probabilmente sarei morto davvero.
Fece per alzarsi, ma lo fermai, posandogli una mano sul braccio.
— Ci sono alcune cose che ti dovrei spiegare, prima che te ne vada, riguardo a te stesso.
— Hai detto che non sapevi chi ero.
— Non ho detto questo, non esattamente. Ho detto di averti trovato in una foresta, due giorni fa. Nel senso che intendi tu, non so chi sei, ma credo di poterlo sapere in un altro senso. Credo che tu sia due persone, ed io penso di conoscere una di esse.
— Nessuno può essere due persone.
— Io lo sono. Sono già due persone insieme. Forse più persone sono due esseri contemporaneamente di quante noi sappiamo. La prima cosa che ti voglio dire, però, è molto più semplice. Ora ascolta. — Gli diedi dettagliate indicazioni perché potesse ritrovare la foresta, e, quando fui certo che avesse capito, aggiunsi: — Probabilmente, il tuo zaino è ancora là, con le cinghie tagliate, quindi, se trovi il punto, non ti potrai sbagliare. C’era una lettera nel tuo zaino. L’ho presa e ne ho letta una parte: non portava il nome della persona a cui era indirizzata, ma, se l’avevi finita e stavi solo aspettando l’occasione per spedirla, deve esserci almeno una parte del tuo nome alla fine. L’ho posata per terra, è volata via per un tratto e si è fermata contro un albero. È possibile che tu riesca ancora a trovarla.
— Non avresti dovuto leggerla. — Il volto gli si era indurito, — e non avresti dovuto gettarla via.
— Credevo che tu fossi morto, ricordi? Comunque, in quel momento stavano accadendo molte cose, soprattutto nella mia testa. Forse avevo già un po’ di febbre… non lo so. Adesso c’è l’altra parte: tu non mi crederai, ma può essere importante che tu mi ascolti ugualmente. Mi ascolterai fino in fondo?
Il soldato annui.
— Bene. Hai sentito parlare degli specchi di Padre Inire? Sai come funzionano?
— Ho sentito parlare dello Specchio di Padre Inire, ma non saprei precisare dove. Si suppone che si possa entrare in esso come in una porta ed uscire su una stella, ma non credo che sia vero.
— Gli specchi sono reali, li ho visti. Fino ad ora avevo sempre pensato ad essi più o meno come fai tu… come se fossero una nave, ma molto più veloce; adesso non ne sono più così sicuro. Comunque, un mio amico è entrato fra quegli specchi ed è svanito. Io lo stavo guardando: non è un trucco e neppure una superstizione. Egli è andato dove ti portano quegli specchi, qualsiasi luogo sia. È andato perché era innamorato di una certa donna, e perché non era un uomo intero. Mi comprendi?
— Aveva avuto un incidente?
— Un incidente aveva avuto lui, ma non importa. Mi ha detto che sarebbe tornato. Ha detto: «Tornerò a prenderla quando sarò stato riparato, quando sarò di nuovo sano ed intero». Io non sapevo con esattezza cosa pensare quando ha pronunciato quelle parole, ma ora credo che sia tornato. Sono stato io a farti rivivere, ed io desideravo che egli tornasse… forse questo ha avuto qualcosa a che fare con quanto è accaduto.
Ci fu una pausa: il soldato abbassò lo sguardo sul terreno calpestato su cui erano posati i giacigli, poi tornò a guardarmi.
— È possibile che quando un uomo perde un amico e ne trova un altro, abbia l’impressione di avere di nuovo con sé il vecchio amico.
— Jonas… questo era il suo nome… aveva un modo particolare di parlare. Ogni volta che doveva dire qualcosa di spiacevole, lo addolciva, facendone uno scherzo, attribuendo quel che doveva dire a qualche situazione comica. La prima notte che siamo stati qui, ti ho chiesto quale fosse il tuo nome, e tu hai risposto: «L’ho perso da qualche parte lungo la strada. Questo è quel che disse il giaguaro che si era offerto di far da guida alla capra.» Te lo ricordi?
— Dico un mucchio di sciocchezze — replicò, scuotendo il capo.
— Mi ha colpito come una cosa strana, perché era il tipo di frase che Jonas avrebbe pronunciato, solo che lui non l’avrebbe detto a meno che avesse voluto dare ad intendere, con quelle parole, più di quanto sembravi voler intendere tu. Penso che lui avrebbe detto: «Quella era la storia del canestro che era stato riempito d’acqua.» O qualcosa di simile.
Attesi che rispondesse, ma non lo fece.
— Naturalmente, il giaguaro mangiò la capra lungo la strada, inghiottendone e spezzandone le ossa.
— Hai mai pensato che questa potrebbe essere la caratteristica di una qualche città? Può darsi che il tuo amico venisse dallo stesso luogo da cui vengo io.
— Si trattava di un tempo, credo, non di un luogo — replicai. — Molto tempo fa, qualcuno ha dovuto disarmare la paura. … la paura che uomini di carne e sangue provavano guardando facce di vetro ed acciaio. Jonas, so che tu mi stai ascoltando. Io non ti biasimo. Quell’uomo era morto e tu sei ancora vivo, lo capisco. Ma, Jonas, Jolenta non c’è più… l’ho vista morire, ho tentato di richiamarla in vita con l’Artiglio, ma ho fallito. Forse lei era troppo artificiale, non lo so. Dovrai trovare qualcun’altra.
Il soldato si alzò. Il suo volto non era più irato, ma svuotato, come quello di un sonnambulo: si volse e se ne andò senza aggiungere altro.
Per forse un intero turno di guardia rimasi steso sul mio giaciglio, pensando a molte cose. Hallvard, Melito e Foila parlavano fra loro, ma non ascoltai quello che stavano dicendo. Quando una delle Pellegrine ci portò il pasto di mezzogiorno, Melito attirò la mia attenzione picchiando sul piatto con la forchetta ed annunciò:
— Severian, abbiamo un favore da chiederti.
Ero ansioso di ricacciarmi alle spalle le mie speculazioni, e risposi che li avrei aiutati come potevo.
Foila, che aveva uno di quei radiosi sorrisi che la Natura concede talvolta alle donne, mi sorrise.
— Si tratta di questo. Questi due hanno litigato per causa mia tutta la mattina. Se stessero bene, potrebbero risolvere la cosa lottando, ma ci vorrà molto tempo prima che lo possano fare, ed io non credo di poter resistere per tanto. Oggi pensavo a mio padre ed a mia madre, ed a come essi usassero sedere davanti al fuoco durante le lunghe notti invernali. Se Hallvard ed io ci sposeremo, oppure io e Melito, un giorno o l’altro lo faremo anche noi; quindi ho deciso di sposare colui che saprà raccontare la storia più bella. Non mi guardare come se fossi matta: è l’unica cosa ragionevole che abbia fatto in tutta la mia vita. Tutti e due mi vogliono, entrambi sono molto attraenti, nessuno dei due ha dei beni, e, se non risolviamo questa contesa, si uccideranno a vicenda o sarò io ad ucciderli entrambi. Tu sei un uomo istruito… lo si capisce da come parli. Tu ascolterai e giudicherai. Comincerà Hallvard, e le storie dovranno essere originali e non tratte da libri.
Hallvard, che poteva camminare un poco, si alzò dal suo giaciglio e venne a sedersi ai piedi di quello di Melito.
VII
LA STORIA DI HALLVARD
I DUE CACCIATORI DI FOCHE
— Questa è una storia vera. Conosco molte storie, ed alcune sono artefatte, anche se forse quelle elaborate erano vere in un tempo che tutti hanno dimenticato. Conosco anche molte altre storie vere, perché tante strane cose accadono nelle isole del sud che voi gente del nord non vi sognate neppure. Ho scelto questa perché io stesso ero presente e ne ho vista e sentita la maggior parte, come tutti gli altri.
«Io provengo dalla più orientale delle isole meridionali, che è chiamata Glacies. Sulla nostra isola vivevano un uomo e una donna, i miei nonni, che avevano tre figli. I loro nomi erano Anskar, Hallvard e Gundulf. Hallvard era mio padre, e, quando io fui abbastanza grande da essere in grado di aiutarlo a maneggiare la barca, egli non andò più a caccia ed a pesca con i suoi fratelli: uscimmo invece noi due soli, in modo che tutto quello che prendevamo poteva essere portato a casa da mia madre, dalle mie sorelle e dal mio fratello minore.
«I miei zii non si sposarono mai, e così continuarono a dividere la stessa barca. Quello che prendevano lo mangiavano loro oppure lo davano ai miei nonni, che non erano più forti. D’estate, essi coltivavano la terra di mio nonno, che possedeva gli appezzamenti migliori della nostra isola, l’unica vallata che non provasse mai il morso gelido del vento. Laggiù si potevano coltivare cose che non maturavano in nessun altro luogo su Glacies, perché in quella valle la stagione di crescita durava due settimane di più.
«Quando ormai cominciava a spuntarmi la barba, mio nonno radunò tutti gli uomini della nostra famiglia… cioè mio padre, i miei due zii e me. Giunti alla sua casa, trovammo che mia nonna era già morta, ed il prete della grande isola era già venuto a prepararne il corpo. I suoi figli piansero, ed anch’io.
«Quella notte, sedemmo al grande tavolo di mio nonno, con lui ad un’estremità ed il prete all’altra, e mio nonno disse: “Ora è tempo che io disponga delle mie proprietà. Bega non c’è più, la sua famiglia non ha più alcun diritto su di lei, ed io la seguirò fra breve. Hallvard è sposato ed ha la porzione che gli ha portato in dote sua moglie. Con essa, provvede alla sua famiglia, e, sebbene non abbiano sovrabbondanza di cibo, non soffrono la fame. Tu, Anskar, e tu, Gundulf, vi sposerete mai?”
«Entrambi i miei zii scossero il capo.
«“Allora questa è la mia volontà. Chiamo a testimone l’Onnipotente, ed anche i servitori dell’Onnipotente. Quando morirò, tutto quello che ho andrà a Gundulf e ad Anskar. Se uno di loro muore, toccherà all’altro dei due, e, quando saranno entrambi morti, passerà ad Hallvard, o, se Hallvard sarà morto, verrà diviso fra i suoi figli. Voi quattro… se non ritenete che la mia volontà sia giusta, parlate adesso.”
«Nessuno parlò, e così venne deciso.
«Passò un anno. Una nave venne a far razzie, e due navi approdarono per acquistare pelli, avorio di mare e pesce salato. Mio nonno morì e mia sorella Fausta generò una bambina. Terminato il tempo del raccolto, i miei zii andarono a pesca con gli altri uomini.
«Quando giunge la primavera, a sud è ancora troppo presto per seminare, perché arriveranno ancora molte notti gelide. Ma quando i giorni cominciano ad allungarsi rapidamente, gli uomini vanno in cerca delle scogliere dove si riproducono le foche. Quelle rocce sono lontane da ogni riva, c’è molta nebbia, ed i giorni sono ancora brevi, anche se si stanno allungando. Spesso sono gli uomini a morire, e non le foche.
«E così fu per mio zio Anskar, perché mio zio Gundulf tornò sulla loro barca senza di lui.
«Ora, dovete sapere che i nostri uomini, quando vanno a pesca, oppure a caccia di foche o di qualsiasi altra selvaggina marina, si legano alle barche. Le corde sono fatte di pelle di tricheco intrecciata, e sono abbastanza lunghe da permettere ad un uomo di muoversi sulla barca quanto è necessario, ma non di più. L’acqua del mare è molto fredda, ed uccide rapidamente chi vi rimane dentro, ma i nostri uomini si vestono di aderenti abiti di pelle di foca, e spesso il compagno di barca è in grado di tirare a bordo chi è caduto, salvandogli così la vita.
«Questo è quanto raccontò mio zio Gundulf. Si erano spinti lontano, alla ricerca di una scogliera che non fosse stata ancora visitata da altri, quando Anskar aveva visto un maschio di foca nuotare nell’acqua. Aveva lanciato l’arpione, e, quando la foca si era immersa, la corda dell’arpione aveva formato un cappio intorno alla caviglia, ed egli era stato trascinato in mare. Gundulf aveva tentato di tirarlo a bordo, perché era un uomo molto forte, ma il suo tirare e quello della foca attaccata all’arpione avevano fatto rovesciare la barca. Gundulf si era salvato arrampicandosi su di essa e tagliando la corda dell’arpione con il coltello. Una volta raddrizzata la barca, aveva cercato d’issare a bordo Anskar, ma la corda di sicurezza si era spezzata. Ci mostrò l’estremità lacerata. Mio zio Anskar era morto.
«Presso la mia gente, le donne muoiono sulla terraferma, ma gli uomini muoiono in mare, ed è per questo che noi chiamiamo “barca da donna” il tipo di tombe che voi scavate. Allorché un uomo muore come era accaduto allo zio Anskar, una pelle viene tesa e dipinta per lui, e poi la si appende nella casa dove gli uomini si raccolgono per parlare. Essa non viene più tirata giù fino a quando c’è un vivente che si ricordi dell’uomo così onorato. Una pelle di quel tipo fu preparata per Anskar, ed i pittori si misero all’opera.
«Poi, una bella mattina di sole, mentre mio padre ed io stavamo preparando gli attrezzi per approntare il terreno per il raccolto di quell’anno… come lo rammento bene!… alcuni bambini che erano stati inviati a raccogliere uova d’uccello, tornarono di corsa al villaggio. Dissero che una foca giaceva sulla spiaggia della baia meridionale. Come tutti sanno, nessuna foca approda su una terra abitata dagli uomini, ma talvolta accade che una muoia in mare o rimanga ferita in qualche modo. Pensando ad una cosa del genere, mio padre, io e molti altri corremmo verso la spiaggia, perché la foca sarebbe appartenuta a chi l’avesse per primo colpita con il suo arpione.
«Io fui il più veloce di tutti, e mi ero munito di un forcone. Un attrezzo del genere non si tira bene, ma avevo parecchi altri giovani alle calcagna, così, quando arrivai ad un centinaio di passi di distanza, lo lanciai. Esso volò dritto e preciso e seppellì i suoi denti nella schiena della cosa. Poi, seguì un momento quale spero di non dover rivivere mai più. Il peso del manico del forcone sbilanciò l’oggetto, che rotolò fino a che il manico non si appoggiò al terreno. Allora vidi il volto di mio zio Anskar, preservato dal gelo del mare. La sua barba era intrecciata di alghe verde scuro, e la corda di sicurezza di resistente pelle di tricheco era stata tagliata a poche spanne di distanza dalla sua cintura.
«Mio zio Gundulf non lo aveva visto, perché era andato all’isola grande. Mio padre sollevò Anskar, aiutato da me, e lo trasportammo nella casa di Gundulf, e mettemmo l’estremità della corda sul suo petto, in modo che Gundulf la vedesse; poi, con altri uomini di Glacies, sedemmo ad attendere il suo ritorno.
«Gundulf gridò quando vide suo fratello, non il tipo di grido che può emettere una donna, ma piuttosto un muggito come quello di un maschio di foca che avverta gli altri maschi del branco. Corse via nel buio. Montammo la guardia alla sua barca e gli demmo la caccia in tutta l’isola per tutta la notte. Le luci che gli spiriti generano nell’estremo sud fiammeggiarono per tutta la notte, e comprendemmo così che Anskar era in caccia con noi. Le luci fiammeggiarono ancora più ardenti, prima di svanire, quando lo trovammo fra le rocce a Radbod’s End.
Hallvard tacque, e, in effetti, il silenzio regnava dovunque intorno a noi, perché tutti i malati che si trovavano nel raggio della sua voce lo avevano ascoltato.
— Lo avete ucciso? — chiese infine Melito.
— No. Nei giorni andati si faceva così, ed era una brutta cosa. Adesso le colpe di sangue vengono giudicate secondo la legge della terraferma, il che è una buona cosa. Gli legammo le braccia e le gambe e lo portammo nella sua casa, e sedemmo con lui mentre gli uomini più anziani preparavano le barche. Egli mi rivelò di essersi innamorato di una donna sull’isola grande. Io non l’ho mai vista, ma egli disse che si chiamava Nennoc, che era bionda e più giovane di lui, ma che nessuno la voleva perché aveva già avuto un bambino da un uomo che era morto durante l’inverno precedente. Nella barca, egli aveva detto ad Anskar che avrebbe portato Nennoc a casa, ed Anskar lo aveva chiamato spergiuro. Mio zio Gundulf era forte: aveva afferrato Anskar e lo aveva gettato fuori dalla barca; quindi si era avvolto la corda di sicurezza fra le mani e l’aveva spezzata come una donna spezzerebbe il filo che usa per cucire.
«Poi si era alzato in piedi, reggendosi all’albero, come fanno gli uomini, ed aveva osservato il fratello nell’acqua. Aveva visto il lampo del coltello, ma aveva pensato solo che Anskar cercasse di minacciarlo o lo volesse tirare.
Hallvard si fece nuovamente silenzioso, e, quando mi resi conto che non avrebbe più parlato, osservai:
— Non capisco. Cosa aveva fatto Anskar?
Un sorriso, estremamente tenue, piegò le labbra di Hallvard sotto i baffi biondi. Nel vederlo, ebbi l’impressione di scorgere le gelide isole del sud, fredde ed azzurre.
— Aveva tagliato la sua corda di sicurezza, la corda che Gundulf aveva già spezzato. In quel modo, se gli uomini avessero trovato il suo corpo, avrebbero compreso che era stato assassinato. Non capisci?
Capii, e, per qualche tempo, non aggiunsi altro.
— Così — grugnì Melito, rivolto a Foila, — la meravigliosa terra della vallata è andata al padre di Hallvard, e lui, con questa storia, è riuscito a dirti che, anche se non possiede nulla, ha la prospettiva di ereditare qualcosa. Ti ha anche detto, naturalmente, che viene da una famiglia di omicidi.
— Melito mi ritiene più astuto di quanto sia — ruggì l’uomo biondo. — Non pensavo a nulla del genere. Quel che conta adesso non è la terra o le pelli o l’oro, ma chi racconta la storia più bella, ed io, che ne conosco molte, ho raccontato la più bella. È vero quel che lui dice, che potrei ereditare parte della proprietà della mia famiglia, quando mio padre morirà. Ma le mie sorelle non sposate ne avranno anch’esse una parte come dote, e solo quanto rimarrà verrà diviso fra mio fratello e me. Tutto questo non ha alcuna importanza, perché non porterei Foila al sud, dove la vita è così dura. Da quando ho imbracciato la lancia, ho visto molti posti migliori di quello.
— Credo che tuo zio Gundulf doveva amare molto Nennoc — osservò Foila.
— Affermò anche questo, mentre giaceva legato — annuì Hallvard. — Ma tutti gli uomini del sud amano le loro donne. È per loro che affrontiamo il mare invernale, le tempeste e le nebbie gelide. Si dice che quando un uomo spinge la sua barca sui ciottoli, lo strisciare della barca sul fondale scandisce le parole mia moglie, i miei figli, i miei figli, mia moglie.
Chiesi a Melito se desiderava cominciare subito la sua storia, ma egli scosse il capo e rispose che avevamo la mente piena della storia di Hallvard, quindi avrebbe aspettato il giorno successivo. Tutti fecero allora domande ad Hallvard sulla sua vita del sud, confrontando ciò che avevano appreso con il modo in cui viveva la gente delle loro contrade. Solo l’Asciano rimase silenzioso. Mi rammentai allora delle isole galleggianti del Lago Diuturna e ne parlai ad Hallvard ed agli altri, anche se non descrissi la lotta nel castello di Baldanders. Chiacchierammo in quel modo fino a che giunse l’ora del pasto serale.
VIII
LA PELLEGRINA
Quando finimmo di mangiare, cominciava a fare buio. Verso quell’ora, c’era sempre una quiete maggiore, non solo perché ci venivano a mancare le forze, ma anche perché sapevamo che i feriti destinati a morire si sarebbero spenti con ogni probabilità dopo il calare del sole, e particolarmente nel cuore della notte. Era il tempo in cui le passate battaglie tornavano a riscuotere i loro crediti.
Anche sotto altri aspetti, la notte ci rendeva maggiormente consapevoli della guerra. Qualche volta… e durante quella notte lo ricordo in modo particolare… le scariche delle grandi armi ad energia fiammeggiavano attraverso il cielo come lampi di calore. Si sentivano le sentinelle fare la ronda, in modo che il termine turno di guardia, da noi così spesso usato senza altro significato che quello di indicare una decima parte della notte, acquistava una consistente realtà, un’attualità fatta di scalpiccio di piedi e di ordini inintelleggibili.
Arrivò il momento in cui nessuno parlò, e il silenzio si prolungò sempre di più, interrotto solo dai mormoni delle persona sane, le Pellegrine ed i loro schiavi, che venivano ad informarsi sulle condizioni di questo o di quel paziente. Una delle sacerdotesse vestite di scarlatto venne a sedersi vicino al mio giaciglio, e la mia mente, prossima al sonno, era talmente intorpidita che ci volle qualche tempo prima che mi rendessi conto che la donna doveva aver portato con sé uno sgabello.
— Sei tu Severian, l’amico di Miles? — chiese.
— Sì.
— Si è rammentato il suo nome. Pensavo che ti sarebbe piaciuto apprenderlo. Gli chiesi quale nome fosse.
— Come, Miles, te l’ho appena detto.
— Ricorderà anche altre cose, credo, man mano che il tempo passa.
La donna annuì; sembrava aver superato la mezza età, ed aveva un volto austero e gentile.
— Sono certa che ricorderà. La sua casa e la sua famiglia.
— Se ne ha una.
— Già, alcuni non ce l’hanno. Alcuni non hanno neppure la capacità di farsi una casa.
— Ti stai riferendo a me.
— No, niente affatto. Comunque, quell’incapacità è qualcosa cui non si può porre rimedio. Ma è molto meglio, specie per gli uomini, avere una casa. Come quel tizio di cui parlava il tuo amico, la maggior parte degli uomini crede di creare una casa per la propria famiglia, ma in realtà essi creano sia la casa che la la famiglia per se stessi.
— Allora stavi ascoltando Hallward.
— Parecchi di noi lo stavano ascoltando. Una sorella è venuta a chiamarmi nel momento in cui il nonno del paziente faceva il suo testamento. Ho sentito tutto il resto. Sai qual era il problema dello zio cattivo, di Gundulf?
— Suppongo che fosse innamorato.
— No, questo andava benissimo per lui. Ogni persona, vedi, è come una pianta: c’è una splendida parte verde, spesso dotata di fiori o di frutti, che cresce verso l’alto in direzione del sole, verso l’Increato. C’è anche una parte oscura, che cresce lontano da essa, sprofondando là dove la luce non arriva.
— Non ho mai studiato le scritture degli iniziati — replicai, — ma anch’io sono consapevole dell’esistenza del bene e del male in ognuno di noi.
— Stavo forse parlando del bene o del male? Sono le radici che danno alla pianta la forza di salire verso il sole, anche se non lo sanno. Supponiamo che qualche falce, muovendosi sibilante lungo il terreno, debba tagliare lo stelo alle radici. Lo stelo cadrà e morirà, ma le radici potrebbero generare un altro stelo.
— Tu stai dicendo che il male è buono.
— No. Sto dicendo che le cose che noi amiamo negli altri ed ammiriamo in noi stessi nascono da cose che non vediamo ed a cui raramente pensiamo. Gundulf, come gli altri uomini, aveva in sé l’istinto di esercitare l’autorità. Una crescita adeguata di tale istinto è il fondamento della famiglia… ed anche le donne possiedono un simile istinto. In Gundulf, quell’istinto era stato frustrato per un lungo tempo, come lo è in molti soldati che vedi qui. Gli ufficiali hanno i loro incarichi di comando, ma i soldati che non hanno alcun comando da esercitare soffrono e non sanno perché soffrono. Alcuni, naturalmente, creano legami con altri compagni fra i ranghi. Talvolta parecchi si dividono una sola donna o un uomo che è come una donna. Alcuni si prendono animali come compagni, ed altri accolgono bambini lasciati senza casa dalla guerra.
— Posso capire perché tu abbia obiezioni da muovere a questo — dissi, ricordandomi del figlio di Casdoe.
— Noi non obiettiamo… sicuramente non a questo e neppure a cose che sono molto meno naturali. Io sto solo parlando dell’istinto di esercitare autorità. Nello zio cattivo, tale istinto lo ha spinto ad amare una donna, e specificatamente una donna che aveva già un bambino, cosicché ci sarebbe stata per lui una famiglia ancora più grande non appena si fosse formato una famiglia. In quel modo, vedi, avrebbe riguadagnato parte del tempo che aveva perduto.
La Pellegrina fece una pausa, ed io annuii.
— Ma era già stato perso troppo tempo. L’istinto si è manifestato anche in un altro modo, e Gundulf si è visto come il padrone di diritto delle terre che amministrava per conto di un fratello e come il padrone della vita dell’altro fratello. Era una visione ingannevole, non ti pare?
— Suppongo di sì.
— Altri possono avere visioni altrettanto ingannevoli, per quanto meno pericolose. — La donna mi sorrise. — Tu ritieni di possedere una qualche speciale autorità?
— Io sono un artigiano della corporazione dei Cercatori della Verità e della Penitenza, ma tale posizione non implica alcuna autorità. Noi della corporazione obbediamo soltanto alla volontà dei giudici.
— Pensavo che la corporazione dei torturatori fosse stata abolita molto tempo fa. È divenuta allora una sorta di confraternita per i littori?
— Essa esiste ancora.
— Senza dubbio. Ma, alcuni secoli fa, era una vera corporazione, come quella dei lavoratori dell’argento. Almeno, così ho letto in certi testi storici conservati dal nostro ordine.
Nell’ascoltarla, provai un momento di selvaggia esaltazione. Non perché supponessi che la donna potesse avere in qualche modo ragione. Io sono, forse, pazzo sotto certi aspetti, ma so quali sono questi aspetti, e l’ingannare me stesso non rientra nella categoria. Nondimeno, mi sembrava una cosa meravigliosa… anche solo per un momento… che potesse esistere un mondo in cui fosse possibile una simile convinzione. Mi resi conto allora, forse per la prima volta, che nella Repubblica c’erano milioni di persone che non sapevano nulla delle più elevate forme di giustizia e delle punizioni relative, che non sapevano nulla dei cerchi concentrici d’intrigo che circondavano l’Autarca. E quello era vino per me, o piuttosto brandy, e mi lasciò ubriaco di gioia.
— Non c’è nessun’altra speciale forma di autorità che tu sei convinto di possedere? — chiese ancora la Pellegrina, non accorgendosi di tutto questo, ed io scossi il capo.
— Miles mi ha riferito che sei convinto di possedere l’Artiglio del Conciliatore, che gli hai mostrato tu stesso un piccolo artiglio nero, quale poteva provenire da un ocelot o da un caracal, e che gli hai rivelato di aver risuscitato molte persone dalla morte con l’aiuto di quell’artiglio.
Era dunque giunto il momento, il tempo in cui avrei dovuto rinunciare all’Artiglio. Fin da quando eravamo arrivati al lazzaretto, avevo saputo che quel momento sarebbe venuto, presto o tardi, ma avevo sperato di riuscire a rimandarlo fino a quando fossi stato pronto a partire. Trassi fuori l’Artiglio per quella che pensavo essere l’ultima volta e lo posai nella mano della Pellegrina, dicendo:
— Con questo puoi salvare molte persone. Non l’ho rubato io, ed ho sempre cercato un modo per restituirlo al tuo Ordine.
— E con esso — mi chiese gentilmente, — avresti resuscitato molta gente dalla morte?
— Io stesso sarei morto, parecchi mesi fa, senza di esso — le spiegai, e cominciai a raccontare la storia del mio duello con Agilus.
— Aspetta — mi fermò. — Lo devi conservare. — E mi restituì l’Artiglio. — Io non sono più giovane, come vedi. L’anno prossimo, celebrerò il mio trentesimo anniversario come membro a pieno titolo dell’Ordine. Durante ciascuna delle cinque principali festività dell’anno, fino alla primavera passata, ho visto l’Artiglio del Conciliatore quando veniva elevato perché lo adorassimo. Era un grande zaffiro, dal diametro pari a quello di un oricalco. Doveva valere più di molte ville, e senza dubbio è stato per questo motivo che i ladri lo hanno portato via.
Cercai d’interromperla, ma la donna mi zittì con un gesto.
— Quanto al fatto che esso sia in grado di curare miracolosamente e perfino di ridare la vita ai morti, credi forse che il nostro Ordine accudirebbe tanti malati se fosse davvero così? Noi siamo poche… troppo poche per il lavoro che dobbiamo svolgere. Ma, se nessuna di noi fosse morta la primavera scorsa, saremmo di più. Molte fra coloro cui volevo bene, le mie insegnanti e le mie amiche, sarebbero ancora fra di noi. La gente ignorante deve avere i suoi portenti, anche se questo significa inghiottire il fango grattato dalla suola di qualche stivale di un epopta. Se, come noi speriamo, l’Artiglio del Conciliatore esiste ancora e non è stato tagliato per ricavarne gemme più piccole, allora esso è l’ultima reliquia che possediamo ancora di quello che è stato il più grande fra tutti gli uomini buoni, e noi lo custodiamo con amore, perché ancora custodiamo con amore la sua memoria. Se esso fosse davvero stato la cosa che tu credi di possedere, allora sarebbe stato prezioso per tutti, e gli autarchi ce lo avrebbero tolto molto tempo fa.
— Ma è un artiglio… — cominciai a dire.
— Quello era solo un difetto nel cuore del gioiello. Il Conciliatore era un uomo, Severian il Littore, e non un gatto o un uccello. — Si alzò.
— Ha sbattuto contro le rocce quando il gigante lo ha gettato giù dal parapetto…
— Speravo di calmarti, ma vedo che ti ho soltanto eccitato — osservò.
Inaspettatamente, sorrise e si chinò a baciarmi. — Qui, ci capita di incontrare molti che credono in cose inesistenti. Pochi hanno convinzioni che fanno loro tanto onore quanto la tua ne fa a te. Tu ed io parleremo ancora di questo, una volta o l’altra.
Osservai la sua minuta sagoma vestita di scarlatto fino a che scomparve nell’oscurità e nel silenzio delle file di letti. Mentre parlavamo, la maggior parte dei malati si era addormentata, e qualcuno gemeva nel sonno. Entrarono tre schiavi, due che trasportavano un ferito su una lettiga ed un terzo che sorreggeva una lampada perché potessero vedere la strada. La luce brillava sulle loro teste rasate, che erano coperte di sudore. Deposero il ferito su un letto, gli sistemarono gli arti come se fosse già morto e se n’andarono.
Osservai l’Artiglio: era nero ed inerte quando la Pellegrina lo aveva visto, ma ora piccole scintille di fuoco bianco scorrevano dalla base alla punta. Mi sentii bene, al punto di chiedermi come avessi sopportato di rimanere sdraiato tutto il giorno sullo stretto materasso, ma, quando tentai di alzarmi, le gambe mi sorressero a stento. Timoroso di cadere ad ogni passo su uno dei feriti, barcollai attraverso i venti passi circa che mi separavano dall’uomo che avevo appena visto portare dentro.
Era Emilian, che avevo conosciuto come uno dei galanti gentiluomini della corte dell’Autarca. Fui così stupito di vederlo là che lo chiamai per nome.
— Thecla — mormorò, — Thecla…
— Sì. Thecla. Ti ricordi di me, Emilian. Ed ora, guarisci. — E lo toccai con l’Artiglio.
L’uomo spalancò gli occhi ed urlò. Fuggii, ma, quando ero a metà strada dal mio giaciglio caddi. Ero così debole che non credo avrei potuto raggiungerlo strisciando, ma riuscii a riporre l’Artiglio ed a rotolare sotto il letto di Hallvard, nascondendomi alla vista.
Quando gli schiavi tornarono, Emilian era seduto ed era in grado di parlare… anche se credo che essi non riuscirono a capire gran che di quello che diceva. Gli somministrarono alcune erbe, ed uno di loro rimase con lui mentre le masticava, poi se ne andò in silenzio.
Rotolai fuori da sotto il letto, e, tenendomi al suo bordo, riuscii a sollevarmi in piedi. Tutto era di nuovo quieto, ma sapevo che molti dei feriti dovevano avermi visto prima che cadessi. Emilian non stava dormendo, come io supponevo, ma appariva intontito.
— Thecla — mormorò. — Ho sentito Thecla. Avevano detto che era morta. Quali voci giungono qui dalla terra dei morti?
— Nessuna, adesso. Sei stato malato, ma presto ti sentirai bene.
Sollevai l’Artiglio sopra la testa e tentai di focalizzare il mio pensiero su Melito e su Foila, oltre che su Emilian… su tutti i malati del lazzaretto. Esso lampeggiò, poi si fece scuro.
IX
LA STORIA DI MELITO
IL GALLO, L’ANGELO E L’AQUILA
— Non molto tempo fa e non molto lontano dal luogo dove sono nato, c’era una bella fattoria che era particolarmente famosa per il pollame: stormi di anatre bianche come neve, oche grosse quasi come cigni e tanto grasse che riuscivano a stento a camminare, e galline dai colori vivi quanto quelli di un pappagallo. Il contadino che aveva costruito quel posto aveva molte strane idee in merito alla conduzione di una fattoria, ma era riuscito molto meglio con quelle strane idee di quanto avessero fatto i suoi vicini con i loro ragionevoli criteri, tanto che ben pochi avevano il coraggio di dirgli che razza di sciocco egli fosse.
«Una delle sue strane idee riguardava l’allevamento delle galline. Tutti sanno che i pulcini che si rivelano per galletti devono essere trasformati in capponi. È necessario un solo gallo nel cortile, perché due combatterebbero.
«Ma quel fattore si risparmiava tutta la fatica. “Lasciate che crescano” diceva, “e lasciate che combattano, e lascia che ti dica una cosa, vicino. Il gallo migliore e più forte vincerà, e sarà quello che genererà molti più pulcini per aumentare il numero delle mie galline. Inoltre, i suoi pulcini saranno i più resistenti, ed i più adatti a respingere ogni malattia… quando i vostri polli saranno tutti morti, potrete venire da me, ed io vi venderò al mio prezzo qualche esemplare da riproduzione. Quanto ai galli sconfitti, la mia famiglia li può mangiare. Non c’è cappone tanto tenero quanto un galletto morto combattendo, così come la carne migliore viene da un toro morto nell’arena e la migliore cacciagione da un cervo che i cani hanno inseguito per tutto il giorno. Inoltre, mangiare capponi diminuisce la virilità di un uomo.
«Questo strano fattore era anche convinto che fosse suo dovere selezionare per la tavola i peggiori esemplari del pollaio, quando ne voleva uno per cena. “È una cosa empia — diceva, — per chiunque prendere i migliori. Dovrebbero essere lasciati a prosperare sotto l’occhio del Pancreatore, che ha creato galli e chiocce così come ha creato uomini e donne.” Forse a causa di queste convinzioni, il suo pollame era talmente scelto che talvolta sembrava non ci fossero esemplari scadenti in mezzo adesso.
«Da tutto ciò che ho detto, risulterà chiaro che il gallo di quel pollaio era bellissimo. Era giovane, forte e coraggioso. La sua coda era bella come quella di molti esemplari di fagiano, e senza dubbio anche la sua cresta sarebbe stata bella, se non fosse rimasta lacerata irrimediabilmente nelle migliaia di combattimenti con cui si era guadagnato il posto. Le penne del petto erano di un lucente scarlatto… come le tonache delle Pellegrine… ma le oche dicevano che esse erano state bianche prima di essere tinte dal suo stesso sangue. Le ali erano tanto forti che il galletto poteva volare più in alto di qualsiasi anitra bianca, gli speroni tanto lunghi quanto il dito medio di un uomo, il becco tagliente quanto la mia spada.
«Quel bel galletto aveva mille mogli, ma la sua favorita era una chioccia bella quanto lui, figlia di una nobile razza, e regina riconosciuta di tutte le galline in un raggio di diverse leghe tutt’intorno. Con quanto orgoglio essi passeggiavano fra l’angolo del granaio e l’acqua dello stagno delle anatre! Non si poteva sperare di assistere a nulla di più bello, no, neppure se si fosse potuto vedere l’Autarca accompagnare la sua favorita al Pozzo delle Orchidee… tanto più che l’Autarca è un cappone, a quanto ho sentito dire.
«Tutto andava per il meglio per quella coppia felice, fino a che, una notte, il galletto venne destato da un terribile schiamazzo. Un grosso gufo aveva fatto irruzione nel pollaio dove razzolavano le galline e si stava facendo strada fra di loro alla ricerca della cena più adatta. Naturalmente, il gufo afferrò la gallina preferita del galletto, e, tenendola fra gli artigli, allargò le ampie ali silenziose per volare via. I gufi possono vedere meravigliosamente bene al buio, quindi esso dovette scorgere il galletto che gli volava addosso come una furia piumata. Chi ha mai visto un’espressione di stupore sulla faccia di un gufo? Eppure, certo vi fu una simile espressione sul volto di quel gufo, quella notte nel pollaio. Gli speroni del galletto si mossero più veloci dei piedi rotondi di una ballerina, ed il becco colpì in direzione di quei grossi occhi rotondi come il becco di un picchio colpisce il tronco di un albero. Il gufo lasciò cadere la gallina, volò via dal granaio e non si fece mai più rivedere.
«Senza dubbio, il galletto aveva diritto di essere orgoglioso, ma lo divenne in maniera eccessiva. Avendo sconfitto un gufo, al buio, arrivò alla convinzione di essere in grado di sconfiggere qualsiasi uccello, dovunque. Cominciò quindi a parlare di salvare le prede dai falchi e di imporsi ai teratornidi, i più grossi e terribili uccelli. Se si fosse circondato di saggi consiglieri, particolarmente il lama ed il maiale, coloro che la maggior parte dei prìncipi sceglie per essere aiutata nella conduzione degli affari, sono certo che le sue stravaganze sarebbero state ben presto bloccate, sia pure in maniera cortese. Ma, ahimé, egli non lo fece. Ascoltava solo le chiocce, che erano tutte infatuate di lui, e le oche e le anatre, le quali ritenevano che, dividendone lo stesso granaio, erano anche partecipi di qualsiasi gloria il galletto si fosse conquistato. Alla fine, giunse il giorno, come sempre accade a coloro che mostrano un orgoglio eccessivo, che egli si spinse troppo lontano.
«Era l’alba, da sempre il momento più pericoloso per coloro che non agiscono bene. Il galletto volò su, su, ancora più su, fino a che parve sul punto di trapassare le nubi, ed alla fine, all’apogeo del suo volo, si appollaiò sul mostravento, sulla trave più alta del granaio… il punto più alto di tutta la fattoria. Nel momento in cui il sole scacciava le ombre con sferzate carminio ed oro, egli gridò ripetutamente di essere il signore di tutti gli esseri piumati. Sette volte lo gridò, ed avrebbe anche potuto cavarsela, perché il sette è un numero fortunato. Ma il galletto non si accontentò, e, gridata la sua vanteria un’ottava volta, saltò a terra.
«Non era però ancora atterrato fra le sue galline, quando in alto nell’aria iniziò a verificarsi un fenomeno meraviglioso, direttamente al di sopra del granaio. Cento raggi di sole parvero aggrovigliarsi come un gomitolo con cui abbia giocato un gattino, e rotolare poi insieme come una donna farebbe con la pasta di pane sul piano per impastare. Quindi, quella massa di luce gloriosa emise braccia e gambe, una testa, ed infine un paio di ali, e discese sul granaio. Era un angelo, con ali rosse, azzurre, verdi ed oro, e, sebbene esso non apparisse molto più grande del galletto, quest’ultimo comprese, non appena lo ebbe guardato negli occhi, che internamente l’angelo era molto più grande di lui.
«“Ora” disse l’angelo, “ascolta parole di giustizia. Tu proclami che nessun essere piumato può reggere al tuo confronto. Eccomi qui, chiaramente un essere piumato. Mi sono lasciato alle spalle tutte le possenti armi degli eserciti della luce, e noi combatteremo, tu ed io”.
«A quelle parole, il galletto allargò le ali e s’inchinò tanto profondamente che la sua cresta a brandelli sfiorò la polvere. “Sarò onorato fino alla fine dei miei giorni di esser stato ritenuto degno di una simile sfida” affermò, “che nessun altro uccello ha mai ricevuto prima. È con il più profondo rincrescimento che devo risponderti che non la posso accettare, e questo per tre ragioni, la prima delle quali è che, per quanto tu abbia piume nelle ali, non è contro di esse che io dovrei combattere, bensì contro la tua testa ed il tuo petto. Pertanto, tu non sei una creatura piumata ai fini di un combattimento.
«L’angelo chiuse gli occhi e si toccò il corpo con le mani, e, quando le ritrasse, i suoi capelli erano divenuti piume più lucenti di quelle del più bel canarino, ed il lino della sua tunica si era trasformato in un ammasso di piume più candide di quelle della più splendente colomba.
“La seconda obiezione” continuò il galletto, per nulla intimidito, “è che, dal momento che tu disponi, come è chiaro, del potere di mutare forma, potresti scegliere, nel corso del nostro combattimento, di tramutarti in una creatura che non sia piumata, come per esempio un grosso serpente. Pertanto, se dovessi combattere con te, non avrei alcuna garanzia di un gioco leale da parte tua.
«A quelle parole, l’angelo si aprì il petto, e, mostrando tutte le qualità in esso contenute al pollame raccolto nel cortile, prelevò la capacità di cambiare forma e la consegnò alla più grassa delle oche perché la conservasse durante il combattimento. L’oca utilizzò subito quella capacità, trasformandosi in un’oca grigia, di quelle che migrano da un polo all’altro. Ma non volò via, e custodì diligentemente la capacità dell’angelo.
«“La terza obiezione” continuò, disperato, il galletto, “è che tu sei chiaramente ufficiale al servizio del Pancreatore e che stai facendo il tuo dovere nel difendere la causa della giustizia. Se dovessi combattere contro di te, come tu mi chiedi, commetterei un grave crimine contro l’unico signore che un coraggioso galletto sia mai disposto ad avere.
«“Molto bene” replicò l’angelo. “Questa è una forte obiezione legale, e credo che tu pensi di esserti liberato grazie ad essa. La verità, è che ti sei aperto la strada verso la tua stessa morte. Avevo solo intenzione di piegarti un po’ le ali all’indietro e di tirarti qualche penna della coda.” Poi l’angelo sollevò il capo ed emise uno strano grido selvaggio. Immediatamente, un’aquila scese dal cielo e si lasciò cadere nel centro del cortile come un lampo.
«Essi combatterono tutt’intorno al cortile, ed accanto allo stagno delle anitre, ed attraverso il pascolo e poi di nuovo indietro, perché l’aquila era molto forte, ma il galletto era rapido e coraggioso. C’era un vecchio carretto con una ruota rotta appoggiata contro un muro del granaio, ed il galletto scelse di tenere sotto di esso, dove l’aquila non lo poteva raggiungere dall’alto e dove l’ombra gli dava un po’ di refrigerio, la sua resistenza finale. Stava però sanguinando così tanto che, prima che l’aquila, che era quasi altrettanto insanguinata quanto lui, lo potesse raggiungere là sotto, barcollò, cadde, tentò di sollevarsi e ricadde ancora.
«“Ora” disse l’angelo, rivolgendosi a tutti gli uccelli riuniti, “avete visto che giustizia è fatta. Non siate orgogliosi! Non vi vantate, perché certo vi verrà chiesto conto delle vostre vanterie. Pensavate che il vostro campione fosse invincibile, ed eccolo là che giace, vittima non di quest’aquila ma del suo orgoglio, battuto e distrutto.
«Allora il galletto, che tutti credevano morto, sollevò il capo. “Tu sei indubbiamente molto saggio, Angelo” ribatté, “ma non sai nulla della natura dei galletti. Un galletto non è battuto fino a che non gira la coda e non mostra la penna bianca che si trova sotto tutte le altre penne della coda. La mia forza, che mi ero costruito volando e correndo ed in molte battaglie, mi è venuta meno. Ma lo spirito, che ho ricevuto dalle mani del tuo signore, il Pancreatore, non mi ha abbandonato. Aquila, io non ti chiedo alcuna pietà. Vieni ed uccidimi ora, ma, per quanto ti è caro il tuo onore, non dire mai di avermi battuto.
«Quando udì le parole del galletto, l’aquila fissò l’angelo, e l’angelo fissò l’aquila. “Il Pancreatore è infinitamente lontano da noi” osservò l’angelo, “e pertanto infinitamente lontano da me, anche se io posso volare tanto più in alto di voi. Io cerco d’indovinare i suoi desideri… nessuno può fare altro.
«Si aprì nuovamente il petto e vi ripose la capacità che aveva ceduto per qualche tempo; quindi egli e l’aquila volarono via, e, per un po’, l’oca migratoria li seguì. Questa è la fine della storia.
Melito era rimasto sdraiato sulla schiena mentre parlava, lo sguardo fisso ai teli stesi in alto, ed io avevo la sensazione che fosse troppo debole anche per sollevarsi su un gomito. Il resto dei feriti aveva ascoltato in silenzio altrettanto attento quanto quello che aveva accompagnato la storia di Hallvard.
— Questo è un bel racconto — dissi infine. — Mi riuscirà molto difficile giudicare fra voi due, e, se la cosa va bene ad entrambi ed anche a te, Foila, vorrei concedermi un po’ di tempo per meditare su entrambe.
Foila, che era seduta con le ginocchia raccolte contro il mento, rispose:
— Non giudicare affatto. La contesa non è ancora finita. Tutti la fissarono.
— Mi spiegherò domani — aggiunse. — Soltanto, non giudicare, Severian. Ma, cosa ne pensi di questa storia?
— Ti dirò io cosa ne penso — ringhiò Hallvard. — Penso che Melito sia astuto nel modo in cui sosteneva lo fossi io. Non sta altrettanto bene quanto me, non è altrettanto forte, ed in questo modo si è attirato la simpatia di Foila. Hai agito con astuzia, galletto.
La voce di Melito parve anche più debole di quando stava raccontando la battaglia fra i due uccelli.
— È la peggior storia che conosca.
— La peggiore? — chiesi. Eravamo tutti sorpresi.
— Sì, la peggiore. È uno sciocco aneddoto che narriamo ai bambinetti delle nostre parti, che non conoscono altro che la polvere, gli animali da cortile ed il cielo sopra di loro, e certo ogni parola deve averne evidenziato il carattere.
— Non vuoi vincere, Melito? — domandò Hallvard.
— Certo che lo voglio. Tu non ami Foila quanto l’amo io. Morirei per averla, ma preferirei morire piuttosto che deluderla. Se la storia che ho appena narrato riuscirà a vincere, allora non la deluderò mai, per lo meno non con le mie storie. Ne conosco a migliaia che sono migliori di questa.
Hallvard si alzò e venne a sedersi sulla mia branda come aveva fatto il giorno precedente, ed io spinsi giù le gambe per sedere accanto a lui.
— Quel che dice Melito è molto intelligente — mi confidò Hallvard. — Tutto quello che lui dice è molto intelligente. Eppure, tu ci devi giudicare dai racconti che abbiamo narrato e non da quelli che diciamo di conoscere ma che non abbiamo raccontato. Anch’io conosco molte altre storie. Le nostre notti invernali sono le più lunghe di tutta la Repubblica.
Replicai che, stando alla volontà di Foila, che per prima aveva pensato a quella contesa e che aveva posto se stessa come premio, io non dovevo ancora giudicare affatto.
— Tutti coloro che parlano il Corretto Pensiero parlano bene — interloquì l’Asciano. — Come si nota la superiorità di alcuni studenti su altri? Essa si vede nel linguaggio. Gli studenti intelligenti pronunciano il Corretto Pensiero con intelligenza. L’ascoltatore comprende dall’intonazione delle loro voci che essi capiscono. Per mezzo di questo superiore modo di parlare degli studenti intelligenti, il Corretto Pensiero è trasmesso, come fuoco, da uno all’altro.
Credo che nessuno di noi si fosse reso conto che anch’egli stava ascoltando, e fummo tutti un po’ stupiti di udirlo.
— Vuole dire — spiegò Foila, dopo un momento, — che non devi giudicare dal contenuto delle storie ma dal modo in cui ciascuna di esse è stata narrata. Non sono certa di essere d’accordo, eppure, potrebbe esserci un fondamento di verità.
— Io non sono d’accordo — ruggì Hallvard. — Gli ascoltatori si stancano presto dei trucchi dei narratori. Il modo migliore di narrare è il più semplice.
Altri si unirono alla discussione, e parlammo di questo e del galletto per parecchio tempo.
X
AVA
Mentre ero ammalato, non avevo mai prestato molta attenzione alle persone che ci portavano il cibo, anche se, quando vi pensavo, ero in grado di ricordarle con la precisione con cui ricordo ogni cosa. Una volta, chi ci aveva serviti era stata una Pellegrina, la stessa che aveva parlato con me la notte precedente, mentre le altre volte si era trattato di schiavi dalla testa rasata o di postulanti vestite di marrone. Quella sera, la sera del giorno in cui Melito ci aveva raccontato la sua storia, la cena ci venne portata da una postulante che non avevo visto prima, una snella ragazza dagli occhi grigi, ed io mi alzai e l’aiutai a far circolare i vassoi.
Quando finimmo, la ragazza mi ringraziò e aggiunse:
— Tu non rimarrai qui ancora per molto.
Le dissi che avevo qualcosa da fare lì e nessun posto dove andare.
— Tu hai la tua legione, e, se è stata distrutta, sarai assegnato ad un’altra.
— Io non sono un soldato. Sono venuto al nord con una mezza idea di arruolarmi ma mi sono ammalato prima di averne la possibilità.
— Avresti potuto aspettare nella tua città natale. Mi dicono che pattuglie di reclutamento fanno il giro di tutte le città due volteranno.
— La mia città natale è Nessus, temo — replicai, e notai il suo sorriso. — Ma l’ho lasciata qualche tempo fa, e non avrei voluto rimanermene in ozio per sei mesi in qualche altro posto, in attesa. Comunque, non ci ho mai pensato. Sei di Nessus anche tu?
— Hai difficoltà a reggerti in piedi?
— No, sto bene.
Mi toccò il braccio con un gesto timido che in qualche modo mi fece venire in mente i daini addomesticati nei giardini dell’Autarca.
— Stai barcollando. Anche se la febbre se n’è andata, non sei più abituato a stare in piedi, te ne devi rendere conto. Sei stato a letto per parecchi giorni. Ora voglio che tu torni a sdraiarti.
— Se lo faccio, non avrò nessuno con cui parlare, eccetto le persone con cui ho chiacchierato per tutto il giorno. L’uomo alla mia destra è un prigioniero Asciano e quello alla mia sinistra viene da un villaggio che né tu né io abbiamo mai sentito nominare.
— D’accordo. Se ti sdrai, mi siederò a parlare con te per un po’. Del resto, non ho più nulla da fare fino a quando dovremo cantare il notturno. Da quale quartiere di Nessus provieni?
Mentre la scortavo alla mia cuccetta, le dissi che non desideravo parlare, bensì ascoltare, e le chiesi quale fosse il suo quartiere d’origine.
— Quando sei con le Pellegrine, là è la tua casa, dovunque vengano piantate le tende. L’Ordine diventa la tua famiglia ed i tuoi amici, proprio come se tutti i tuoi amici fossero diventati anche tue sorelle. Ma, prima di venire qui, vivevo nella parte nord occidentale della città, in vista del Muro.
— Vicino al Campo Sanguinario?
— Sì, molto vicino. Conosci quel posto?
— Vi ho combattuto una volta.
— Davvero? — I suoi occhi si dilatarono. — Eravamo solite andare a vedere. Non avremmo dovuto, ma lo facevamo comunque. Hai vinto?
Non ci avevo mai pensato, e dovetti riflettere un momento.
— No — risposi, — ho perso.
— Ma sei sopravvissuto. È certamente meglio perdere e vivere, che non togliere la vita ad un altro uomo.
Mi aprii la tunica e le mostrai la cicatrice sul petto, dove mi aveva colpito la foglia di avern di Agilus.
— Sei stato molto fortunato. Spesso ci portano soldati con ferite al petto simili a quella, ma siamo raramente in grado di salvarli. — Con esitazione, mi sfiorò il petto, e c’era sul suo volto una dolcezza quale non ho visto sulla faccia di nessun’altra donna. Mi accarezzò la pelle per un momento, poi allontanò la mano di scatto. — Non può essere stata molto profonda.
— Non lo era.
— Una volta, ho visto un combattimento fra un ufficiale ed un esultante mascherato. Usavano come armi piante avvelenate, … credo perché l’ufficiale sarebbe stato ingiustamente avvantaggiato con la spada. L’esultante è stato ucciso, ed io me ne sono andata, ma subito dopo c’è stata una grande confusione perché l’ufficiale è impazzito. Mi è saettato accanto, vibrando colpi con la sua pianta, ma qualcuno gli ha lanciato un bastone fra le gambe e lo ha fatto cadere. Credo sia stato il combattimento più eccitante che abbia mai visto.
— Hanno combattuto coraggiosamente?
— In effetti no. Ci sono state molte discussioni legali… sai come fanno gli uomini quando non vogliono cominciare.
— “Sarò onorato fino alla fine dei miei giorni di esser stato ritenuto degno di una simile sfida che nessun altro uccello ha mai ricevuto prima. È con il più profondo rincrescimento che devo dirti che non la posso accettare, e questo per tre ragioni, la prima delle quali è che, per quanto tu abbia, come affermi, piume nelle tue ali, non è contro di esse che io dovrei combattere…” Conosci quella storia?
La ragazza scosse il capo, sorridendo.
— È bella, e te la racconterò qualche volta. Se vivevi così vicino al Campo Sanguinario, la tua doveva essere una famiglia importante. Sei un’armigera?
— Praticamente noi tutte siamo armigere oppure esultanti. Temo che questo sia un Ordine alquanto aristocratico. Di tanto in tanto, viene ammessa qualche figlia di ottimate, come me, quando l’ottimate è da lungo tempo amico dell’Ordine, ma siamo solo in tre ad esserlo. Mi dicono che alcuni ottimati credono che tutto quello che devono fare è elargire una grossa donazione perché le loro ragazze siano accettate, ma in realtà non è così… essi devono aiutare l’Ordine in molti modi, non solo con il denaro, e dev’essere una cosa che fanno già da molto tempo. Il mondo, come vedi, non è realmente corrotto come può apparire ad alcune persone.
— Credi sia giusto limitare in questo modo il vostro Ordine? — chiesi. — Tu servi il Conciliatore. Egli ha forse chiesto alle persone che resuscitava dalla morte se erano armigeri o esultanti?
— Questa — replicò con un altro sorriso, — è una questione che è stata dibattuta molte volte nell’Ordine. Ma ci sono altri Ordini che sono decisamente aperti agli ottimati, ed anche alle classi più basse, e rimanendo come siamo, otteniamo grandi somme di denaro da usare nel nostro lavoro e manteniamo una notevole influenza. Direi che avresti ragione se noi nutrissimo e curassimo soltanto una certa categoria di persone, ma non è così. Aiutiamo perfino gli animali, quando possiamo. Conexa Epicharis era solita dire che le nostre cure si fermavano agli insetti, ma poi ha trovato una di noi… voglio dire una postulante… che cercava di curare l’ala di una farfalla.
— Non ti dà noia che questi soldati abbiano fatto del loro meglio per uccidere gli Asciani?
— Gli Asciani non sono umani — fu la sua risposta, molto diversa da quella che mi ero aspettato di udire.
— Ti ho già detto che il paziente vicino a me è un Asciano. Voi vi state prendendo cura di lui come vi prendete cura di tutti noi, a quanto ho visto.
— Ed io ho già detto a te che noi accogliamo anche gli animali quando possiamo. Non sai che gli esseri umani possono perdere la loro umanità?
— Vuoi alludere agli zoantropi? Ne ho incontrati alcuni.
— Quelli, naturalmente: essi rinunciano deliberatamente alla loro umanità. Ma ci sono altri che la perdono senza intenzione, spesso quando credono invece di accentuarla, o di essere in procinto di raggiungere uno stato più elevato di quello in cui sono nati… E ci sono ancora altri, come gli Asciani, che ne vengono privati.
Pensai a Baldanders che si gettava nel Lago Diuturna dalle mura del suo castello.
— Certamente queste… cose meritano la nostra compassione.
— Gli animali meritano la nostra compassione, ed è per questo che il nostro Ordine si prende cura di loro. Ma non è omicidio uccidere un animale.
Mi levai a sedere e le afferrai il braccio, in preda ad un’eccitazione che non riuscivo a contenere.
— Credi tu che se qualcosa… un qualche braccio del Conciliatore, diciamo… potesse curare gli esseri umani, potrebbe tuttavia fallire con coloro che umani non sono?
— Vuoi dire l’Artiglio. Chiudi la bocca, per favore… mi fai venir voglia di. ridere se la tieni aperta in quel modo, e noi non dovremmo ridere quando ci sono in giro persone non appartenenti all’Ordine.
— Tu sai!
— La tua infermiera me lo ha rivelato. Ha detto che eri pazzo, ma in maniera tranquilla, e che non credeva avresti mai fatto male ad alcuno. Quando le ho chiesto il perché, mi ha risposto che tu hai l’Artiglio e talvolta puoi curare i malati e perfino resuscitare i morti.
— Tu mi credi matto?
Annuì, sempre sorridendo.
— Perché? Lascia perdere quello che ti ha raccontato la Pellegrina. Ti ho forse detto stanotte qualcosa che ti ha indotta a ritenermi tale?
— O forse sei vincolato da un incantesimo. Non si tratta affatto di qualcosa che hai detto, o, per lo meno, non molto. Ma tu non sei una sola persona.
A questo punto, fece una pausa, forse aspettando che io negassi, ma io tacqui.
— È nel tuo volto, nel modo in cui ti muovi…; sai che non conosco neppure il tuo nome? Lei non me lo ha detto.
— Severian.
— Io mi chiamo Ava. Severian è uno di quei nomi maschili e femminili, vero? Severian e Severa. Hai una sorella?
— Non lo so. Se ne ho una, è una strega.
— Quell’altra — continuò Ava, sorvolando sulla mia risposta, — ha un nome?
— Allora sai che si tratta di una donna.
— Uh huh. Mentre stavo distribuendo il cibo, ho creduto per un momento che una delle sorelle esultanti fosse venuta ad aiutarmi, poi mi sono guardata intorno e c’eri tu. All’inizio, mi è parso di notare il fenomeno solo quando ti guardavo con la coda dell’occhio, ma ci sono momenti, mentre stiamo seduti qui, in cui la vedo anche se ti guardo dritto in volto. Quando ti giri da un lato, talvolta, tu svanisci ed appare una donna alta e pallida che si serve del tuo viso. Per favore, non mi dire che digiuno troppo: è quello che mi dicono tutti, e non è vero. E, anche se fosse vero, non c’entra con questo.
— Il suo nome è Thecla. Ti ricordi quel che mi hai detto circa il perdere la propria umanità? Stavi cercando di parlarmi di lei?
— Non credo. — Ava scosse il capo. — Ma ti volevo chiedere qualcosa. C’era un altro paziente come te, qui, e mi hanno riferito che era arrivato con te.
— Miles, vuoi dire. No, il mio caso ed il suo sono molto differenti. Non ti parlerò di lui: dovrebbe essere lui a farlo, oppure nessun altro. Ma credo che ti parlerò di me. Sai che esistono i mangiatori di cadaveri?
— Tu non sei uno di loro. Qualche settimana fa abbiamo avuto qui tre prigionieri insurrezionisti. So che aspetto hanno.
— In che cosa consiste la differenza?
— In loro… — annaspò in cerca di parole, — in loro, il fenomeno è incontrollabile. Parlano da soli… naturalmente un mucchio di persone lo fa… e vedono cose che non ci sono. Hanno qualcosa di solitario, e qualcosa di egoistico. Tu non sei uno di loro.
— Ma lo sono — replicai, e le raccontai, senza molti particolari, del banchetto di Vodalus.
— Ti hanno costretto — osservò, quando ebbi finito. — Se tu avessi dimostrato i tuoi sentimenti, ti avrebbero ucciso.
— Questo non ha importanza. Ho bevuto l’alzabo, ho mangiato la sua carne. Ed all’inizio era una cosa sporca, come tu dici, anche se l’avevo amata. Lei era dentro di me, ed io dividevo la vita che era stata sua, eppure lei era morta. Potevo percepire il suo corrompersi. Feci un sogno meraviglioso su di lei, quella prima notte, e quando torno indietro fra i miei ricordi, quella è una delle cose che custodisco con più affetto. In seguito, c’è stato qualcosa di orribile e talvolta mi sembrava di sognare mentre ero sveglio… credo che si tratti di quel parlare e guardare a vuoto cui hai accennato. Adesso, già da parecchio tempo, ella sembra vivere di nuovo, ma dentro di me.
— Non credo che gli altri fossero così.
— Non lo credo neanch’io — convenni. — Almeno, non stando a quanto ho sentito di loro. Ci sono molte cose che non comprendo, e quella che ti ho detto è una delle principali.
Ava rimase quieta per il tempo di due o tre respiri, poi i suoi occhi si spalancarono.
— L’Artiglio, quella cosa in cui credi. Allora ce l’hai davvero?
— Sì, ma non sapevo cosa potesse fare. Esso non aveva ancora agito, o meglio, aveva agito, resuscitando dalla morte una donna di nome Dorcas, ma io non sapevo quello che era accaduto né da dove ella fosse venuta. Se lo avessi saputo, avrei potuto salvare Thecla, riportarla in vita.
— Ma tu lo avevi? Lo avevi con te? Annuii.
— Ma, allora, non capisci? Esso l’ha riportata in vita. Hai appena detto che poteva agire senza che tu te ne accorgessi. Tu avevi l’Artiglio, ed avevi lei, che si stava corrompendo dentro di te.
— Senza il corpo…
— Tu sei un materialista, come tutta la gente ignorante. Ma il tuo materialismo non rende per questo vero il materialismo di per sé. Non lo sai? Nella convocazione finale, sono lo spirito ed i sogni, il pensiero e l’amore e le azioni, che contano.
Ero così stordito dalle idee che si stavano affollando dentro di me che non parlai per parecchio tempo, e rimasi invece seduto ed immerso nelle mie riflessioni. Quando tornai finalmente in me, rimasi sorpreso che Ava non se ne fosse andata, e cercai di ringraziarla.
— Era pacifico, starmene seduta qui con te, e se fosse passata una delle sorelle, avrei potuto sostenere che rimanevo qui nel caso che qualcuno dei feriti chiamasse.
— Non ho ancora raggiunto una decisione su quel che hai detto a proposito di Thecla. Ci dovrò riflettere per parecchio tempo, forse per molti giorni. La gente trova che sono piuttosto stupido.
Sorrise, e la verità è che mi ero espresso in quel modo (anche se era vero), almeno in parte, per vederla sorridere.
— Io non credo. Piuttosto, sei un uomo attento e preciso.
— Comunque, ho un’altra domanda da farti. Spesso, quando cercavo di dormire oppure mi svegliavo di notte, ho provato a connettere fra loro i miei successi ed i miei fallimenti. Voglio dire, le volte in cui ho usato l’Artiglio ed ho resuscitato qualcuno e le volte in cui ho provato, ma la vita non è tornata. Mi sembra che alla base di questo dovrebbe esserci qualcosa di più di una semplice casualità, anche se il legame è forse dato da qualcosa che io non posso sapere.
— Credi adesso di averlo trovato?
— Quello che hai detto in merito alla gente che perde la sua umanità… potrebbe esserne una parte. C’era una donna… credo che avrebbe potuto essere così, sebbene fosse molto bella. Ed un uomo, un mio amico, che è stato solo parzialmente curato, aiutato. Se è possibile per qualcuno perdere la sua umanità, allora deve certo essere possibile trovarla per chi non ne ha. Dappertutto ciò che uno perde viene trovato da un altro. Egli, credo, era così. E poi, l’effetto sembra sempre minore quando la morte giunge in maniera violenta…
— Mi sembra prevedibile — commentò dolcemente Ava.
— Ha curato l’uomo scimmia cui avevo tagliato la mano. Forse è stato perché ero stato io a ferirlo. Ed ha aiutato Jonas, ma io… Thecla… avevo usato quelle fruste.
— I poteri della guarigione ci proteggono dalla natura. Perché dovrebbe l’Increato proteggerci da noi stessi? Noi ci potremmo proteggere da noi stessi, e può darsi che egli ci aiuti solo quando arriviamo a pentirci di quello che abbiamo fatto. Annuii, sempre riflettendo.
— Adesso devo andare nella cappella. Ti senti abbastanza bene da camminare con me per un breve tratto? Vuoi venire con me?
Mentre giacevo sotto il tetto di tela, mi sembrava che quello fosse tutto il lazzaretto, ma ora vidi, sia pure vagamente e di notte, che c’erano molte tende e padiglioni. La maggior parte, come il nostro, aveva le pareti di tela raccolte e sollevate per creare una maggiore frescura, ripiegate come le vele di una nave all’ancora. Non entrammo in nessuno di essi ma li attraversammo per sentieri tortuosi che a me parvero lunghi, fino a che raggiungemmo una tenda le cui pareti erano abbassate. Era di seta, non di tela, e brillava di un colore purpureo per le luci accese all’interno.
— Una volta — disse Ava, — avevamo una grande cattedrale, che poteva contenere diecimila persone eppure poteva essere conservata su un solo carro. La nostra Domnicella l’ha fatta bruciare poco prima che io entrassi nell’Ordine.
— Lo so — replicai. — L’ho visto.
All’interno della tenda di seta, c’inginocchiammo dinnanzi ad un semplice altare carico di fiori. Ava pregò ed io, non conoscendo alcuna prechiera, parlai in silenzio con qualcuno che mi sembrava talvolta dentro di me e talvolta, come aveva detto l’angelo, infinitamente distante.
XI
LA STORIA DEL LEALE AL GRUPPO DEL DICIASSETTE
L’UOMO GIUSTO
Il mattino successivo, dopo che avemmo mangiato e ci fummo destati tutti, mi azzardai a chiedere a Foila se era venuto il tempo di giudicare fra le storie di Melito e Hallvard. Ella scosse il capo, ma, prima che potesse parlare, l’Asciano annunciò:
— Tutti devono fare la loro parte al servizio della popolazione. Il bue tira l’aratro ed il cane guida le pecore, ma il gatto acchiappa i topi nel granaio. Così gli uomini, le donne e perfino i bambini possono servire la popolazione.
— Anche il nostro amico vuole raccontare una storia — spiegò Foila, con il suo abbagliante sorriso.
— Cosa? — Per un momento pensai che Melito stesse effettivamente per sollevarsi a sedere. — Hai intenzione di permettergli… di permettere ad uno di loro di prendere in considerazione…?
— Come, sì. — Foila fece un gesto che lo zittì, mentre qualcosa le tirava gli angoli delle labbra. — Sì, credo che lo farò. Naturalmente, dovrò tradurre per il resto di voi. Ti andrà bene così, Severian?
— Se tu lo desideri.
— Infatti. Non va contro lo spirito dell’accordo, ed anzi è in armonia con esso, accordo secondo il quale a competere dovevano essere gli aspiranti alla mia mano… mano che non è molto morbida né molto bella, temo, anche se è migliorata da quando sono costretta a stare in questo posto. L’Asciano sarebbe un mio pretendente se lo potesse; non avete visto il modo in cui mi guarda?
— Uniti, uomini e donne sono più forti — recitò l’Asciano, — ma una donna coraggiosa desidera figli e non mariti.
— Vuole dire che gli piacerebbe sposarmi, ma che crede che le sue attenzioni non riuscirebbero accettabili. E invece si sbaglia. — Lo sguardo di Foila si spostò da Melito ad Hallvard ed il suo sorriso si trasformò in un sogghigno. — Avete davvero voi due tanta paura di lui in una gara di narrazione di storie? Dovete essere fuggiti come conigli alla vista di un Asciano sul campo di battaglia.
Nessuno dei due rispose, e, dopo qualche tempo, l’Asciano cominciò:
— Nei tempi passati, la lealtà alla causa della popolazione era visibile dovunque. La volontà del Gruppo del Diciassette era la volontà di tutti.
— C’era una volta — interpretò Foila.
«Che nessuno sia pigro. Se qualcuno è pigro, che venga bandito insieme agli altri che sono pigri, e che essi vadano in cerca di una terra pigra. Che tutti coloro che essi incontrano diano loro indicazioni. È meglio camminare per migliaia di leghe che sedere nella Casa della Fame.
«… Una fattoria isolata in cui lavoravano in compartecipazione persone non legate da vincoli di parentela.
«Uno è forte, un altro bello ed un terzo è un abile artigiano. Chi è il migliore? Colui che serve la popolazione.
«In quella fattoria viveva un brav’uomo.
«Che il lavoro venga ripartito da un saggio ripartitore di lavoro. Che il cibo venga suddiviso da un saggio suddivisore di cibo. Che i maiali ingrassino. Che i topi muoiano di fame.
«Altri truffarono il brav’uomo della sua parte di proprietà.
«Il popolo radunato in consiglio può giudicare, ma nessuno deve ricevere più di cento colpi.
«Egli si lamentò ed essi lo picchiarono.
«Come vengono nutrite le mani? Tramite il sangue. Come il sangue raggiunge le mani? Tramite le vene. Se le vene si chiudono, le mani cadranno per la cancrena.
«Egli abbandonò la fattoria e si mise in viaggio.
«Dove siede il Gruppo del Diciassette, là viene fatta la giustizia definitiva.
«Andò alla capitale e si lamentò per il modo in cui era stato trattato.
«Che ci sia acqua limpida per coloro che lavorano, che ci siano per essi cibo caldo ed un letto pulito.
«Egli ritornò alla fattoria, stanco ed affamato per il viaggio.
«Nessuno deve ricevere più di cento colpi.
«Essi lo picchiarono di nuovo.
«Dietro ogni cosa si può trovare qualche cos’altro, sempre; così, c’è l’albero dietro l’uccello, il sasso sotto il suolo, il sole dietro Urth. Dietro i nostri sforzi, che si possano trovare i nostri sforzi.
«L’uomo giusto non si arrese. Lasciò nuovamente la fattoria e camminò fino alla capitale.
«Possono essere ascoltati tutti coloro che presentano petizioni? No, perché essi gridano tutti insieme. Chi, dunque, sarà udito…? È forse colui che grida più forte? No, perché tutti gridano con forza. Coloro che gridano più a lungo saranno ascoltati, e sarà loro fatta giustizia.
«Arrivato alla capitale, egli si accampò sulla soglia della sede del Gruppo del Diciassette e supplicò tutti coloro che passavano di ascoltarlo. Dopo lungo tempo, venne ammesso nel palazzo, dove le autorità ascoltarono con simpatia le sue lamentele.
«Così dice il Gruppo del Diciassette: A coloro che rubano, prendete tutti i loro averi, poiché nulla di ciò che essi hanno è di loro proprietà.
«Essi gli dissero di tornare alla fattoria e di riferire agli uomini cattivi, in nome loro, che se ne dovevano andare.
«Come si comporta un bravo bambino con sua madre, così si deve comportare il cittadino con il Gruppo del Diciassette.
«Egli fece esattamente come gli avevano detto.
«Che cos’è un discorso sciocco? È soltanto vento. Esso è entrato dagli orecchi ed esce dalla bocca. Nessuno deve ricevere più di cento colpi.
«Essi lo derisero e lo picchiarono.
«Che dietro i nostri sforzi ci siano ancora altri sforzi.
«L’uomo giusto non si arrese e tornò ancora una volta alla capitale.
«Il cittadino dà alla popolazione ciò che è dovuto alla popolazione. Cosa è dovuto alla popolazione? Tutto.
«Egli era molto stanco. I suoi abiti erano ridotti a stracci e le scarpe erano consumate. Non aveva cibo né alcuna cosa da barattare.
«È meglio essere giusti che gentili, ma solo i buoni giudici possono essere giusti; che coloro che non possono essere giusti siano gentili.
«Nella capitale, visse chiedendo l’elemosina.
A questo punto, non potei fare a meno d’interrompere. Dissi a Foila che era meraviglioso che potesse comprendere così bene il significato di ciascuna delle frasi fatte dell’Asciano una volta inserita nel contesto della storia, ma che era incomprensibile come ci riuscisse… come faceva, per esempio, a capire che la frase relativa alla gentilezza ed alla giustizia significava che l’eroe della storia era diventato un mendicante?
— Ecco, supponiamo che qualcun altro, per esempio Melito, stesse raccontando la storia, e che ad un certo punto protendesse la mano e si mettesse a chiedere qualche aes. Tu capiresti cosa intende dire, vero?
Convenni che avrei capito.
— Qui è esattamente la stessa cosa. Qualche volta, troviamo soldati Asciani che sono troppo affamati o malati per rimanere uniti agli altri, e, quando capiscono che non abbiamo intenzione di ucciderli, ci rifilano quella frase a proposito della gentilezza e della giustizia. In Asciano, naturalmente. Quella frase, è ciò che i mendicanti dicono ad Ascia.
— Coloro che gridano più a lungo — riprese l’Asciano, — saranno uditi, e sarà loro fatta giustizia.
«Questa volta, l’uomo dovette attendere a lungo prima di essere ammesso a palazzo, ma alla fine lo fecero entrare ed ascoltarono quello che aveva da dire.
«Coloro che non serviranno la popolazione saranno costretti a servire la popolazione.
«Essi dissero che avrebbero messo gli uomini cattivi in prigione.
«Che ci sia acqua limpida per coloro che lavorano, che ci siano per essi cibo caldo ed un letto pulito.
«Egli tornò a casa.
«Nessuno deve ricevere più di cento colpi.
«Venne battuto ancora.
«Dietro i nostri sforzi, che ci siano ancora altri sforzi.
«Ma egli non si arrese. Ancora una volta, partì per la capitale per protestare.
«Coloro che combattono per la popolazione combatteranno con mille cuori. Coloro che combattono contro di essa, senza nessuno.
«Adesso gli uomini cattivi avevano paura.
«Che nessuno si opponga alle decisioni del Gruppo del Diciassette.
«Essi si dissero: “È andato al palazzo più volte, ed ogni volta deve aver detto ai governanti che noi non abbiamo obbedito ai loro ordini precedenti. Certamente, questa volta manderanno i soldati per ucciderci.
«Se le loro ferite sono nella schiena, chi arresterà il loro sangue?
«Gli uomini cattivi fuggirono.
«Dove sono coloro che, nel passato, si sono opposti alle decisioni del Gruppo del Diciassette?
«Essi non furono mai più rivisti.
«Che ci sia acqua limpida per coloro che lavorano, che ci siano per essi cibo ed un letto pulito. Allora canteranno mentre lavorano, ed il loro lavoro sarà per essi leggero. Poi canteranno al raccolto, ed il raccolto sarà abbondante.
«L’uomo giusto tornò a casa e da allora visse per sempre felice.
Tutti applaudirono a quella storia, commossi dalla trama, dall’ingenuità del prigioniero Asciano, dalla breve inquadratura che essa aveva fornito della vita su Ascia, e, soprattutto, credo, dalla delicatezza e dall’arguzia che la traduzione di Foila aveva dato alla narrazione.
Io non ho modo di sapere se tu, che alla fine leggerai questa cronaca, ami o meno le storie. Se non le ami, indubbiamente avrai girato queste pagine senza prestare loro attenzione. Io confesso di amarle. In effetti, molto spesso mi sembra che, fra tutte le cose buone che ci sono al mondo, le uniche che l’umanità possa reclamare per se stessa siano le storie e la musica; il resto, pietà, bellezza, sonno; acqua pulita e cibo caldo (come avrebbe detto l’Asciano) sono tutte opere dell’Increato. Pertanto, le storie sono effettivamente cose davvero piccole nello schema dell’universo, ma è difficile non amare di più ciò che è nostro… difficile per me, almeno.
Da questa storia, sebbene fosse la più breve e la più semplice di tutte quelle che ho registrato in questo libro, sento di aver appreso parecchie cose di una certa importanza. Prima di tutto, quanta parte del nostro linguaggio, che noi crediamo coniato di fresco dalle nostre bocche, consista invece di locuzioni. L’Asciano sembrava parlare soltanto per mezzo di frasi imparate a memoria, anche se, fino a quando non le usava per la prima volta, noi non le avevamo mai sentite. Foila sembrava parlare come comunemente fanno le donne, e se mi fosse stato chiesto se lei utilizzasse a sua volta simili frasi fatte, avrei risposto di no… eppure, con quanta frequenza si poteva predire la fine delle sue frasi dal modo in cui esse iniziavano!
In secondo luogo, ho appreso quanto sia difficile eliminare la necessità di esprimersi. La gente di Ascia era ridotta a parlare soltanto con la voce del suo padrone, eppure, era riuscita a fare di essa una nuova lingua, e, dopo aver ascoltato l’Asciano, non avevo il minimo dubbio che con quella lingua potessero esprimere tutto quello che volevano.
E, in terzo luogo, avevo appreso ancora una volta come la narrazione di un racconto sia una cosa dalle molte sfaccettature. Nessuno, certamente, avrebbe potuto essere più semplice dell’Asciano, eppure, cosa aveva questi inteso dire? Era forse sua intenzione levare lode al Gruppo del Diciassette? La semplice menzione del suo nome era stata sufficiente a far nascere il terrore nel cuore dei malvagi. Era forse intesa invece a criticarlo? I membri del Gruppo avevano udito le lamentele dell’uomo giusto, ma non avevano fatto altro che dargli il loro sostegno verbale, e non c’era stata la minima indicazione che avrebbero fatto qualcosa di più.
Tuttavia, non avevo appreso quelle cose che maggiormente mi stavano a cuore, mentre ascoltavo l’Asciano e Foila. Qual era stato il motivo di Foila nell’acconsentire a che l’Asciano partecipasse alla competizione? Semplice cattiveria? Potevo facilmente crederlo osservando i suoi occhi ridenti. O forse si sentiva davvero attratta da lui? Trovavo quella supposizione più difficile da accettare, ma non era certo una cosa impossibile. Chi c’è che non abbia visto donne attratte da uomini privi di qualsiasi qualità? Foila aveva chiaramente avuto molto a che fare con gli Asciani, e quell’Asciano non era certo un comune soldato, dal momento che gli era stata insegnata la nostra lingua. Sperava forse di strappargli qualche segreto?
E che dire di lui? Melito ed Hallvard si erano accusati a vicenda di raccontare le loro storie con un secondo fine. Aveva l’Asciano fatto lo stesso? E se lo aveva fatto, era certamente stato per dire a Foila… ed anche al resto di noi… che non avrebbe mai ceduto.
XII
WINNOC
Quella sera, ricevetti ancora una visita: si trattava di uno degli schiavi dalla testa rasata. Io ero seduto e stavo tentando di parlare con l’Asciano quando egli si sistemò accanto a me.
— Ti ricordi di me, Littore? — chiese. — Il mio nome è Winnoc.
Scossi il capo.
— Sono stato io a lavarti ed a prendermi cura di te la notte del tuo arrivo. Ho atteso che ti sentissi abbastanza bene da poter parlare. Sarei venuto la notte scorsa, ma eri già immerso in una profonda conversazione con una delle nostre postulanti.
Chiesi a proposito di cosa desiderasse parlarmi.
— Un momento fa, ti ho chiamato Littore, e tu non lo hai negato. Sei davvero un littore? Eri vestito come tale, la notte del tuo arrivo.
— Sono stato un littore — spiegai, — e quelli sono i soli abiti che posseggo.
— Ma non sei più un littore?
— Sono venuto al nord per entrare nell’esercito — replicai, scuotendo il capo.
— Ah — fece, e, per un momento, distolse lo sguardo.
— Certo ci sono anche altri che fanno la stessa cosa.
— Qualcuno, sì. Per la maggior parte si arruolano nel sud, oppure sono costretti ad arruolarsi. Alcuni vengono al nord, come te, perché vogliono entrare in qualche particolare unità in cui hanno un amico o un parente. La vita del soldato… — esitò, ed attesi che continuasse. — È molto simile a quella di uno schiavo, credo. Io non sono mai stato un soldato, ma ho parlato con molti di loro.
— È dunque tanto miserevole la tua vita? Avrei creduto che le Pellegrine fossero padrone gentili. Ti battono forse?
Sorrise, e si volse in modo che gli potessi vedere la schiena.
— Sei stato un littore. Cosa ne pensi delle mie cicatrici?
Riuscivo a stento a distinguerle nella luce tenue, e feci scorrere un dito su di esse.
— Solo che sono molto vecchie e sono state fatte con la frusta — replicai.
— Le ho ricevute quando avevo vent’anni, ed ora ne ho quasi cinquanta. Le ha fatte un uomo dai vestiti neri come i tuoi. Sei stato littore per molto?
— No, non per molto.
— Allora, ne sai poco di quell’attività?
— Quanto basta per praticarla.
— E questo è tutto? L’uomo che mi ha frustato ha affermato di appartenere alla corporazione dei torturatori. Pensavo che forse potevi averne sentito parlare.
— Infatti.
— Esistono davvero? Alcune persone mi hanno assicurato che si sono estinti molto tempo fa, ma l’uomo che mi ha frustato sosteneva il contrario.
— Essi esistono ancora, per quel che ne so — replicai. — Ti ricordi per caso il nome del torturatore che ti ha frustato?
— Si chiamava Artigiano Palaemon… ah, tu lo conosci!
— Sì, è stato il mio insegnante per qualche tempo. Adesso è un vecchio.
— Allora è ancora vivo? Lo vedrai ancora?
— Non credo.
— Mi piacerebbe vederlo io stesso, e forse un giorno ci riuscirò. Dopo tutto, è l’Increato che ordina tutte le cose. Voi giovani, vivete vite selvagge… so che io lo facevo, alla tua età. Sai già che Egli modella tutte le cose che facciamo?
— Forse.
— Credimi, è così. Io ho visto molto più cose di te. Dal momento che è così, può darsi che non riuscirò mai ad incontrare l’Artigiano Palaemon, e che tu sia stato guidato qui per essere mio messaggero.
Proprio in quel momento, quando mi aspettavo che mi riferisse il suo messaggio, quale che fosse, egli cadde nel silenzio. I pazienti che avevano ascoltato con tanta attenzione la storia dell’Asciano, stavano ora parlando fra loro, ma uno dei piatti che il vecchio schiavo aveva raccolto si assestò nel mucchio con un leggero suono, ed io lo udii.
— Cosa sai delle leggi della schiavitù? — mi chiese infine. — Voglio dire, dei modi in cui un uomo o una donna possono diventare schiavi secondo la legge.
— Molto poco. Un mio amico — replicai, e stavo pensando all’uomo verde, — veniva chiamato schiavo, ma era soltanto uno sfortunato straniero che era stato catturato da gente priva di scrupoli. Sapevo che non era una cosa legale.
— Aveva la pelle scura? — mi chiese lo schiavo, annuendo.
— Si potrebbe dire di sì.
— Ho sentito raccontare che nei tempi antichi la schiavitù era determinata dal colore della pelle: quanto più la pelle di un uomo era scura, tanto più egli veniva reso schiavo. Ma è una cosa difficile da credersi, lo so. Peraltro, avevamo nell’Ordine una castellana che sapeva molte cose di storia ed è stata lei a dirmelo. Era una donna sincera.
— Senza dubbio, la cosa ha avuto origine perché gli schiavi dovevano spesso lavorare sotto il sole — osservai. — Molti degli usi del passato ci sembrano ora soltanto semplici capricci.
— Credimi, giovanotto — replicò lo schiavo, in apparenza un po’ irritato da quel commento, — ho vissuto nei vecchi giorni e sto vivendo ora, e so molto più di te cosa sia meglio.
— Così usava dire il Maestro Palaemon.
Come speravo, quelle parole lo riportarono all’argomento principale della nostra conversazione.
— Ci sono solo tre modi in cui un uomo può diventare schiavo — proseguì, — mentre per una donna è diverso, con il matrimonio e tutto il resto.
«Se un uomo viene condotto nella repubblica già in stato di schiavitù, rimane schiavo, ed il padrone che lo ha portato qui lo può vendere, se lo desidera. Questo è un caso. I prigionieri di guerra… come quell’Asciano… sono gli schiavi dell’Autarca, il Padrone dei Padroni e lo Schiavo degli Schiavi. L’Autarca li può vendere, se lo desidera. Spesso lo fa, e, siccome questi Asciani non servono a molto salvo che nei lavori più noiosi, li trovi spesso a remare sui fiumi settentrionali. Questo è il secondo caso. Il terzo è quello di un uomo che venda se stesso al servizio di qualcuno, perché un uomo libero è il padrone del suo corpo… è già lo schiavo di se stesso.
— Gli schiavi — osservai, — vengono raramente battuti dai torturatori. Che bisogno c’è, quando possono essere battuti dai loro padroni?
— Non ero uno schiavo a quell’epoca. Questo è parte di ciò che volevo chiedere all’Artigiano Palaemon. Io ero solo un giovane che era stato colto a rubare. L’Artigiano Palaemon venne da me, la mattina in cui avrei dovuto essere frustato, ed io pensai che era una cosa gentile da parte sua, anche se è stato allora che mi ha detto di appartenere alla corporazione dei torturatori.
— Prepariamo sempre il cliente, se possiamo.
— Mi consigliò di tentare di non gridare… non fa troppo male, mi disse, se si urla nel momento in cui la frusta scende. Mi promise che non ci sarebbero stati più colpi di quanti aveva detto il giudice, per cui li potevo contare, se volevo, in modo da sapere quando stava per finire. Aggiunse anche che non avrebbe colpito più forte di quanto fosse necessario per tagliare la pelle e che non avrebbe rotto nessun osso.
Annuii.
— Gli chiesi allora se mi poteva fare un favore, e mi rispose che lo avrebbe fatto, se avesse potuto. Desideravo che dopo tornasse ancora da me per parlarmi, ed egli promise che avrebbe cercato di accontentarmi, quando mi fossi ripreso un po’. Poi entrò un caloyero per leggere una preghiera. Mi legarono ad un palo, con le mani sopra la testa ed il testo della condanna inchiodato sopra le mani. Probabilmente, lo hai fatto tu stesso molte volte.
— Abbastanza spesso. — convenni.
— Dubito che il modo che usarono con me fosse diverso. Ho ancora le cicatrici, ma si sono attenuate, come hai detto tu, ed ho visto molti uomini con cicatrici peggiori. I carcerieri mi trascinarono di nuovo nella mia cella, com’è l’usanza, ma credo che avrei potuto camminare. Non faceva altrettanto male quanto perdere un braccio o una gamba, e qui ho aiutato i chirurghi a tagliarne parecchi.
— Eri magro in quei giorni? — chiesi.
— Molto magro. Credo che avrei potuto contare le costole.
— Allora questo è andato molto a tuo vantaggio. La frusta taglia profondamente il grasso sulla schiena di un uomo e lo fa sanguinare come un maiale. La gente dice che i commercianti non vengono puniti abbastanza quando imbrogliano sul peso e così via, ma quelli che parlano non sanno quanto essi soffrano al momento della punizione.
— Il giorno successivo — annuì Winnoc, — mi sentivo quasi forte come al solito, e l’Artigiano Palaemon venne, come mi aveva promesso. Gli spiegai la mia situazione… come vivevo e tutto il resto… e gli chiesi qualcosa di lui. Forse ti sembrerà strano che parlassi in quel modo con un uomo che mi aveva frustato?
— No, ho sentito parecchie volte cose simili.
— Egli mi raccontò di aver fatto qualcosa contro la sua corporazione. Non mi rivelò di cosa si trattava, ma mi disse che a causa di questo era stato esiliato per qualche tempo. Aggiunse che aveva cercato di sentirsi meglio pensando a come viveva l’altra gente, ma che era solo riuscito a sentirsi triste per gli altri e ben presto anche per se stesso. Mi consigliò, se volevo essere felice e non passare più attraverso esperienze del genere, di trovare una qualche confraternita di cui far parte.
— Davvero? — chiesi.
— Ed io decisi di seguire il suo consiglio. Quando fui rilasciato, parlai con i maestri di numerose corporazioni, dapprima scegliendole con attenzione, quindi parlando con chiunque pensavo mi potesse accogliere, come i macellai ed i fabbricanti di candele. Ma nessuno voleva un apprendista vecchio quanto me, o che non aveva i soldi per pagarsi l’ammissione, o che aveva un cattivo carattere… mi guardavano la schiena, vedi, e decidevano che ero un fomentatore di guai.
«Pensai allora d’imbarcarmi su una nave o di arruolarmi nell’esercito, e, da allora, ho spesso desiderato di aver fatto l’una o l’altra cosa, anche se, in questo caso, ora starei forse desiderando il contrario o potrei non essere vivo per desiderare qualcosa. Poi mi venne l’idea di entrare in qualche ordine religioso, e ne contattai parecchi: due si offrirono di accettarmi, anche quando dissi che non avevo denaro e feci vedere loro la schiena. Ma, più avvertivo come si doveva vivere all’interno di essi e meno mi sentivo convinto che avrei potuto farcela. Mi ubriacavo spesso e mi piacevano le ragazze, e non avevo realmente intenzione di cambiar vita.
«Poi un giorno, mentre me ne stavo fermo ad un angolo di strada, vidi un uomo che mi parve appartenere ad un Ordine che non avevo ancora contattato. In quel momento, stavo progettando di imbarcarmi su una certa nave, che però non sarebbe salpata per almeno una settimana; un marinaio mi aveva detto che la maggior parte del lavoro più duro si svolgeva quando si stavano preparando a salpare, e che quindi l’avrei evitato se avessi aspettato fino a poco prima che issassero l’ancora. Quella era una menzogna, ma allora non lo sapevo.
«Comunque, seguii quell’uomo e, quando si fermò,… era stato mandato a comprare delle verdure, vedi… lo avvicinai e gli chiesi dell’Ordine cui apparteneva. Egli mi rispose che era uno schiavo delle Pellegrine, il che era la stessa cosa che appartenere ad un Ordine, anzi molto meglio. Si potevano bere un bicchiere o due e nessuno aveva da obiettare, fintanto che si era sobri al momento di svolgere il proprio lavoro. Si poteva anche trovare qualche ragazza e c’erano buone probabilità di riuscirci perché le ragazze ritenevano gli schiavi delle Pellegrine sant’uomini, più o meno, e poi si viaggiava molto.
«Gli chiesi se pensava che sarei stato accettato, e aggiunsi che non potevo credere che la vita da lui condotta fosse davvero così bella come me la dipingeva. Rispose che era certo che mi avrebbero preso e che, anche se non poteva provare immediatamente quel che aveva detto in merito alle ragazze, mi avrebbe dimostrato quel che aveva detto in merito al bere, dividendo una bottiglia con me.
«Andammo ad una taverna vicino al mercato e ci sedemmo, ed egli mantenne la parola. Mi spiegò che quel genere di vita era molto simile a quella di un marinaio perché la parte migliore dell’essere un marinaio era il fatto di vedere nuovi luoghi, ed essi lo facevano. Era anche come essere un soldato, perché gli schiavi portavano le armi quando si viaggiava in zone selvagge. Inoltre si veniva pagati al momento di firmare. Un Ordine, in genere, riceveva un’offerta da ogni uomo che accettava, e quell’offerta veniva restituita se più tardi il membro decideva di andarsene, in proporzione al tempo in cui era rimasto nell’Ordine. Per noi schiavi, come egli mi spiegò, le cose stavano alla rovescia. Uno schiavo veniva pagato nel momento in cui firmava. Se più tardi se ne voleva andare, doveva comprarsi la libertà, ma poteva tenere tutto il denaro finché rimaneva.
«Avevo una madre, e, anche se non andavo mai a trovarla, sapevo che non possedeva neppure un aes. Mentre pensavo agli ordini religiosi, ero diventato più religioso io stesso, e non riuscivo ad immaginare come avrei potuto servire l’Increato avendo lei in mente. Firmai la carta… e naturalmente Goslin, lo schiavo che mi aveva portato là ricevette una ricompensa… e portai il denaro a mia madre.
— Sono certo che questo la rese felice, ed anche te.
— Pensò che ci fosse sotto qualcosa, ma glielo lasciai ugualmente. Naturalmente, dovevo tornare subito all’Ordine, ed essi avevano mandato qualcuno con me. Adesso sono qui da trent’anni.
— Spero che ne sarai contento.
— Non lo so. È stata una vita dura, ma del resto tutti i modi di vivere sono duri, da quel che ho visto.
— Lo penso anch’io — risposi. A dire la verità, mi stava venendo sonno, ed avrei voluto che se ne andasse. — Grazie per avermi raccontato la tua storia. L’ho trovata molto interessante.
— Ti voglio chiedere una cosa, e voglio che tu la chieda per me all’Artigiano Palaemon, se lo rivedrai.
Annuii ed attesi.
— Hai detto che pensavi che le Pellegrine fossero persone gentili, e suppongo che tu abbia ragione. Ho ricevuto un mucchio di gentilezze da alcune di loro, e non sono mai stato battuto qui… nulla di peggio di qualche schiaffo. Ma tu devi sapere com’è che agiscono: gli schiavi che non si comportano bene vengono venduti, tutto qui. Forse non riesci a seguirmi.
— Credo di no.
— Molti uomini si vendono all’Ordine, pensando, come me, che sarà una vita facile ed avventurosa. Così è, per la maggior parte, ed è una bella sensazione poter aiutare a curare i malati ed i feriti. Ma coloro che non soddisfano le esigenze delle Pellegrine vengono venduti, e le Pellegrine ricevono dalla loro vendita molto di più di quanto abbiano pagato inizialmente loro. Adesso capisci come funziona? In questo modo, non sono costrette a picchiare nessuno. La punizione peggiore che si può ricevere è quella di pulire le latrine. Soltanto, se non le soddisfi, puoi finire per ritrovarti in una miniera. Quello che volevo chiedere all’Artigiano Palaemon, durante tutti questi anni… — Winnoc fece una pausa, mordicchiandosi il labbro inferiore. — Era un torturatore, vero? Lui ha detto che lo era ed anche tu.
— Sì, lo era e lo è ancora.
— Allora, quello che volevo sapere è se mi ha detto quel che ha detto per tormentarmi. O mi stava dando invece il miglior consiglio possibile? — Distolse lo sguardo in modo che non potessi vedere la sua espressione. — Vorresti chiedergli questo per me? Magari un giorno lo vedrai ancora.
— Ti ha consigliato meglio che poteva, ne sono certo — replicai. — Se tu fossi rimasto quello che eri, avresti potuto essere giustiziato da lui o da un altro torturatore molto tempo fa. Hai mai visto giustiziare un uomo? Ma i torturatori non sanno tutto.
— Neanche gli schiavi. — Winnoc si alzò in piedi. — Grazie, giovanotto.
Gli toccai il braccio per trattenerlo ancora un momento.
— Posso chiederti io una cosa, adesso? Io stesso sono stato un torturatore. Se tu hai temuto per così tanti anni che il Maestro Palaemon ti abbia dato quel consiglio solo per farti soffrire, come puoi sapere che io non ho fatto esattamente la stessa cosa, ora?
— Perché mi avresti detto il contrario — mi spiegò. — Buona notte, giovanotto.
Pensai a lungo alle parole di Winnoc ed a ciò che il Maestro Palaemon gli aveva detto molto tempo fa. Allora anch’egli era tornato alla Cittadella per diventare un maestro della corporazione. Rammentai come Abdiesus (che avevo tradito) avesse desiderato fare di me un Maestro. Certo il crimine commesso da Palaemon, quale che fosse, era stato successivamente tenuto nascosto dai fratelli della corporazione. Adesso egli era un maestro, anche se, come avevo visto per tutta la mia vita, essendo però troppo abituato alla cosa per meravigliarmene, era il Maestro Gurloes a dirigere gli affari della corporazione, pur essendo molto più giovane. Fuori, i caldi venti dell’estate settentrionale giocavano fra le tende, ma a me sembrava di aver salito gli erti gradini della Torre di Matachin e di sentire ancora i freddi venti fischiare fra le fortezze della Cittadella.
Alla fine, sperando di rivolgere la mente a cose meno penose, mi alzai, mi stiracchiai e mi avvicinai alla branda di Foila. Era sveglia, ed io parlai con lei per qualche tempo; quindi le chiesi se potevo giudicare adesso fra le tre storie, ma mi rispose che avrei dovuto aspettare almeno un altro giorno.
XIII
LA STORIA DI FOILA
LA FIGLIA DELL’ARMIGERO
— Hallvard, Melito e perfino l’Asciano, hanno avuto una possibilità. Non credi che ne spetti una anche a me? Anche un uomo che corteggia una fanciulla nella convinzione di non avere rivali ne ha in realtà uno, e quell’uno è la stessa ragazza, che gli può cedere ma può anche scegliere di conservarsi per se stessa. Egli la deve convincere che sarà più felice con lui che da sola, ed anche se spesso gli uomini riescono a convincere di questo le fanciulle, non è sempre così. Intendo fare il mio ingresso in questa competizione e vincere per me stessa, se lo potrò. Se mi sposerò a causa di una novella, dovrei forse sposare qualcuno che è meno bravo di me nel raccontare?
«Ciascuno degli uomini ha narrato una storia della sua terra, ed io farò lo stesso. La mia terra è la terra dei distanti orizzonti, dell’ampio cielo. È la terra dell’erba, del vento e degli zoccoli al galoppo. D’estate, il vento può essere altrettanto caldo quanto l’aria che esce da un forno, e, quando le pampas prendono fuoco, la linea del fumo si stende per un centinaio di leghe ed i leoni, per sfuggirlo, corrono più veloci del nostro bestiame, simili a demoni. Gli uomini della mia terra sono coraggiosi come tori e le donne sono fiere come falchi.
«Quando mia nonna era giovane, c’era nella mia terra una villa così isolata che non vi giungeva mai nessuno. Apparteneva ad un armigero, un feudatario del Signore di Pascua. La terra era ricca, ed era una bella casa, anche se le travi del tetto erano state trascinate dai buoi per un’intera estate per essere portate sul posto. Le pareti erano di terra, come lo sono quelle di tutte le case della mia patria, ed erano spesse tre passi. La gente che vive in terre verdeggianti deride simili pareti, ma esse sono fresche, hanno un bell’aspetto quando sono imbiancate, e non bruciano. C’era una torre ed un’ampia sala dei banchetti, ed un marchingegno di corde e ruote e secchi, azionato da due merichippi che camminavano in cerchio, dava acqua al giardino sul tetto.
«L’armigero era un uomo coraggioso, e sua moglie una donna adorabile, ma di tutti i loro figli una sola bambina sopravvisse oltre il primo anno di età. Era divenuta una fanciulla alta, con la pelle scura come il cuoio eppure liscia come l’olio, i capelli del colore del vino più chiaro, gli occhi simili a lampi. Eppure, la villa in cui vivevano era talmente isolata che nessuno sapeva di lei o la veniva a cercare. Spesso, la fanciulla cavalcava per tutto il giorno, cacciando insieme al suo falcone pellegrino o lanciandosi all’inseguimento di felini maculati che stavano a loro volta inseguendo un’antilope. Spesso, inoltre, sedeva sola nella sua camera, ascoltando il canto della sua allodola in gabbia e sfogliando i vecchi libri che sua madre aveva portato dalla sua antica casa.
«Alla fine, suo padre decise che era tempo che si sposasse, perché era vicina al ventesimo anno, dopo il quale ben pochi l’avrebbero voluta. Allora inviò i suoi servitori dovunque nel raggio di trecento leghe, perché decantassero la bellezza della fanciulla e promettessero che, alla morte del padre, suo marito ne avrebbe posseduto tutti i beni. Arrivarono molti avvenenti cavalieri, con selle montate in argento e le spade dal pomo adorno di corallo. L’armigero li intrattenne tutti, e sua figlia, i capelli nascosti in un cappello da uomo ed un lungo coltello infilato in un fodero maschile, si mescolò ai pretendenti, fingendo di essere uno di loro, in modo da poter sentire chi si vantava di aver avuto molte donne e vedere chi rubava quando credeva di non essere visto. Ogni notte, la fanciulla si recava da suo padre e gli riferiva i nomi di quegli uomini, e, quando lei se n’era andata, suo padre li convocava e parlava loro di quei pali da cui nessuno tornava, dove gli uomini legati con pelle di bue morivano lentamente al sole; la mattina successiva, essi sellavano le loro cavalcature e partivano.
«Ben presto, rimasero solo tre pretendenti, e la figlia dell’armigero non osò più mescolarsi a loro, perché erano così pochi che si sentiva certa che l’avrebbero scoperta. Andò allora nella sua camera, si sciolse i capelli e li spazzolò, si tolse i vestiti da caccia e si lavò in acqua profumata. Si mise anelli alle dita e bracciali ed ampi cerchi d’oro agli orecchi, e sulla testa si pose quel sottile cerchietto d’oro che le figlie degli armigeri hanno il diritto di portare. In breve, fece tutto quello che poteva per rendersi bella, e, poiché il suo cuore era coraggioso, forse non c’era alcuna fanciulla in alcun luogo più bella di lei.
«Quando si fu vestita e preparata come voleva, mandò la sua serva perché le conducesse suo padre e i tre pretendenti. “Adesso contemplatemi” disse loro. “Vedete un cerchio d’oro intorno alla mia fronte, e cerchi più piccoli appesi ai miei orecchi. Le braccia che stringeranno uno di voi sono anch’esse circondate da anelli più piccoli, e cerchi ancora più piccoli circondano le mie dita. Il mio scrigno di gioielli è aperto dinnanzi a voi, ed in esso non vi sono altri anelli; eppure, in questa stanza c’è ancora un anello, un anello che io non indosso. Può uno di voi trovarlo e portarlo a me?
«I tre pretendenti si alzarono e si guardarono intorno, cercando dietro gli arazzi e sotto il letto. Alla fine, il più giovane dei tre staccò la gabbia dell’allodola dal suo gancio e la portò alla figlia dell’armigero; e là, intorno alla zampa destra dell’allodola, c’era un minuscolo cerchietto d’oro. “Adesso ascoltatemi” disse ancora la ragazza. “Sarà mio marito colui che mi riporterà questo piccolo uccello marrone.
«E, con quelle parole, aprì la gabbia e v’infilò la mano, quindi, tenendo l’allodola su un dito, si avvicinò alla finestra e lanciò in aria l’uccello. Per un momento, i tre pretendenti videro l’anello d’oro brillare al sole. L’allodola si levò fino a non essere più che un minuscolo puntino.
«Allora, i tre pretendenti si precipitarono giù per le scale e fuori dalla porta, gridarono che fossero loro portate le cavalcature, gli amici dal piede sicuro che li avevano già trasportati per così tante leghe attraverso la pampa. Gettarono le selle lavorate in argento sulle loro groppe ed un momento più tardi erano scomparsi alla vista dell’armigero e di sua figlia, ed anche alla vista l’uno dell’altro, perché uno andò a nord verso le giungle, uno ad est verso le montagne ed il più giovane ad ovest verso il mare inquieto.
«Cavalcava ormai da alcuni giorni, quando quello che era andato a nord, arrivò ad un fiume troppo turbolento per essere guadato e camminò lungo la sua riva, l’orecchio sempre teso al canto degli uccelli che vivevano lungo le rive, finché trovò il guado. In mezzo all’acqua, un cavaliere vestito di marrone sedeva su un destriero marrone. Il suo volto era mascherato da un fazzoletto marrone, ed anche il mantello, il cappello e tutto il resto dell’abbigliamento erano di quel colore, ed intorno alla caviglia dello stivale destro, anch’esso marrone, c’era un cerchio d’oro.
«“Chi sei tu?” chiese il pretendente.
«La figura in marrone non rispose nulla.
«“Nella casa dell’armigero c’era un certo giovane che è svanito il giorno prima dell’ultimo” continuò il pretendente, “ed io credo che sia tu. In qualche modo sei venuto a sapere della mia ricerca ed ora cerchi di ostacolarmi. Bene, togliti dalla mia strada oppure morirai dove ti trovi.
«E con quelle parole estrasse la spada e spronò il destriero nell’acqua. Per qualche tempo, essi combatterono come combattono gli uomini del mio paese, con la spada nella destra ed un lungo coltello nella sinistra, perché il pretendente era forte e coraggioso, ed il cavaliere in marrone rapido ed abile con le lame. Ma alla fine quest’ultimo cadde, ed il suo sangue macchiò l’acqua.
«“Ti lascio la tua cavalcatura” disse il pretendente, “se hai forze sufficienti per rimontare in sella. Io sono un uomo pietoso.” E si allontanò.
«Dopo aver camminato anch’egli per alcuni giorni, l’uomo che si era diretto verso le montagne arrivò ad un ponte di quelli che costruisce la gente di montagna, una stretta passerella di corda e bambù, distesa su un abisso come la tela di un ragno. Nessun uomo che non sia uno sciocco cerca di cavalcare su un ponte del genere, cosi egli smontò e vi condusse sopra la cavalcatura tenendola per le redini.
«Allorché iniziò il passaggio, gli parve che il ponte dinnanzi a lui fosse sgombro, ma non aveva percorso neanche un quarto della distanza quando una figura apparve in mezzo ad esso. La sua forma era simile a quella di un uomo, ma era tutta marrone salvo per un lampo bianco, e sembrava raccogliere ali marroni intorno a sé. Quando fu ancora più vicino, il secondo pretendente vide che lo sconosciuto portava alla caviglia un anello d’oro, e che adesso le ali marroni non erano altro che un mantello di quel colore.
«Allora tracciò un Segno nell’aria per proteggersi da quegli spiriti che hanno dimenticato il loro creatore e chiamò: “Chi sei? Dì il tuo nome!
«“Tu mi vedi” replicò la figura. “Dammi il mio vero nome, ed il tuo desiderio sarà il mio desiderio.
«“Tu sei lo spirito dell’allodola lanciata dalla figlia dell’armigero” rispose il secondo pretendente. “Puoi anche cambiare la tua forma, ma l’anello ti tradisce.
«A quelle parole, la figura in marrone estrasse la spada e la presentò, elsa in avanti, al pretendente. “Tu mi hai dato il mio giusto nome” disse. “Cosa desideri che faccia?”
«“Torna con me alla casa dell’armigero, in modo che ti possa mostrare a sua figlia e vincerla come sposa.
«“Sarò felice di tornare con te, se questo è il tuo desiderio” replicò la figura in marrone. “Ma ti avverto che se lei mi vedrà, non vedrà in me ciò che tu vedi.
«“Vieni ugualmente con me” insistette il pretendente, perché non sapeva che altro dire.
«Su quel tipo di ponte che costruisce la gente di montagna, un uomo si può girare senza molta difficoltà, ma una bestia a quattro zampe la trova un’impresa quasi impossibile. Pertanto, furono costretti a proseguire fino al lato opposto, in modo che il secondo pretendente potesse girare nuovamente la cavalcatura verso la casa della figlia dell’armigero. “Che faccenda noiosa” pensò il secondo pretendente mentre percorreva il lungo ponte, “ed al contempo, quanto è difficile e pericolosa. Non la posso sfruttare a mio beneficio?” Alla fine, gridò, rivolto alla figura in marrone: “Io devo percorrere questo ponte e poi tornare indietro, ma lo devi fare anche tu? Perché non voli dall’altra parte e non mi aspetti laggiù?
«A quelle parole, la figura in marrone rise, un meraviglioso trillo. “Non vedi che una delle mie ali è fasciata? Ho volato troppo vicino ad uno dei tuoi rivali, ed egli mi ha colpito con la spada.
«“Allora non puoi volare lontano?” chiese il secondo pretendente.
«“Proprio no. Quando ti sei avvicinato al ponte, ero appollaiato sulla passerella marrone, per riposare, e quando ho sentito i tuoi passi ho avuto a stento la forza di sollevarmi.
«“Capisco” commentò il secondo pretendente, e non aggiunse altro. Ma, fra sé, pensò: “Se tagliassi questo ponte, allora l’allodola sarebbe costretta ad assumere nuovamente forma d’uccello, ma non potrebbe volare lontano, ed io riuscirei ad ucciderla di sicuro. Allora la potrei riportare indietro e farla vedere alla figlia dell’armigero.
«Quando arrivarono dalla parte opposta del ponte, il pretendente diede un colpo sul collo del destriero e lo fece girare, pensando che anch’esso sarebbe morto, ma che il migliore destriero era un piccolo prezzo da pagare, se confrontato con la proprietà delle grandi mandrie dell’armigero. “Seguici” disse alla figura in marrone. E guidò la sua cavalcatura di nuovo sul ponte, in modo da passare per primo su quell’abisso ventoso, seguito dal destriero, e, per ultima, dalla figura in marrone. “Quando il ponte cadrà” pensò, “la bestia indietreggerà, e lo spirito dell’allodola non sarà in grado di oltrepassarla, quindi dovrà assumere nuovamente la sua forma di uccello o perire”. I suoi piani, vedete, erano condizionati dalle credenze della mia terra, dove coloro che credono nei mutatori di forme vi diranno che, come i pensieri, essi non possono più cambiare una volta che sono stati fatti prigionieri.
«I tre camminarono di nuovo giù per la lunga curva del ponte e su per il lato da cui era arrivato il secondo pretendente, e, non appena ebbe posto piede sulla roccia, questi estrasse la spada, tagliente quanto più gli era riuscito di affilarla. Il ponte aveva due corrimani di corda e due cavi di canapa che sostenevano il camminamento. Egli avrebbe dovuto tagliare quelli per primi, ma perse tempo con i corrimani, e la figura marrone balzò, da dietro, in sella al destriero, gli conficcò gli speroni nei fianchi e lo spinse addosso al pretendente, che così morì sotto gli zoccoli della sua stessa cavalcatura.
«Quando anch’egli ebbe cavalcato per alcuni giorni, il pretendente più giovane, che si era diretto verso il mare, ne raggiunse le sponde. Là, sulla spiaggia, vicino al mare irrequieto, incontrò qualcuno vestito di marrone, con un cappello della stessa tinta ed un fazzoletto di ugual colore intorno al volto ed un anello d’oro intorno alla caviglia dello stivale destro.
«“Tu mi vedi” lo apostrofò la figura. “Dammi il mio vero nome ed i tuoi desideri saranno i miei desideri.
«“Tu sei un angelo” rispose il più giovane pretendente, “inviato per condurmi dall’allodola che sto cercando.
«A quelle parole, la figura in marrone estrasse la spada e la presentò al giovane, elsa in avanti, dicendo: “Mi hai dato il giusto nome. Cosa vuoi che io faccia?
«“Non tenterò mai di distorcere la volontà del Signore degli Angeli” rispose il più giovane pretendente. “Dal momento che sei stato inviato per guidarmi fino all’allodola, il mio solo desiderio è che tu lo faccia.
«“E così farò” confermò l’angelo. “Ma, vuoi andare per la via più breve? O per la migliore?
«A quelle parole, il giovane pretendente pensò fra sé: “Qui c’è sotto di certo qualche trucco. Perfino i poteri empirei sono pronti a punire l’impazienza degli uomini, cosa che essi, essendo immortali, si possono ben permettere di fare. Senza dubbio, la via più breve passa attraverso orrori di caverne sotterranee o qualcosa di simile. Pertanto, rispose all’angelo: “Per la migliore. Non disonorerebbe forse colei che devo sposare se viaggiassi in altro modo?
«“Alcuni dicono una cosa, altri ne dicono un’altra” replicò l’angelo.” Adesso lasciami montare in sella dietro di te. Non molto lontano da qui c’è un buon porto dove ho già venduto due destrieri altrettanto buoni quanti il tuo, se non migliori. Venderemo anche il tuo, e l’anello d’oro intorno al mio stivale.
«Una volta al porto, fecero come l’angelo aveva detto, e con il denaro ricavato acquistarono una nave, non grande ma rapida e solida, ed assunsero tre esperti marinai perché la manovrassero.
«Il terzo giorno dopo la partenza dal porto, il giovane pretendente fece durante la notte un sogno quale sono soliti fare i giovani uomini. Nel destarsi, toccò il cuscino accanto alla sua testa e lo trovò caldo, e, quando si distese per dormire ancora, fiutò un delicato profumo… che avrebbe potuto essere l’odore delle erbe in fiore che le donne della mia terra disseccano in primavera per intrecciarle fra i capelli.
«Raggiunsero un’isola dove nessun uomo era mai giunto, ed il più giovane dei pretendenti scese a terra per cercare l’allodola. Non la trovò, ma, al calar della sera, si tolse gli abiti per rinfrescarsi nel mare. Là, quando le stelle si furono fatte brillanti, l’altro lo raggiunse, ed insieme nuotarono, ed insieme giacquero sulla spiaggia raccontandosi storie.
«Un giorno, mentre sbirciavano oltre la prua della loro nave per trovarne un’altra (perché talvolta commerciavano e talvolta anche combattevano), venne una grande folata di vento, ed il cappello dell’angelo venne soffiato via, e ben presto anche il fazzoletto marrone che gli copriva il volto lo raggiunse.
«Alla fine, si stancarono del mare inquieto e pensarono alla mia terra, dove il leone assale il nostro bestiame d’autunno, quando l’erba brucia, e gli uomini sono coraggiosi come tori e le donne fiere come falchi. Avevano chiamato la loro nave l’Allodola, ed ora l’Allodola volò attraverso le acque azzurre, impalando ogni mattina il sole rosso sulla prua. La rivendettero nel porto in cui l’avevano comprata e ricevettero tre volte il prezzo pagato, perché essa era divenuta un vascello famoso, rinomato nei canti e nella storia; ed invero, tutti coloro che venivano al porto si meravigliavano di quanto fosse piccola, uno snello vascello marrone che misurava poco più di venti passi da prua a poppa. Vendettero anche il loro bottino ed i beni acquistati commerciando. La gente della mia terra conserva i suoi migliori destrieri per la riproduzione, ma è in quel porto che vengono condotti i migliori animali fra quelli in vendita, e là il giovane pretendente e l’angelo comprarono buone cavalcature e riempirono le sacche della sella con gemme ed oro e partirono per la casa dell’armigero, che era tanto isolata che non vi giungeva mai nessuno.
«Ebbero più di uno scontro durante la via, e molte volte insanguinarono le spade che tanto spesso erano state lavate nel mare ed asciugate con tela di vela o con sabbia. Eppure, alla fine arrivarono. Là, l’angelo fu accolto con grida di gioia e lacrime dall’armigero e da sua moglie, con un chiacchiericcio confuso dai domestici, e là si tolse i suoi abiti marroni e tornò ad essere ancora una volta la figlia dell’armigero.
«Venne organizzato un grande matrimonio. Nella mia terra, simili cose richiedono molti giorni, perché ci sono fosse per arrostire che vanno scavate di fresco, e bestiame da macellare e messaggeri che devono cavalcare per giorni interi per raggiungere ospiti che ci metteranno a loro volta giorni ad arrivare. Il terzo giorno, mentre attendevano, la figlia dell’armigero mandò la sua serva dal più giovane dei pretendenti perché gli dicesse: “La mia padrona non caccerà oggi, e t’invita piuttosto nella sua camera per parlare del tempo trascorso sulla terraferma e sul mare.
«Il pretendente più giovane si vestì con gli abiti più belli che aveva comprato quando erano tornati a terra e ben presto si presentò alla porta della figlia dell’armigero.
«La trovò seduta vicino alla finestra, intenta a sfogliare le pagine di uno dei vecchi libri di sua madre e ad ascoltare il canto dell’allodola nella sua gabbia. Il giovane si accostò a quella gabbia e vide che l’allodola aveva un cerchietto d’oro intorno ad una zampa. Allora fissò con meraviglia la figlia dell’armigero.
«“L’angelo che hai incontrato sulla spiaggia non ti ha promesso che ti avrebbe guidato fino a quest’allodola?” gli chiese la ragazza. “E per la strada migliore? Ogni mattina, le apro la gabbia e la lancio nel vento perché eserciti le sue ali: ben presto, essa fa ritorno dove trova cibo, acqua limpida e sicurezza.
«Alcuni dicono che il matrimonio del più giovane dei pretendenti con la figlia dell’armigero fu il più bello mai visto nella mia terra.
XIV
MANNEA
Quella notte si parlò molto della storia di Foila, e questa volta fui io a rinviare il momento di giudicare i racconti. In effetti, era sorto in me un certo orrore all’idea di fare da giudice, residuo, forse, della mia educazione fra i torturatori, i quali insegnano fin dall’infanzia ai loro apprendisti ad eseguire le istruzioni che i giudici nominati (al contrario di loro) dagli Ufficiali della Repubblica impartiscono.
In più, avevo in mente una questione molto più pressante. Avevo sperato che il pasto serale ci sarebbe stato servito da Ava, ma, quando vidi che non era così, mi vestii e scivolai fuori nel buio crescente.
Fu una sorpresa, e molto piacevole, scoprire che le mie gambe erano di nuovo forti. Da parecchi giorni ero libero dalla febbre, eppure mi ero abituato a pensare di essere malato (così come in precedenza ero abituato a pensare di essere sano), ed ero rimasto steso sul mio giaciglio senza protestare. Indubbiamente, molti uomini che vanno in giro a fare il loro lavoro stanno morendo e non lo sanno, e molti di coloro che giacciono a letto tutto il giorno sono più sani di quelli che portano loro il cibo e li lavano.
Mentre seguivo i sentieri contorti fra le tende, cercai di ricordare quando mi fossi sentito altrettanto bene in precedenza. Non sulle montagne o vicino al lago… le difficoltà che avevo sperimentato lassù avevano gradualmente ridotto la mia vitalità fino a farmi cadere preda della febbre. Neppure quando ero fuggito da Thrax, perché allora ero già estenuato dai miei doveri come littore. E neanche quando ero giunto a Thrax: Dorcas ed io avevamo subito durante il cammino privazioni altrettanto dure quanto quelle che io avevo poi sopportato da solo sulle montagne. Neppure quando mi ero trovato alla Casa Assoluta (periodo che mi sembrava adesso remoto quanto il regno di Ymar), perché allora soffrivo ancora delle conseguenze dell’ingestione dell’alzabo e delle morte memorie di Thecla.
Finalmente, mi venne in mente: mi sentivo come mi ero sentito in quella memorabile mattina quando Agia ed io ci eravamo diretti al Giardino Botanico, la prima mattina dopo che avevo lasciato la Cittadella. Quel giorno, pur non sapendolo, ero entrato in possesso dell’Artiglio, e per la prima volta mi chiesi se esso non fosse stato maledetto, oltre che benedetto. O forse, era solo che i mesi passati erano stati necessari perché mi riprendessi in pieno dalla ferita della foglia di avern che mi aveva colpito quella stessa sera. Trassi fuori l’Artiglio e fissai il suo bagliore argenteo, e, quando sollevai gli occhi, vidi dinnanzi a me il lucente colore scarlatto della cappella delle Pellegrine.
Potevo sentire i canti e capii che ci sarebbe voluto qualche tempo prima che la cappella si svuotasse, ma procedetti ugualmente, ed alla fine scivolai oltre la soglia e mi sedetti in fondo. Non dirò nulla della liturgia delle Pellegrine; non è sempre possibile descrivere bene simili cose, e, anche quando ci si riesce, è men che conveniente farlo. La corporazione chiamata dei Cercatori della Verità e della Penitenza, cui avevo un tempo appartenuto, ha anch’essa le sue cerimonie, una delle quali ho descritto abbastanza dettagliatamente in un altro punto. Certo, quelle cerimonie sono particolari della corporazione, e forse quelle delle Pellegrine erano anch’esse particolari dell’Ordine, anche se una volta potevano essere state universali.
Parlando fin dove è possibile come osservatore privo di pregiudizi, direi che esse erano più belle delle nostre ma meno teatrali, e pertanto, alla lunga, forse meno commoventi. I costumi dei partecipanti erano antichi, ne sono certo, ed impressionanti. I canti possedevano uno strano potere di attrazione che non ho notato in nessun’altra musica. Le nostre cerimonie erano soprattutto dirette ad imprimere il ruolo della corporazione nelle menti dei nostri membri più giovani, e poteva darsi che quelle delle Pellegrine avessero una simile funzione. Se non era così, esse erano allora studiate per attirare la particolare attenzione dell’Onniveggente, e non potrei dire se ci riuscivano. Comunque, l’Ordine non riceveva nessuna speciale protezione.
Quando la cerimonia terminò e le sacerdotesse vestite di scarlatto uscirono, chinai il capo e finsi di essere profondamente immerso nella preghiera. Ben presto, scoprii che la mia finzione era divenuta realtà: rimasi consapevole del mio corpo inginocchiato, ma solo come un fardello periferico. La mia mente era sperduta fra le distese stellate, lontano da Urth ed in verità lontano anche dall’arcipelago di mondi circostanti, e mi parve che ciò cui stavo parlando fosse ancora più lontano… di essere giunto alle pareti dell’universo e di star ora gridando attraverso quelle pareti a qualcuno che era fermo dall’altra parte.
Ho detto “gridare”, ma forse è il termine sbagliato. Piuttosto, sussurrai, come forse Barnoch, murato nella sua casa, poteva aver sussurrato attraverso qualche fessura ad un passante compassionevole. Parlai di quello che ero stato quando portavo la camicia lacera ed osservavo le bestie e gli uccelli attraverso la stretta finestra del mausoleo e di quello che ero diventato. Parlai anche, non di Vodalus e della sua lotta contro l’Autarca, ma dei motivi che io gli avevo un tempo scioccamente attribuito. Non m’ingannai con il pensiero di avere in me la capacità di guidare milioni di persone, chiesi soltanto di poter guidare me stesso, e, mentre lo facevo, mi parve di vedere, con una chiarezza di visuale crescente, attraverso una fessura dell’universo, un nuovo universo bagnato di una luce dorata, dove il mio ascoltatore stava inginocchiato per ascoltarmi. Quella che mi era parsa una crepa nel mondo si era allargata fino a permettermi di scorgere un volto e due mani piegate, e l’apertura che, simile ad un tunnel, correva in profondità dentro una testa umana che per un po’ mi parve più grande della testa di Typhon intagliata nella montagna. Stavo sussurrando nel mio stesso orecchio, e, quando me ne accorsi, vi volai dentro come un’ape e mi alzai in piedi.
Se n’erano andati tutti, ed il silenzio era profondo al punto da sembrare sospeso nell’aria con l’incenso. L’altare si levava dinnanzi a me, umile in confronto a quello che Agia ed io avevamo distrutto, eppure splendido con le sue luci e la purezza dei lini e dei pannelli di marmo e lapislazzuli. Mi feci avanti e m’inginocchiai dinnanzi ad esso. Non avevo bisogno di uno studioso che me lo dicesse per sapere che il Teologumeno non era adesso più vicino, eppure mi sembrava che fosse così e mi riuscì… per l’ultima volta… di tirar fuori l’Artiglio, qualcosa che temevo non sarei riuscito a fare. Formando le sillabe nella mente soltanto, dissi:
— Ti ho trasportato sopra molte montagne, al di là di fiumi, ed attraverso le pampas. Tu hai dato a Thecla la vita dentro di me. Tu mi hai dato Dorcas, ed hai restituito Jonas al suo mondo. Certo non ho lamentele da farti, anche se tu ne devi avere molte nei miei confronti. Ce n’è però una che non merito, e non si potrà dire che non ho fatto tutto quello che potevo per rimediare al male che ho commesso.
Sapevo che l’Artiglio sarebbe stato gettato via se lo avessi lasciato apertamente sull’altare, e, salito sulla piattaforma, frugai fra i suoi arredi in cerca di un nascondiglio che fosse sicuro e permanente, ed alla fine notai che la lastra di pietra che formava l’altare stesso era sostenuta inferiormente da quattro morse che non erano certo state allentate da quando era stato costruito e che sembrava sarebbero rimaste al loro posto fino a che l’altare fosse esistito. Ho le mani forti, e riuscii ad allentarle, anche se credo che la maggior parte degli uomini non ci sarebbe riuscita. Sotto la pietra, parte del legno era stata tagliata via, in modo che la lastra poggiasse solo sulle estremità e non dondolasse… e questo era più di quanto osassi sperare. Servendomi del rasoio di Jonas tagliai un piccolo quadrato di tessuto dal bordo del mio ormai consunto mantello della corporazione. Avvolsi in esso l’Artiglio, poi lo deposi sotto la pietra e strinsi di nuovo le morse, insanguinandomi le dita nello sforzo di assicurarmi che non potessero allentarsi per qualche incidente.
Mentre mi allontanavo dall’altare, avvertii un profondo dolore, ma non ero arrivato a metà strada dalla porta della cappella che mi sentii impadronire da una gioia selvaggia. Il fardello della vita e della morte era stato sollevato dalle mie spalle, ed ora ero di nuovo soltanto un uomo, ed ero delirante dalla soddisfazione. Mi sentivo come mi ero sentito da bambino quando erano finite le lunghe lezioni con il Maestro Malrubius ed ero libero di giocare nel Vecchio Cortile o di arrampicarmi attraverso l’apertura nel muro per correre fra gli alberi ed i mausolei della nostra necropoli. Ero caduto in disgrazia, ero un fuoricasta senza casa, senza amici e senza danaro, ed avevo appena rinunciato all’oggetto di maggior valore che ci fosse al mondo e che era forse, alla fine dei conti, l’unico oggetto che avesse valore al mondo. Eppure, ero certo che tutto sarebbe andato bene. Ero sceso fino al fondo dell’esistenza e lo avevo tastato con le mie mani, ed ero consapevole che là c’era il fondo, e che da questo punto in avanti potevo soltanto risalire. Mi avvolsi il mantello intorno alla persona come avevo fatto quando ero un attore, perché adesso sapevo di essere un attore e non un torturatore, anche se ero stato un torturatore. Balzai in aria e saltellai come fanno le capre sui prati montani, perché sapevo di essere un bambino e che nessun uomo può essere tale se non lo è.
All’esterno, l’aria fredda sembrava fatta espressamente per me, una nuova creazione e non l’antica atmosfera di Urth. M’immersi in essa, dapprima aprendo il mantello e poi sollevando le braccia verso le stelle, e riempii i polmoni come un neonato che avesse appena evitato di annegare nei fluidi della nascita.
Tutto questo richiese meno tempo di quello che ho impiegato per descriverlo, e stavo per tornare alla tenda del lazzaretto da cui ero venuto, quando mi resi conto della presenza di una figura immobile che mi osservava dall’ombra di un’altra tenda, ad una certa distanza. Fin da quando il bambino ed io eravamo sfuggiti alla cieca ricerca della creatura che aveva distrutto il villaggio dei maghi, avevo avuto paura che qualcun altro dei servitori di Hethor mi potesse cercare ancora. Stavo per fuggire, quando la figura si spostò alla luce della luna e vidi che si trattava soltanto di una Pellegrina.
— Aspetta! — chiamò, e, facendosi più vicina, aggiunse: — Temo di averti spaventato.
Il suo volto era un liscio ovale che sembrava quasi asessuato. Era giovane, pensai, anche se non altrettanto giovane quanto Ava, e di un buon paio di teste più alta di lei… una vera esultante come lo era stata Thecla.
— Quando si è vissuti a lungo nel pericolo… — iniziai.
— Capisco. Non so nulla della guerra, ma so molto degli uomini e delle donne che l’hanno vista.
— Ed ora, in che cosa ti posso servire, Castellana?
— Prima di tutto, devo sapere se stai bene. Ti senti bene?
— Sì — risposi. — Me ne andrò di qui domani.
— Allora eri nella cappella a ringraziare per la tua guarigione.
— Avevo molto da dire, Castellana — replicai, esitando. — Questo ne costituiva una parte, sì.
— Posso camminare con te?
— Naturalmente, Castellana.
Ho sentito che una donna alta sembra più alta di qualsiasi uomo, e forse è vero. Questa donna aveva una statura senz’altro inferiore a quella di Baldanders, eppure camminare accanto a lei mi faceva sentire quasi un nano. Mi rammentai anche come Thecla si fosse chinata su di me quando ci abbracciavamo e di come le avessi baciato il seno.
Quando avemmo percorso una quarantina di passi, la Pellegrina disse:
— Cammini bene. Le tue gambe sono lunghe e credo che abbiano coperto molte leghe. Non sei un soldato di cavalleria?
— Ho cavalcato un poco, ma non con la cavalleria. Ho attraversato le montagne a piedi, se è questo che intendi, Castellana.
— Questo è un bene, perché non ho una cavalcatura da darti. Ma non credo di averti detto il mio nome. Mi chiamo Mannea, la signora delle postulanti del nostro Ordine. La nostra Domnicella è assente, e così per ora sono io a capo della gente di qui.
— Io sono Severian di Nessus, un vagabondo. Vorrei poterti donare un migliaio di crisi che ti aiutino a portare avanti il vostro buon lavoro, ma posso solo ringraziarti per le gentilezze che ho ricevuto qui.
— Quando ho parlato di una cavalcatura, Severian di Nessus, non stavo offrendo di vendertene una e neppure di dartene una nella speranza di acquistarmi così la tua gratitudine. Se non abbiamo la tua gratitudine adesso, non l’avremo mai.
— L’avete, come ho detto. E come ho anche detto, non indugerò qui, adagiandomi nella presunzione di tale vostra gentilezza.
— Non credo che lo faresti. — Mannea abbassò lo sguardo su di me. — Questa mattina, una postulante mi ha riferito come uno dei malati fosse andato con lei nella cappella due notti fa, e lo ha descritto. Questa sera, quando sei rimasto dopo che tutti se n’erano andati, ho capito che si trattava di te. Ho un compito da svolgere, vedi, e nessuno a cui affidarlo. In momenti più tranquilli, manderei un gruppo dei nostri schiavi, ma sono addestrati a prendersi cura dei malati ed abbiamo bisogno di ognuno di loro e forse di altri in più. Eppure è detto “Egli manda al mendicante un bastone ed al cacciatore una lancia.”
— Non desidero insultarti, Castellana, ma credo che se tu ti fidi di me perché sono andato nella cappella, non poggi la tua fede su una buona ragione. Per quel che ne sai, avrei anche potuto rubare gemme dall’altare.
— Vuoi dire che spesso ladri e mentitori vengono a pregare. Per benedizione del Conciliatore essi lo fanno. Credimi, Severian, vagabondo di Nessus, nessun altro lo fa… nell’Ordine o fuori di esso. Ma tu non hai danneggiato nulla. Noi non abbiamo neppure la metà del potere che la gente ignorante ci attribuisce… nondimeno, coloro che ci ritengono prive di poteri sono ancora più ignoranti. Vuoi svolgere un compito per me? Ti darò un salvacondotto cosicché non sarai fermato come disertore.
— Se il suo svolgimento è nelle mie capacità, Castellana.
Mi pose una mano sulla spalla. Era la prima volta che mi toccava, ed avvertii un leggero shock, come se fossi stato inaspettatamente sfiorato dall’ala di un uccello.
— A circa venti leghe da qui — mi spiegò, — c’è l’eremitaggio di un certo saggio e santo anacoreta. Fino ad ora, egli è stato al sicuro, ma durante tutta quest’estate l’Autarca è stato ricacciato indietro e presto la furia della guerra si riverserà su quel luogo. Qualcuno deve andare da lui e persuaderlo a venire da noi… o, se non si lascerà persuadere, costringerlo a venire. Ritengo che il Conciliatore ti abbia indicato come messaggero. Lo puoi fare?
— Non sono un diplomatico — risposi, — ma quanto all’altro aspetto della cosa, posso onestamente dire di aver ricevuto un lungo addestramento.
XV
L’ULTIMA CASA
Mannea mi aveva dato una rozza mappa che indicava l’ubicazione del ritiro dell’anacoreta, sottolineando il fatto che, se non avessi seguito alla lettera il percorso in essa segnato, quasi certamente non sarei riuscito a localizzarla.
Non potrei dire in quale direzione si trovasse quella casa rispetto al lazzaretto. Le distanze illustrate sulla mappa erano indicate in proporzione alla loro difficoltà e le svolte erano tracciate in modo da adeguarsi alle dimensioni del foglio di carta. Cominciai camminando verso est, ma scoprii ben presto che la strada che stavo seguendo aveva piegato a nord e poi a ovest, attraverso una gola stretta e percorsa da un ribollente ruscello, ed infine a sud.
Nel primo tratto del mio viaggio, vidi molti soldati… una volta una doppia colonna che occupava entrambi i lati della strada, mentre alcuni muli passavano nel centro portando indietro i feriti. Due volte fui fermato, ma in entrambi i casi il mio lasciapassare mi permise di proseguire. Esso era scritto su una pergamena color crema, la più bella che avessi mai visto ed era munito del sigillo di nartece dell’Ordine, stampato in oro. Diceva:
A Coloro Cui Interessa —
La lettera che leggi identificherà un nostro servitore Severian di Nessus, un giovane uomo dai capelli e dagli occhi neri, dal volto pallido, snello, di statura molto superiore alla media. In quanto onori la memoria che custodiamo e puoi tu stesso desiderare in futuro il nostro soccorso e trovarti nella necessità di un onorevole ricovero, ti preghiamo di non ostacolare questo Severian che svolge un incarico che noi gli abbiamo affidato, ma piuttosto di fornirgli tutto l’aiuto che gli possa servire e che tu sia in grado di fornire.
Per l’Ordine delle Monache Viaggianti del Conciliatore, chiamate le Pellegrine, io sono
Una volta che fui entrato nello stretto canyon, tuttavia, tutti gli eserciti del mondo parvero svanire. Non vidi altri soldati, e l’acqua corrente soffocò il rumore delle distanti e tonanti colubrine dell’Autarca, ammesso che potessero essere udite in quel luogo.
La casa dell’anacoreta mi era stata descritta, e la descrizione era stata accompagnata da un disegno tracciato sulla mappa. Per di più, mi era stato detto che avrei impiegato due giorni a raggiungerla. Fui pertanto molto sorpreso quando, al tramonto, sollevai lo sguardo e la vidi appollaiata su un colle che incombeva dinnanzi a me.
Non c’era possibilità di errore. Il disegno di Mannea riproduceva perfettamente quell’alto, inclinato tetto a due falde con la sua aria di leggerezza e di forza. Una lampada brillava già ad una piccola finestra.
Sulle montagne, mi ero arrampicato su molte alture; alcune erano state molto più alte di quella ed altre… almeno all’aspetto… molto più ripide. Io mi ero preparato a dormire fra le rocce, ma, non appena vidi la casa dell’anacoreta, decisi che avrei trascorso lì la notte.
Il primo terzo della salita risultò facile. Scalai la superficie di roccia come un gatto, ed ero a più di metà dell’intera salita prima che la luce prendesse a svanire.
Ho sempre avuto una buona vista di notte, e, dicendomi che presto sarebbe sorta la luna, proseguii. In questo mi sbagliavo: la luna vecchia era morta mentre mi trovavo al lazzaretto e quella nuova non sarebbe sorta che fra pochi giorni. Le stelle fornivano comunque una certa luce, anche se erano ripetutamente coperte da fasce di nubi vaganti; ma si trattava di una luce ingannevole che sembrava peggiore del buio, salvo quando veniva a mancare. Mi sorpresi a ricordare come Agia avesse atteso con i suoi assassini che emergessi dalla grotta sotterranea che costituiva il regno degli uomini scimmia, e la pelle della schiena mi si arricciò, come anticipazione delle ardenti quadrelle di balestra.
Ben presto, una peggiore difficoltà mi si parò dinnanzi: avevo perso il senso dell’equilibrio. Non intendo dire che ero completamente alla mercé delle vertigini: sapevo ancora in modo generico che giù era la direzione dei miei piedi e che su era quella delle stelle, ma non riuscivo ad essere più preciso di così, e, di conseguenza, potevo valutare solo malamente quanto mi potevo sporgere alla ricerca di ogni nuovo appiglio.
Proprio nel momento in cui quella sensazione era peggiorata, le nubi passeggere serrarono le file e fui lasciato nella più totale oscurità. Qualche volta mi parve che la faccia dell’altura avesse assunto una pendenza minore, in modo che potevo quasi levarmi eretto e camminare su di essa. Qualche altra volta ebbi la sensazione di barcollare all’esterno… di dovermi aggrappare alla roccia, altrimenti sarei caduto. Spesso, ebbi la certezza di non essermi arrampicato affatto ma di essermi spostato per lunghe distanze a destra o a sinistra, ed una volta mi ritrovai quasi a testa in giù.
Alla fine, raggiunsi un costone e decisi di rimanere là fino a che fosse ritornata la luce. Mi avvolsi nel mantello, mi distesi e spostai il corpo in modo da avere la schiena saldamente appoggiata alla roccia alle mie spalle, ma non incontrai alcuna resistenza. Mi spostai ancora una volta, ma nulla. Cominciai a temere che il mio senso della direzione mi avesse abbandonato come aveva fatto quello dell’equilibrio e di essermi in qualche modo rigirato in modo da muovermi verso il fondovalle. Dopo aver tastato la roccia su entrambi i lati, mi distesi sulla schiena ed allargai le braccia.
In quel momento ci fu un lampo di luce sulfurea che tinse il ventre di ogni nube. Non molto lontano, qualche grande bombarda aveva lanciato il suo carico di morte, e, sotto quella violenta illuminazione mi accorsi che avevo raggiunto la cima dell’altura e che la casa che avevo scorto lassù non era visibile da nessuna parte. Mi distesi sulla vuota spianata e sentii le prime gocce di pioggia che mi cadevano sul volto.
La mattina dopo, infreddolito e depresso, mangiai un po’ del cibo che mi ero portato dal lazzaretto e mi avviai giù per il lato opposto dell’alta collina di cui l’altura costituiva una parte. Il pendio era dolce, ed era mia intenzione ripiegare lungo la spalla della collina fino a raggiungere di nuovo la stretta vallata indicata sulla mappa.
Non riuscii a farlo. Non perché la strada fosse ostruita, ma piuttosto perché, quando, dopo molto camminare, arrivai dove avrebbe dovuto trovarsi ciò che cercavo, scorsi un luogo completamente differente, una valle meno profonda ed un corso d’acqua più largo. Dopo aver sprecato parecchi turni di guardia cercando laggiù, scoprii il punto da cui (così mi sembrava) avevo avvistato la casa dell’anacoreta appollaiata sulla cima dell’altura. Inutile dire che adesso non c’era più e che l’altura non appariva né così alta né così ripida come la ricordavo.
Fu là che trassi fuori di nuovo la mappa e notai, studiandola, che Mannea aveva scritto, con calligrafia così sottile che stentavo a credere fosse stata tracciata con la penna che le avevo visto in mano, le parole L’ULTIMA CASA, sotto l’abitazione dell’anacoreta. Per qualche motivo, quelle parole e l’immagine della casa in cima alla roccia mi ricordarono l’abitazione che Agia ed io avevamo visto nel Giardino della Giungla, dove marito e moglie sedevano ad ascoltare l’uomo nudo chiamato Isangoma. Agia, che conosceva tutto ciò che accadeva nel Giardino Botanico, mi aveva detto che se mi fossi girato sul sentiero ed avessi tentato di tornare alla capanna, non l’avrei trovata. Riflettendo su quell’incidente, scoprii che non le credevo adesso, ma che le avevo creduto allora. Poteva darsi, naturalmente, che la mia perdita di credulità fosse dovuta ad una semplice reazione al suo tradimento, di cui avevo adesso avuto sufficienti prove. O poteva semplicemente darsi che allora fossi molto più ingenuo, quando mi trovavo a meno di un giorno di viaggio dalla Cittadella e dalla protezione della corporazione. Ma era anche possibile… ed ora mi sembrava così… che allora le avevo creduto perché avevo appena visto la casa con i miei occhi e che la sua vista e la consapevolezza della presenza di quella gente aveva portato il suo peso alla mia convinzione.
Si dice che sia stato Padre Inire a far costruire il Giardino Botanico. Era possibile che una qualche parte della conoscenza che egli possedeva fosse condivisa dall’anacoreta? Inoltre, sempre Padre Inire aveva costruito la stanza segreta che sembrava una pittura, nella Casa Assoluta. Io l’avevo scoperta per caso, ma solo perché avevo seguito le istruzioni del vecchio pulitore di quadri, che aveva inteso farmela trovare. Adesso non stavo più seguendo le istruzioni di Mannea.
Ritornai sui miei passi lungo la spalla della collina e su per il lieve pendio. L’erta altura che ricordavo precipitò davanti a me, ed alla sua base scorreva vorticoso uno stretto corso d’acqua il cui canto riempiva l’angusta vallata. La posizione del sole indicava che mi rimanevano al massimo due turni di guardia di luce, ma con quel chiarore era più facile discendere l’altura di quanto fosse stato risalirla. In meno di un turno di guardia arrivai giù nella stretta vallata, dove mi ero trovato la sera precedente. Non potevo scorgere alcuna lampada alle finestre, ma l’Ultima Casa si trovava là dove l’avevo vista, poggiata sulla roccia su cui i miei piedi avevano camminato quel giorno. Scossi il capo, le volsi le spalle e mi servii della luce morente per leggere la mappa che Mannea aveva tracciato per me.
Prima di procedere oltre, desidero chiarire che non sono assolutamente certo che ci fosse qualcosa di soprannaturale in tutto quello che ho descritto. Vidi due volte l’Ultima Casa, ma in entrambe le occasioni la luce era la stessa, quella del tardo crepuscolo o del tramonto. È certo possibile che quanto vidi non fosse altro che una formazione rocciosa, e la finestra illuminata una stella.
Quanto allo scomparire della stretta vallata allorché tentai di raggiungerla da un’altra direzione, non c’è formazione geografica più incline a scomparire alla vista, di una stretta pendenza, perché basta la più leggera asperità del terreno e nasconderla. Per proteggersi dai razziatori, alcune popolazioni autoctone delle pampas arrivano al punto di costruire i loro villaggi in quel modo, dapprima scavando un affossamento il cui fondo può essere raggiunto da una rampa, quindi ricavando nei suoi fianchi le abitazioni e le stalle. Non appena l’erba ha ricoperto la terra scavata via, il che accade molto rapidamente dopo le piogge invernali, si può cavalcare a mezza catena di distanza da un luogo del genere senza notarne l’esistenza.
Ma, anche se avrei potuto essere tanto sciocco, non credo di esserlo stato. Il Maestro Palaemon usava dire che il soprannaturale esiste affinché non dobbiamo sentirci umiliati quando veniamo spaventati dal vento notturno, ma io preferisco credere che ci fosse davvero qualche cosa d’irreale intorno a quella casa. Ed ora lo credo più fermamente di quanto lo credessi allora.
Comunque sia, seguii la mappa che mi era stata data, da quel momento in avanti, e, prima che fossero trascorsi due turni di guardia della notte, mi trovai a risalire un sentiero che portava alla porta dell’Ultima Casa, che si ergeva sulla cima di un’altura simile a quella che ricordavo. Come aveva detto Mannea, il viaggio aveva richiesto esattamente due giorni.
XVI
L’ANACORETA
C’era un portico. Era di poco più alto della pietra su cui sorgeva, ma correva su entrambi i lati della casa ed intorno agli angoli, come quei lunghi portici che talvolta si vedono nelle migliori case di campagna, dove c’è poco da temere ed il proprietario ama sedere al fresco della sera e guardare Urth cadere dietro la Luna. Bussai alla porta, e, poiché nessuno mi rispose, camminai lungo il portico, a destra ed a sinistra, sbirciando attraverso le finestre.
All’interno era troppo scuro perché potessi vedere qualcosa, ma scoprii che il portico aggirava la casa fino all’estremità più lontana dell’altura, dove terminava senza una ringhiera. Bussai ancora, altrettanto infruttuosamente, e mi ero già disteso sul portico per dormire (perché, avendo un tetto sulla testa, mi sembrava un posto migliore di qualsiasi altro avrei potuto trovare fra le rocce là intorno), quando sentii un debole suono di passi.
Da qualche parte, nei piani superiori della casa, c’era un uomo che stava camminando. I suoi passi furono inizialmente lenti, tanto che pensai dovesse trattarsi di un malato o di un vecchio, ma si fecero più rapidi e sicuri man mano che si avvicinavano, cosicché, quando raggiunsero la porta, mi parvero il passo regolare di un uomo determinato, quale poteva essere il comandante di un manipolo o di uno squadrone di cavalleria.
Nel frattempo mi ero rialzato e mi ero spolverato il mantello, rendendomi il più presentabile possibile, eppure ero ben poco preparato a colui che vidi quando la porta si aprì. Portava una candela spessa come il mio polso, e, alla sua luce, contemplai un volto simile a quello degli Hieroduli che avevo incontrato nel castello di Baldanders, salvo per il fatto che si trattava di una faccia umana… In effetti, sentii che, come le facce delle statue nei giardini della Casa Assoluta avevano imitato le facce di esseri come Famulimus, Barbato ed Ossipago, così i volti di quest’ultimi erano solo imitazioni, in un qualche modo alieno, di volti quale quello che stavo vedendo ora. Ho spesso detto, a questo proposito, che io ricordo tutto, e così è; ma, quando tento di tratteggiare quel volto in un modo più preciso di quello ottenuto con queste parole, scopro di non esserne capace. Nessun disegno da me fatto ricorda quel viso in nessun particolare, e posso soltanto dire che le sopracciglia erano folte e diritte e gli occhi infossati e di un azzurro cupo, come quelli di Thecla. La pelle di quell’uomo era delicata come quella di una donna, ma in lui non c’era nulla di femmineo e la barba che gli scendeva fino alla vita era del nero più cupo. La sua tunica sembrava bianca, ma c’era una lucentezza d’arcobaleno dove rifletteva la luce della candela.
M’inchinai come mi era stato insegnato alla Torre di Matachin e gli dissi il mio nome e chi mi aveva mandato, poi chiesi:
— E sei tu, sieur, l’anacoreta dell’Ultima Casa?
— Sono l’ultimo uomo, qui — annuì. — Mi puoi chiamare Ash.
Si fece da un lato per indicarmi che potevo entrare, poi mi condusse in una stanza sul retro della casa dove un’ampia finestra dava sulla valle che avevo risalito la notte precedente. C’erano sedie di legno ed un tavolo di ugual fattura, mentre cassoni di metallo, che brillavano cupamente alla luce della candela, occupavano gli angoli fra il pavimento e le pareti.
— Devi perdonare il povero aspetto di questo luogo — mi disse. — È qui che ricevo le visite, ma ne ho così poche che ho incominciato ad usare la stanza come magazzino.
— Quando si vive in un luogo così solitario, è un bene sembrare poveri, Mastro Ash. Questa stanza, tuttavia, non lo sembra.
Non credevo che quel volto potesse sorridere, ma lo fece.
— Desideri vedere i miei tesori? Guarda. — Si alzò ed aprì un cassone, tenendo la candela in modo che ne illuminasse l’interno. C’erano forme quadrate di pane duro e pacchi di fichi schiacciati. Notando la mia espressione, mi chiese: — Hai fame? Non ci sono incantesimi su questo cibo, se temi una cosa del genere.
Mi vergognavo, perché mi ero portato un po’ di cibo per il viaggio e ne avevo ancora per il ritorno, ma risposi:
— Mi andrebbe un pezzo di pane, se puoi dividerlo con me.
Mi diede una mezza forma già tagliata (con un coltello molto affilato), formaggio avvolto in carta d’argento e vino bianco secco.
— Mannea è una brava donna — osservò. — E tu, credo, sei un brav’uomo, di quelli che non sanno di esserlo… qualcuno sostiene che sono gli unici brav’uomini esistenti. Mannea pensa che io ti possa aiutare?
— Pensa piuttosto che io possa aiutare te, Mastro Ash. Gli eserciti della Repubblica si stanno ritirando e presto le battaglie soffocheranno tutta questa zona di territorio, e, dopo le battaglie, verranno gli Asciani.
— Gli uomini senza ombra — sorrise l’anacoreta. — Questo è uno di quei numerosi nomi che sono errati ed al contempo esatti. Cosa penseresti se un Asciano ti dicesse che effettivamente non proietta alcuna ombra?
— Non so — replicai. — Non ho mai sentito parlare di una cosa del genere.
— È una vecchia storia. Ti piacciono le storie? Ah, vedo una luce nei tuoi occhi, e vorrei saperla raccontare meglio. Voi chiamate i vostri nemici Asciani, che non è naturalmente il nome che essi danno, perché i vostri padri credevano che essi venissero dalla faccia centrale di Urth, dove il sole è esattamente sopra la testa a mezzogiorno. La verità è che la loro patria è molto più a nord. Eppure, essi sono Asciani. In una favola inventata nel primo mattino della nostra razza, un uomo vendette la sua ombra e si trovò ad essere scacciato dovunque andava perché nessuno voleva credere che fosse un essere umano.
Sorseggiando il vino, pensai al prigioniero Asciano che aveva occupato il lettino accanto al mio.
— Quell’uomo riacquistò mai la sua ombra, Mastro Ash?
— No, ma per qualche tempo viaggiò con un uomo che non aveva immagine riflessa. — Mastro Ash si fece silenzioso, poi aggiunse: — Mannea è una brava donna, e vorrei poterti obbedire, ma non posso andarmene e la guerra non mi raggiungerà mai qui, non importa quanto marcino le sue colonne.
— Forse potresti venire con me per rassicurare la Castellana — obiettai.
— Non posso fare neanche questo.
Compresi allora che lo avrei dovuto costringere ad accompagnarmi, ma mi parve che non ci fosse motivo di ricorrere adesso alla forza: ci sarebbe stato tutto il tempo il mattino successivo. Scrollai le spalle, con finta rassegnazione, e chiesi:
— Posso almeno dormire qui, stanotte? Dovrò tornare a riferire la tua decisione, ma la distanza è di quindici e più leghe, e non potrei fare molta strada adesso.
Vidi ancora una volta il suo leggero sorriso, un sorriso simile a quello che si può notare in una scultura in avorio quando il movimento di una torcia altera l’ombra sulle sue labbra.
— Speravo di ricevere da te qualche notizia del mondo esterno — rispose, — ma mi accorgo che sei stanco. Vieni con me, dunque, quando avrai finito di mangiare, e ti mostrerò il tuo letto.
— Non ho i modi di un cortigiano, Mastro, ma non sono tanto ineducato da dormire quando il mio ospite desidera conversare con me… anche se temo di aver ben poche notizie da darti. Da quanto ho appreso dai miei compagni di sofferenza, nel lazzaretto, la guerra procede e si fa sempre più violenta ogni giorno che passa. Riceviamo rinforzi di legioni e mezze legioni, e gli Asciani di interi eserciti che vengono inviati dal nord. Hanno anche molte artiglierie, e pertanto noi dobbiamo fare affidamento sui nostri lanceri a cavallo, che possono caricare rapidamente ed ingaggiare da presso il nemico prima che i suoi pezzi pesanti vengano puntati. Hanno anche più velivoli dell’anno passato, anche se ne abbiamo distrutti molti. L’Autarca stesso è venuto a prendere il comando, portando molte delle sue truppe personali dalla Casa Assoluta, ma… — Scrollando nuovamente le spalle mi soffermai per mangiare un po’ di pane e formaggio.
— Lo studio della guerra mi è sempre parso la parte meno interessante della storia. Anche così, ci sono certi modelli obbligati di azione. In una lunga guerra, quando una delle due parti mostra una forza improvvisa, questo è di solito dovuto ad una fra tre ragioni. La prima è che abbia stipulato una nuova alleanza: i soldati di questo nuovo esercito differiscono in qualche modo da quelli del vecchio?
— Sì — replicai. — Ho sentito dire che sono più giovani e, nel complesso, meno forti. E ci sono più donne in mezzo a loro.
— Nessuna differenza di lingua o di vestiario?
Scossi il capo.
— Allora, per il momento almeno, possiamo accantonare l’ipotesi di un’alleanza. La seconda ipotesi sarebbe quella della fine di un’altra guerra combattuta altrove. Se così fosse, i rinforzi dovrebbero essere costituiti da veterani, ma tu dici che non è così, quindi rimane solo la terza possibilità: per qualche ragione, il nemico ha bisogno di un’immediata vittoria, e sta producendo il massimo sforzo.
Avevo ormai finito il pane, ma adesso ero davvero curioso.
— Perché dovrebbe essere così?
— Non posso dirlo, non sapendone di più. Forse i loro capi temono che il popolo si ribelli, essendosi stancato di combattere. O forse tutti gli Asciani sono soltanto servi, ed i loro padroni minacciano ora d’intervenire personalmente.
— Accendi la speranza in un momento e la spegni il momento successivo.
— Non io, ma la storia. Tu sei stato al fronte? Scossi di nuovo il capo.
— Questo è un bene. Sotto molti aspetti, più cose un uomo vede della guerra e meno ne sa in proposito. Come si comporta la nostra gente? Si tiene compatta dietro l’Autarca, oppure la guerra l’ha talmente stancata da indurla a chiedere la pace?
A quelle parole mi misi a ridere, e l’antica amarezza che aveva contribuito a trascinarmi da Vodalus riapparve d’un tratto.
— Unita? Chiedere? So che ti sei isolato, Mastro, per concentrare la tua mente su cose più elevate, ma non avrei mai pensato che qualche uomo potesse sapere così poco della terra in cui vive. Carrieristi e mercenari desiderosi di avventure sono quelli che combattono questa guerra. Cento leghe a sud di qui essa è meno di una voce, all’esterno della Casa Assoluta.
— Allora — replicò Mastro Ash, sporgendo le labbra, — la tua Repubblica è più forte di quanto avrei creduto. Non mi meraviglio che i vostri nemici siano alla disperazione.
— Se questa è forza, che il Misericordioso ci preservi dalla debolezza. Mastro Ash, il fronte può crollare in qualsiasi momento. Sarebbe più saggio che tu venissi con me in un luogo più sicuro.
— Se — proseguì, dando l’impressione di non avermi sentito, — Erebus ed Abaia e gli altri scendono essi stessi in campo, ci sarà una nuova lotta. Se e quando. Interessante. Ma tu sei stanco. Vieni con me: ti farò vedere il tuo letto e le cose elevate che, come tu hai detto, sono venuto a studiare qui.
Salimmo due rampe di scale ed entrammo in una stanza che doveva essere quella la cui finestra avevo scorto illuminata la sera precedente. Era un’ampia camera con molte finestre, ed occupava tutto il piano. C’erano alcune macchine, ma erano più piccole e meno numerose di quelle che avevo visto nel castello di Baldanders, e c’erano anche tavoli, carte e molti libri, e, vicino al centro, uno stretto letto.
— Sonnecchio qui — spiegò Mastro Ash, — quando il mio lavoro non mi permette di ritirarmi. Non è grande per un uomo della tua struttura, ma spero che lo troverai comodo.
La notte precedente avevo dormito sulla pietra, ed il letto mi appariva davvero molto invitante.
Dopo avermi mostrato dove mi potevo lavare e dov’era il bagno, se ne andò. L’ultima occhiata che riuscii a dargli prima che egli oscurasse la luce mi permise di cogliere lo stesso perfetto sorriso che avevo già notato in precedenza.
Un momento più tardi, quando i miei occhi si furono abituati all’oscurità, smisi di meravigliarmi per quel sorriso, perché all’esterno di tutte le numerose finestre brillava un perlaceo ed uniforme bagliore.
— Siamo al di sopra delle nuvole — dissi a me stesso (esibendo anch’io un mezzo sorriso) — o piuttosto, qualche nuvola bassa ha avvolto la cima di quest’altura, senza che io me ne accorgessi a causa del buio, ma notata in qualche modo da lui. Adesso vedo le cime di quelle nubi, sostanza elevata, indubbiamente, come ho visto la superficie delle nubi dagli occhi di Typhon.
E mi distesi per dormire.
XVII
RAGNAROK — L’INVERNO FINALE
Mi parve strano destarmi senza un’arma accanto, anche se, per qualche ragione, quella era la prima mattina che provavo una simile sensazione. Dopo la distruzione di Terminus Est, avevo dormito mentre era in corso il saccheggio del castello di Baldanders senza provare alcun timore, e più tardi avevo viaggiato verso nord sempre senza paura. Appena la notte precedente, avevo dormito sulla nuda roccia della cima dell’altura senza avere un’arma e… forse solo perché ero così stanco… non avevo avuto timore. Adesso penso che durante tutti quei giorni, ed addirittura durante tutto il tempo trascorso da quando avevo lasciato Thrax, io mi ero dedicato al compito di lasciarmi la corporazione alle spalle ed ero giunto a credere di essere ciò per cui mi prendevano tutti coloro che incontravo… una specie di aspirante avventuriero del tipo che avevo menzionato a Mastro Ash la notte precedente. Come torturatore, non avevo considerato la mia spada tanto un’arma quando uno strumento ed un emblema della mia carica. Adesso, in retrospettiva, essa era divenuta per me un’arma, ed ora ne ero privo.
Pensai a questo mentre me ne stavo sdraiato sulla schiena sul comodo materasso di Mastro Ash, le mani intrecciate dietro il capo. Avrei dovuto procurarmi un’altra spada se fossi rimasto in quelle zone lacerate dalla guerra, e sarebbe stato saggio procurarmene una anche se fossi ritornato al sud. Il problema era se tornare o meno al sud. Se fossi rimasto dov’ero, correvo il rischio di essere trascinato in un conflitto in cui avrei potuto rimanere ucciso. Ma tornare al sud sarebbe stato per me ancor più pericoloso: Abdiesus, l’arconte di Thrax aveva indubbiamente bandito una ricompensa per la mia cattura, e la corporazione avrebbe certo provocato il mio assassinio se fosse venuta a sapere che mi trovavo nelle vicinanze di Nessus.
Dopo aver indugiato per qualche tempo sulla decisione da prendere, come fa chi è solo parzialmente sveglio, mi ricordai di Winnoc e di quel che mi aveva detto a proposito degli schiavi delle Pellegrine. Poiché è per noi una vergogna se i clienti muoiono dopo essere stati sottoposti alla tortura, nella corporazione ci vengono insegnate parecchie nozioni di medicina, ed io pensai di saperne già almeno quanto quegli schiavi. Quando avevo curato quella ragazza, nello jacal, mi ero sentito improvvisamente sollevato, e la Castellana Mannea aveva già una buona opinione di me, e ne avrebbe avuta una migliore quando fossi tornato con Mastro Ash.
Qualche momento prima, ero turbato per la mancanza di un’arma, ma adesso sentivo di possederne una… perché la risoluzione ed un piano sono meglio di una spada, in quanto un uomo affila su di esse la tempra del suo carattere. Gettai da un lato le coperte, notando, credo per la prima volta, quanto fossero soffici. La grande stanza era fredda, ma inondata della luce del sole: era quasi come se ci fossero quattro soli ai suoi lati, come se tutti i muri fossero rivolti ad est. Ancora nudo, mi avvicinai alla finestra più vicina e vidi quell’ondulato campo bianco che avevo solo vagamente notato la sera precedente. Non era una massa di nuvole, bensì una distesa di ghiaccio.
La finestra non si volle aprire, o, se era possibile aprirla, non mi riuscì di risolvere il mistero del suo meccanismo; misi comunque la faccia contro il vetro e sbirciai in basso più che potevo. L’Ultima Casa sorgeva, come avevo già notato in precedenza, su un’alta collina rocciosa, ma ora solo la cima di quella collina rimaneva libera dal ghiaccio. Passai da una finestra all’altra, ma la vista era sempre la stessa. Tornato vicino al letto in cui avevo dormito, m’infilai i pantaloni e gli stivali e mi allacciai il mantello intorno alle spalle, a stento consapevole di quel che facevo. Mastro Ash comparve quando avevo appena finito di vestirmi.
— Spero di non disturbare — esordì, — ma ti ho sentito camminare quassù.
Scossi il capo.
— Non ti volevo disturbare.
D’impulso, mi ero portato le mani alla faccia, perché adesso una sciocca parte di me stesso si era all’improvviso ricordata della barba lunga.
— Intendevo radermi prima di mettermi il mantello — spiegai. — Era una cosa stupida da parte mia: non mi sono rasato da quando ho lasciato il lazzaretto.
Era come se la mia mente stesse faticosamente avanzando sul ghiaccio, lasciando che la lingua e le labbra la seguissero meglio che potevano.
— Là c’è l’acqua calda ed il sapone.
— Bene — risposi, e poi aggiunsi: — Se scendessi al piano di sotto…
— Sarebbe lo stesso? — Era ricomparso quel sorriso. — Il ghiaccio? No. Tu sei il primo che lo ha intuito. Posso chiederti come hai fatto?
— Molto tempo fa… no, in effetti sono passati solo pochi mesi, anche se adesso mi sembra sia trascorso molto tempo, sono andato al Giardino Botanico di Nessus. C’era un luogo chiamato il Lago degli Uccelli, dove sembra che i corpi dei morti rimangano intatti per sempre. Mi è stato detto che dipendeva da una qualche caratteristica dell’acqua, ma io mi ero chiesto anche allora come potesse esserci tanto potere nell’acqua. C’era anche un altro posto, chiamato il Giardino della Giungla, dove le foglie erano più verdi di quanto avessi mai visto… non un verde brillante, ma cupo, come se le piante non riuscissero mai ad utilizzare tutta l’energia riversata su di esse dal sole. La gente di quel giardino non sembrava appartenere al nostro tempo, anche se non avrei saputo dire se apparteneva al passato o al futuro o ad una terza cosa che non era ne l’uno né l’altro. Avevano una piccola casa, che era molto più piccola di questa ma che, chissà come, le somigliava. Ho pensato molto al Giardino Botanico da quando l’ho lasciato, e qualche volta mi sono chiesto se il suo segreto fosse che il tempo non cambiava mai nel Lago degli Uccelli, e che si avanzava o indietreggiava nel tempo quando si seguiva il sentiero del Giardino della Giungla. Sto forse parlando troppo?
Mastro Ash scosse il capo.
— Dunque, venendo qui, ho visto la tua casa in cima alla collina, ma, quando mi sono arrampicato fino ad essa, era scomparsa, e la valle sottostante non era come la ricordavo. — Non sapevo che altro dire e tacqui.
— Hai ragione. Sono stato messo qui per osservare quello che tu ora vedi intorno a te. I piani inferiori della mia casa, tuttavia, si protendono in periodi più antichi, dei quali il tuo è il più antico di tutti.
— Questa mi sembra una grande meraviglia.
— È quasi più meraviglioso — replicò, scuotendo il capo, — che questo sperone di roccia sia stato risparmiato dai ghiacciai mentre le cime di picchi molto più alti sono state sommerse. Esso è protetto da una fisionomia geografica tanto sottile che poteva essere ottenuta solo per caso.
— Ma alla fine sarà coperto anch’esso?
— Sì.
— Ed allora cosa accadrà?
— Partirò. O, meglio, partirò prima che accada.
Avvertii un’ondata d’irrazionale ira, lo stesso tipo di emozione che provavo talvolta da ragazzo quando non riuscivo a far capire le mie domande al Maestro Malrubius.
— Voglio dire, che ne sarà di Urth?
— Nulla — replicò scrollando le spalle. — Quella che vedi ora è l’ultima glaciazione. La superficie del sole adesso è opaca, ma presto diventerà luminosa per il calore, ed il sole stesso si ridurrà di dimensioni dando meno energia ai suoi mondi. Alla fine, se qualcuno dovesse venire e stare fermo sul ghiaccio, lo vedrebbe solo come una stella luminosa. Il ghiaccio su cui camminerebbe non sarebbe quello che tu vedi, ma l’atmosfera stessa di questo mondo. E così rimarrà per moltissimo tempo, forse fino alla fine del giorno universale.
Andai ad un’altra finestra e guardai ancora fuori verso la distesa di ghiaccio.
— Questo accadrà presto?
— La scena che vedi è posta a parecchie migliaia di anni nel vostro futuro.
— Ma, prima di questo, il ghiaccio deve essere giunto al sud.
— E — annuì Mastro Ash, — dalle cime delle montagne. Vieni con me.
Scendemmo al secondo piano della casa, che io avevo a stento notato quando ero salito, la notte precedente. Qui le finestre erano più scarse, ma Mastro Ash sistemò due sedie dinnanzi ad una di esse e fece cenno di sedere e guardare. Era come aveva detto… il ghiaccio, splendido nella sua purezza, scendeva lungo i fianchi delle montagne per combattere con i pini. Chiesi se anche questo era molto lontano nel futuro, ed egli annuì ancora.
— Non vivrai tanto da vederlo di nuovo.
— Ma è tanto vicino che la vita di un uomo riuscirà quasi ad arrivarvi?
Agitò le spalle e sorrise sotto la barba.
— Diciamo che è una cosa graduale. Tu non lo vedrai, e neppure i tuoi figli né i loro figli, ma il processo è già iniziato, è cominciato molto tempo prima che tu nascessi.
Non sapevo nulla del sud, ma mi sorpresi a pensare al popolo d’isolani della storia di Hallvard, ai preziosi, piccoli angoli riparati dove c’era una stagione di raccolti, alla caccia delle foche. Quelle isole non avrebbero ospitato ancora a lungo quegli uomini e le loro famiglie. Le barche avrebbero strisciato per l’ultima volta sulle spiagge sassose sussurrando: «Mia moglie, i miei figli, i miei figli, mia moglie!
— In quell’epoca, molta della tua gente sarà già andata via — continuò Mastro Ash. — Coloro che chiamate cacogeni li avranno pietosamente trasportati su mondi più ospitali. Molti altri partiranno prima della finale vittoria del ghiaccio. Io stesso, vedi, discendo da quei profughi.
Chiesi se si sarebbero salvati tutti.
— No — rispose, scuotendo il capo, — non tutti. Alcuni non vorranno andare, altri non saranno trovati, per altri ancora non si riuscirà a trovare una patria.
Per qualche tempo, rimasi ad osservare la valle assediata, tentando di riordinare i miei pensieri. Infine, dissi:
— Ho spesso pensato che gli uomini religiosi enunciano cose confortanti ma non vere, mentre gli uomini di scienza riferiscono orribili verità. La Castellana Mannea ha detto che eri un sant’uomo, ma tu mi sembri un uomo di scienza, ed hai affermato che il tuo popolo ti ha mandato sulla morta Urth per studiare i suoi ghiacci.
— La distinzione che citi non vale più. La religione e la scienza sono sempre state una questione di fede in qualcosa, e si tratta dello stesso qualcosa. Tu stesso sei ciò che definisci un uomo di scienza, perciò ti parlo in termini scientifici. Se Mannea fosse qui con le sue sacerdotesse, parlerei in maniera diversa.
Ho così tanti ricordi, che spesso mi perdo fra essi. Osservai i pini, ondeggianti sotto il vento che io non potevo avvertire, e mi parve di udire il battito di un tamburo.
— Una volta, ho incontrato un altro uomo che diceva di venire dal futuro — osservai. — Era verde, quasi altrettanto verde quanto quegli alberi… ed affermava che la sua epoca era l’epoca di un sole più luminoso.
— Indubbiamente, ti ha detto la verità.
— Ma tu sostieni che ciò che io vedo dista soltanto poche generazioni, che è parte di un processo che è già cominciato, e che questa sarà l’ultima glaciazione. O sei tu un falso profeta o lo era lui.
— Io non sono un profeta — rispose Mastro Ash, — né lo era lui. Nessuno può conoscere il futuro. Noi stiamo parlando del passato.
— Mi hai detto — ero nuovamente irato, — che tutto questo dista soltanto poche generazioni.
— Infatti. Ma tu, e questo scenario, siete per me eventi del passato.
— Io non sono una cosa del passato! Appartengo al presente!
— Dal tuo punto di vista, hai ragione. Ma ti dimentichi che io non ti posso vedere dal tuo punto di vista. Questa è la mia casa, è dalle mie finestre che tu hai guardato. La mia casa affonda le sue radici nel passato. Senza di questo, impazzirei a stare qui. Cosi come stanno le cose, io leggo questi vecchi secoli come fossero libri. Sento le voci di coloro che sono morti da tempo, la tua fra le altre. Tu credi che quello del tempo sia un unico filo, mentre invece si tratta di un intreccio, come un arazzo che si estenda per sempre in tutte le direzioni. Io seguo un filo che va all’indietro, tu traccerai una riga colorata in avanti, di quale colore, non lo posso sapere. Il bianco ti potrebbe condurre da me, il verde dal tuo uomo verde.
Non sapendo cosa ribattere, potei solo borbottare che io concepivo il tempo come un fiume.
— Già… tu vieni da Nessus, vero? E quella città è costruita su un fiume. Ma una volta era una città che sorgeva sul mare, e tu faresti meglio a pensare al tempo come ad un mare. Le onde vanno e vengono, e le correnti si muovono sotto di esse.
— Vorrei scendere al piano di sotto — osservai, — e tornare nel mio tempo.
— Capisco — convenne Mastro Ash.
— Mi chiedo se tu capisca davvero. Il tuo tempo, se ho inteso correttamente, è quello del piano più alto di questa casa, e tu hai là un letto ed altre cose necessarie. Eppure, quando non sei sovraccarico di lavoro, tu dormi qui, stando a quello che mi hai detto. E mi hai anche spiegato che questo tempo è più vicino al mio che al tuo.
— Intendevo dire che anch’io sfuggo il ghiaccio. Andiamo? — Si alzò in piedi. — Vorrai un po’ di cibo prima d’iniziare il viaggio per tornare da Mannea.
— Torneremo entrambi.
Si volse a guardarmi prima di avviarsi giù per le scale.
— Ti ho detto che non posso venire con te. Hai sperimentato di persona come sia ben nascosta questa casa. Per tutti coloro che non seguono il giusto sentiero, anche il piano più basso di essa si trova nel futuro.
Gli serrai entrambe le braccia dietro le spalle in una doppia morsa e mi servii della mano libera per cercargli addosso eventuali armi. Non ce n’erano, e, per quanto fosse forte, non lo era quanto avevo temuto.
— Hai intenzione di portarmi da Mannea. Ho ragione?
— Sì, Mastro, ed avremo molti fastidi in meno se verrai spontaneamente. Dimmi dove posso trovare un po’ di corda. Non voglio usare la cintura della tua tunica.
— Non ce n’è.
Gli legai le mani con la sua cintura, come avevo progettato fin dall’inizio.
— Quando saremo ad una certa distanza da qui — spiegai, — ti libererò se mi darai la tua parola di comportarti bene.
— Ti ho accolto nella mia casa. Che male ti ho fatto?
— Parecchio, ma non importa. Tu mi piaci, Mastro, ed io ti rispetto. Spero che non me ne vorrai per quanto ti sto facendo più di quanto io te ne voglia per quel che tu hai fatto a me. Ma le Pellegrine mi hanno mandato a prenderti, e io ritengo di essere un certo tipo d’uomo, se capisci cosa intendo. Adesso non scendere le scale troppo in fretta. Se dovessi cadere, non ti potresti tenere.
Lo guidai nella stanza in cui mi aveva fatto entrare quand’ero arrivato e presi un po’ di pane duro e un pacco di frutta secca.
— Io non penso più a me stesso come ad una sola persona — continuai, — ma sono stato allevato come… — mi salì alle labbra la parola torturatore, ma mi resi conto (allora, credo, per la prima volta) che quello non era affatto un termine adatto per definire l’attività della corporazione, ed usai invece la denominazione ufficiale — … come un Ricercatore della Verità e della Penitenza. Noi facciamo quel che abbiamo promesso che avremmo fatto.
— Ho doveri da adempiere, al livello superiore, quello dove hai dormito.
— Temo che non potranno essere adempiuti.
Rimase silenzioso mentre uscivamo sulla rocciosa cima dell’altura, quindi esclamò:
— Io verrò con te, se potrò. Ho spesso desiderato di uscire da quella porta e non fermarmi più.
Gli dissi che se avesse giurato sul suo onore lo avrei slegato subito.
— Potresti pensare che ti ho ingannato — replicò, scuotendo il capo.
Non compresi a cosa intendesse riferirsi.
— Forse, da qualche parte c’è la donna che ho chiamato Vine. Ma il tuo mondo è il tuo mondo, ed io posso esistere in esso solo se la probabilità della mia presenza è elevata.
— Io sono esistito nella tua casa, non è così? — obiettai.
— Sì, ma questo perché la tua probabilità era completa. Tu sei parte del passato da cui siamo venuti la mia casa ed io. Il problema è se io sono il futuro verso cui tu andrai.
Rammentai l’uomo verde di Saltus che era stato sufficientemente solido.
— Svanirai dunque come una bolla di sapone? — chiesi. — O come fumo?
— Non lo so — rispose. — Non so cosa mi accadrà. O dove andrò quando accadrà. Potrei cessare di esistere in qualsiasi tempo: è per questo che non me ne sono mai andato di mia volontà.
Lo presi per un braccio, suppongo perché pensavo che in quel modo lo avrei potuto tenere con me, e ci avviammo. Seguii la strada che Mannea mi aveva tracciato, e l’Ultima Casa si levò dietro di noi solida come qualunque altra. La mia mente era affollata da tutte le cose che mi aveva detto e mostrato, cosicché per qualche tempo, forse per venti o trenta passi, non mi volsi a guardarlo. La sua ultima osservazione a proposito dell’arazzo mi aveva fatto venire in mente Valeria, perché la stanza dove avevamo mangiato i pasticcini era rivestita di arazzi, e quel che Mastro Ash aveva detto a proposito dell’intreccio di fili mi aveva ricordato il labirinto di tunnels da me percorso prima di arrivare da lei. Feci per parlargliene, ma lui era svanito e la mia mano stringeva l’aria. Per un momento, mi parve di vedere l’Ultima Casa fluttuare come una nave su un oceano di ghiaccio, poi essa si fuse con la scura cima della collina su cui si era levata; il ghiaccio non era adesso altro che ciò per cui lo avevo preso, un banco di nubi.
XVIII
LA RICHIESTA DI FOILA
Per altri cento passi o più, Mastro Ash non scomparve del tutto. Percepii la sua presenza, e qualche volta perfino lo intravidi che mi camminava accanto, mezzo passo più indietro, quando non tentavo di guardare direttamente verso di lui. Come facessi a vederlo, come facesse lui ad essere presente ed al contempo assente, non lo so. I nostri occhi ricevono una pioggia di fotoni senza massa o carica dalle particelle sciamanti come un bilione di soli… così mi aveva insegnato il Maestro Palaemon, che era quasi cieco. A causa del ricadere di quei fotoni, noi crediamo di vedere un uomo, e talvolta l’uomo che crediamo di vedere può essere illusorio come Mastro Ash o anche di più.
Sentivo con me anche la sua saggezza: era stata una saggezza malinconica ma reale. Mi sorpresi a desiderare che egli fosse stato in grado di accompagnarmi, anche se mi resi conto che questo avrebbe significato che la venuta del ghiaccio era sicura.
— Io sono solo, Mastro Ash — dissi, non osando voltarmi indietro, — quanto, non lo avevo compreso fino ad ora. Anche tu eri solo, credo. Chi era la donna che tu hai chiamato Vine?
Forse immaginai soltanto la sua voce che rispondeva: — La prima donna.
— Meschiane? Sì, la conosco, ed è molto bella. La mia Meschiane era Dorcas, ed anch’io sento la sua mancanza, e quella di tutti gli altri. Quando Thecla divenne parte di me, pensai che non mi sarei mai più sentito solo di nuovo, ma ora essa è talmente parte di me che siamo come una persona sola, e posso sentire la mancanza degli altri. Di Dorcas, di Pia, la ragazza dell’isola, del piccolo Severian, di Drotte e di Roche. Se Eata fosse qui, lo abbraccerei.
«Soprattutto, mi piacerebbe rivedere Valeria. Jolenta era la donna più bella che abbia mai visto, ma nel volto di Valeria c’era qualcosa che mi ha lacerato il cuore. Ero soltanto un ragazzo, credo, anche se allora non mi sembrava così. Strisciai fuori dal buio e mi trovai in un luogo chiamato l’Atrio del Tempo. Alcune Torri… le Torri della famiglia di Valeria… si levavano su tutti i lati di essa, e nel centro c’era un obelisco coperto di meridiane, e, anche se ricordo di aver visto la sua ombra sulla neve, non poteva ricevere la luce del sole per più di due o tre turni di guardia al giorno, perché le torri lo tenevano in ombra la maggior parte della giornata. La tua comprensione è maggiore della mia, Mastro Ash… mi puoi dire perché l’hanno costruito in quel modo?
Il vento che giocava fra le fronde s’impadronì del mio mantello, sollevandomelo dalle spalle. Lo assicurai di nuovo e tirai su il cappuccio.
— Stavo seguendo un cane — ripresi. — Lo chiamavo Triskele, e dicevo, anche a me stesso, che mi apparteneva, anche se non avevo il diritto di tenere un cane. Era un giorno d’inverno quando lo avevo trovato. Stavamo facendo il bucato… lavavamo le lenzuola dei clienti… e lo scarico si era intasato di stracci e garze. Io avevo cercato di evitare quel lavoro, ma Drotte mi ordinò di andare fuori e di sbloccarlo. Il vento era terribilmente freddo, a causa dell’arrivo del tuo ghiaccio, suppongo, anche se allora non lo sapevo… Gli inverni si stavano facendo peggiori ogni anno. E, naturalmente, quando avessi aperto il canale di scolo, ne sarebbe uscita un’ondata di acqua sporca che mi avrebbe bagnato le mani.
«Ero arrabbiato perché ero il più anziano eccetto Drotte e Roche, e ritenevo che quel lavoro avrebbe dovuto essere affidato ad apprendisti più giovani. Stavo cercando di smuovere l’intasamento con un bastone quando lo vidi, dall’altra parte del Vecchio Cortile. I Custodi della Torre dell’Orso avevano tenuto un combattimento privato la notte precedente, credo, e le bestie morte giacevano fuori dal loro portone in attesa del becchino. C’erano un arsinottero ed uno smilodonte e parecchi lupi. Il cane era steso in cima al mucchio. Suppongo fosse stato l’ultimo a morire, e, a giudicare dalle sue ferite, era stato un lupo ad ucciderlo. Naturalmente, non era veramente morto, ma lo sembrava.
«Mi avvicinai per guardarlo… una scusa per smettere quello che stavo facendo in quel momento e per soffiarmi sulle dita. Era rigido e freddo come… ecco, come qualsiasi cosa avessi mai visto. Una volta ho ucciso un toro con la mia spada, e, quando giaceva morto nel suo sangue, sembrava ancora leggermente più vivo di quanto mi fosse apparso Triskele. Comunque, protesi una mano e gli accarezzai la testa. Era grossa come quella di un orso, e gli avevano tagliato gli orecchi in modo che rimanevano solo due piccole punte. Quando lo toccai, aprì gli occhi. Balzai di nuovo dal lato opposto del cortile, e conficcai con tanta forza il bastone nell’intasamento da farlo passare dall’altra parte, perché temevo che Drotte mandasse Roche a vedere cosa stavo facendo.
«Se ci ripenso, era come se avessi già posseduto l’Artiglio, più di un anno prima di averlo veramente. Non posso descrivere l’aspetto di Triskele quando i suoi occhi mi fissarono. Mi toccò il cuore. Non ho mai fatto rivivere gli animali, quando possedevo l’Artiglio, ma del resto non ci ho mai provato. Quando mi trovavo in mezzo a loro, di solito desideravo riuscire ad ucciderne uno in modo da avere qualcosa per mangiare. Adesso non sono più tanto sicuro che uccidere gli animali per mangiare sia una cosa che si debba fare. Ho notato che tu non avevi carne fra le provviste… solo pane, formaggio, vino e frutta secca. Forse che anche il tuo popolo, su qualsiasi mondo esso viva, la pensi alla stessa tua maniera?
Feci una pausa, sperando in una risposta, ma non ne giunse nessuna. Tutte le cime montane erano adesso illuminate dal sole, e non ero più certo se una qualche lieve presenza di Mastro Ash fosse ancora con me o se si trattasse solo della mia ombra.
— Quando avevo l’Artiglio — continuai, — ho scoperto che esso non faceva rivivere coloro che erano morti a causa di azioni umane, anche se è parso che curasse l’uomo scimmia cui avevo tagliato la mano. Dorcas riteneva che fosse perché ero stato io a ferirlo. Non saprei… non ho mai pensato che l’Artiglio sapesse chi era a possederlo, ma forse lo sapeva.
Una voce… non quella di Mastro Ash, bensì una voce che non avevo mai udito prima, mi gridò:
— Buon anno nuovo a te!
Sollevai lo sguardo e vidi, forse a quaranta passi di distanza, un ulano simile a quello che le notule di Hethor avevano ucciso sulla strada della Casa Assoluta. Non sapendo che altro fare, agitai una mano e gridai:
— Allora è Capodanno?
Spronò il suo destriero e mi si avvicinò al galoppo.
— Oggi è mezza estate, l’inizio del nuovo anno. Un anno glorioso per l’Autarca.
Tentai di ricordare una delle frasi che piacevano tanto a Jolenta.
— Il cuore è lo scrigno dei suoi sudditi.
— Ben detto! Io sono Ibar, della Settantottesima Xenagia, e pattuglio questa strada fino a sera, per mia sfortuna.
— Certo è legale usare questa strada.
— Assolutamente. A patto, naturalmente, che tu sia in grado d’identificarti.
— Sì — risposi, — naturalmente. — Mi ero quasi dimenticato il salvacondotto che Mannea aveva scritto per me, ma adesso lo presi e glielo porsi.
Quando ero stato fermato lungo il cammino verso l’Ultima Casa, non ero affatto certo che i soldati che mi avevano interrogato sapessero leggere. Ciascuno di essi aveva fissato il foglio con aria competente, ma poteva darsi che fosse bastato loro il sigillo dell’Ordine e la scrittura chiara e vigorosa, anche se leggermente eccentrica, di Mannea. L’ulano sapeva senza dubbio leggere: potevo scorgere i suoi occhi spostarsi lungo le righe, e, credo, li vidi perfino soffermarsi alle parole “onorevole ricovero”.
Ripiegò con cura la pergamena ma non me la rese.
— Così, sei un servitore delle Pellegrine.
— Sì, ho questo onore.
— Allora stavi pregando. Quando ti ho visto, ho creduto che stessi parlando da solo. Io non apprezzo molto le sciocchezze religiose. Abbiamo lo stendardo della xenagia a portata di mano e l’Autarca ad una certa distanza, e questi sono tutti gli ossequi ed i misteri di cui ho bisogno. Ma ho sentito dire che sono brave donne.
— Io sono credente — replicai annuendo, — forse un po’ più di te. Ma lo sono davvero.
— Sei stato mandato a svolgere un compito per conto loro. Quanti giorni fa?
— Tre.
— Adesso stai tornando al lazzaretto di Media Pars?
— Spero di raggiungerlo prima del tramonto. — Annuii ancora.
— Non ci riuscirai — replicò, scuotendo il capo, e mi porse la pergamena. — Prenditela comoda, questo è il mio consiglio.
Presi la pergamena e la riposi nella mia giberna.
— Stavo viaggiando con un compagno, ma ci siamo separati. Mi chiedo se tu lo abbia visto. — E gli descrissi Mastro Ash, ma l’ulano scosse il capo.
— Terrò gli occhi aperti e gli dirò da che parte sei andato, se lo vedo. Ora… vorresti rispondere ad una mia domanda? Non è ufficiale, quindi, se vuoi, puoi rispondere che non sono fatti miei.
— Risponderò, se posso.
— Cosa farai, quando lascerai le Pellegrine?
Fui preso alquanto alla sprovvista.
— Ecco, non avevo affatto progettato di lasciarle. Un giorno, forse.
— Bene. Tieni a mente la cavalleria leggera. Hai l’aria di un uomo che sa menare le mani, e ci sarai sempre utile. Vivrai due volte di più di quanto riusciresti a vivere in fanteria, e ti divertirai il doppio.
Incitò la sua cavalcatura a proseguire e mi lasciò a riflettere su quanto mi aveva detto. Non ddubitavo che fosse stato serio nel consigliarmi di dormire lungo la strada, ma proprio quella serietà mi spinse ad affrettarmi maggiormente. Ho la fortuna di possedere lunghe gambe, cosicché, quando è necessario, posso camminare con la stessa velocità con cui la maggior parte degli uomini riesce a correre, e me ne servii, abbandonando ogni pensiero circa Mastro Ash ed il mio tormentato passato. Forse una qualche tenue presenza di Mastro Ash continuò ad accompagnarmi, forse essa mi accompagna ancora, ma, se è cosi, temo di non esserne consapevole.
Urth non aveva ancora distolto il volto dal sole quando arrivai alla stretta strada che il soldato morto ed io avevamo imboccato poco prima di una settimana fa. C’era sangue sulla pista, molto più di quanto ne avessi notato in precedenza. Da quanto mi aveva detto l’ulano, avevo temuto che le Pellegrine fossero state accusate di qualche cattiva azione, ma ora mi sentii certo che si riferiva solo al grande afflusso di feriti che erano stati condotti al lazzaretto, e che aveva deciso che mi meritavo una notte di riposo prima di dedicarmi ad accudirli. Una sovrabbondanza di feriti mi avrebbe dato l’occasione di dimostrare a Mannea la mia abilità, e di rendere quindi molto più probabile l’eventualità che Mannea mi accettasse quando avrei offerto di vendere me stesso all’Ordine, se solo fossi riuscito ad imbastire una storia plausibile per giustificare il mio fallimento all’Ultima Casa.
Superata l’ultima svolta della strada, tuttavia, vidi che le cose stavano in modo del tutto differente.
Dove era sorto il lazzaretto, il terreno sembrava essere stato arato da un branco di pazzi, arato e scavato… ed il suo fondo era già divenuto un basso laghetto circondato da alberi infranti.
Fino a quando non scese l’oscurità, camminai avanti e indietro. Stavo cercando qualche traccia dei miei amici ed anche dell’altare che conteneva l’Artiglio. Trovai la mano di un uomo, staccata al polso da un’esplosione: avrebbe potuto appartenere a Melito, o ad Hallvard, oppure all’Asciano o a Winnoc, non avrei saputo dirlo.
Quella notte dormii accanto alla strada. Quando spuntò il giorno, iniziai le mie indagini, e, prima di sera, ero riuscito a localizzare i superstiti, ad una mezza dozzina di leghe dal luogo originale. Passai da un letto all’altro, ma nella maggior parte i feriti erano privi di sensi e con la testa talmente fasciata che non avrei potuto riconoscerli. Era possibile che Ava, Mannea e la Pellegrina che si era seduta su uno sgabello ai piedi del mio letto fossero fra loro, anche se non le trovai.
L’unica donna che riconobbi fu Foila, e questo soltanto perché fu lei a riconoscermi ed a chiamare il mio nome mentre camminavo fra morenti e feriti. Mi avvicinai e tentai d’interrogarla, ma era molto debole e riuscì a dirmi ben poco. L’attacco era giunto senza preavviso, ed aveva fracassato il lazzaretto come un lampo. I suoi ricordi erano tutti riferiti a quanto era accaduto dopo, quando aveva udito le urla che per lungo tempo non avevano attirato nessun soccorritore ed era infine stata tirata fuori da soldati che ne sapevano ben poco di medicina. Promisi che sarei tornato a trovarla, una promessa che non sarei stato in grado di mantenere, e credo lo sapessimo entrambi.
— Ti ricordi quando tutti noi abbiamo raccontato le nostre storie? — mi chiese. — Ci ho pensato.
Risposi che sapevo che lo aveva fatto.
— Voglio dire, mentre ci stavano portando qui. Credo che Melito ed Hallvard e tutti gli altri siano morti. Tu sarai l’unico a ricordare, Severian.
Le assicurai che avrei ricordato sempre.
— Voglio che tu lo dica anche ad altre persone, nei giorni d’inverno o nelle notti in cui non c’è nulla da fare. Ti ricordi le storie?
— La mia terra è la terra dei distanti orizzonti, dell’ampio cielo…
— Sì — annuì, e parve assopirsi.
Ho mantenuto la mia seconda promessa, dapprima copiando le storie sulle pagine bianche che c’erano in fondo al libro marrone, poi riferendole qui, così come le avevo udite in quei lunghi, caldi meriggi.
XIX
GUASACHT
Trascorsi vagabondando i due giorni successivi. Non mi dilungherò molto su di essi perché c’è poco da dire. Suppongo che avrei potuto arruolarmi in parecchie unità, ma ero tutt’altro che sicuro di desiderarlo. Mi sarebbe piaciuto tornare all’Ultima Casa, ma ero troppo orgoglioso per gettarmi ai piedi di Mastro Ash e chiedere la sua carità, ammesso che si potesse ancora trovare lassù Mastro Ash. Mi dissi che avrei occupato con gioia il mio vecchio posto di Littore di Thrax, eppure, se fosse stato possibile, non sono certo che lo avrei fatto. Dormii in zone boscose, come un animale, e presi quel po’ di cibo che riuscii a trovare, anche se era scarso.
Il terzo giorno, scoprii un falcione arrugginito, abbandonato, così pareva, nel corso di qualche campagna dell’anno precedente. Tirai fuori la mia fiaschetta d’olio e la mia mezza pietra per affilare (che avevo conservato insieme all’elsa di Terminus Est quando avevo gettato i suoi resti nell’acqua), ed impiegai un allegro turno di guardia nel pulirlo ed affilarlo. Quando ebbi finito, continuai a camminare, e ben presto raggiunsi una strada.
Adesso che l’efficacia del salvacondotto di Mannea si era dileguata, ero cauto nel mostrarmi più di quanto lo fossi stato nell’andare da Mastro Ash. Mi sembrava però probabile che il soldato morto, risuscitato dall’Artiglio e che ora si faceva chiamare Miles, anche se io sapevo che una parte di lui era Jonas, si fosse unito a qualche gruppo. Se era così, doveva trovarsi sulla strada, o accampato vicino ad essa, se non era addirittura in battaglia, ed io desideravo parlargli. Come Dorcas, egli aveva indugiato per qualche tempo nel paese dei morti; lei vi era rimasta più a lungo, ma speravo che, se lo avessi interrogato prima che fosse trascorso troppo tempo, avrei appreso qualcosa che mi avrebbe permesso… se non di riconquistarla… almeno di rassegnarmi alla sua perdita.
Scoprivo di amarla adesso come non l’avevo mai amata quando viaggiavamo insieme verso Thrax. Allora i miei pensieri erano troppo concentrati su Thecla, ed io avevo continuato a proiettarli dentro di me per raggiungerla. Adesso mi sembrava, forse solo perché lei era stata parte di me per così tanto tempo, di averla finalmente afferrata, in un abbraccio più definitivo di qualsiasi accoppiamento… o piuttosto, che, come il seme maschile genera (se questa è la volontà di Apeiron) un nuovo essere nel corpo femminile, così lei, entrando nella mia bocca, per mia volontà si era unita a quel Severian che doveva creare un uomo nuovo: io, che ancora mi chiamo Severian, ma che sono consapevole delle mie doppie radici.
Non so se avrei potuto apprendere ciò che volevo da Miles-Jonas: non l’ho mai ritrovato, anche se ho perseverato nella sua ricerca da quel giorno ad oggi. Verso metà pomeriggio, ero entrato in una distesa di alberi spezzati, e, di tanto in tanto, oltrepassavo corpi in stato più o meno avanzato di decomposizione. All’inizio, tentai di saccheggiarli come avevo fatto con il corpo di Miles, ma altri erano passati di là prima di me, ed addirittura le fiere erano venute di notte per depredar la carne con i denti aguzzi.
Qualche tempo più tardi, dato che le energie cominciavano a mancarmi, mi soffermai accanto ai resti fumanti di un carro per provviste vuoto. Gli animali da tiro che, a quanto pareva non erano morti da parecchio, giacevano sulla strada, con il conducente bloccato a faccia in giù fra di loro. Mi venne in mente che non sarebbe stata una cosa riprovevole tagliare dai fianchi di quelle bestie la carne che mi serviva per poi portarla in un luogo isolato dove avrei potuto accendere un fuoco. Avevo appena affondato la punta del falcione nel fianco di una delle bestie quando sentii un battito di zoccoli, e, supponendo che appartenessero al destriero di qualche staffetta, mi feci da parte per lasciarlo passare.
Si trattava invece di un uomo basso e tarchiato dall’aria energica su una cavalcatura alta e maltrattata. Nel vedermi, tirò le redini, ma qualcosa nella sua espressione mi disse che non c’era bisogno di fuggire o di combattere. (Se fosse stato necessario, avrei scelto la lotta. Il suo destriero gli sarebbe servito a ben poco fra i monconi di piante ed i tronchi caduti, e, nonostante il suo usbergo e l’elmo cinto d’ottone, credo che sarei riuscito a vincerlo.)
— Chi sei? — chiese, e, quando glielo dissi, aggiunse: — Severian di Nessus, eh? Allora sei civilizzato, almeno in parte, ma hai l’aria di non aver mangiato molto bene.
— Al contrario — ribattei, — di recente ho mangiato meglio di quanto sia mia abitudine. — Non volevo che mi ritenesse indebolito.
— Ma potresti mangiare di più… Non è sangue Asciano quello sulla tua spada. Sei uno schiavone? Un irregolare?
— Certo negli ultimi tempi la mia vita è stata piuttosto irregolare.
— Ma non fai parte di nessuna formazione? — Con stupefacente agilità scese di sella con un volteggio, gettò a terra le redini e si avvicinò a grandi passi. Aveva le gambe leggermente arcuate, ed una di quelle facce che sembrano essere state modellate nell’argilla ed appiattite da cima a fondo prima della cottura, cosicché la fronte ed il mento erano poco pronunciati ma ampi, gli occhi due fessure e la bocca larga. Eppure, mi piacque all’istante per la sua verve e perché si preoccupava così poco di nascondere la sua disonestà.
— Non sono attaccato a nulla ed a nessuno — replicai, — eccetto che ai ricordi.
— Ahh! — Sospirò, e, per un momento, sollevò gli occhi al cielo. — Lo so, lo so, abbiamo tutti le nostre difficoltà. Di cosa si tratta, della legge o di una donna?
Fino ad allora non avevo considerato i miei guai sotto quella luce, ma dopo aver riflettuto un istante ammisi che si trattava un po’ di entrambi.
— Bene, sei venuto nel posto giusto ed hai incontrato l’uomo giusto. Ti piacerebbe fare un buon pasto stasera insieme ad un mucchio di nuovi amici e trovarti domani con una manciata di oricalchi? Ti suona bene? Bene!
Tornò alla sua cavalcatura, e la sua mano saettò più rapida della spada di un duellante per afferrare le briglie prima che essa lo potesse schivare. Quando ebbe ripreso le redini, balzò di nuovo in sella con la prontezza con cui ne era sceso.
— Ora monta dietro di me — m’invitò. — Non è lontano, e ci trasporterà facilmente entrambi.
Feci come mi aveva detto, anche se per me fu molto più difficile dato che non potevo contare sull’aiuto delle staffe; nell’istante in cui fui seduto, il destriero tentò di addentarmi la gamba di sorpresa, ma il suo padrone, che aveva chiaramente anticipato la manovra, gli assestò un colpo tale, con l’impugnatura d’ottone del suo pugnale, da farlo inciampare e quasi cadere.
— Non ci badare. — Il suo collo era tanto corto da non permettergli di parlarmi da sopra la spalla, quindi parlò con il lato sinistro della bocca per rendere chiaro che si stava rivolgendo a me. — È un ottimo animale ed un valoroso combattente, e vuole soltanto assicurarsi che tu comprenda il suo valore. Una specie d’iniziazione, sai? Sai cos’è un’iniziazione?
Gli risposi che pensavo di avere familiarità con quel termine.
— Qualsiasi cosa di cui valga la pena di far parte ne ha una, lo scoprirai… l’ho scoperto io stesso. Non ne ho mai vista una che un ragazzo in gamba non fosse in grado di affrontare, per poi riderci sopra.
Con quell’ambiguo incoraggiamento, conficcò gli enormi speroni nei fianchi della sua bella cavalcatura come se avesse avuto intenzione di eviscerarla sul posto, e volammo lungo la strada, seguiti da una nube di polvere.
Da quella volta che avevo cavalcato il destriero di Vodalus per uscire da Saltus, avevo supposto nella mia innocenza che tutte le cavalcature si potessero suddividere in due categorie: i purosangue veloci ed i ronzini lenti. Pensavo che i migliori corressero con facile grazie, quasi come felini e che i peggiori si muovessero invece con tanta lentezza che poco importava se lo facevano. Uno dei tutori di Thecla era solito citare la massima secondo cui tutti i sistemi basati su due valori sono falsi, e, durante quella cavalcata, scoprii di avere per lui nuovo rispetto. La cavalcatura del mio benefattore apparteneva ad una terza categoria (che da allora ho scoperto essere quanto mai estesa) che comprende tutti quegli animali in grado di superare per velocità gli uccelli, ma che sembrano correre con gambe di ferro su una strada di pietra. Gli uomini hanno innumerevoli vantaggi rispetto alle donne, e per questo ad essi è giustamente affidato il compito di proteggerle; eppure c’è una grande superiorità che le donne si possono vantare di avere rispetto agli uomini: nessuna donna ha mai avuto gli organi genitali schiacciati fra le proprie ossa pelviche e l’ossuta schiena di uno di quei bruti galoppanti. Questo accadde invece a me venti o trenta volta prima che ci arrestassimo, e quando alla fine scivolai giù, balzando da un lato per schivare un calcio, non ero precisamente di buon umore.
Ci eravamo arrestati in uno di quei piccoli campi sperduti che talvolta si trovano fra le colline, un’area più o meno pianeggiante e con un diametro di un centinaio di passi. Una tenda delle dimensioni di una casetta era stata eretta nel centro e dinnanzi ad essa sventolava una sbiadita bandiera nera e verde. Parecchie cavalcature impastoiate pascolavano liberamente sul campo ed un ugual numero di uomini laceri, con un gruppetto di donne trasandate, oziava nelle vicinanze, pulendo armature, dormendo e giocando.
— Guardate qui! — gridò il mio benefattore, smontando per fermarsi accanto a me. — C’è una nuova recluta! — E, rivolto a me, annunciò: — Severian di Nessus, sei alla presenza del Diciottesimo Bacele dei Contarii Irregolari, ognuno dei quali è un combattente di provato coraggio quando c’è da guadagnare un po’ di denaro.
Gli uomini laceri e le donne si alzarono e si avvicinarono, molti sorridendo in modo franco, guidati da un uomo alto e molto magro.
— Camerati, vi affido Severian di Nessus! Severian — continuò il mio benefattore, — io sono il tuo condottiero. Chiamami Guasacht. Quella canna da pesca, là, anche più alto di te, è il mio secondo, Erblon. Gli altri si presenteranno da soli, ne sono certo.
Uno dei più massicci, un uomo ursino quasi alto come me e che pesava almeno il doppio, fece un gesto in direzione del falcione.
— Non hai un fodero per quello? Vediamolo un po’. Glielo porsi senza discutere: qualsiasi cosa sarebbe accaduta, non sarebbe certo stata occasione per uccidere.
— Così, sei un cavaliere, vero?
— No — replicai. — Ho cavalcato un po’, ma non mi considero un esperto.
— Ma sai come cavartela con un destriero?
— So meglio come maneggiare uomini e donne.
A quelle parole, tutti risero, e l’uomo grosso aggiunse:
— Bene, questo è ottimo, perché probabilmente non dovrai cavalcare molto, ma conoscere a fondo le donne… ed i destrieri… ti aiuterà.
Mentre parlava, sentii un suono di zoccoli. Due uomini stavano conducendo avanti un pezzato, muscoloso e dagli occhi selvaggi. Le sue redini erano state divise ed allungate, in modo da permettere ai due uomini di tenersi al lati della testa, a circa tre passi di distanza da essa. Una sgualdrinella dai capelli color volpe e dal volto ridente, sedeva tranquilla in sella, e, al posto delle redini, teneva un frustino da equitazione in ciascuna mano. I soldati e le donne gridarono ed applaudirono, ed a quel suono il pezzato indietreggiò come un vortice di vento e percosse l’aria con gli zoccoli, mostrando le tre escrescenze ossee delle zampe che noi chiamiamo zoccoli per quel che erano… artigli adatti quasi altrettanto bene al combattimento come allo sradicare l’erba. Le loro finte erano più rapide dei miei occhi.
Il grosso uomo mi diede una pacca sulle spalle.
— Non è il migliore che abbia mai avuto, ma è abbastanza buono, e l’ho addestrato io stesso. Mesrop e Lactan, là, stanno per passarti quelle redini, e tutto quello che devi fare è saltargli in sella. Se ci riuscirai senza buttare giù Daria, te la potrai tenere fino a che non vi avremo raggiunti. — Sollevò la voce. — D’accordo, lasciatelo andare!
Mi ero aspettato che i due uomini mi porgessero le redini, ma invece me le gettarono in faccia, e, nel tentativo di afferrarle, le mancai entrambe. Qualcuno pungolò il pezzato da dietro, ed il grosso uomo emise un particolare e penetrante fischio. Al pezzato era stato insegnato a combattere, come ai destrieri della Torre dell’Orso, e, sebbene i suoi lunghi denti non fossero stati rivestiti di metallo, erano però stati lasciati come la natura li aveva fatti, e sporgevano dalla bocca come due pugnali.
Schivai una saettante zampa anteriore e tentai di afferrare la cavezza; un colpo di uno dei frustini mi colse in pieno volto, e l’impeto del pezzato mi mandò lungo disteso.
I soldati dovettero trattenerlo, altrimenti mi avrebbe calpestato. Forse mi aiutarono anche ad alzarmi in piedi… non posso esserne certo. Avevo la gola piena di polvere, ed il sangue mi gocciolava negli occhi dalla fronte.
Mi avvicinai di nuovo girando sulla destra per tenermi alla larga dagli zoccoli, ma la bestia si volse più rapida di me e la ragazza chiamata Daria mi fece schioccare entrambe le fruste dinnanzi al volto per tenermi a distanza… Più per l’ira che per un piano preciso, ne afferrai una: la corda dell’impugnatura le passava intorno al polso, e, quando tirai la frusta, la ragazza le andò dietro, finendomi fra le braccia. Mi morse un orecchio, ma riuscii a prenderla per la collottola, a farla girare, e, affondate le dita in una coscia soda, la sollevai. Scalciando nell’aria, le sue gambe parvero spaventare il pezzato, che io feci indietreggiare fra la folla fino a quando uno dei suoi tormentatori non lo spinse di nuovo verso di me, poi misi un piede sulle redini.
Dopo, il resto fu facile. Lasciai cadere la ragazza, afferrai la cavezza e torsi il collo al destriero facendogli mancare di sotto le zampe anteriori con un calcio, come ci viene insegnato di fare con i clienti riottosi. Si abbatté con un acuto strillo animalesco, ed io fui in sella prima che riuscisse a rimettersi in piedi, e di là gli sferzai i fianchi con le redini, facendolo balzare fra la folla; quindi lo costrinsi a girare e caricai ancora.
Per tutta la mia vita avevo sentito parlare dell’eccitamento dato da quel tipo di combattimento, anche se non lo avevo mai sperimentato, ed ora stavo scoprendo che era più che vero. I soldati e le loro donne gridavano e correvano, e qualcuno aveva estratto una spada, ma avrebbero potuto minacciare un tuono con maggiore efficacia… cavalcai sopra una mezza dozzina di loro in una sola passata. I capelli rossi della ragazza sventolavano come una bandiera mentre fuggiva, ma nessun paio di gambe umane avrebbe potuto distanziare quelle dello stallone. Le passai accanto in un lampo, la afferrai per quella fiammeggiante bandiera, e la trassi in sella dinnanzi a me.
Una pista contorta portava ad uno scuro dirupo, e questo ad un altro. I daini si sparpagliarono dinnanzi a noi; in tre balzi raggiungemmo un cervo dal manto vellutato e lo allontanammo con una spallata dal sentiero. Quando ero Littore di Thrax, avevo sentito dire che spesso gli eclettici inseguivano la selvaggina e balzavano dalle loro cavalcature per trafiggerla. Adesso credo a quelle storie… avrei potuto tagliare la gola a quel cervo con un coltello da macellaio.
Ce lo lasciammo alle spalle e superammo una nuova collina, saettando giù in una silenziosa valle alberata. Quando il pezzato ebbe esaurito le energie, gli permisi di scegliersi la strada fra gli alberi, i più grossi che avessi visto da quando avevo lasciato Saltus; e quando si arrestò per pascolare fra la tenera erba sparsa che cresceva fra le radici, lo fermai, gettai le redini a terra come avevo visto fare a Guasacht, quindi smontai ed aiutai la ragazza dai capelli rossi a scendere.
— Grazie — mi disse, e poi aggiunse: — Ce l’hai fatta. Non credevo ci saresti riuscito.
— Altrimenti non avresti accettato la cosa? Avevo supposto che ti avessero costretta.
— Non ti avrei colpito con la frusta. Ora ti vorrai ripagare, vero? Colle redini, suppongo.
— Cosa te lo fa credere? — Ero stanco e sedetti. Fiori gialli, ciascuno non più grosso di una goccia d’acqua, crescevano fra l’erba. Ne raccolsi alcuni e trovai che profumavano di calambac.
— Sembri il tipo, e poi mi hai presa a testa in giù, e gli uomini che lo fanno hanno sempre voglia di colpire il sedere.
— Non lo sapevo, ma è interessante.
— Ne conosco un mucchio… di quel tipo. — Si sedette accanto a me, rapida e graziosa, e mi mise una mano sul ginocchio. — Ascolta, era l’iniziazione, tutto qui. Facciamo a turno, e toccava a me e si aspettavano che ti colpissi. Ora è finito.
— Capisco.
— Allora non mi farai alcun male? Meraviglioso! Possiamo stare bene qui, davvero. Tutto quello che vuoi e quanto ne vuoi, e non torneremo indietro fino a che sarà ora di mangiare.
— Non ho detto che non ti avrei fatto del male.
Il suo volto, che si era alterato per esibire sorrisi forzati, si fece sgomento, e la ragazza abbassò gli occhi al suolo. Le suggerii di scappare via.
— Questo ti farebbe soltanto divertire di più, e mi faresti ancora più male prima che avessimo finito. — La sua mano risalì la mia coscia mentre lei parlava. — Sei carino, lo sai? Così alto, e con quegli occhi luminosi. — Si chinò in avanti, premendo il volto nel mio grembo poi si raddrizzò immediatamente. — Potrebbe essere bello. Lo potrebbe davvero.
— Oppure ti potresti uccidere. Hai un coltello?
Per un istante, la sua bocca formò un cerchio perfetto.
— Sei pazzo, vero? Avrei dovuto saperlo. — Balzò in piedi.
L’afferrai per una caviglia e la mandai a cadere distesa nell’erba. La sua tunica era consunta dall’uso e venne via con uno strattone.
— Avevi detto che non saresti fuggita.
Mi guardò da sopra la spalla con occhi dilatati, ed aggiunsi:
— Tu non hai alcun potere su di me, né tu né loro. Io non temo la sofferenza o la morte. C’è una sola donna vivente che io desideri e nessun uomo tranne me stesso.
XX
DI PATTUGLIA
Occupavamo un perimetro il cui diametro non superava i duecento passi. Per lo più, i nostri nemici erano armati soltanto di coltelli e di asce. Quelle asce e gli abiti laceri mi ricordavano i volontari contro i quali avevo aiutato Vodalus nella nostra necropoli… ma erano già centinaia e ne stavano arrivando altri.
Il bacele aveva sellato i cavalli e lasciato il campo prima dell’alba. Le ombre erano ancora lunghe sul fronte in movimento, quando un esploratore aveva mostrato a Guasacht i profondi solchi di una carrozza che stava viaggiando verso nord. Per tre turni di guardia, l’avevamo seguita.
I razziatori Asciani che l’avevano catturata combattevano bene, piegando a sud per sorprenderci, e poi ad ovest e quindi nuovamente a nord come un serpente che si contorcesse; ma si lasciavano sempre dietro una scia di morti, presi fra il nostro fuoco e quello delle guardie all’interno del veicolo, che sparavano loro attraverso le feritoie. Fu soltanto verso la fine, quando gli Asciani non furono più in grado di fuggire, che ci rendemmo conto della presenza di altri cacciatori.
Verso mezzogiorno, la valletta era circondata. La lucente carrozza d’acciaio, con i suoi prigionieri morti e moribondi, si era infangata fino ai mozzi delle ruote, ed i prigionieri Asciani se ne stavano accoccolati dinnanzi ad essa, sorvegliati dai nostri feriti. Il comandante Asciano parlava la nostra lingua, e, un turno di guardia prima, Guasacht gli aveva ordinato di liberare la carrozza dal fango ed aveva fatto abbattere parecchi Asciani quando non ci erano riusciti. Ne rimanevano poco più di una trentina, seminudi, inerti e con gli occhi vacui. Le loro armi erano ammucchiate ad una certa distanza, vicino ai nostri cavalli impastoiati.
Adesso Guasacht stava facendo un giro di controllo e lo vidi soffermarsi presso un pezzo di tronco che proteggeva il soldato che mi stava accanto. Uno dei nemici, una donna, fece capolino da dietro un ammasso cespuglioso su per il pendio. Il mio contus la colpì con una scarica di fiamme e la donna sobbalzò per riflesso, poi si raggomitolò come fanno i ragni quando vengono gettati nel fuoco. Aveva un volto pallido sotto la fascia rossa che le cingeva la fronte, e compresi che era stata costretta a guardare… che qualcuno fra coloro che si celavano dietro quei cespugli l’aveva avuta in antipatia, o almeno l’aveva considerata sacrificabile, e l’aveva forzata a guardare fuori. Feci ancora fuoco, colpendo la verzura con il raggio e generando una folata di fumo acre che soffiò verso di me come se fosse stato il suo spirito.
— Non sprecare quelle cariche — mi ammonì Guasacht. Più per abitudine, credo, che per timore, si era gettato a terra accanto a me.
Chiesi se le cariche si sarebbero esaurite prima di notte se avessi sparato sei volte per turno di guardia, ed egli scrollò le spalle, poi scosse il capo.
— Questa è la velocità con cui ho fatto fuoco, stando a quanto posso giudicare dal sole. E quando scenderà la notte…
Lo guardai, ed egli poté solo scrollare di nuovo le spalle.
— Quando scenderà la notte — proseguii, — non riusciremo a vederli fino a che non saranno a pochi passi di distanza. Spareremo più o meno a casaccio, e ne uccideremo qualche altra ventina, poi estrarremo le spade e ci metteremo schiena contro schiena, e loro ci uccideranno.
— Gli aiuti arriveranno prima di allora — replicò Guasacht, e, quando notò che non gli credevo, sputò al suolo. — Vorrei non aver mai guardato la traccia di quella dannata cosa. Vorrei non averne mai sentito parlare.
— Restituiscila agli Asciani. — Fu la mia volta di scrollare le spalle. — Così riusciremo facilmente ad aprirci un varco.
— Si tratta di soldi, te lo dico io! È troppo pesante perché possa trattarsi d’altro. È l’oro per pagare i nostri soldati.
— Il rivestimento deve pesare parecchio.
— Non così tanto. Ho già visto quelle carrozze prima d’ora, e contengono l’oro proveniente da Nessus o dalla Casa Assoluta. Ma quelle cose all’interno… chi ha mai visto creature simili?
— Io le ho viste.
Guasacht mi fissò.
— Quando ho oltrepassato la Porta della Pietà, nelle Mura di Nessus. Sono uomini-bestia, creati con le stesse arti che hanno reso i nostri destrieri più veloci degli antichi motori. — Tentai di ricordare cos’altro Jonas mi avesse detto su di loro, e terminai, piuttosto debolmente, dicendo: — L’Autarca li utilizza per compiti troppo faticosi per gli uomini, o per i quali gli uomini non danno affidamento.
— Suppongo che questo possa essere abbastanza esatto. Essi non possono certo rubare il denaro. Dove andrebbero? Ascolta, ti ho tenuto d’occhio.
— Lo so — replicai, — me ne sono accorto.
— Ti ho tenuto d’occhio, ho detto. Particolarmente da quando hai costretto quel tuo pezzato a dare addosso all’uomo che lo aveva addestrato. Quassù in Orithya, vediamo un mucchio di uomini forti e molto coraggiosi… soprattutto quando camminiamo sui loro corpi. Vediamo anche parecchi uomini furbi, e diciannove su venti sono troppo furbi per poter essere di qualsiasi utilità a chiunque, compresi se stessi. Ciò che ha valore sono gli uomini, e, qualche volta, le donne, che posseggono un certo tipo di potere, il potere che spinge le altre persone a desiderare di fare ciò che essi dicono. Non intendo vantarmi, ma io ho questo potere, ed anche tu lo possiedi.
— Prima d’ora non è stato eccessivamente apparente nella mia vita.
— Qualche volta, ci vuole la guerra per farlo affiorare. Questo è uno dei benefici della guerra, e, dal momento che essa non ne ha molti, dobbiamo apprezzare quelli che ha. Severian, voglio che tu ti avvicini alla carrozza per trattare con quegli uomini-bestia. Dici di sapere qualcosa su di loro. Inducili a venire fuori e ad aiutarci a combattere. Siamo entrambi dalla stessa parte, dopo tutto.
— E — risposi, annuendo, — se mi riesce d’indurii ad aprire la porta, potremmo dividere il denaro fra noi. Alcuni di noi, per lo meno, potranno fuggire.
— Cosa ti ho detto poco fa circa l’essere furbi? — Guasacht scosse il capo con disgusto. — Se tu fossi veramente furbo, non lo avresti ignorato. No, dì loro che anche se sono soltanto tre o quattro, ogni combattente conta. Inoltre, esiste una minima probabilità che la loro vista spaventi questi dannati predoni. Dammi il tuo contus, ed io terrò la postazione fino al tuo ritorno.
— Chi è questa gente, tra parentesi? — chiesi, porgendogli la lunga arma.
— Questi? Seguaci dei soldati, vivandieri e prostitute, diseriori… uomini e donne. Di tanto in tanto, l’Autarca o uno dei suoi ufficiali li fa radunare e li mette al lavoro, ma scivolano presto via di nuovo. Scivolare via è la loro specialità. Dovrebbero essere spazzati via.
— Ho la tua autorità per trattare con i prigionieri nella carrozza? Mi sosterrai dopo?
— Quelli non sono prigionieri… ecco, sì, suppongo lo siano. Tu riferisci loro quel che ti ho detto e concludi il miglior accordo possibile. Ti sosterrò.
Lo fissai per un momento, tentando di decidere se diceva sul serio. Come tanti uomini di mezz’età, egli portava sul volto le tracce del vecchio che sarebbe diventato, amaro ed osceno, che già borbottava fra sé le obiezioni e le proteste che sarebbero state sue nel combattimento finale.
— Hai la mia parola. Procedi.
— D’accordo. — Mi alzai. La carrozza corazzata ricordava quelle che venivano utilizzate per trasportare nella nostra torre nella Cittadella i clienti più importanti. Le sue finestre erano strette e sbarrate, le ruote poteriori alte quanto un uomo. I lisci fianchi d’acciaio facevano pensare a quelle arti da tempo perdute che avevo menzionato a Guasacht, e sapevo che gli uomini-bestia rinchiusi all’interno avevano armi migliori delle nostre. Protesi le mani per far vedere che ero disarmato, e camminai con la massima fermezza possibile verso di loro fino a che una faccia apparve all’inferriata di una finestra.
Quando si sente parlare di simili creature, s’immagina qualcosa di stabile, a metà fra l’uomo e la bestia, ma quando li si vede effettivamente… come io vedevo ora quell’uomo-bestia, e come avevo visto gli uomini-scimmia nella miniera vicino a Saltus… essi non sono affatto così. Il migliore paragone possibile è quello con una betulla argentea agitata dal vento. Un momento, essa sembra un albero comune, e quello successivo, quando sono visibili i lati inferiori delle foglie, una creatura soprannaturale. Così è anche con gli uomini-bestia. All’inizio, ebbi l’impressione che un mastino mi stesse sbirciando fra le sbarre, ma poi mi parve trattarsi piuttosto di un uomo, nobilmente brutto, con il volto rossiccio e gli occhi color ambra. Sollevai la mano verso la griglia perché la fiutasse, ricordandomi di Triskele.
— Cosa vuoi? — La voce era aspra, ma non spiacevole.
— Voglio salvare le vostre vita — replicai. Era la cosa più sbagliata da dire, e lo compresi nel momento in cui le parole mi uscirono di bocca.
— Noi vogliamo salvare il nostro onore.
— L’onore è più importante della vita — convenni.
— Se puoi dirci come salvare il nostro onore, parla e noi ascolteremo. Ma non consegneremo mai ciò che ci è stato affidato.
— Lo avete già consegnato.
Il vento cessò, ed il mastino ricomparve immediatamente, i denti lampeggianti e gli occhi ardenti.
— Non è stato per proteggere l’oro degli Asciani che siete stati messi su questa carrozza, ma per difenderlo da coloro che appartengono alla nostra stessa Repubblica e che lo ruberebbero se solo potessero. Gli Asciani sono battuti, guardali. Noi siamo gli umani leali all’Autarca. Coloro contro i quali siete stati messi di guardia ci sopraffarranno presto.
— Essi dovranno uccidere me ed i miei compagni prima di arrivare all’oro. Dunque, era proprio oro.
— Lo faranno — risposi. — Venite fuori ed aiutateci a combattere fino a che esiste ancora una possibilità di vincere.
Esitò, e non fui più del tutto certo di aver completamente sbagliato prima, quando avevo innanzitutto parlato di salvare la sua vita.
— No — rispose, — non possiamo. Quello che tu dici può essere ragionevole, ma noi non lo sappiamo. La nostra legge non è quella della ragione, ma quella dell’onore e dell’obbedienza. Rimarremo.
— Ma sai che noi non siamo vostri nemici?
— Chiunque cerchi ciò che proteggiamo è nostro nemico.
— Lo stiamo proteggendo anche noi. Se questi disertori e sbandati arriveranno a portata di tiro delle vostre armi, sparerete loro contro?
— Certo, naturalmente.
Mi avvicinai allo scoraggiato gruppo di Asciani e chiesi di parlare con il loro comandante. L’uomo che si alzò era appena più alto di statura degli altri, e il tipo d’intelligenza che appariva sul suo volto era quello che talvolta si nota nei pazzi dotati di furbizia. Gli dissi che Guasacht mi aveva mandato a trattare in vece sua perché avevo spesso parlato con prigionieri Asciani e sapevo come fare. Quelle parole furono udite, come era mia intenzione, anche dai tre feriti di guardia, che potevano vedere Guasacht tenere la mia postazione lungo il perimetro.
— Saluti in nome del Gruppo del Diciassette — disse l’Asciano.
— Nel nome del Gruppo del Diciassette — ripetei. L’Asciano parve sorpreso ma annuì. — Siamo circondati — proseguii, — da sudditi sleali all’Autarca che sono pertanto nemici sia dell’Autarca che del Gruppo del Diciassette. Il nostro comandante, Guasacht, ha studiato un piano che ci lascerà tutti vivi e liberi.
— I servitori del Gruppo del Diciassette non devono essere sacrificati senza scopo.
— Precisamente. Ecco il piano. Attaccheremo alcuni dei nostri destrieri alla carrozza d’acciaio… quanti saranno necessari per liberarla. Anche tu e la tua gente dovrete lavorare per liberarla. Quando sarà uscita dal fango, vi restituiremo le armi e vi aiuteremo ad aprirvi combattendo la strada attraverso questo cordone di uomini. I tuoi soldati ed i nostri andranno a nord, e tu potrai tenere la carrozza ed il denaro che c’è dentro per farli vedere ai tuoi superiori, proprio come speravi quando l’hai catturata.
— La luce del Corretto Pensiero penetra perfino l’oscurità.
— No, noi non siamo passati dalla parte del Gruppo del Diciassette. Voi ci dovrete dare in cambio il vostro aiuto. In primo luogo, aiutarci a far uscire quella carrozza dal fango. In secondo luogo, aiutarci ad aprirci un varco combattendo. In terzo luogo, fornirci una scorta che ci faccia passare attraverso il vostro esercito e tornare alle nostre linee.
L’Ufficiale Asciano lanciò un’occhiata in tralice in direzione della lucente carrozza.
— Nessun fallimento è tale in permanenza. Ma l’inevitabile successo può richiedere nuovi piani ed una forza maggiore.
— Allora tu approvi il mio nuovo piano? — Non mi ero accorto che stavo sudando, ma ora il sudore mi scorreva pungente negli occhi. Mi asciugai la fronte con il bordo del mantello, proprio come usava fare il Maestro Gurloes.
— Lo studio del Corretto Pensiero — annuì l’ufficiale Asciano, — rivela alla fine il sentiero del successo.
Quando tornai alla carrozza, lo stesso uomo-bestia con cui avevo parlato in precedenza si mostrò al finestrino, ma questa volta non era più così ostile.
— Gli Asciani hanno acconsentito ad aiutarci ancora una volta a tentare di liberare quest’aggeggio — spiegai. — Lo dovremo scaricare.
— Questo è impossibile.
— Se non lo facciamo, l’oro andrà perduto con il calare del sole. Non vi sto chiedendo di rinunciare ad esso… solo di portarlo fuori e di fargli la guardia. Avrete le vostre armi, e se qualche umano armato si dovesse avvicinare a voi, lo potrete uccidere. Io rimarrò con voi, disarmato. Potrete uccidere anche me.
Mi ci vollero molte altre chiacchiere, ma alla fine lo fecero. Ordinai ai tre feriti di guardia agli Asciani di posare i loro conti e di attaccare otto dei nostri destrieri alla carrozza, quindi feci mettere, in posizione gli Asciani, perché tirassero i finimenti e sollevassero le ruote. Allora, la porta nel fianco della carrozza di ferro si spalancò e gli uomini-bestia portarono fuori piccole cassette di metallo, e due soli di loro lavorarono, mentre il terzo, quello con cui avevo parlato, rimaneva di guardia. Erano anche più alti di quanto mi fossi aspettato, e disponevano di fucili, più le pistole infilate nelle cinture… le prime pistole che avessi visto da quando gli Hieroduli le avevano usate per deviare le cariche di Baldanders, nei giardini della Casa Assoluta.
Quando tutte le cassette furono fuori, con i tre uomini-bestia disposti di guardia con le armi pronte, gridai. I soldati feriti frustarono tutti i destrieri aggiogati alla carrozza, gli Asciani sollevarono fino a che gli occhi furono sul punto di schizzare fuori dalle facce tese… e proprio quando cominciavamo tutti a pensare che non ce l’avremmo fatta, la carrozza d’acciaio si liberò dal fango e procedette di una mezza catena prima che i soldati feriti riuscissero a farla arrestare. Guasacht per poco non ci fece uccidere tutti, venendo di corsa dal perimetro di guardia ed agitando il mio contus sopra la testa, ma gli uomini-bestia ebbero abbastanza buon senso da vedere che era semplicemente eccitato e non pericoloso.
Guasacht si agitò ancora di più quando vide gli uomini-bestia riportare l’oro all’interno della carrozza, e quando sentì quello che avevo promesso agli Asciani. Gli ricordai che mi aveva lasciato libero di trattare in suo nome.
— Quando io agisco — farfugliò, — è con l’idea di vincere.
Confessai di non avere tutta la sua esperienza militare, ma gli spiegai che avevo scoperto come in alcune situazioni vincere consistesse semplicemente nel disimpegnare se stessi dal nemico.
— Nonostante tutto, speravo che tu riuscissi ad escogitare qualcosa di meglio.
Continuando a sollevarsi mentre noi rimanevamo inconsapevoli del loro movimento, i picchi montani ad ovest stavano già tentando di artigliare la parte inferiore del sole. Glielo feci notare ed improvvisamente Guasacht sorrise.
— Dopo tutto, questi sono gli stessi Asciani cui abbiamo già preso una volta la preda.
Convocò l’ufficiale Asciano e gli disse che i nostri soldati a cavallo avrebbero guidato l’attacco, mentre i suoi uomini avrebbero potuto seguire a piedi la carrozza d’acciaio. L’Asciano si dichiarò d’accordo, ma, quando i suoi soldati ebbero ripreso le armi, insistette per collocarne una mezza dozzina sul tetto della carrozza e per condurre egli stesso l’attacco con i rimanenti. Guasacht acconsentì con una mala grazia che mi parve del tutto simulata. Facemmo montare un soldato armato in sella a ciascuno degli otto destrieri della nuova pariglia, e scorsi Guasacht parlare con estrema serietà con il loro capo.
Avevo promesso all’Asciano che avremmo spezzato il cordone dei disertori verso nord, ma il terreno in quella direzione si dimostrò inadatto alla carrozza d’acciaio, ed alla fine si decise per un tracciato che andava verso nord ovest. La fanteria Asciana avanzò ad un passo appena più lento di un’andatura di corsa, sparando mentre si muoveva, seguita dalla carrozza. I corti e persistenti raggi dei conti dei soldati trapassarono la massa di straccioni che tentava di serrarsi intorno a noi, e gli archibugi degli Asciani sul tetto del veicolo riversarono fra loro sprazzi di energia violetta. Gli uomini-bestia facevano fuoco con i fucili attraverso le finestre sbarrate, uccidendo ad ogni colpo una mezza dozzina di avversari.
Il rimanente delle nostre truppe, ed io con gli altri, seguimmo la carrozza, avendo mantenuto la nostra postazione lungo il perimetro fino a che non se n’era andata. Per risparmiare cariche preziose, molti di noi infilarono i loro conti negli anelli delle selle, estrassero le spade e cavalcarono attraverso i resti sbandati che gli Asciani e la carrozza si erano lasciati alle spalle.
Poi il nemico fu superato ed il terreno si fece più sgombro. Immediatamente, i soldati le cui cavalcature trainavano la carrozza, conficcarono gli speroni nei fianchi dei destrieri, e Guasacht, Erblon e parecchi altri che cavalcavano subito dietro di essa spazzarono via gli Asciani dal suo tetto in una nube di fiamme carminie e di fumo acre. Quelli a piedi si sparpagliarono e poi si volsero per fare fuoco.
Fu un combattimento cui sentivo di non poter prendere parte. Tirai le redini e così vidi… prima, credo, di chiunque altro, il primo degli anpiels che scendevano, come l’angelo della fiaba di Melito, dalle nubi illuminate dal sole. Erano belli da guardare, con i nudi corpi snelli che sembravano appartenere a giovani donne; ma le ali color dell’arcobaleno erano più ampie di quelle di qualsiasi teratornide, e ciascun anpiel faceva fuoco con una pistola per mano.
Più tardi, quella notte, dopo esser tornati al campo ed esserci presi cura dei feriti, chiesi a Guasacht se avrebbe ripetuto ciò che aveva fatto.
— Non avevo modo di sapere — rispose dopo un momento di riflessione, — che quelle ragazze volanti sarebbero arrivate. Guardando le cose in retrospettiva, è abbastanza naturale… in quella carrozza doveva esserci denaro sufficiente a pagare mezzo esercito e non avrebbero esitato a farlo custodire dai soldati migliori. Ma, prima che accadesse, chi avrebbe potuto immaginarlo?
Scossi il capo.
— Ascolta, Severian, io non ti dovrei parlare in questo modo. Ma tu hai fatto quello che potevi, e sei il miglior medico che abbia mai conosciuto. Comunque, alla fine è andato tutto bene, eh? Hai notato com’era cordiale la loro comandante? Che cos’ha visto, dopo tutto? Un gruppo di bravi ragazzi che cercava di salvare la carrozza dagli Asciani. Riceveremo un elogio, credo, e magari una ricompensa.
— Avresti potuto uccidere gli uomini-bestia, ed anche gli Asciani — obiettai, — quando l’oro era fuori dalla carrozza. Non l’hai fatto perché io sarei morto con loro. Ti meriti una ricompensa, almeno da parte mia.
Si massaggiò il volto tirato con entrambe le mani.
— Ecco, io sono altrettanto felice della cosa. Quella sarebbe stata la fine del Diciottesimo: nel giro di un altro turno di guardia avremmo cominciato ad ucciderci a vicenda per quel denaro.
XXI
LO SPIEGAMENTO
Prima della battaglia ci furono altri pattugliamenti e giornate di ozio. Molto spesso non vedemmo alcun Asciano, o soltanto i loro morti. Avremmo dovuto arrestare i disertori e scacciare dalla zona gli ambulanti ed i vagabondi che s’ingrassavano alle spalle dell’esercito; tuttavia, se ci sembrava che coloro in cui c’imbattevamo appartenessero alla stessa risma della gente che aveva circondato la carrozza d’acciaio, li uccidevamo, non con un’esecuzione formale, ma abbattendoli semplicemente di sella.
La luna si fece di nuovo quasi piena, e parve pendere nel cielo come una mela verde. I combattenti veterani mi raccontarono che i combattimenti peggiori si scatenavano sempre quando la luna era piena o quasi, fattore, questo, che sembrava indurre una sorta di follia. Suppongo che il fenomeno fosse in realtà dovuto al fatto che la luce lunare permetteva ai generali di far arrivare i rinforzi durante la notte.
Il giorno della battaglia, lo squillo della tromba ci fece abbandonare le coperte all’alba. Formammo una lacera doppia colonna nella nebbia, con Guasacht alla testa ed Erblon che lo seguiva con la nostra bandiera. Avevo supposto che le donne sarebbero rimaste al campo… come la maggior parte di loro aveva fatto quando eravamo andati di pattuglia… ma più della metà impugnarono i loro conti e vennero con noi. Notai che quelle che possedevano un elmo lo usavano per nascondervi dentro i capelli, e che molte portavano i corsetti che appiattivano e nascondevano i seni. Lo feci notare a Mesrop, che cavalcava di fianco a me.
— Potrebbero sorgere problemi a proposito della paga — mi spiegò. — Verremo contati da qualcuno con gli occhi acuti, ed i contratti di solito richiedono uomini.
— Guasacht ha detto che avremmo fatto altri soldi, oggi — gli ricordai.
Si schiarì la gola e sputò, ed il catarro bianco svani nella nebbia chiara come se la stessa Urth lo avesse inghiottito.
— Non ci pagheranno finché non sarà finita. Non lo fanno mai.
Guasacht gridò ed agitò un braccio, Erblon sventolò la nostra bandiera e partimmo, gli zoccoli delle cavalcature che risuonavano come il battito di cento tamburi soffocati.
— Suppongo — osservai, — che in questo modo non debbano pagare quelli che vengono uccisi.
— Pagano il triplo… una volta perché si è combattuto, una volta per il prezzo del sangue ed una volta per il congedo.
— Vale anche per le donne, suppongo.
Mesrop sputò di nuovo.
Cavalcammo per qualche tempo, poi ci arrestammo in un punto che non sembrava diverso da qualsiasi altro. Quando la colonna si fece silenziosa, udii un ronzio o un mormorio nelle colline intorno a noi. Un’armata sparpagliata, mantenuta dispersa senza dubbio per motivi sanitari, si stava attualmente radunando come le particelle di polvere nella città di pietra si erano unite a formare i corpi dei danzatori resuscitati.
E la cosa non passò inosservata. Così come gli uccelli da preda ci avevano seguiti prima ancora che raggiungessimo quella città, ora sagome a cinque braccia e roteanti come ruote ci seguirono al di sopra della sparse nubi che si stavano attenuando e dissolvendo nella piana, rossa luce dell’alba. All’inizio, quando si trovavano alla massima altezza, le forme parvero grige, ma, mentre le osservavamo, calarono verso di noi, e notai che erano di una tonalità per cui non riuscivo a trovare un nome, ma che stava alla mancanza di colore come l’oro sta al giallo o l’argento al bianco. L’aria prese a gemere per il loro vorticare.
Un’altra macchina che non avevamo visto balzò attraverso il nostro sentiero, appena più alta delle cime degli alberi. Ciascun raggio era lungo quanto una torre e pieno di finestre ed oblò, e, anche se l’apparecchio giaceva piatto nell’aria, sembrava avanzare a grandi passi. Il vento da esso sollevato scese sibilando su di noi, come se avesse voluto spazzare via gli alberi, ed il mio pezzato emise uno stridio e sgroppò, come fecero anche molti altri destrieri, parecchi dei quali caddero per via di quello strano vento.
La cosa finì nello spazio di un battito di cuore. Le foglie che avevano roteato intorno a noi come neve, caddero a terra. Guasacht gridò ed Erblon suonò la tromba e brandì la bandiera. Riguadagnato il controllo del pezzato, trottai da un destriero all’altro, tenendoli fermi per le narici fino a che i loro cavalieri non furono di nuovo in grado di controllarli.
Aiutai in questo modo anche Daria, che non sapevo essere anch’ella nella colonna. Aveva un aspetto molto carino e maschile, vestita come un soldato, con un contus e con una sottile sciabola appesa a ciascun lato del corno della sella. Quando la vidi, non potei fare a meno di pensare che aspetto avrebbero avuto nella stessa situazione altre donne che avevo conosciuto. Thecla… ora parte di me stesso… un’amazzone vendicativa con armi avvelenate in pugno. Agia, in sella ad un sauro dalle gambe snelle, con una corazza modellata sulla sua figura, i capelli, intrecciati con nastri, che sventolavano liberi al vento. Jolenta, una regina decorata con fiori, avvolta in una corazza irta di spine, il seno florido e le cosce carnose, assurde per qualsiasi andatura che fosse più veloce del passo, che sorrideva sognante a ciascuna sosta e tentava di appoggiarsi all’indietro sulla sella. Dorcas, una naiade cavallerizza, momentaneamente sollevata come una fontana che brillasse al sole. Valeria, forse una versione aristocratica di Daria.
Quando vidi la nostra gente che si sparpagliava, supposi che sarebbe stato impossibile ricomporre la colonna; ma, nel giro di pochi momenti da quando il velivolo pentadattilo ci fu passato sopra, fummo di nuovo insieme. Galoppammo per una lega o più… soprattutto, sospetto, per far scaricare l’energia nervosa accumulata dai nostri destrieri,… poi ci arrestammo accanto ad una sorgente e permettemmo loro di bere quanto bastava per inumidirsi la gola ma non tanto da venirne rallentati. Quando riuscii ad allontanare il pezzato dalla riva, mi spinsi in una radura da cui potevo osservare il cielo. Ben presto Guasacht mi raggiunse e mi chiese, con fare scherzoso:
— Stai guardando se ne arriva un altro?
Annuii, e gli risposi che non avevo mai visto prima di allora un velivolo del genere.
— Lo credo che tu non l’abbia mai visto, se non sei stato mai vicino al fronte. Non riuscirebbero mai a tornare indietro, se cercassero di spingersi verso sud.
— I soldati come noi non riuscirebbero a fermarli.
Si fece improvvisamente serio, gli occhi piccoli ridotti a due fessure nel volto abbronzato dal sole.
— No, ma un gruppo di ragazzi coraggiosi può fermare le loro scorrerie, cosa che i cannoni e le galee aeree non possono fare.
Il pezzato si mosse e batté la zampa al suolo con impazienza.
— Vengo da una parte della città che forse non hai mai sentito nominare — dissi, — la Cittadella. Là ci sono cannoni che tengono sotto controllo l’intero quartiere, ma non ho mai saputo che fossero stati usati, salvo che per cerimonie. — Continuando a fissare il cielo, m’immaginai quei roteanti pentadattili sopra Nessus, ed un migliaio di lampi, che provenivano non solo dal Barbacane e dalla Grande Fortezza, ma da tutte le torri; e mi chiesi con quali armi avrebbe risposto al fuoco il pentadattilo.
— Vieni via — consigliò Guasacht. — So che è una tentazione stare a guardare se arrivano, ma non serve a nulla.
Lo seguii di nuovo vicino alla sorgente, dove Erblon stava facendo allineare la colonna.
— Non ci sparano neppure contro — osservai. — Eppure devono avere cannoni in quei velivoli.
— Noi siamo pesci troppo piccoli. — Vidi chiaramente che Guasacht desiderava che mi riunissi alla colonna, anche se esitava ad ordinarmelo apertamente.
Da parte mia, potevo sentire la paura serrarmi come uno spettro, con maggior forza intorno alle gambe, ma levando freddi tentacoli fino ai visceri ed arrivando a toccarmi il cuore. Volevo stare in silenzio, ma non riuscivo a smettere di parlare.
— Quando scenderemo sul campo di battaglia… — Credo d’essermelo allora immaginato come il prato rasato del Campo Sanguinario su cui avevo una volta combattuto contro Agilus.
— Quando andremo in battaglia — rise Guasacht, — i nostri cannonieri saranno felici di vederli venirci addosso. — Prima che capissi cosa stava per fare, colpì il pezzato con il piatto della spada e lo fece allontanare al galoppo.
La paura è come una di quelle malattie che sfigurano il volto con piaghe pustolose. Si finisce per aver quasi più paura di essere visti che non della fonte di quelle piaghe, e si arriva a sentirsi non solo disgraziati ma contaminati. Quando il pezzato accennò a rallentare, conficcai i talloni nei suoi fianchi e andai ad allinearmi in coda alla colonna.
Appena poco tempo prima, ero stato sul punto di prendere il posto di Erblon, ma ora ero stato degradato, non da Guasacht, ma da me stesso, alla più infima posizione. Eppure, quando ebbi aiutato a riunire i soldati sparpagliati, la cosa che temevo era già passata; e cosi, l’intero dramma della mia elevazione era stato rappresentato fino in fondo dopo essere terminato con la mia degradazione. Era come se mi fosse capitato di veder oziare nei giardini pubblici un giovane con il petto trapassato da una spada… e poi vederlo, senza essere notato, fare conoscenza con l’avvenente moglie del suo uccisore, ed alla fine, dopo aver appurato che, come pensava, il marito della donna si trovava dall’altra parte della città, stringerla a sé fino a farla gridare per il dolore provocatole dall’elsa della spada che sporgeva dal suo petto.
Quando la colonna prese lentamente ad avanzare, Daria si staccò ed attese fino a che non si poté affiancare a me.
— Tu hai paura — disse, e non era una domanda ma un’affermazione, non un rimprovero ma quasi una parola d’ordine, come le ridicole frasi che avevo appreso al banchetto di Vodalus.
— Sì. Hai intenzione di rammentarmi la mia vanteria di quel giorno nella foresta. Posso solo dire che non sapevo che fosse una vacua vanteria quando l’ho pronunciata. Un certo saggio ha tentato un tempo d’insegnarmi che anche dopo che un cliente è riuscito a controllare una sofferenza, in modo da poterla tenere lontana dalla mente mentre grida e si contorce, un’altra sofferenza del tutto differente può essere altrettanto efficace nello spezzare la sua volontà quanto nello spezzare quella di un bambino. Ho imparato a spiegare tutto questo quando mi veniva richiesto, ma mai, fino ad ora, ad applicarlo, come avrei dovuto, alla mia stessa vita. Ma se io sono il cliente qui, chi è il torturatore?
— Abbiamo tutti più o meno paura — mi spiegò. — È per questo… sì, ho visto… che Guasacht ti ha mandato via, per impedirti di rendere peggiori i suoi sentimenti. Se fossero peggiorati, non sarebbe riuscito a guidarci. Quando verrà il momento, farai quello che dovrai fare, e questo è quanto farà ognuno di loro.
— Non sarebbe meglio che andassimo? — chiesi. La coda della colonna si stava allontanando in quel modo agitato in cui si muove sempre l’estremità di una lunga linea.
— Se ci muoviamo adesso, molti di loro capiranno che siamo indietro perché abbiamo paura. Se aspettiamo ancora un po’ molti di quelli che ti hanno visto parlare con Guasacht penseranno che tu sia stato mandato qui per affrettare i ritardatari, e che io sono venuta per stare con te.
— Va bene — risposi.
La sua mano, umida di sudore e minuta come quella di Dorcas, scivolò nella mia. Fino a quel momento, mi ero sentito certo che Daria avesse già combattuto in passato, ma ora le chiesi:
— È la prima volta anche per te?
— So combattere meglio della maggior parte degli uomini — mi rispose, — e sono stanca di essere definita una sgualdrina.
Insieme, trottammo dietro la colonna.
XXII
LA BATTAGLIA
Li scorsi dapprima come una serie di punti colorati sparsi sul lato più lontano dell’ampia vallata, spadaccini che sembravano muoversi e mescolarsi, come fanno le bolle che danzano sulla superficie di un boccale di sidro. Stavamo trottando attraverso un boschetto di alberi distrutti, il cui legno nudo e bianco assomigliava all’osso vivo di una frattura composta. Adesso la nostra colonna si era notevolmente ingrossata, e comprendeva forse l’intero contingente dei contarii irregolari. Eravamo sotto il fuoco nemico, in modo più o meno incostante, da circa mezzo turno di guardia, ed alcuni soldati erano stati feriti (uno, vicino a me, in modo molto serio) e parecchi altri uccisi. I feriti si curavano da soli e tentavano di aiutarsi a vicenda… se c’era assistenza medica, si trovava troppo indietro rispetto a noi perché potessi esserne consapevole.
Di tanto in tanto, superavamo alcuni cadaveri sparsi fra gli alberi; di solito erano raggruppati in mucchietti di due o tre, ma talvolta si trattava anche di individui isolati. Ne vidi uno che, al momento della morte, era riuscito ad impigliarsi con il colletto della giacca nello spuntone di un tronco spezzato, e rimasi colpito dall’orrore della sua situazione, dal fatto che fosse morto, eppure impossibilitato a riposare, e poi dal pensiero che quella era anche la situazione di tutte le migliaia di alberi che erano stati uccisi ma non potevano cadere.
Quasi nello stesso tempo in cui mi rendevo conto della presenza del nemico, mi accorsi anche che c’erano truppe del nostro esercito su entrambi i lati. Alla nostra destra notai una mescolanza di cavalieri e fanteria, ed i cavalieri erano privi di elmetto ed avevano il petto nudo ed abbronzato, sul quale era appeso un rotolo di coperte rosse o azzurre. Essi avevano, pensai, cavalcature migliori di quelle della maggior parte di noi. Erano armati di lance poco più lunghe dell’altezza di un uomo, e molti le tenevano appoggiate di traverso sulla sella. Ognuno aveva un piccolo scudo di rame assicurato alla parte superiore del braccio sinistro. Non avevo idea da che parte della Repubblica potessero venire quegli uomini, ma per qualche ragione, forse a cause dei loro lunghi capelli e dei petti nudi, mi sentii certo che fossero selvaggi.
Se lo erano, la fanteria che si muoveva fra loro apparteneva ad un livello di civiltà ancora più basso: esseri scuri di pelle, curvi e dai capelli incolti. Riuscii ad intravederli solo saltuariamente fra gli alberi spezzati, ma ebbi l’impressione che talvolta si lasciassero cadere a quattro zampe. Di tanto in tanto, qualcuno sembrava aggrapparsi alla staffa di un cavaliere, come io avevo talvolta afferrato quella di Jonas quando questi cavalcava il suo merichippo. Ogni volta che ciò accadeva, il cavaliere colpiva la mano del compagno con l’impugnatura della lancia.
Una strada attraversava il basso terreno alla nostra sinistra, e su di essa, lungo entrambi i lati, avanzava una forza molto più numerosa della nostra colonna e del complesso dei cavalieri selvaggi e dei loro compagni: c’erano battaglioni di peltasti con lance fiammeggianti e grandi scudi trasparenti; hobilieri montati su cavalcature caracollanti, con archi e faretre di frecce sospesi alla schiena; cherkajis dall’armamento leggero le cui formazioni erano mari di bandiere e piume.
Non potevo sapere nulla del coraggio di quegli strani soldati che erano di colpo divenuti miei camerati, ma presunsi inconsciamente che non fosse maggiore del mio, ed essi sembravano realmente rappresentare una scarsa difesa contro i puntini che si muovevano sul lato opposto. Il fuoco cui eravamo sottoposti si fece più intenso, mentre, per quanto potevo vedere, i nostri nemici non subivano fuoco di sorta.
Solo poche settimane prima (anche se ora mi sembrava fosse passato almeno un anno) sarei rimasto terrorizzato al pensiero che qualcuno mi sparasse con un’arma come quella che Vodalus aveva usato in quella notte nebbiosa nella nostra necropoli, con la cui narrazione ho iniziato questa cronaca.
I colpi che cadevano tutt’intorno a noi facevano ora sembrare quel raggio isolato altrettanto infantile come i proiettili scagliati dall’arciere del capo del villaggio.
Non avevo idea del tipo di congegno usato per produrre quei lampi, oppure se essi fossero fatti di pura energia o fossero generati da qualche tipo di missile; comunque, quando atterravano intorno a noi, la loro natura era quella di un’esplosione prolungata in qualcosa di simile ad un’asta. Inoltre, anche se non era possibile vederli arrivare, quei colpi fischiavano nell’avvicinarsi, e, in base a quella nota fischiante, che non durava più di un battito di ciglia, imparai ben presto a calcolare quanto sarebbero caduti vicino e quanto sarebbe stata violenta la susseguente, estesa detonazione. Se non vi era alcuna variazione di tono, cosicché esso sembrava la nota che un coripaheus è in grado di emettere col suo strumento, il colpo sarebbe caduto ad una certa distanza. Ma se il tono saliva rapidamente, come se una nota dapprima suonata per uomini fosse divenuta una nota per gole femminili, allora l’impatto sarebbe avvenuto nelle vicinanze. E, sebbene solo i più penetranti di quei sibili monotonici fossero pericolosi, ciascuno di essi che si levava in un acuto, reclamava la vita di almeno uno di noi, e spesso di parecchi.
Sembrava pazzia avanzare al trotto come stavamo facendo. Avremmo dovuto sparpagliarci oppure smontare e cercare rifugio fra gli alberi, e se uno di noi lo avesse fatto, credo che gli altri lo avrebbero imitato. Ad ogni colpo che cadeva, arrivavo quasi sul punto di essere io quell’uno, ma, ogni volta, come se la mia mente fosse stata incatenata in un qualche stretto cerchio, il ricordo della paura che avevo in precedenza mostrato di provare mi teneva al mio posto. Che gli altri fuggissero, ed io sarei fuggito con loro, ma non sarei stato io il primo a farlo.
Inevitabilmente, un colpo si abbatté in direzione parallela alla nostra colonna. Sei soldati esplosero come se avessero contenuto nei loro corpi piccole bombe, e la testa del primo scoppiò in un getto scarlatto, il secondo venne colpito al collo ed alle spalle, il terzo al petto, il quarto ed il quinto al ventre e l’ultimo all’inguine (o forse sulla sella e sul dorso del destriero), prima che il raggio raggiungesse il suolo sollevando un getto di polvere e pietre. Anche gli uomini e gli animali che si trovavano dal lato opposto di quelli così distrutti rimasero uccisi, abbattuti dalla forza dell’esplosione e bombardati dagli arti e dai pezzi di armatura dei compagni.
Tenere il pezzato al passo o al massimo al trotto era la cosa peggiore; se non potevo fuggire, allora volevo farmi avanti, dare inizio al combattimento, per morire, se ero effettivamente destinato a questo. Quel colpo mi offrì l’opportunità di dare sfogo ai miei sentimenti. Facendo cenno a Daria di seguirmi, spinsi il pezzato al galoppo oltre il piccolo gruppo di sopravvissuti che si erano trovati fra noi e l’ultimo dei soldati uccisi, ed andai ad occupare la posizione precedentemente tenuta dalle vittime. Mesrop si trovava già là e mi sorrise.
— Buona idea. È probabile che qui non cadrà un altro colpo per un po’.
Evitai di disingannarlo.
Per qualche tempo, comunque, parve che egli avesse ragione. Dopo averci colpiti, i cannonieri nemici spostarono il fuoco sui selvaggi alla nostra destra. La strascicante fanteria strillò e farfugliò quando i colpi si abbatterono sulle sue file, ma i cavalieri reagirono, almeno così parve, invocando una qualche magia che li proteggesse. Spesso i loro canti erano talmente chiari da permettermi di distinguerne le parole, anche se si trattava di un linguaggio sconosciuto. Ad un tratto uno di loro si levò addirittura in piedi sulla sella come se partecipasse ad un’esibizione ippica, e sollevò una mano verso il sole, protendendo l’altra verso gli Asciani. Ogni cavaliere sembrava avere un suo incantesimo personale, ed era facile vedere, man mano che il loro numero si riduceva sotto il bombardamento, come quelle menti primitive arrivassero a credere negli incantesimi, perché i superstiti non potevano fare a meno di pensare di essere stati salvati dalla loro taumaturgia, mentre gli altri non potevano lamentarsi per il modo in cui la loro aveva fallito.
Anche se stavamo avanzando prevalentemente al trotto, non fummo i primi ad ingaggiare la lotta con il nemico. Sul terreno più basso, i cherkajis erano sciamati nella vallata, abbattendosi come un’onda di fuoco contro un quadrato formato da fanteria nemica.
Avevo vagamente supposto che il nemico avrebbe avuto a disposizione armi di gran lunga superiori a quelle possedute da noi contarii… forse pistole e fucili come quelli usati dagli uomini-bestia… e che un centinaio di combattenti così armati avrebbe facilmente distrutto una qualsiasi forza di cavalleria, ma non accadde nulla di simile. Parecchie file del quadrato cedettero, ed io ero abbastanza vicino da poter sentire le grida di guerra dei cavalieri, distanti eppure chiare, e da distinguere i singoli fanti in fuga. Alcuni gettavano via immensi scudi, ancora più grandi di quelli trasparenti dei peltasti, anche se questi brillavano in modo metallico. Le loro armi d’offesa sembravano essere lance dalla testa piatta e non più lunghe di tre cubiti, in grado di emettere getti di fiamma, ma a corto raggio.
Un secondo quadrato di fanteria emerse dietro il primo, seguito da un altro e da un altro ancora, più in giù nella vallata.
Proprio quando cominciavo a sentirmi certo che saremmo andati in aiuto dei cherkajis, ricevemmo l’ordine di arrestarci. Guardando a destra, notai che i selvaggi lo avevano fatto, fermandosi ad una certa distanza da noi, e che erano adesso intenti a raggruppare le pelose creature che li accompagnavano sul lato della loro fila più lontano da noi.
— Dobbiamo formare un blocco! — gridò Guasacht. — Prendetevela calma, ragazzi!
Osservai Daria, che incontrò il mio sguardo con uno altrettanto stupito. Mesrop agitò un lungo braccio in direzione dell’estremità orientale della vallata.
— Stiamo sorvegliando il fianco. Se non arriva nessuno, oggi dovremmo avere una giornata abbastanza buona.
— Eccetto per quelli che sono già morti — replicai. Il bombardamento, che era da un po’ in diminuzione, sembrava ora essere cessato del tutto. Il silenzio generato dalla sua assenza ci circondava, ed era quasi più terrificante di quanto lo erano stati i colpi sibilanti.
— Suppongo di sì. — La sua scrollata disse eloquentemente che avevamo perso solo poche dozzine di uomini su un contingente di centinaia.
I cherkajis erano indietreggiati, ritirandosi dietro uno schermo di hobilers che diressero uno sciame di frecce contro la prima fila della scacchiera degli Asciani. La maggior parte dei dardi parve venire deviata dagli scudi, ma alcuni dovettero conficcarsi in essi, appiccando il fuoco al metallo che prese a bruciare di una fiamma altrettanto viva quanto quella delle frecce, generando nubi di fumo bianco.
Quando la pioggia di frecce rallentò, i quadrati della scacchiera ripresero ad avanzare con movimenti metallici. I cherkajis avevano continuato ad indietreggiare, e si trovavano ora alle spalle di una fila di peltasti, molto poco più avanti rispetto a noi. Potevo distinguere chiaramente i loro volti scuri. Erano tutti uomini, e barbuti, e dovevano essere circa duemila; ma, fra di essi, c’erano una dozzina circa di giovani donne ingioiellate e trasportate su portantine dorate, in groppa ad arsinotteri coperti da gualdrappe.
Quelle donne avevano occhi e pelle scura come gli uomini, eppure, con le loro figure rigogliose e l’aria languida, mi fecero pensare a Jolenta. Le indicai a Daria e le chiesi se sapesse come erano armate, dato che non riuscivo a vedere nessuna arma.
— Ne vorresti una, vero? O magari anche due. Scommetto che ti sembrano belle anche a questa distanza.
— Non dispiacerebbe neppure a me prenderne un paio — osservò Mesrop, ammiccando.
— Combatterebbero come furie — rise Daria, — se uno di voi cercasse di avere qualcosa a che fare con loro. Sono sacre e proibite, le Figlie della Guerra. Ti sei mai avvicinato a quegli animali che le trasportano? — mi chiese, e scossi il capo. — Sono rapidi a caricare e nulla li arresta, ma agiscono sempre nello stesso modo… attaccando di fronte ciò che li infastidisce ed oltrepassandolo di una catena o due. Poi si fermano e tornano indietro.
Osservai quegli animali. Gli arsinotteri hanno due grosse corna… ma esse non si allargano come quelle dei tori, sono corna che divergono fra loro quanto possono divergere l’indice ed il medio della mano di un uomo. Come ebbi presto modo di vedere, quegli animali caricano a testa bassa, tenendo le corna al livello del suolo, e si comportarono esattamente come aveva detto Daria. I cherkajis si ripresero ed attaccarono di nuovo con le snelle lance e le spade forcute. Tenendosi parecchio indietro rispetto a quella carica fiammeggiante, gli arsinotteri avanzarono pesantemente, le teste grigio nere abbassate e le code sollevate, mentre le fanciulle dal volto scuro si tenevano erette sotto i baldacchini aggrappandosi ai pali dorati. Era possibile vedere, dal modo in cui quelle donne stavano in piedi, che le loro cosce erano piene come le mammelle di una mucca da latte e rotonde come il tronco di un albero.
La carica li portò oltre il combattimento vorticoso ed all’interno, ma non troppo, della scacchiera. I fanti Asciani spararono contro i fianchi delle bestie… il che doveva essere come bruciare corno o cuir boli; tentarono di arrampicarsi sulle teste degli animali ma furono gettati in aria, lottarono per arrampicarsi sui fianchi grigi. I cherkajis arrivarono con violenza in soccorso delle fanciulle, e la scacchiera si mosse, straripò e perse un quadrato.
Osservando la cosa a distanza, mi rammentai di aver pensato alle battaglie come a partite a scacchi, e sentii che da qualche parte qualcun altro aveva avuto la stessa idea ed aveva inconsciamente permesso ad essa di modellare i suoi piani.
— Sono splendide — continuò Daria, per stuzzicarmi. — Vengono scelte all’età di dodici anni e nutrite con miele ed oli puri. Ho sentito dire che la loro carne è talmente tenera che non possono giacere sul terreno senza riportare ammaccature. Vengono trasportati materassi di piume perché possano dormire, e se questi vanno perduti, le ragazze si devono sdraiare su un letto di fango che si modelli per sostenere i loro corpi. Gli eunuchi che le accudiscono lo mescolano a vino caldo perché non sentano freddo.
— Dovremmo smontare per risparmiare gli animali — suggerì Mesrop.
Ma io volevo guardare la battaglia, e restai in sella, anche se ben presto soltanto io e Guasacht rimanemmo montati, in tutti il nostro bacele.
I cherkajis erano stati di nuovo respinti, ed ora erano sottoposti al violento bombardamento di un’invisibile artiglieria. I peltasti si lasciarono cadere al suolo, coprendosi con gli scudi, mentre nuovi quadrati di fanteria Asciana emergevano dalla foresta sul lato settentrionale della valle… Sembrava che le loro file fossero senza fine, ed ebbi la sensazione che ci fossimo impegnati a combattere un esercito interminabile.
Quella sensazione si accrebbe quando i cherkajis caricarono per la terza volta. Un raggio colpì un arsinottero, trasformando sia l’animale sia la giovane donna che trasportava in un ammasso sanguinoso. Adesso la fanteria stava sparando contro le donne; una si accartocciò e la portantina svanì in una fiammata, mentre i quadrati di fanteria avanzavano su cadaveri dai vivaci vestiti e su destrieri morti.
Ad ogni passo che fa, in guerra, il vincitore si avvia a perdere. Il guadagno di terreno effettuato dalla scacchiera servì a presentare il fianco del suo quadrato di testa di fronte a noi, e, con mio stupore, ricevemmo l’ordine di montare, di disporci lungo una linea, e di dirigerci contro di esso, dapprima al trotto, quindi al piccolo galoppo, ed infine, mentre le gole d’ottone di tutte le trombe urlavano, in una carica disperata che quasi ci portò via la pelle dal volto.
Se i cherkajis erano armati leggermente, il nostro armamento era ancora più leggero, eppure in quella carica c’era una magia più potente dei canti dei nostri selvaggi alleati. Il fuoco delle nostre armi si abbatté sulle file distanti come le falci attaccano un campo di grano. Sferzai il pezzato con le redini per evitare di essere distanziato dagli zoccoli tonanti che m’incalzavano alle spalle, eppure fui superato ugualmente, e vidi Daria saettare oltre, i capelli di fiamma che svolazzavano liberi, il contus in una mano e la sciabola nell’altra, le guance più bianche dei fianchi schiumati del suo destriero. Compresi allora da dove avesse avuto origine il comportamento dei cherkajis, e cercai di caricare ancor più rapidamente in modo che Daria non morisse, anche se Thecla rise attraverso le mie labbra a quel pensiero.
I destrieri non corrono come le bestie comuni… veleggiano sul suolo come le frecce veleggiano nell’aria. Per un momento, il fuoco della fanteria Asciana distante mezza lega si levò dinnanzi a noi come un muro. Un momento più tardi, fummo in mezzo a loro, le zampe di ogni cavalcatura insanguinate fino al ginocchio. Il quadrato, che ci era parso solido come pietra da costruzione, si tramutò in una folla di frenetici soldati con grossi scudi e teste rasate; soldati che spesso si uccidevano a vicenda nella frenesia di uccidere noi.
Combattere è una cosa stupida, nel migliore dei casi; ma ci sono cose da imparare al riguardo, fra le quali la prima è che il numero degli avversari conta solo alla lunga. All’inizio, si tratta soltanto d’un individuo contro uno o due altri, ed in questo i nostri destrieri ci diedero un notevole vantaggio… non solo a causa della loro altezza e del loro peso, ma anche perché colpivano e mordevano, ed i colpi degli zoccoli erano più possenti di quelli che qualsiasi uomo, eccetto forse Baldanders, avrebbe potuto sferrare.
Un raggio di fuoco colpì il mio contus. Lo lasciai cadere ma continuai ad uccidere, tagliando a destra ed a sinistra con il mio falcione, e notando appena che il colpo mi aveva aperto una ferita nella gamba.
Credo di aver abbattuto una mezza dozzina di Asciani prima di accorgermi che mostravano tutti lo stesso aspetto… non che avessero tutti la stessa faccia (come accade agli uomini di alcune nostre unità, che sono in effetti più simili dei fratelli), ma come se le differenze fra loro fossero secondarie e casuali. Avevo già osservato questo fenomeno fra i nostri prigionieri quando avevamo recuperato la carrozza d’acciaio, ma allora la cosa non mi aveva veramente colpito. Mi colpì invece nella follia della battaglia, perché parve essere un elemento di quella follia. Le frenetiche figure erano maschili e femminili; le donne avevano piccoli seni penduli ed erano di una testa più basse degli uomini, ma non c’era altra differenza. Tutti avevano grandi occhi brillanti e selvaggi, i capelli tagliati cortissimi, volti affamati, bocche urlanti e denti sporgenti.
Ci liberammo dalla stretta nemica come avevano fatto i cherkajis; il quadrato era stato intaccato ma non distrutto, e, mentre davamo alle nostre cavalcature il tempo di riprendere fiato, esso si ricostituì, con i leggeri scudi lucidi davanti… Un lancere si staccò dalle file dei suoi e si mise a correre verso di noi. All’inizio, pensai che fosse soltanto una bravata, poi (man mano che si avvicinava, poiché un uomo normale corre molto meno in fretta di un destriero), che desiderasse arrendersi. Alla fine, quando aveva quasi raggiunto le nostre file, l’uomo fece fuoco con la sua lancia, ed un soldato lo abbatté. Nelle convulsioni della morte, l’uomo gettò in aria la sua lancia fiammeggiante, e ricordo come essa si agitò nel cielo blu cupo.
— Stai sanguinando molto — osservò Guasacht, avvicinandosi al trotto. — Potrai cavalcare quando caricheremo ancora?
Mi sentivo forte come lo ero sempre stato in vita mia e glielo dissi.
— Comunque, farai meglio a bendare quella gamba.
La pelle bruciata si era spaccata e ne stava scaturendo il sangue; Daria, che non aveva ricevuto alcuna ferita, la fasciò.
La carica per cui mi ero preparato non ebbe mai luogo. Del tutto inaspettato, (almeno per quanto mi riguardava), giunse l’ordine di fare dietro front, e ci avviammo al trotto verso nord est sull’aperta pianura ricca d’erba incolta.
I selvaggi sembravano essere svaniti, ed una nuova forza aveva preso il loro posto, sul fianco che era adesso diventato il nostro fronte. All’inizio, pensai che fossero cavalieri in sella a centauri, quelle mitiche creature di cui avevo visto i disegni sul libro marrone. Potevo scorgere le teste e le spalle dei cavalieri al di sopra delle teste umane delle loro cavalcature, ed entrambi sembravano essere armati. Quando si fecero più vicini, notai che non si trattava di nulla di così romantico, ma semplicemente di piccoli uomini… nani, in realtà, sulle spalle di altri uomini molto alti.
Le nostre direzioni di avanzata erano quasi parallele, ma destinate a convergere gradualmente. I nani ci osservavano con quella che sembrava essere una cupa attenzione, mentre gli uomini alti non ci guardavano affatto. Alla fine, quando la nostra colonna giunse a non più di un paio di catene dalla loro, ci arrestammo e ci girammo per fronteggiarli. Con un senso di orrore mai provato prima, mi resi conto che quegli strani cavalieri e quegli strani destrieri erano Asciani; la nostra manovra era stata decisa per impedire loro di prendere i pestalti di fianco, ed aveva avuto successo in quanto adesso essi avrebbero dovuto oltrepassare la nostra colonna, se ci fossero riusciti, per poter sferrare il loro attacco. Sembravano essere all’incirca cinquemila, tuttavia, ed erano certo molto più di quanti noi fossimo in condizioni di respingere.
Eppure, non venne nessun attacco. Ci arrestammo e formammo una stretta linea, staffa contro staffa. Nonostante il loro numero, essi si spostarono su e giù davanti alla nostra linea, come se stessero pensando dapprima di superarci sulla destra e poi sulla sinistra e poi ancora sulla destra. Era comunque evidente che non sarebbero potuti passare in alcun modo, a meno che una parte delle loro forze non avesse impegnato il nostro fronte per impedirci di attaccare gli altri alle spalle. Quasi con la speranza di rimandare così lo scontro, noi non facemmo fuoco.
Assistemmo adesso a ripetizioni del comportamento del lancere isolato che aveva lasciato il suo quadrato per attaccarci. Uno degli uomini alti saettò in avanti; in una mano teneva un sottile bastone, poco più di una verga, nell’altra una spada del tipo chiamato shotel, che ha una lama molto lunga ed affilata da entrambi i lati, e la cui metà anteriore è curvata a semicerchio. Mentre si avvicinava, l’uomo rallentò il passo e notai che i suoi occhi erano sfuocati, e che in effetti era addirittura cieco. Il nano sulle sue spalle incoccò una freccia in un corto arco ricurvo.
Quando quei due arrivarono ad una mezza catena di distanza da noi, Erblon diede a due uomini l’incarico di allontanarli. Prima che i due uomini si potessero avvicinare, l’uomo cieco si mise a correre veloce come un destriero ma con passo stranamente silenzioso, diretto contro di noi. Otto o dieci soldati fecero fuoco, ma vidi quanto fosse difficile colpire un bersaglio che si muoveva a quella velocità. La freccia partì e s’incendiò di una luce arancione. Un soldato tentò di parare la verga dell’uomo cieco… lo shotel si abbassò lampeggiando e la sua lama ricurva spaccò il cranio del soldato.
Allora un gruppo di tre uomini ciechi con i loro cavalieri si staccò dalla massa del nemico, e, prima ancora che ci avessero raggiunti, ne partirono altri, in gruppetti di cinque o sei. Dall’estremità della linea, il nostro ipparco sollevò un braccio; Guasacht ci fece cenno di avanzare ed Erblon suonò la carica, che riecheggiò a destra ed a sinistra, una nota muggente che sembrava contenere un cupo suono di campane.
Anche se allora non lo sapevo, è assiomatico che scontri fra forze puramente di cavalleria degenerino quasi subito in semplici duelli isolati. Così accadde nel nostro caso. Cavalcammo verso di loro, e, anche se nel fare così perdemmo venti o trenta dei nostri, ne attraversammo le linee. Immediatamente, ci voltammo per attaccare ancora, sia per impedire ai nemici di assalire i peltasti, sia per tornare in contatto con il nostro esercito. Essi, a loro volta, si volsero per fronteggiarci, e, in breve tempo, né noi né loro avemmo più qualcosa che si potesse definire un fronte, o altre tattiche oltre quelle che ciascun combattente applicava a se stesso.
La mia tattica era quella di girare alla larga da qualsiasi nano che apparisse sul punto di tirare una freccia, assalendone invece altri alle spalle o lateralmente. Quel metodo funzionava abbastanza bene quando ero in grado di applicarlo, ma ben presto scoprii che, per quanto i nani apparissero decisamente impotenti quando gli alti uomini che cavalcavano venivano uccisi, quegli alti destrieri, se privati dei loro cavalieri, parevano invece impazzire, ed attaccavano con frenetica energia qualsiasi cosa sbarrasse loro il passo, divenendo quindi ancor più pericolosi.
Molto presto, le frecce dei nani ed i colpi dei nostri conti accesero innumerevoli fuochi nell’erba, ed il fumo soffocante rese ancora peggiore la situazione. Avevo perso di vista Daria e Guasacht… tutti quelli che conoscevo… già da qualche tempo. Attraverso quella grigia cortina riuscii a stento ad intravedere una figura su un alto destriero che combatteva contro quattro Asciani. La raggiunsi, e, sebbene uno dei nani facesse girare il suo cieco destriero e lanciasse una freccia che mi sfiorò, sibilando, l’orecchio, riuscii a calpestarli e sentii le ossa dell’uomo cieco frantumarsi sotto le zampe del mio pezzato. Una figura pelosa sorse dall’erba fumante alle spalle degli altri due e li abbatté come un peone abbatte un albero… con tre o quattro colpi della sua ascia sferrati sempre nello stesso punto fino a che l’uomo cieco non cadde.
Il soldato a cavallo al cui soccorso ero venuto non apparteneva alle nostre truppe, ma era uno dei selvaggi che si trovavano in precedenza alla nostra destra. Era stato ferito, e, quando vidi il suo sangue, rammentai che anch’io ero ferito: la mia gamba era rigida, le mie forze quasi svanite, e sarei tornato verso la cresta meridionale della vallata e verso le nostre linee se avessi saputo da che parte andare. Così come stavano le cose, diedi carta libera al pezzato e lo sferzai con le redini, avendo sentito dire che quegli animali tornavano sovente nell’ultimo posto in cui si erano abbeverati ed avevano riposato. L’animale si lanciò in un trotto che divenne ben presto un galoppo. Una volta saltò, sbalzandomi quasi di sella, e vidi un destriero abbattuto, con Erblon morto accanto ad esso, la tromba di ottone e la bandiera nera e verde abbandonate sull’erba in fiamme. Avrei voluto far voltare il pezzato per tornare a prenderle, ma, quando finalmente lo feci fermare, non riuscii più a ritrovare il punto giusto. Alla mia destra, una linea di cavalieri appariva in mezzo al fumo, scura e quasi informe, ma serrata. Molto più indietro, alle sue spalle, incombeva una macchina che emetteva fuoco, una macchina che sembrava una torre mobile.
Un momento prima quei cavalieri erano quasi invisibili, ed il successivo mi furono addosso come un torrente. Non saprei dire chi fossero né che tipo di bestie cavalcassero, e non perché lo abbia dimenticato (io non dimentico mai nulla) ma perché non riuscii a vedere nulla chiaramente. Non c’era neppure da pensare a combattere, si trattava solo di trovare un qualche modo per sopravvivere. Parai il colpo di un’arma contorta che non era né una spada né un’ascia; il pezzato indietreggiò e vidi una freccia che gli sporgeva dal petto come un corno fiammeggiante. Un cavaliere si abbatté addosso a noi e piombammo nell’oscurità.
XXIII
IL VASCELLO PELAGICO AVVISTA LA TERRAFERMA
Quando ripresi i sensi, la prima cosa che percepii fu il dolore alla gamba. Era rimasta incastrata sotto il corpo del pezzato e lottai per liberarla quasi prima di sapere chi fossi o come mi fossi venuto a trovare dov’ero. Le mie mani, la mia faccia ed il terreno stesso su cui giacevo erano incrostati di sangue.
E c’era silenzio… tanto silenzio. Ascoltai per sentire il battito degli zoccoli, quel cupo risuonare che sembra far vibrare la stessa Urth, ma esso non c’era. Non si udivano più le urla dei cherkajis, né le grida stridule ed acute che erano provenute dalla scacchiera della fanteria Asciana. Tentai di girarmi per spingere contro la sella ma non ci riuscii.
Da qualche parte in lontananza, indubbiamente su una delle alture che circondavano la valle, un lupo elevò il suo ululato alla Luna. Quel verso inumano, che Thecla aveva udito un paio di volte, quando la corte andava a caccia vicino a Silva, mi fece comprendere che la mia scarsa capacità di vedere non era dovuta al fumo dei fuochi che erano arsi quel giorno nell’erba, o, come avevo per un momento temuto, a qualche ferita alla testa. La terra circostante era illuminata da una tenue luce, ma non avrei saputo dire se si trattava del tramonto oppure dell’alba.
Riposai, e forse mi addormentai, poi fui ridestato da un rumore di passi. Era più buio di quanto ricordassi, ed i passi erano lenti, soffici e pesanti. Non era il suono della cavalleria in movimento e neppure il marciare cadenzato della fanteria… era un passo più pesante di quello di Baldanders e più lento. Aprii la bocca per chiamare aiuto ma poi la richiusi, pensando che avrei potuto attirare qualche essere più terribile di quello che avevo una volta ridestato nella miniera degli uomini-scimmia. Lottai per allontanarmi dalla carcassa del pezzato fino a che mi parve che la gamba stesse per staccarsi dall’articolazione. Un altro lupo, terribile quanto il primo, ma molto più vicino, ululò verso la verde isola sovrastante. Quando ero bambino, mi veniva spesso detto che mancavo d’immaginazione. Se questo era vero, Thecla doveva aver apportato tale caratteristica alla nostra unione, perché mi pareva di scorgere i lupi con l’occhio della mente, sagome nere e silenziose, ciascuna grossa quanto un onygero, che si stavano riversando nella vallata; e mi pareva di sentirli spezzare le costole dei morti. Chiamai una volta e poi ancora, prima di sapere cosa stessi facendo.
Mi parve che i passi pesanti si arrestassero. Certamente, ripresero a muoversi nella mia direzione, sia che lo avessero già fatto in precedenza o meno. Sentii un fruscio fra l’erba ed un piccolo phenocodo, striato come un melone, balzò via, terrorizzato da qualcosa che io non potevo ancora scorgere. Schivò quando mi vide e scomparve in un momento.
Ho già detto che la tromba di Erblon era stata zittita; un’altra suonò adesso, emettendo una nota più profonda, prolungata e selvaggia di qualsiasi altra avessi mai udito. La sagoma di un orphicleide chino si delineò contro il cielo cupo. Quando la musica cessò, esso si abbassò, e, in un momento, scorsi la testa del suonatore coprire il disco lunare ad un altezza tre volte superiore a quella dell’elmetto di un soldato montato… una testa a cupola coperta di pelame incolto.
L’orphicleide suonò ancora una volta, cupo come una cascata, e questa volta lo vidi sollevarsi e scorsi le candide zanne ricurve che lo proteggevano su entrambi i lati, e compresi allora di trovarmi sulla strada di quello che era il simbolo stesso del dominio, la bestia chiamata Mammoth.
Guasacht aveva detto che io possedevo un certo ascendente sugli animali, anche ora che ero senza Artiglio, e tentai di servirmene, sussurrando non so che cosa e concentrando i miei pensieri fino a che mi parve che le tempie stessero per scoppiarmi. La tromba del mammoth si protese interrogativa verso di me, la punta grossa quasi quanto un cubito, e mi sfiorò il volto, leggera come la mano di un bambino, investendomi con un’ondata di fiato caldo ed umido, dolcemente odoroso di fieno. La carcassa del pezzato venne sollevata, ed io tentai di alzarmi in piedi, ma senza successo. Il mammoth mi prese, avvolgendomi la tromba intorno alla vita, e mi sollevò più in alto della sua testa.
La prima cosa che vidi fu la canna di un trilhoen con una scura lente sporgente, delle dimensioni di un piatto. L’arma possedeva un sedile per l’operatore, ma questo era vuoto. Il cannoniere ne era sceso e stava ora sul collo del mammoth come un marinaio sul ponte della sua nave, una mano appoggiata alla canna per mantenere l’equilibrio. Per un momento, una luce mi batté sul volto, accecandomi.
— Sei tu. I miracoli convergono su di noi. — Quella voce non apparteneva veramente né ad un uomo né ad una donna, ed avrebbe potuto quasi essere quella di un ragazzo. Venni deposto ai piedi di colui che aveva parlato, il quale aggiunse: — Sei ferito. Ti puoi reggere su quella gamba?
Riuscii a dire che non credevo di poterci riuscire.
— Questo è un posto comodo per sdraiarsi ma un buon posto da cui cadere. C’è una gondola più indietro, ma temo che Mamillian non ci possa arrivare con la sua tromba. Dovrai sederti qui, con la schiena appoggiata al sedile.
Sentii le sue mani, morbide, piccole ed umide, sotto le mie braccia, e forse fu il loro tocco a dirmi chi era quella persona: l’androgino che avevo incontrato nella Casa Azzurra coperta di neve e più tardi di nuovo nella stanza abilmente accorciata e camuffata da dipinto, in un corridoio della Casa Assoluta.
L’Autarca.
Nei ricordi di Thecla, lo vidi coperto di vesti ingioiellate. Per quanto avesse affermato di avermi riconosciuto, nel mio stato d’intontimento non potevo credere che fosse così, e gli fornii la frase in codice che egli aveva una volta rivolto a me, dicendo: «Il vascello pelagico avvista la terraferma.»
— L’avvista, davvero l’avvista. Eppure, se tu dovessi cadere adesso, temo che Mamillian non sarebbe abbastanza rapido da afferrarti… nonostante la sua indubbia saggezza. Dammi tutto l’aiuto che puoi: non sono forte quanto sembro.
Afferrai con una mano una parte del sedile del trilhoen e riuscii a mettermi a sedere sul materasso odoroso di muschio, costituito dal pelo del mammoth.
— A dire la verità — osservai, — non mi sei mai parso forte.
— Tu hai un occhio professionale e lo dovresti sapere. D’altro canto, mi sei sempre sembrato un insieme di corna e cuoio bollito, e devi esserlo davvero, altrimenti a quest’ora saresti morto. Cosa è successo alla tua gamba?
— Bruciata, credo.
— Dovremo procurare qualcosa per curarla. — Sollevò leggermente la voce, ed ordinò: — A casa! Torna a casa, Mamillian!
— Posso chiederti cosa stai facendo qui?
— Sto dando un’occhiata al campo di battaglia. Hai combattuto qui, oggi, deduco.
Annuii, anche se mi parve che così la testa mi sarebbe caduta dalle spalle.
— Io non l’ho fatto… o meglio, non l’ho fatto personalmente. Ho ordinato ad alcuni gruppi ausiliari leggeri di entrare in azione, con il supporto di una legione di peltasti. Qualcuno dei tuoi amici è rimasto ucciso?
— Ne avevo una sola, e stava bene, l’ultima volta che l’ho vista.
— Conservi il tuo interesse per le donne. — I suoi denti lampeggiarono alla luce della luna. — Si tratta di Dorcas, quella di cui mi hai parlato?
— No. Non ha importanza. — Non sapevo esattamente in che modo formulare ciò che desideravo chiedere (è la peggiore manifestazione di cattive maniere far capire ad una persona di aver scoperto chi egli sia nonostante l’incognito di cui si circonda). Alla fine, riuscii a dire: — Posso vedere che occupi una elevata posizione nella nostra Repubblica. Se questo non mi costringerà a finire giù dalla schiena di questa bestia, puoi spiegarmi cosa mai poteva fare alla direzione di quel luogo nel Quartiere Algedonico uno che ha il comando delle legioni?
Mentre parlavo, la notte era divenuta considerevolmente più cupa, e le stelle si erano spente una dopo l’altra, come le luci in una sala dove il ballo è finito e gli inservienti vanno in giro a spegnere le candele con smoccolatoi simili a mitre d’oro appese a pali sottili. Ad una grande distanza, sentii l’androgino rispondere:
— Tu sai chi noi siamo. Noi siamo la Repubblica stessa, il governante di se stesso, l’Autarca. Noi sappiamo di più. Noi sappiamo chi sei tu.
Mi rendo conto adesso che il Maestro Malrubius era stato molto malato prima di morire. A quell’epoca io non lo sapevo perché il pensiero della malattia mi era estraneo. Almeno la metà dei nostri apprendisti, o forse più della metà, moriva prima di essere elevata ad artigiano, ma non mi era mai passato per la mente che la nostra torre potesse essere un ambiente malsano, oppure che le acqua basse del Gyoll, dove nuotavamo spesso, fossero poco più pulite di una fogna. Gli apprendisti morivano da sempre, e, quando noi apprendisti vivi scavavamo le loro tombe, venivano alla luce piccoli ossi pelvici e teschi che noi, la generazione successiva, tornavamo a seppellire ancora e poi ancora, fino a che non erano talmente danneggiati dalla vanga che le loro parti calcaree si mescolavano al suolo. Quanto a me, non avevo mai sofferto di nulla di più grave di un mal di gola o di un raffreddore, forme di malattia che servono soltanto ad ingannare la gente sana facendo credere che si sa cosa sia una malattia. Il Maestro Malrubius aveva sofferto di una vera malattia, che consisteva nel vedere la morte in ogni ombra.
Quando sedeva al suo piccolo tavolo, si aveva l’impressione che fosse consapevole della presenza di qualcuno in piedi alle sue spalle. Guardava sempre dritto davanti a sé, senza mai girare la testa e muovendo appena le spalle, e parlava altrettanto per quello sconosciuto ascoltatore quanto per noi.
— Io ho fatto del mio meglio per insegnare a voi ragazzi i rudimenti del sapere. Questi sono i semi degli alberi che dovrebbero crescere e fiorire nelle vostre menti. Severian, stai attento alla tua Q: dovrebbe essere rotonda e piena come la faccia di un ragazzo allegro, mentre una delle sue guance è incavata come le tue. Avete visto voi tutti, ragazzi, come la spina dorsale, sollevandosi verso il suo culmine, si espanda ed infine fiorisca nella miriade di sentieri del cervello. E questo qui, una guancia rotonda, l’altra disseccata e rattrappita.
Le sue mani tremanti si erano allungate verso la matita, ma essa gli era sfuggita dalle dita ed era rotolata oltre il bordo del tavolo, cadendo sul pavimento. Non si era chinato a raccoglierla, timoroso, credo, di poter scorgere quell’invisibile presenza se lo avesse fatto.
— Ho trascorso gran parte della mia vita, ragazzi, cercando di piantare quei semi negli apprendisti della corporazione. Ho avuto alcuni successi, ma non molti. C’era un ragazzo, ma lui…
Si avvicinò all’oblò e sputò fuori, e, poiché ero seduto vicino ad esso, notai le forme contorte formate dal sangue filtrante e compresi che la ragione per cui non potevo vedere la figura nera (perché la morte è di un colore ancora più scuro della fuliggine) che lo accompagnava, era che essa si trovava dentro di lui.
Come avevo scoperto che la morte presentata in una nuova forma, quella della guerra, mi poteva spaventare quando non era più in grado di farlo sotto le sue vecchie spoglie, così appresi ora che la debolezza del mio corpo mi poteva affliggere con lo stesso terrore e la stessa disperazione che doveva aver provato il mio antico insegnante. Ero cosciente solo a tratti.
La consapevolezza andava e veniva come i venti erranti di primavera, ed io, che ho tanto spesso avuto difficoltà ad addormentarmi fra le ombre dei ricordi che mi assediavano, lottai ora per rimanere sveglio così come un bambino lotta per far sollevare un acquilone legato al filo. Talvolta, ero dimentico di tutto tranne che del mio corpo ferito. La ferita alla gamba, che avevo avvertito appena quando mi era stata inferta, e la cui sofferenza avevo allontanato così facilmente quando Daria l’aveva bendata, mi pulsava dentro con un’intensità che faceva da sfondo a tutti i miei pensieri, come il rombare della Torre del Tamburo al solstizio. Mi voltavo da un lato all’altro, avendo sempre l’impressione di essere appoggiato su quella gamba.
Sentivo senza vedere, e talvolta vedevo senza sentire. Feci rotolare la guancia dal pelo di Mamillian e la posai su un cuscino imbottito con le piccole e soffici piume d’uccello.
Una volta vidi torce con scarlatte e dorate fiamme danzanti rette da scimmie solenni. Un uomo con le corna ed il muso di un toro si chinò su di me, una costellazione sbocciata alla vita. Gli parlai e mi trovai a dirgli che non ero certo della precisa data della mia nascita, e che se il suo benigno spirito fatto di sincera forza e di spazi aperti aveva governato la mia vita, lo ringraziavo per questo; poi rammentai che conoscevo quella data e che mio padre aveva dato un ballo per me ogni anno fino alla sua morte: cadeva sotto il segno del Cigno. L’uomo ascoltò attentamente, voltando il capo per fissarmi con un occhio marrone.
XXIV
IL VELIVOLO
La luce del sole mi batteva sul volto.
Tentai di sedermi e mi riuscì di sollevarmi su un gomito. Tutt’intorno a me splendeva una sfera di colori… porpora, rubino, azzurro, con l’orpimento del sole che penetrava quelle tinte incantate come una spada, per cadere poi sui miei occhi. Infine, la luce venne coperta, e la sua mancanza rivelò ciò che il suo splendore aveva oscurato: giacevo in un padiglione a cupola di seta variegata, con la porta aperta.
Il padrone del mammoth stava camminando verso di me. Era avvolto in una tunica color zafferano, come sempre, e portava un bastone d’ebano troppo leggero perché potesse essere un’arma.
— Ti sei ripreso — osservò.
— Tenterei di rispondere di sì, ma temo che lo sforzo di parlare mi potrebbe uccidere.
A quelle parole, l’uomo sorrise, anche se il suo sorriso non era nulla di più di una smorfia della bocca.
— Come tu dovresti sapere quasi meglio di chiunque altro, le sofferenze che sopportiamo in questa vita renderanno possibili tutti i felici crimini e le piacevoli abominazioni che commetteremo nella prossima… non sei ansioso di riscuotere?
Scossi il capo e mi riadagiai sul cuscino, morbido e vagamente odoroso di muschio.
— Questo è un bene, perché ci vorrà qualche tempo prima che tu possa farlo.
— È quel che dice il tuo medico?
— Io, sono il mio medico, e ti ho curato personalmente. Il problema principale era lo shock… Al suono, sembra una malattia per vecchiette, come starai senza dubbio pensando ora. Ma uccide una gran quantità di uomini che siano rimasti feriti. Se tutti i miei soldati che muoiono per causa dello shock potessero vivere, sarei pronto ad acconsentire alla morte di coloro che vengono colpiti al cuore.
— Mentre agivi come tuo medico… e mio… dicevi la verità?
— Lo faccio sempre — replicò con un ampio sorriso. — Nella mia posizione, devo parlare troppo perché possa tenere sotto controllo una sfilza di bugie; naturalmente ti devi rendere conto che la verità… le piccole e normali verità di cui parlano le donnette di campagna, non l’estrema ed universale Verità, che io non sono più capace di te di esprimere… quella verità è più ingannevole.
— Prima di perdere i sensi, ti ho sentito affermare che sei l’Autarca.
Si lasciò cadere accanto a me come un bambino, ed il suo corpo provocò un suono distinto quando si abbatté sul mucchio di tappeti.
— L’ho detto. Lo sono. Ne sei colpito?
— Sarei più colpito — replicai, — se non avessi un così vivido ricordo del nostro incontro alla Casa Azzurra.
(Quel portico coperto di neve, cosparso di mucchi di neve che attutivano i nostri passi, si levò nel padiglione di seta come uno spettro. Quando gli occhi azzurri dell’Autarca incontrarono i miei, ebbi l’impressione che Roche fosse vicino a me sulla neve, entrambi vestiti con abiti poco familiari e che non ci calzavano bene. All’interno, una donna che non era Thecla si stava trasformando in Thecla, così come io mi sarei più tardi trasformato in Meschia, il primo uomo. Chi può dire in che misura un attore assuma lo spirito della persona che rappresenta? Quando avevo recitato il ruolo del Familiare, non era successo nulla, perché esso era così vicino a ciò che io ero realmente… o a ciò che avevo almeno creduto di essere… nella vita. Ma, come Meschia, avevo talvolta avuto pensieri che non mi sarebbero mai venuti altrimenti, pensieri ugualmente estranei sia a Severian sia a Thecla, pensieri relativi all’inizio delle cose ed al mattino del mondo.)
— Non ti ho mai detto, lo ricorderai, che sono solo l’Autarca.
— Quando ti ho incontrato nella Casa Assoluta, sembrava che tu fossi un ufficiale di secondo piano della corte. Ammetto che tu non hai mai affermato una cosa del genere, ed in effetti sapevo già allora chi eri. Ma sei stato tu, non è vero, a pagare il Dr. Talos?
— Te lo avrei detto senza arrossire. È assolutamente vero. In effetti, io sono parecchi degli ufficiali di seconda importanza della mia corte… perché non dovrei? Io ho l’autorità di nominare tali ufficiali, e posso altrettanto validamente nominare me stesso. Un ordine dell’Autarca è spesso uno strumento troppo pesante, capisci? Tu non avresti mai tentato di tagliare un naso con quella grossa spada che portavi. C’è un tempo per un decreto dell’Autarca ed un tempo per una lettera del terzo economo, ed io sono entrambi ed altri ancora.
— Ed in quella casa del Quartiere Algedonico…
— Io sono anche un criminale… proprio come lo sei tu.
Non c’è limite alla stupidità. Lo spazio stesso è, si dice, vincolato dalla sua curvatura, ma la stupidità continua al di là dell’infinito. Io, che avevo sempre pensato di essere, se non intelligente, almeno prudente e pronto ad imparare le cose più semplici, che mi ero sempre considerato una persona pratica e preveggente quando viaggiavo con Jonas e con Dorcas, non avevo mai, fino a quel momento, collegato la posizione dell’Autarca, all’apice stesso della struttura della legalità, alla sua accertata consapevolezza che io ero penetrato nella Casa Assoluta in qualità di messaggero di Vodalus. In quel momento, sarei balzato in piedi per fuggire dal padiglione se solo avessi potuto, ma le mie gambe erano deboli come acqua.
— Tutti noi lo siamo… tutti noi che dobbiamo far rispettare la legge. Credi forse che i tuoi confratelli della corporazione sarebbero stati tanto severi con te… ed i miei agenti hanno riferito che molti di loro desideravano la tua morte… se non fossero stati essi stessi colpevoli di qualche reato dello stesso tipo? Tu rappresentavi un pericolo per loro, a meno che non fossi stato terribilmente punito, perché altrimenti un giorno avrebbero potuto essi stessi essere tentati allo stesso modo. Un giudice o un carceriere che non ha commesso un qualche crimine è un mostro, che alterna il rubare quel perdono che appartiene solo all’Increato alla pratica di un rigore che non appartiene a niente ed a nessuno.
«Così, sono diventato un criminale. I crimini violenti offendevano il mio amore per l’umanità, e mi mancava la rapidità di mano necessaria ad un ladro. Dopo aver vagato alla cieca per qualche tempo… suppongo sia stato all’incirca l’anno della tua nascita, ho trovato la mia vera professione. Essa si occupa di certe necessità emotive che non posso soddisfare altrimenti… ed io posseggo, la posseggo davvero, una certa conoscenza della natura umana. Io so esattamente quando tentare una corruzione e quanto offrire, e, cosa più importante, so quando non è il caso di provarci. So come fare a tenere le ragazze che lavorano per me soddisfatte della loro carriera quanto basta perché continuino, ed abbastanza scontente del loro destino… Naturalmente, sono delle khaibit, generate dalle cellule di donne esultanti in modo che una trasfusione di sangue prolunghi la giovinezza delle esultanti stesse. Io conosco il sistema per far sentire ai miei clienti che gli incontri da me organizzati sono per loro esperienze uniche invece di qualcosa che sta a metà fra uno scialbo romanzo d’amore ed un vizio solitario. L’hai ritenuta anche tu un’esperienza unica, vero?
— È così che li chiamiamo anche noi — osservai. Clienti — Avevo ascoltato tanto il tono della sua voce quanto le parole. Era felice, cosa che non mi era parsa nelle altre occasioni in cui lo avevo incontrato, ed ascoltarlo era quasi come ascoltare un tordo. Sembrava che lo sapesse egli stesso, dal modo in cui sollevava il volto e distendeva la gola, le R di organizzati e romanzo che salivano trillando verso la luce del sole.
— È anche utile. Mi permette di mantenere il contatto con gli strati più bassi della popolazione, cosicché vengo a sapere se le tasse sono effettivamente raccolte o meno e se sono ritenute giuste, quali elementi si stanno sollevando nella società e quali sono in declino.
Ebbi la sensazione che si stesse riferendo a me, anche se non avevo idea di cosa intendesse dire.
— Quelle donne di corte — osservai. — Perché non ti sei fatto aiutare da quelle vere? Una di esse pretendeva di essere Thecla quando Thecla era rinchiusa sotto la nostra torre.
Mi guardò come se avessi detto qualcosa di particolarmente stupido, come avevo senza dubbio fatto.
— Perché non posso fidarmi di loro, naturalmente. Una cosa come questa deve rimanere segreta… Pensa alle opportunità per un assassinio. Credi forse che, poiché tutti quei dorati personaggi provenienti da antiche famiglie s’inchinano così profondamente alla mia presenza e sorridono e sussurrano battute discrete e lascivi piccoli inviti, essi provino una qualche lealtà verso di me? Scoprirai che le cose stanno diversamente, puoi esserne certo: ci sono ben pochi nella mia corte di cui mi possa fidare, e nessuno fra gli esultanti.
— Hai detto che scoprirò che le cose stanno diversamente: questo significa che non hai intenzione di farmi giustiziare? — Potevo sentire il sangue pulsarmi nel collo e vedere la scarlatta macchia di sangue.
— Perché adesso conosci il segreto? No. Abbiamo altri modi d’utilizzarti, come ti ho già detto quando abbiamo parlato nella stanza dietro il quadro.
— Perché avevo giurato fedeltà a Vodalus.
A queste parole, il divertimento che provava ebbe la meglio su di lui: gettò la testa all’indietro e rise, come un grassoccio e felice bambino che avesse appena scoperto il segreto di un intricato giocattolo. Quando la risata si fu ridotta ad un allegro sussultare, batté le mani, e, per quanto queste apparissero morbide, il loro suono fu considerevolmente forte.
Entrarono due creature con corpi di donna e teste di gatto. I loro occhi erano ad una spanna di distanza l’uno dall’altro e grossi come piume. Esse camminavano sulla punta dei piedi come fanno talvolta i ballerini, ma con una grazia maggiore di quella di qualsiasi ballerina avessi mai visto e con qualcosa nei movimenti che mi disse che quella era la loro normale andatura. Ho detto che avevano corpi di donna, ma questo non è del tutto vero, perché notai le estremità degli artigli ritratti dentro le morbide dita che mi vestivano. Meravigliato, presi la mano di una delle donne e la premetti, come avevo fatto talvolta con la zampa di un gatto domestico, e scorsi gli artigli snudati. Alla loro vista, gli occhi mi si velarono di lacrime, perché essi avevano la stessa forma di ciò che era l’Artiglio, una volta celato all’interno della gemma che io, nella mia ignoranza, chiamavo l’Artiglio del Conciliatore. L’Autarca si accorse che stavo piangendo e disse alle donne-gatto che mi facevano male e che dovevano mettermi giù. Mi sentii come un bambino che avesse appena scoperto che non avrebbe rivisto mai più sua madre.
— Noi non gli facciamo male, Legione — protestò una di esse, con una voce quale non avevo mai udito prima.
— Mettetelo giù, ho detto!
— Non mi hanno neppure intaccato la pelle, Sieur — lo rassicurai.
Con il sostegno delle donne-gatto, mi riuscì di camminare. Era mattino, quando tutte le ombre fuggono la prima vista del sole. La luce che mi aveva svegliato era quella dei primi raggi del nuovo giorno. La freschezza dell’aria riempiva ora i polmoni, e la ruvida erba su cui camminavamo mi bagnava i vecchi stivali con la sua rugiada; una brezza debole come le stelle evanescenti mi agitava i capelli.
Il padiglione dell’Autarca sorgeva in cima ad una collina. Tutt’intorno bivaccava il corpo principale del suo esercito… tende nere e grige, altre simili a foglie morte; casupole di terra e fosse che portavano a rifugi sotterranei da cui scaturivano ora sciami di soldati simili a formiche argentee.
— Dobbiamo stare attenti, vedi — mi spiegò. — Anche se ci troviamo ad una certa distanza dietro le nostre linee, se questo punto fosse più pianeggiante provocherebbe un attacco dall’alto.
— Mi ero chiesto spesso perché la tua Casa Assoluta giacesse sotto i suoi giardini, Sieur.
— La necessità della cosa è cessata ormai da molto, ma c’è stato un tempo in cui essi hanno seminato rovine in Nessus.
Sotto e tutt’intorno a noi risuonarono gli squilli delle trombe d’argento.
— È passata solo la notte — chiesi, — oppure ho trascorso un intero giorno dormendo?
— No, solo la notte. Ti ho somministrato alcune medicine per diminuire il dolore e per evitare che la ferita s’infettasse. Non ti avrei svegliato stamattina, ma ho visto che ti eri già destato ed allora sono entrato… e non c’è più tempo.
Non ero certo di cosa intendesse dire con quelle parole. Prima che potessi chiederlo, vidi sei uomini seminudi attaccati ad una corda. La mia prima impressione fu che stessero tirando giù una sorta di grosso pallone, ma si trattava di un velivolo, e la vista dello scafo nero mi richiamò alla mente vividi ricordi della corte dell’Autarca.
— Mi aspettavo… com’è che si chiama?… Mamillian.
— Niente animali, oggi. Mamillian è un compagno eccellente, silenzioso e saggio e capace di combattere con una mente indipendente dalla mia, ma, una volta detto tutto questo, lo cavalco solo per piacere. Oggi ruberemo una freccia dall’arco degli Asciani ed useremo una macchina. Essi ne rubano molte dal nostro.
— È vero che questo consuma la loro possibilità di atterrare? Credo che me lo abbia detto una volta uno dei tuoi aeronauti.
— Quando eri la Castellana Thecla, vuoi dire. Thecla soltanto.
— Sì, naturalmente. Sarebbe poco politico, Autarca, chiederti perché mi hai fatta uccidere? E come fai a riconoscermi ora?
— Ti riconosco perché vedo il tuo volto in quello del mio giovane amico e sento la tua voce nella sua. Le tue cameriere ti riconoscono anch’esse: guardale.
Obbedii, e vidi i volti delle donne-gatto contratti in smorfie di paura e stupore.
— Quanto al perché sei morta, parlerò di questo… a lui… sul velivolo… ne abbiamo il tempo. Ora, fatti indietro. Riesci a manifestarti facilmente perché egli è debole e malato, ma adesso ho bisogno di lui, non di te. Se non te ne andrai, ho i mezzi per obbligarti…
— Sieur…
— Sì, Severian? Hai paura? Sei mai stato su una cosa simile, prima?
— No — risposi, — ma non ho paura.
— Ti ricordi la tua domanda circa la sua potenza? È vero, in un certo senso. Il sollevamento è determinato da una sostanza antimateria equivalente al ferro, tenuta in trappola da campi magnetici. Dal momento che quell’anti-ferro ha una struttura magnetica inversa, viene respinto da un magnetismo positivo. I costruttori di questo velivolo lo hanno circondato di magneti, cosicché quando si sposta dalla sua posizione centrale, entra in un campo più forte e viene respinto. Su un mondo di antimateria, quel ferro peserebbe quanto un macigno, ma qui su Urth fa da contrappeso alla materia usata nella costruzione del velivolo. Mi segui?
— Credo di sì, Sieur.
— Il problema è che va al di là della nostra tecnologia il riuscire a sigillare ermeticamente le camere. Un po’ di atmosfera… qualche molecola… penetra sempre fra le porosità delle saldature o nell’isolamento dei campi magnetici. Ciascuna di queste molecole neutralizza l’equivalente in anti-ferro e produce calore, e, ogni volta, il velivolo perde un’infinitesima parte della sua capacità di sollevarsi. L’unica soluzione trovata è quella di tenere i velivoli il più in alto possibile, dove non c’è in effetti la minima pressione atmosferica.
Il muso del velivolo si stava abbassando, ed era abbastanza vicino perché potessi apprezzare la bella snellezza delle sue linee: aveva esattamente la forma di una foglia di ciliegio.
— Non ho capito proprio tutto — dissi, — ma penso che le corde dovrebbero essere immensamente lunghe per permettere al velivolo di fluttuare ad una conveniente altitudine, e, se i pentadattili Asciani arrivassero di notte, potrebbero tagliarle e far andare via i velivoli.
Le donne-gatto sorrisero a quelle parole con piccoli, riservati arricciarsi delle labbra.
— La corda serve solo all’atterraggio. Senza di essa, il velivolo avrebbe bisogno di un certo spazio perché la sua propulsione anteriore lo facesse scendere. Adesso, sapendo che siamo qui sotto, cala il suo cavo come un uomo in un lago stenderebbe la mano verso qualcuno che lo può tirare fuori. Ha una sua mente, vedi? Non come quella di Mamillian… una mente che noi gli abbiamo costruito, ma sufficiente a permettergli di star fuori dai guai e di venire giù quando riceve il segnale.
La metà inferiore del velicolo era di un nero opaco e metallico, la metà superiore una cupola così chiara da risultare quasi invisibile… la stessa sostanza, suppongo, di cui era fatto il tetto del Giardino Botanico. Un cannone come quello montato in groppa al mammoth, sporgeva da prua ed un altro, due volte più grosso, da poppa.
L’Autarca sollevò una mano all’altezza della bocca e parve sussurrare nel palmo di essa. Un’apertura apparve nella cupola (era come se in una bolla di sapone si fosse aperto un buco), ed una fila di scalini argentei, sottili e privi di sostanza tanto da sembrare fatti di ragnatela, discese verso di noi. Gli uomini dal petto nudo avevano smesso di tirare.
— Puoi salire quei gradini? — chiese l’Autarca.
— Se posso usare le mani, sì.
Andò davanti a me ed io strisciai ignomignosamente dietro di lui, trascinando la gamba ferita. I sedili, lunghe panche che seguivano la curvatura dello scafo su entrambi i lati, erano rivestiti di pelliccia, ma anche quella pelliccia sembrava più fredda del ghiaccio. Dietro di me, l’apertura si assottigliò e svanì.
— Qui avremo una pressione equivalente a quella della superficie, non importa quanto saliremo. Non temere di soffocare.
— Ritengo di essere troppo ignorante per avere paura, Sieur.
— Ti piacerebbe vedere il tuo vecchio bacele? Sono lontani sulla destra, ma credo di poterli localizzare per te.
L’Autarca si era seduto ai controlli. Quasi tutti i macchinari che avevo avuto modo di vedere erano quelli di Typhon, di Baldanders e quelli che Maestro Gurloes controllava nella Torre Matachin. Era di quelle macchine, non della soffocazione, che avevo paura, ma lottai contro il timore.
— Quando mi hai salvato, la scorsa notte, hai detto di non sapere che facevo parte del tuo esercito.
— Ho fatto indagini mentre dormivi.
— E sei stato tu ad ordinarci di avanzare?
— In un certo senso… Io ho emesso l’ordine che ha provocato il vostro movimento, anche se non ho avuto nulla a che fare direttamente con il bacele. Sei risentito per quello che ho fatto? Quando ti sei arruolato, credevi che non avresti mai dovuto combattere?
Stavamo muovendo verso l’alto, cadendo, come avevo un tempo temuto, nel cielo. Ma rammentai il fumo e lo squillo della tromba d’ottone, i soldati trasformati in poltiglia rossa dai colpi sibilanti, ed il mio terrore si tramutò in rabbia.
— Non sapevo nulla della guerra. Quanto ne sai tu? Hai mai partecipato ad una vera battaglia?
Mi guardò da sopra la spalla, gli occhi azzurri lampeggianti.
— Ho partecipato a migliaia di battaglie. Tu sei due entità, per come la gente conta solitamente. Quante entità credi che io sia?
Mi ci volle molto tempo per rispondergli.
XXV
LA PIETÀ DI AGIA
All’inizio, pensai che non potesse esserci nulla di più strano che vedere l’esercito stendersi sulla superficie di Urth fino a giacere dinnanzi a noi come una ghirlanda, corrusco di armi e di armature, multicolore, con gli anpiels alati che volteggiavano su di esso, quasi alla nostra stessa altitudine, girando in cerchio e levandosi sulla brezza mattutina.
Poi contemplai qualcosa di ancora più strano. Era l’esercito degli Asciani, un esercito fatto di bianchi acquosi e di neri grigiastri, rigido quanto il nostro era fluido, spiegato verso il nord dell’orizzonte. Andai a prua per osservarlo.
— Te li potrei mostrare meglio e più da vicino — mi disse l’Autarca, — ma vedresti solo volti umani.
Mi resi conto che mi stava mettendo alla prova, anche se non capivo come.
— Fammeli vedere — ribattei.
Quando avevo cavalcato con gli schiavoni ed avevo osservato le nostre truppe entrare in azione, ero stato colpito dalla loro aria di debolezza nella massa, la cavalleria che avanzava e fluiva come un’onda che s’infranga contro una grande forza e poi si ritiri ridotta a semplice acqua, troppo debole per reggere al peso di un topo, pallida sostanza che un bambino può raccogliere nelle mani. Anche i peltasti, con i loro ranghi serrati e gli scudi lucenti, mi erano parsi poco più formidabili di una serie di giocattoli disposti sul tavolo. Constatai ora quanto apparissero forti le formazioni del nemico, rettangoli che contenevano macchine grosse quanto una fortezza e migliaia di soldati schierati spalla a spalla.
Ma su uno schermo inserito nel pannello dei comandi, vidi, guardando sotto le visiere degli elmetti, che tutta quella rigidità e quella forza si fondevano in una sorta di orrore. C’erano vecchi e bambini nelle file della fanteria, ed alcuni che sembravano idioti. Quasi tutti avevano volti folli ed affamati come quelli che avevo osservato il giorno precedente, e rammentai l’uomo che aveva lasciato il suo quadrato e gettato in aria la lancia quando era morto. Distolsi lo sguardo.
L’Autarca rise, ma la sua risata era priva di gioia; era un suono piatto, come lo sventolio di una bandiera sotto un forte vento.
— Hai visto uno di loro mentre si uccideva? — chiese.
— No.
— Sei stato fortunato. Mi capita spesso, quando li guardo. Non hanno il permesso di portare armi fino a quando non sono sul punto di attaccarci, e così molti di loro approfittano di quell’opportunità. I lanceri conficcano l’asta della lancia nel terreno, di solito, e si fanno saltare la testa. Una volta ho visto due spadaccini, un uomo e una donna, che avevano stretto un accordo. Si sono trafitti a vicenda nel ventre, ed io ho notato che prima hanno contato, muovendo la mano sinistra… uno… due… tre… e sono morti.
— Chi sono? — chiesi.
Mi lanciò un’occhiata che non riuscii a decifrare.
— Che cosa hai detto?
— Ti ho chiesto chi sono, Sieur. So che sono nostri nemici, che vivono al nord in terre calde e che si dice siano schiavi di Erebus. Ma, chi sono?
— Dubito che fino ad ora fossi cosciente di non saperlo, vero?
Sentivo la gola secca, anche se non avrei saputo spiegare il perché.
— Suppongo di no — risposi. — Non ne avevo mai visto uno fino a che non sono finito nel lazzaretto delle Pellegrine. Nel sud, la guerra sembra molto remota.
— Noi autarchi — annuì, — li abbiamo ricacciati a nord per circa la metà della distanza lungo la quale essi ci avevano in precedenza spinti a sud. Scoprirai a tempo debito chi essi siano… Ciò che conta è che desideri saperlo. — Fece una pausa. — Potrebbero essere entrambi nostri, entrambi gli eserciti, non solo quello a sud… Mi consiglieresti di prenderli entrambi? — Mentre parlava, apportò qualche modifica ai controlli e il velivolo s’inclinò, la prua verso il cielo e la poppa verso la verde terra, come se avesse avuto intenzione di farci cadere sul terreno conteso.
— Non capisco cosa intendi.
— La metà di quello che hai detto in merito a loro è inesatta. Non vengono dalle calde terre del nord ma da un continente che si trova dall’altra parte dell’equatore. Ma avevi ragione quando li hai chiamati gli schiavi di Erebus. Si ritengono gli alleati di quegli esseri che attendono nel profondo. In realtà, Erebus ed i suoi alleati li consegnerebbero a me se solo io consegnassi loro il nostro sud. Darebbero a te ed a tutti il riposo.
Dovetti aggrapparmi alla spalliera del sedile per evitare di cadergli addosso.
— Perché mi stai informando di questo?
Il velivolo si raddrizzò sobbalzando, come la barchetta di un bambino in una pozzanghera.
— Perché presto sarà per te necessario sapere che altri hanno provato ciò che proverai tu.
Non riuscii a formulare la questione che desideravo porre, ed alla fine azzardai:
— Hai promesso che mi avresti spiegato perché hai fatto uccidere Thecla.
— Non vive forse ella in Severian?
Nella mia mente un muro senza finestre andò a pezzi.
— Io sono morta! — gridai, non rendendomi conto di quel che avevo detto fino a che le parole non mi furono uscite dalle labbra.
L’Autarca prese una pistola da sotto il pannello di controllo e se la pose in grembo mentre si voltava per fronteggiarmi.
— Non ne avrai bisogno, Sieur — osservai, — sono troppo debole.
— Hai notevoli capacità di ripresa… ho già avuto modo di notarlo. Sì, la Castellana Thecla è morta, salvo il fatto che continua ad esistere in te, ed anche se voi due siete sempre insieme, vi sentite entrambi soli. Stai ancora cercando Dorcas? Mi hai parlato di lei, rammenti, quando ci siamo incontrati nella Casa Assoluta.
— Perché hai fatto uccidere Thecla?
— Non l’ho fatto. Il tuo errore sta nel pensare che io sia a monte di ogni cosa. Nessuno lo è… Non io, né Erebus o alcun altro. Quanto alla Castellana, tu sei lei. Sei stata arrestata apertamente?
Il ricordo mi giunse più vivido di quanto avrei creduto possibile. Stavo camminando lungo un corridoio sulle cui pareti erano allineate tristi maschere d’argento ed entrai in una delle stanze abbandonate, dall’alto soffitto con vecchi arazzi ammuffiti. Il corriere che dovevo incontrare non era ancora arrivato. Poiché sapevo che i divani polverosi mi avrebbero sporcato l’abito, presi una sedia, fatta d’avorio e di dorature. Un tendaggio si staccò da un muro alle mie spalle: rammentai di aver alzato lo sguardo e di aver visto il Destino incoronato di catene e la Scontentezza con il bastone ed il calice discendere su di me, lavorati in lana ricamata.
— Sei stata arrestata — spiegò l’Autarca, — da certi ufficiali che avevano scoperto che trasmettevi informazioni all’amante della tua sorellastra. Sei stata presa in segreto perché la tua famiglia aveva tanta influenza al nord, e sei stata portata in una prigione quasi dimenticata. Quando ho saputo cosa era accaduto, tu eri già morta. Avrei dovuto punire quegli ufficiali per aver agito in mia assenza? Loro patrioti, e tu una traditrice.
— Anch’io, Severian, sono un traditore — replicai, e gli spiegai, per la prima volta in maniera dettagliata, in che modo avessi una volta salvato la vita a Vodalus, e narrai del banchetto cui avevo partecipato.
Quand’ebbi finito, l’Autarca annuì fra sé.
— Molta della lealtà che sentivi verso Vodalus ti veniva certamente dalla Castellana. Una parte te l’ha comunicata quando era ancora in vita, e molta di più dopo la sua morte. Per quanto tu sia stato ingenuo, sono certo che non lo sarai stato tanto da considerare una semplice coincidenza il fatto che sia stata la sua carne ad esserti servita dai mangiatori di cadaveri.
— Anche se avesse saputo dei miei rapporti con lei — protestai, — Vodalus non avrebbe avuto il tempo di portare là il suo corpo da Nessus.
— Hai dimenticato — sorrise l’Autarca, — quello che mi hai detto un momento fa, e cioè che quando lo hai salvato, lui è fuggito su un velivolo simile a questo? Dalla foresta, appena una dozzina di leghe dalle Mura della Città, avrebbe potuto volare nel centro di Nessus, dissotterrare il cadavere preservato dal gelido suolo primaverile e tornare in meno di un turno di guardia. In effetti, Vodalus non aveva bisogno di sapere tante cose né di agire tanto rapidamente. Mentre tu eri prigioniero della tua corporazione, potrebbe aver appreso che la Castellana Thecla, che gli era stata leale anche nella morte, non era più. Servendo la sua carne ai suoi seguaci, egli avrebbe rafforzato la loro lealtà alla causa. Non gli occorrevano ulteriori motivi per prelevarne il corpo, e senza dubbio doveva averla fatta reinterrare in qualche dispensa piena di neve oppure in qualcuna delle miniere abbandonate che abbondano in quelle regioni. Sei arrivato tu, e, desiderando legarti alla sua causa, ha ordinato che Thecla venisse prelevata.
Passò qualcosa, troppo veloce per essere visibile… un momento più tardi il velivolo ondeggiò per la violenza del movimento ed una serie di scintille apparve sullo schermo.
Prima che l’Autarca potesse riprendere i controlli, ci spostammo all’indietro. Ci fu una detonazione tanto violenta che parve paralizzarmi, ed il cielo rimbombante si aprì nel bocciolo di un fiore giallo. Una volta avevo visto un falco, colpito da un sasso della fionda di Eata, indietreggiare nell’aria come avevamo fatto noi e poi cadere, come noi, inclinato su un fianco.
Mi svegliai nell’oscurità, circondato da un fumo pungente e da un odore di terra fresca. Per un momento, o forse un intero turno di guardia, dimenticai di essere stato salvato e credetti di giacere sul campo dove Daria ed io, insieme ad Erblon, Guasacht e tutti gli altri, avevamo combattuto gli Asciani.
Qualcuno giaceva vicino a me… sentivo il sussurro del suo respiro e lo scricchiolare e lo strisciare che tradiscono il movimento… ma all’inizio non prestai alcuna attenzione a quei suoni, e successivamente pensai fossero provocati da animali da preda e mi spaventai; ancora più tardi, ricordai cosa era accaduto e compresi che erano certo causati dall’Autarca, che doveva essere come me sopravvissuto alla caduta, e lo chiamai.
— Così, sei dunque ancora vivo. — La sua voce era debole. — Temevo che saresti morto… anche se avrei dovuto immaginare che ce l’avresti fatta. Non sono riuscito a farti riprendere i sensi ed il tuo polso era debole.
— Avevo dimenticato! Ti ricordi quando abbiamo sorvolato gli eserciti? Per qualche tempo me ne sono dimenticato! Adesso so cosa significa dimenticare.
— Cosa che adesso ricorderai per sempre. — C’era una pallida risata nella sua voce.
— Lo spero, ma svanisce già mentre parliamo. Svanisce come nebbia, il che deve di per sé essere un modo di dimenticare. È stata un’arma ad abbatterci?
— Non lo so. Ma, ascolta: queste sono le parole più importanti della mia vita. Ascolta. Tu hai servito Vodalus ed il suo sogno di un impero rinnovato. Tu desideri ancora, non è vero, che la razza umana possa arrivare alle stelle?
Rammentai qualcosa che Vodalus mi aveva detto nella foresta e risposi:
— Gli uomini di Urth, che salpano fra le stelle, che balzano da galassia a galassia, i signori delle figlie del sole…
— Lo eravamo un tempo… ed abbiamo portato con noi tutte le antiche guerre di Urth, e ne abbiamo scatenate di nuove sotto soli giovani. Perfino loro — non potevo vederlo, ma dal suo tono compresi che si riferiva agli Asciani, — comprendono che non deve essere più cosi. Essi desiderano che la razza divenga una singola individualità… la stessa, moltiplicata all’infinito. Noi vogliamo trasportare tutta la razza ed i suoi desideri dentro di essa. Hai notato la fiala che porto appesa al collo?
— Spesso.
— Contiene un farmaco simile all’alzabo, mischiato e tenuto in sospensione. Ed io sono già freddo al di sotto della vita, morirò presto. Prima che io muoia,… tu lo devi usare.
— Non ti posso vedere — replicai, — e riesco a stento a muovermi.
— Nondimeno, troverai il modo. Tu rammenti tutto, e quindi devi ricordare la notte in cui sei giunto alla Casa Azzurra. Quella notte, anche qualcun altro venne da me. Io ero una volta un servo, nella Casa Assoluta,… è per questo che mi odiano, così come odieranno te per quel che eri un tempo. Paeon, colui che mi ha addestrato, che era cameriere cinquant’anni fa. Sapevo chi fosse in realtà perché lo avevo già incontrato in precedenza. Egli mi ha detto che tu saresti stato quello giusto… il prossimo. Non pensavo che sarebbe accaduto tanto presto…
La sua voce si spense ed io cominciai ad annaspare per cercarlo, trascinandomi in avanti. La mia mano trovò la sua, ed egli sussurrò:
— Usa il coltello. Siamo dietro le linee Asciane, ma ho chiamato Vodalus perché ti soccorra… sento gli zoccoli dei suoi destrieri…
Le sue parole erano talmente deboli che le potevo udire a stento, anche se tenevo l’orecchio ad una sola spanna dalla sua bocca.
— Riposa — gli consigliai. Sapendo che Vodalus lo odiava e cercava di distruggerlo, pensavo che stesse delirando.
— Io sono la sua spia. Questo è un altro dei miei compiti. Egli attira i traditori… io apprendo chi essi siano e cosa facciano, cosa pensino. Adesso gli ho detto che l’Autarca è intrappolato in questo velivolo e gli ho fornito la nostra posizione. Mi ha servito… come guardia del corpo… anche in precedenza.
Ora potevo udire anch’io il suono di piedi sul terreno all’esterno. Mi protesi, cercando un mezzo per segnalare, e la mia mano toccò uno strato di pelliccia: compresi allora che il velivolo si era rovesciato, lasciandoci nascosti al di sotto.
Ci fu uno scatto, seguito da un suono di metallo lacerato. La luce della luna, in apparenza brillante come quella del giorno ma verde come le foglie del salice, penetrò a fiotti da una lacerazione nello scafo che si aprì sotto i miei occhi. Allora vidi l’Autarca, i sottili capelli bianchi scuriti dal sangue disseccato.
E, al di sopra di lui, scorsi alcune sagome, ombre verdi che ci guardavano. I loro volti erano invisibili, ma sapevo che quegli occhi ardenti e quelle teste strette non appartenevano a nessun seguace di Vodalus. Freneticamente, cercai la pistola dell’Autarca, ma le mani mi vennero afferrate e fui tirato su. Quando emersi, non potei fare a meno di pensare alla donna morta che avevo visto estrarre dalla sua tomba nella necropoli, perché il velivolo era caduto sul terreno morbido e si era parzialmente sepolto in esso. Dove il colpo degli Asciani lo aveva raggiunto, il fianco dell’abitacolo era lacerato, e lasciava esposto un groviglio di fili, mentre il metallo appariva contorto e bruciato.
Non ebbi molto tempo per guardare. I miei catturatori mi fecero girare ripetutamente e mi presero la faccia fra le mani uno dopo l’altro, tastando anche il mio mantello come se non avessero mai visto tessuti. Con i loro occhi larghi e le guance infossate, quegli evzoni mi sembravano molto simili ai soldati di fanteria contro cui avevo combattuto, ma, anche se vi erano fra loro alcune donne, non vi notai né vecchi né bambini. Portavano cappucci e camicie di un materiale argenteo al posto dell’armatura, ed erano armati di jezails dalla strana forma, con canne tanto lunghe che, quando il calcio dell’arma era appoggiato al terreno, la bocca arrivava più in alto della testa del suo proprietario. Quando vidi l’Autarca che veniva estratto a sua volta dal velivolo, osservai:
— Credo che il tuo messaggio sia stato intercettato, Sieur.
— Nondimeno è arrivato. — Era troppo debole per indicare, ma seguii la direzione del suo sguardo, e dopo un momento scorsi forme volanti stagliarsi contro la luna.
Esse arrivarono così rapide e diritte che parvero scivolare verso di noi sui raggi lunari. Le loro teste erano simili a teschi di donne, rotonde e bianche, sormontate da protuberanze ossee e prolungate all’altezza della mascella in becchi ricurvi orlati di denti acuminati. Erano esseri alati, e la loro apertura d’ali era talmente grande che i corpi sembravano inesistenti. A mio parere doveva raggiungere almeno i venti cubiti, da una punta all’altra, e, anche se lo sbattere delle ali non provocava alcun suono, avvertii lo spostamento d’aria provocato anche in basso dov’ero.
(Una volta avevo immaginato di vedere simili creature abbattere le foreste di Urth e raderne al suolo le città. Forse i miei pensieri avevano contribuito all’arrivo di quegli esseri?)
Mi parve passasse parecchio tempo prima che gli evzoni Asciani avvistassero le creature. Poi, due o tre di loro fecero immediatamente fuoco, ed i raggi convergenti colsero uno degli alati nel loro punto d’incontro e lo fecero esplodere, poi un altro ed un altro ancora. Per un istante, la luce venne coperta, e qualcosa di freddo e flaccido mi colpì in faccia, facendomi cadere.
Quando potei vederci di nuovo, una mezza dozzina di Asciani era scomparsa, e gli altri stavano sparando nell’aria a bersagli per me quasi impercettibili. Qualcosa di bianco cadde da essi, e, pensando che potesse esplodere, abbassai la testa, ma invece l’involucro del velivolo infranto risuonò come un cimbalo. Un corpo, un corpo umano afflosciato come una bambola, lo aveva colpito, ma non c’era sangue.
Uno degli evzoni mi conficcò la sua arma nella schiena e mi spinse in avanti, mentre altri due sostenevano l’Autarca come le donne-gatto avevano fatto con me. Scoprii che avevo perso completamente il senso della direzione: anche se la luna brillava ancora, masse di nubi velavano la maggior parte delle stelle. Cercai invano la croce e quelle tre stelle che, per un motivo che nessuno capisce, vengono chiamate l’Otto e sono eternamente sospese sui ghiacci del sud. Parecchi degli evzoni stavano ancora sparando quando arrivò fra noi una lancia o una freccia fiammeggiante che scoppiò in una massa di scintille accecanti.
— Questo concluderà la cosa — sussurrò l’Autarca.
Mi stavo massaggiando gli occhi mentre avanzavo incespicando, ma riuscii a chiedergli cosa intendesse dire.
— Puoi vederci? Non più di quanto lo possano loro. I nostri amici là in alto… gente di Vodalus, credo… non sapevano quanto fossero bene armati quelli che ci avevano catturato. Adesso non ci saranno altri colpi ben diretti, e non appena le nubi passeranno sul disco della Luna…
Ebbi freddo, come se un gelido vento montano avesse raggelato la tiepida aria che ci circondava. Qualche momento prima, mi ero sentito disperato di fronte alla prospettiva di trovarmi in mezzo a quei soldati smagriti, ma ora avrei dato qualsiasi cosa per avere la garanzia che sarei rimasto fra loro.
L’Autarca era alla mia sinistra, e pendeva inerte dalle braccia di due evzoni che si erano messi i lunghi jezails di traverso sulle spalle. Mentre lo guardavo, la sua resta rotolò da un lato, e compresi che era svenuto oppure morto. “Legione” lo avevano chiamato le donne-gatto, e non ci voleva una grande intelligenza per collegare quel termine a ciò che egli mi aveva detto nella carcassa del velivolo. Così come Thecla e Severian si erano uniti in me, certamente molte personalità erano riunite in lui. Fin da quella notte in cui lo avevo visto per la prima volta, quando Roche mi aveva condotto alla Casa Azzurra (il cui strano nome stavo, forse, cominciando a comprendere), avevo percepito la complessità dei suoi pensieri, così come si è in grado di percepire la complessità di un mosaico anche se la luce è scarsa, la presenza della miriade di frammenti infinitesimali che si uniscono per produrre il volto illuminato e gli occhi fissi del Nuovo Sole.
Aveva detto che ero destinato a succedergli, ma per regnare per quanto tempo? Sebbene questo fosse assurdo da parte di un prigioniero di guerra, ed in un uomo ferito e talmente debole che un turno di guardia di riposo sull’erba sarebbe parso un paradiso, ero consumato dall’ambizione. Aveva detto che dovevo mangiare la sua carne ed inghiottire la droga mentre era ancora vivo; e, volendogli bene, mi sarei strappato dalla stretta dei miei catturatori, se ne avessi avuto la forza, per reclamare il lusso, la pompa, il potere. Adesso ero Severian e Thecla insieme, e forse lo stracciato apprendista torturatore aveva desiderato, senza saperlo, tutte quelle cose più della giovane esultante tenuta prigioniera a corte. Sapevo adesso che cosa aveva avvertito la povera Cyriaca nei giardini dell’arconte; eppure, se lei avesse provato allora pienamente quel che stavo provando io ora, le sarebbe scoppiato il cuore in petto.
Un momento più tardi, non volevo più. Una parte di me amava quell’intimità in cui neppure Dorcas era penetrata. Nel profondo delle convulsioni della mia mente, nell’abbraccio delle molecole, Thecla ed io eravamo intrecciati l’uno all’altra. Far entrare altre persone… una dozzina, o forse un migliaio se, assorbendo la personalità dell’Autarca, avessi assorbito tutte quelle che egli aveva incorporato in sé… dov’eravamo noi due, sarebbe stato come far entrare la folla di un bazaar in un piccolo pergolato. Strinsi a me la compagna del mio cuore e sentii ricambiare la stretta. Mi sentii abbracciare e ricambiai l’abbraccio della compagna del mio cuore.
La luce della luna si attenuò come quella di una lanterna quando si preme la leva che fa chiudere i suoi sportelli fino a lasciar passare solo un punto di luce, poi scomparve. Gli evzoni asciani spararono con i jezails in un intreccio lilla e color eliotropo, raggi che si allontanarono nell’alta atmosfera ed alla fine trapassarono le nubi come spilli colorati, ma inutilmente.
Ci fu una folata di vento, calda ed improvvisa ed una cosa che posso solo definire come un baluginio nero. Poi l’Autarca scomparve e qualcosa di enorme si precipitò verso di me, tanto che mi gettai a terra.
Forse battei contro il terreno, ma non lo ricordo. Nel giro di un istante, così mi parve, fui sollevato nell’aria, girando e salendo con costanza, il mondo sottostante una distesa di buio notturno. Una mano emaciata, dura come pietra e tre volte più grande di una mano umana, mi afferrò intorno alla vita.
Schivammo, sobbalzammo, scivolammo di fianco su una corrente d’aria, poi, intercettando una corrente ascensionale, salimmo fino a che il freddo mi punse e m’irrigidì la pelle. Quando reclinai il collo per guardare in alto, scorsi le bianche mascelle non umane della creatura che mi trasportava. Era l’incubo che avevo avuto parecchi mesi prima, quando dividevo il letto con Baldanders, anche se nel mio sogno mi trovavo sul dorso della creatura. Non avrei saputo dire da cosa dipendesse quella differenza fra sogno e realtà. Gridai (non so che cosa) e sopra di me la creatura aprì il becco a forma di scimitarra e sibilò.
Dall’alto, inoltre, mi giunse una voce di donna.
— Adesso ti ho ripagato per la miniera… sei ancora vivo.
XXVI
SOPRA LA GIUNGLA
Atterrammo con la luce delle stelle. Era come un risveglio: sentivo che non stavo lasciando il cielo ma un luogo d’incubo. Come una foglia cadente, l’immensa creatura calò in cerchi sempre più stretti attraverso zone d’aria progressivamente più calda fino a quando potei avvertire l’odore del Giardino della Giungla: il mescolarsi dell’odore di piante verdi e di legno marcente con il profumo di grandi, maturi, ignoti fiori.
Uno zigurrat sollevò la testa scura al di sopra degli alberi… pur essendo esso stesso coperto di alberi che sporgevano dalle sue mura in rovina come funghi da un albero morto. Atterrammo con leggerezza su di esso, ed immediatamente arrivarono alcune torce ed un suono di voci agitate. Io ero ancora debole a causa dell’aria gelida e rarefatta che avevo respirato fino ad un momento prima.
Mani umane presero il posto degli artigli che mi avevano tenuto stretto per così tanto tempo. Scendemmo lungo scale e gradini di pietra consunta fino a che venni infine a trovarmi davanti ad un fuoco, e vidi, dall’altra parte di esso, il bel volto serio di Vodalus e quello a forma di cuore della sua consorte, Thea, ora mia sorellastra.
— Chi è costui? — domandò Vodalus.
Tentai di sollevare le braccia, ma qualcuno le tratteneva.
— Signore — dissi, — tu devi riconoscermi.
Da dietro le mie spalle, la stessa voce che avevo udito in aria rispose:
— Questo è l’uomo del prezzo, l’assassino di mio fratello. Per lui io… ed Hethor, che serve me… ci siamo messi al tuo servizio.
— Allora, perché lo hai portato da me? — chiese Vodalus. — Lui è tuo. Pensavi che, quando lo avessi visto, mi sarei pentito del nostro accordo?
Forse ero più forte di quanto credevo, o forse feci perdere l’equilibrio all’uomo alla mia destra. Comunque sia, riuscii a contorcermi in modo da gettarlo nel fuoco, dove i suoi piedi fecero volare intorno i carboni rossi.
Agia era in piedi dietro di me, nuda fino alla vita, ed Hethor era dietro di lei, mettendo in mostra tutti i denti rotti mentre le accarezzava il seno. Lottai per fuggire. Agia mi schiaffeggiò con la mano aperta… sentii uno strappo alla guancia, un dolore lancinante, poi il fuoriuscire caldo del sangue.
Da allora, ho appreso che quell’arma si chiama lucivee, e che Agia l’aveva perché Vodalus aveva proibito a chiunque tranne che alle sue guardie del corpo di presentarsi armato in sua presenza. Si tratta soltanto di una piccola sbarra di metallo con due anelli per fissarlo al pollice ed all’anulare e con quattro o cinque lame ricurve che si possono così nascondere all’interno del palmo; tuttavia, ben pochi sono sopravvissuti ad essa.
Io fui uno di quei pochi, e mi ridestai dopo due giorni per trovarmi rinchiuso in una stanza spoglia. Forse, nella vita di ciascuno di noi, c’è una stanza che diventa più familiare delle altre. Per un prigioniero, si tratta sempre della sua cella. Io, che avevo lavorato all’esterno di tante celle, spingendo dentro i vassoi di cibo ai clienti sfigurati e dementi, avevo adesso di nuovo il modo di conoscere una mia cella personale. Non sono mai riuscito ad immaginare cosa poteva un tempo essere stato lo zigurrat. Forse effettivamente una prigione; forse un tempio o la sede di qualche arte dimenticata. La mia cella era circa due volte più grande di quella che avevo occupato sotto la torre dei torturatori, lunga dieci passi e larga sei. Una porta fatta di una lucente ed antica lega era appoggiata ad una parete, inutile per i carcerieri di Vodalus perché non erano in grado di chiuderla a chiave, e la soglia era sbarrata da un battente nuovo, rozzamente costruito con i fusti, duri come ferro, di una qualche pianta della giungla. Una finestra che credo non fosse mai stata intesa a quello scopo, trapassava una delle pareti scolorite molto in alto e dava luce alla cella.
Passarono ancora tre giorni prima che io fossi abbastanza in forze da riuscire a saltare, e, afferrandone il bordo inferiore con una mano, ad issarmi per guardare fuori. Quando giunse quel giorno, vidi una distesa di verde punteggiata di farfalle… un luogo così diverso da quel che mi ero aspettato, che pensai di essere impazzito e persi l’appiglio per lo stupore. Si trattava, come compresi alla fine, della distesa delle chiome degli alberi, dove piante alte dieci catene allargavano le loro fronde a formare un prato di foglie, raramente visto da qualcuno che non fosse un uccello.
Un vecchio con la faccia malvagia e sapiente mi aveva bendato la guancia e cambiato la fasciatura alla gamba. Più tardi, tornò portando con sé un ragazzo di forse tredici anni, e trasfuse il suo sangue nel mio corpo fino a che le labbra del giovane si fecero pallide come il piombo. Chiesi al vecchio medico da dove venisse, e questi, credendomi probabilmente un nativo di quelle zone, rispose:
— Dalla grande città nel sud, nella valle del fiume che prosciuga le terre fredde. Il Gyoll è un fiume più lungo del vostro, anche se la sua corrente non è così violenta.
— Sei molto abile — osservai. — Non avevo mai sentito parlare di un medico che fosse capace di tanto. Mi sento già bene, e vorrei che sospendessi prima che questo ragazzo muoia.
— Si riprenderà in fretta — replicò il vecchio, pizzicandogli la guancia. — … In tempo per riscaldarmi il letto stanotte. A quest’età si riprendono sempre. No, non è come pensi tu: gli dormo semplicemente accanto perché il respiro notturno dei ragazzi della sua età agisce come un tonico sui vecchi come me. La gioventù, vedi, è una malattia, e si può sempre sperare di prenderla in forma lieve. Come va la tua ferita?
Non c’era nulla… neppure un’ammissione, che avrebbe potuto generarsi da un qualche perverso desiderio di mantenere un’apparenza di potenza… che avrebbe potuto convincermi altrettanto completamente quanto il suo diniego. Gli dissi la verità, che la guancia destra era intorpidita salvo un vago bruciore altrettanto irritante quanto un prurito, e mi chiesi quale dei suoi doveri desse più fastidio allo sfortunato ragazzo.
Il vecchio mi tolse le bende e mi applicò un secondo strato del balsamo puzzolente e marrone che aveva già usato in precedenza.
— Tornerò domani — mi disse quindi, — anche se non credo che avrai ancora bisogno di Mamas. Stai migliorando. Sua esultanza (un cenno della testa indicò che si trattava di un ironico riferimento ad Agia) ne sarà molto contenta.
Replicai, in un modo che speravo apparisse noncurante, che mi auguravo che tutti i suoi pazienti stessero bene.
— Ti riferisci al delatore che è stato portato qui insieme a te? Sta bene quanto ci si poteva aspettare — replicò, e volse la faccia da un lato perché non vedessi la sua espressione spaventata.
Nella speranza di guadagnare su di lui una certa influenza che mi permettesse in seguito di aiutare l’Autarca, lodai in modo stravagante la sua conoscenza della medicina, e terminai dicendo che non riuscivo a comprendere come mai un medico così abile si fosse unito a quella gente malvagia.
Mi guardò con occhi socchiusi ed il suo volto si fece serio.
— Per acquisire sapere. Non c’è luogo dove un uomo della mia professione possa imparare quanto imparo qui.
— Ti riferisci al fatto di mangiare i cadaveri? Anch’io ho condiviso questi banchetti, anche se forse non te lo hanno detto.
— No, no. Gli uomini istruiti, specialmente quelli della mia professione, praticano quell’attività dovunque, e di solito con risultati migliori, dato che selezioniamo maggiormente i soggetti e ci limitiamo a consumare i tessuti più ricettivi. Il sapere che io cerco non può essere appreso in quel modo, poiché nessuno di coloro che sono morti di recente lo ha posseduto, e forse non lo ha mai posseduto nessuno.
Adesso era appoggiato ad un muro, e sembrava parlare altrettanto per un’invisibile presenza quanto per me.
— La scienza sterile del passato — proseguì, — non ha portato a null’altro che all’esaurimento del pianeta ed alla distruzione delle sue razze. Era fondata sul semplice desiderio di sfruttare le energie grezze e le sostanze materiali dell’universo, senza alcuna considerazione per le loro attrazioni, le loro antipatie e gli eventuali destini. Guarda! — Sollevò la mano immergendola nel raggio di sole che penetrava dalla mia alta finestra circolare. — Qui c’è la luce. Tu mi dirai che non si tratta di un’entità vivente, ma perdi di vista il fatto che essa è qualcosa di più e non di meno. Senza occupare spazio, riempie l’universo. Nutre ogni cosa, eppure essa stessa si nutre di distruzione. Noi sosteniamo di controllarla, ma non è magari la luce a coltivare noi come una fonte di cibo? Non può forse essere che tutte le foreste crescano in modo da poter essere incendiate e che uomini e donne nascano per alimentare fuochi? Non è possibile che la nostra pretesa di dominare la luce sia altrettanto assurda quanto quella del grano che sostenesse di controllarci perché noi prepariamo il terreno per la sua crescita e curiamo il suo rapporto con Urth?
— Tutto questo è ben detto, ma non ci porta al nocciolo della questione — ribattei. — Perché servi Vodalus?
— Un simile sapere non si ottiene senza esperimenti. — Sorrise mentre parlava e toccò la spalla del ragazzo, ed io ebbi una visione di bambini in fiamme, ma sperai di sbagliarmi.
Questo era accaduto due giorni prima che mi issassi fino alla finestra. Il vecchio medico non era più tornato, e non ebbi modo di sapere se avesse perduto il favore di Vodalus, se fosse stato inviato in un altro luogo o se avesse semplicemente deciso che non avevo bisogno di ulteriori cure.
Agia venne una volta a vedermi, e, tenendosi fra due uomini armati di Vodalus, mi sputò in faccia e mi descrisse i tormenti che avrebbe ideato per me insieme ad Hethor non appena fossi stato abbastanza forte da sopportarli. Quando ebbe finito, le dissi con assoluta sincerità che avevo passato la maggior parte della mia vita ad assistere ad operazioni molto più terribili, e le consigliai di procurarsi l’assistenza di una persona addestrata in quel campo, ed allora se ne andò.
In seguito, fui lasciato solo per la maggior parte di parecchi giorni. Ogni volta che mi destavo, mi sentivo quasi una persona diversa, perché in quella solitudine l’isolamento dei miei pensieri negli oscuri intervalli di sonno era quasi sufficiente a privarmi della mia personalità.
Eppure, tutti quei Severian e tutte quelle Thecla cercavano la libertà.
Era facile trincerarmi nei ricordi, e sia io che Thecla lo facevamo spesso, rammentando quei giorni idilliaci quando Dorcas ed io avevamo viaggiato verso Thrax, i giochi fatti nel labirinto di siepi dietro la villa di mio padre (quando ero Thecla) e nel Vecchio Cortile, la lunga passeggiata compiuta con Agia giù per la Scalinata Adamniana prima che scoprissi che mi era nemica.
Ma spesso, anche, mi costringevo ad accantonare i ricordi ed a pensare, qualche volta zoppicando avanti e indietro, qualche altra aspettando solo che gli insetti entrassero dalla finestra per divertirmi ad afferrarli al volo. Progettai la fuga, anche se non sembrava che ci fosse la minima possibilità di attuarla se le circostanze in cui mi trovavo non fossero mutate. Riflettei su brani del libro marrone e cercai di confrontarli con le mie esperienze, in modo da produrre, fin dove fosse stato possibile, una teoria generale del modo di agire umano che mi potesse tornare a beneficio, se mi fosse mai riuscito di liberarmi.
Se il medico, che era un uomo anziano, poteva ancora ricercare il sapere nonostante la certezza della morte imminente, non potevo forse io, la cui morte appariva ancor più imminente, trarre un certo conforto dalla certezza che essa fosse meno inevitabile?
Così, esaminai le azioni dei maghi, dell’uomo che mi aveva avvicinato fuori dallo jacal della ragazza malata e di molti altri uomini e donne che avevo conosciuto, cercando una chiave che aprisse tutti i cuori.
Non ne trovai alcuna che si potesse esprimere in poche parole del tipo: «Uomini e donne fanno quello che fanno per questo e questo…». Nessuno dei laceri frammenti di metallo s’incastrava con gli altri… il desiderio di potere, la brama di amore, il bisogno di essere rassicurati, o la predilezione per una vita avventurosa. Ma trovai un principio, che giunsi a chiamare quello della Primitività, che credo sia ampiamente applicabile, e che, anche se non dà inizio all’azione, sembra almeno influenzare il tipo di forma che l’azione assume. Avrei potuto definirlo così: Poiché le culture preistoriche sono durate per così tante chiliadi, esse hanno modellato la nostra eredità in modo da indurci a comportarci come se le loro condizioni fossero ancora attuali.
Per esempio, la tecnologia che un tempo poteva aver permesso a Baldanders di osservare tutte le azioni del capo del villaggio vicino al lago, si era ormai ridotta in polvere da migliaia di anni; ma durante gli eoni della sua esistenza, essa aveva gettato su di lui un incantesimo per cui rimaneva efficace anche se non esisteva più.
Allo stesso modo, tutti abbiamo in noi gli spettri di cose svanite da tempo, di città crollate e di macchinari meravigliosi. La storia che avevo un tempo letto a Jonas quando eravamo imprigionati (con quanta minore ansierà e con quanta maggiore compagnia), dimostrava chiaramente questo, ed io la rilessi più volte nello zigurrat. L’autore, essendosi trovato nella necessità d’inventare qualche mostro marino come Erebus o Abaia, ma inserito in un contesto mitologico, gli aveva dato una testa simile ad una nave… che era la sola parte visibile del suo corpo poiché il resto rimaneva sommerso… in modo che esso fosse distaccato dalla realtà protoplasmica e diventasse la macchina richiesta dai ritmi della mente.
Mentre mi divertivo con queste speculazioni, mi resi sempre più conto della natura transitoria dell’occupazione dell’antico edificio da parte di Vodalus. Anche se il medico non si era più visto, come ho detto, ed Agia era venuta una sola volta a trovarmi, sentivo di frequente un suono di piedi in corsa nel corridoio all’esterno della mia porta, e, di tanto in tanto, udivo gridare qualche parola.
Ogni qualvolta mi giungevano quei suoni, accostavo la guancia fasciata alle travi; in effetti, spesso li anticipavo, sedendo in quella posizione per lunghi periodi nella speranza di udire qualche brano di conversazione che mi rivelasse qualcosa dei piani di Vodalus. Non potei far a meno di pensare, allora, mentre ascoltavo invano, alle centinaia di persone rinchiuse nella nostra segreta che dovevano avermi ascoltato quando portavo da mangiare a Drotte, ed a come dovevano aver teso l’orecchio per intercettare frammenti delle conversazioni che giungevano nel corridoio della cella di Thecla e quindi nelle loro celle, quando io andavo a trovarla.
E che dire dei morti? Io ho talvolta pensato a me stesso come se fossi stato quasi morto. Non sono forse anch’essi bloccati sottoterra in camere più piccole della mia, in milioni di milioni? Non c’è categoria d’attività umana in cui i morti non siano molte volte più numerosi dei vivi. La maggior parte dei bambini è morta, la maggior parte dei soldati, la maggior parte dei codardi. Le donne più belle e gli uomini più eruditi… sono tutti morti. I loro corpi riposano in casse, sarcofagi, sotto arcate di rozza pietra, dovunque sotto la terra. I loro spiriti perseguitano le nostre menti, gli orecchi premuti contro le ossa delle nostre fronti. Chi può dire con quanta attenzione essi ascoltino quando noi parliamo, o in attesa di quale parola?
XXVII
AL COSPETTO DI VODALUS
Il mattino del sesto giorno, due donne vennero a prendermi. Avevo dormito pochissimo la notte precedente. Uno dei pipistrelli vampiri, comuni in quelle giungle settentrionali, era entrato dalla finestra, e, sebbene fossi riuscito ad allontanarlo e ad arrestare il sangue, aveva continuato a tornare, attratto, suppongo, dall’odore delle mie ferite. Ancora oggi non posso vedere la vaga e verde oscurità della luce lunare soffusa senza immaginare un pipistrello che striscia in essa come un ragno e poi rimbalza nell’aria.
Le donne furono sorprese di trovarmi sveglio come io lo fui di vederle, perché era appena l’alba. Mi fecero alzare ed una di loro mi legò le mani mentre l’altra mi teneva il pugnale puntato alla gola. Mi chiese comunque come stava andando la mia guancia ed aggiunse che le era stato detto che ero un bel ragazzo quando ero stato preso.
— Ero quasi altrettanto vicino alla morte allora quanto lo sono ora — le risposi. La verità era che, anche se le conseguenze della botta ricevuta quando il velivolo era caduto erano passate, la gamba, come anche la faccia, mi doleva ancora notevolmente.
Le donne mi condussero da Vodalus; non, come mi ero più o meno aspettato, da qualche parte nello zigurrat o sulla sporgenza dove lo avevo visto sedere con Thea, bensì in una radura circondata su tre lati da un lento e verde corso d’acqua. Ci vollero un paio d’istanti… dovetti rimanere in attesa che un’altra questione venisse conclusa… prima che mi rendessi conto che quel fiume scorreva effettivamente verso nord ed est, e che non avevo mai visto un fiume dirigersi in quella direzione prima di allora. In base alla mia precedente esperienza, tutti i corsi d’acqua andavano verso sud o est per congiungersi al Gyoll, che scorreva verso sud ovest.
Finalmente Vodalus reclinò la testa verso di me ed io fui fatto avanzare. Quando vide che riuscivo a stento a reggermi, ordinò alle guardie di farmi sedere ai suoi piedi, poi rivolse loro un cenno perché si allontanassero, fuori portata d’udito.
— Il tuo ingresso è meno impressionante di quello che hai fatto nella foresta vicino Nessus — disse.
— Ma, Signore — replicai, — io vengo ora, come allora, in veste di tuo servitore. Come lo ero anche la prima volta che mi hai incontrato, quando ti ho salvato il collo da quell’ascia. Se ti compaio dinnanzi lacero ed insanguinato e con le mani legate è perché è così che tu tratti i tuoi servitori.
— Convengo che legarti le mani mi pare una precauzione un po’ eccessiva nelle tue condizioni. — Ebbe un leggero sorriso. — Fa male?
— No. Ho perso la sensibilità.
— Comunque, quelle corde non sono necessarie. — Vodalus si alzò, estrasse una lama sottile e tagliò i legami con la sua punta.
Tesi le spalle e gli ultimi fili si spezzarono: migliaia di aghi parvero trapassarmi le mani. Quando tornò a sedere, Vodalus mi chiese se non lo avrei ringraziato.
— Tu non mi hai mai ringraziato, Signore. Mi hai invece dato una moneta: credo di averla qui da qualche parte. — Frugai nella bisaccia alla ricerca delle monete che mi erano state pagate da Guasacht.
— Puoi tenerti la tua moneta. Ho intenzione di chiederti molto più di questo. Vuoi dirmi chi sei?
— Sono sempre stato pronto a dirtelo, Signore. Sono Severian, precedentemente un artigiano della corporazione dei torturatori.
— Ma non sei niente altro eccetto che un ex artigiano della corporazione?
— No.
Vodalus sospirò, sorrise, quindi si appoggiò allo schienale della sedia e sospirò ancora.
— Il mio servitore Hildegrin ha sempre sostenuto che eri una persona importante. Quando gli ho chiesto perché, mi ha presentato una serie di argomentazioni nessuna delle quali mi è parsa convincente. Avevo pensato che stesse cercando di spillarmi con facilità un po’ di argento. Eppure, aveva ragione.
— Io sono stato importante solo una volta, Signore, per te.
— Ogni volta che c’incontriamo, mi ricordi che mi hai salvato la vita. Lo sai che Hildegrin ha una volta salvato la tua? È stato lui a gridare «Scappa» al tuo avversario quando hai fatto quel duello in città. Eri caduto, e lui avrebbe potuto trapassarti.
— Agia è qui? — chiesi. — Tenterà di ucciderti se lo sente.
— Nessuno ti può sentire tranne me. Potrai dirglielo più tardi, se vorrai: non ti crederà mai.
— Non ne puoi essere sicuro.
— Molto bene — sorrise ancor più accentuatamente Vodalus, — ti consegnerò a lei. Potrai mettere alla prova la tua teoria contro la mia.
— Come desideri.
Accantonò il mio consenso con un elegante gesto della mano.
— Credi di potermi tenere in posizione di stallo con la tua acquiescenza a morire. In effetti, mi stai offrendo un facile modo per uscire da un dilemma. La tua Agia è venuta da me con un taumaturgo molto abile e mi ha detto che il prezzo per i suoi servigi e per quelli del medico era soltanto che tu, Severian dell’Ordine dei Cercatori della Verità e della Penitenza, fossi messo nelle sue mani. Adesso tu dici che sei Severian il Torturatore e niente altro, ed è con grande imbarazzo che resisto alle sue richieste.
— E chi vorresti che io fossi? — chiesi.
— Io ho, o forse meglio farei a dire avevo, un eccellente servitore nella Casa Assoluta. Naturalmente lo conosci, dato che è stato a lui che hai consegnato il mio messaggio. — Vodalus fece una pausa e sorrise di nuovo. — Circa una settimana fa ne ho ricevuto uno da lui. In effetti, non era apertamente rivolto a me, ma non molto tempo prima avevo fatto in modo di comunicargli la nostra posizione, e non eravamo molto lontani da lui. Sai cosa mi ha detto?
Scossi il capo.
— Questo è strano — osservò Vodalus, — perché dovevi essere con lui in quel momento. Ha detto di trovarsi in un velivolo abbattuto… e che l’Autarca era nello stesso velivolo. Sarebbe stato un idiota ad inviare un simile messaggio in circostanze ordinarie, perché comunicava la sua posizione… e si trovava oltre le nostre linee, come doveva sapere.
— Allora tu fai parte dell’esercito Asciano?
— Sì, li aiutiamo fornendo servizi d’esplorazione. Vedo che sei turbato dal pensiero che Agia ed il taumaturgo hanno inevitabilmente dovuto uccidere alcuni soldati per liberarvi, ma non ce n’è bisogno: i loro padroni danno alle loro vite ancora meno valore di quanto faccia io, e non era il momento di negoziare.
— Ma essi non hanno catturato l’Autarca. — Non sono un buon bugiardo, ma credo che in quel momento la mia faccia fosse troppo esausta perché Vodalus potesse leggervi la verità.
Si piegò in avanti, e, per un momento, i suoi occhi brillarono come se candele fossero state accese nella loro profondità.
— Allora era là. Che meraviglia: lo hai visto, sei stato sul velivolo reale con lui.
Annuii nuovamente.
— Vedi, per quanto possa sembrare ridicolo, ho temuto che si trattasse di te. Non si sa mai. Un Autarca muore ed un altro prende il suo posto, ed il nuovo Autarca può rimanere tale per mezzo secolo o una sola notte. Eravate solo voi tre? Nessun altro?
— No.
— Che aspetto aveva l’Autarca? Voglio ogni dettaglio.
Risposi fornendogli un’accurata descrizione del Dr. Talos, come era apparso in quella parte.
— È sfuggito sia alle creature del taumaturgo sia agli Asciani? O forse lo hanno preso gli Asciani? O magari la donna ed il suo amante lo hanno in loro possesso?
— Ti ho detto che gli Asciani non lo hanno preso.
Vodalus sorrise di nuovo, ma, sotto gli occhi ardenti, la bocca contratta suggeriva solo dolore.
— Vedi — ripeté, — per un certo tempo ho pensato che si potesse trattare di te. Abbiamo il mio servitore, ma ha subìto una grave ferita alla testa e non riprende mai conoscenza per più di pochi istanti. Morirà fra breve, temo. Ma mi ha sempre detto la verità, ed Agia ha affermato che c’eri solo tu con lui.
— Credi che io sia l’Autarca? No.
— Eppure sei diverso dall’uomo che ho incontrato in passato.
— Tu stesso mi hai dato l’alzabo e la vita della Castellana Thecla. Io l’amavo. Credevi che ingerire in quel modo la sua essenza non avrebbe avuto alcun effetto su di me? Lei è sempre con me, cosicché io sono due esseri in un solo corpo, eppure non sono l’Autarca, che in un solo corpo è mille persone.
Vodalus non rispose nulla, ma socchiuse gli occhi, quasi timoroso che potessi scorgere il loro fuoco. Non c’era altro suono che il fluire del fiume e le voci soffocate del gruppetto di uomini e donne armati che parlavano fra loro ad un centinaio di passi di distanza e che ci osservavano di tanto in tanto. Un macaco strillò, saltando da un albero all’altro.
— Io ti servirei ancora — dissi a Vodalus, — se tu me lo permettessi. — Non ero certo che fosse una bugia fino a quando quelle parole non ebbero lasciato le mie labbra, ed allora rimasi mentalmente sconcertato, cercando di comprendere perché ciò che nel passato sarebbe stato vero per Thecla e per Severian, era adesso falso per me.
— L’Autarca è un solo corpo contenente mille persone — citò Vodalus, ripetendo le mie parole. — È esatto, ma in quanto pochi lo sanno.
XXVIII
IN CAMMINO
Oggi, che è l’ultimo giorno prima che io lasci la Casa Assoluta, ho partecipato ad una solenne cerimonia religiosa. Tali rituali sono divisi in sette ordini a secondo della loro importanza, oppure, come dice l’heptarca, della loro «trascendenza»… qualcosa che ignoravo completamente nel momento a proposito del quale sto scrivendo. Al livello più basso, dell’Aspirazione, ci sono i culti privati, che comprendono le preghiere pronunciate in privato, il lancio di una pietra su un tumulo e così via. Le riunioni e le cerimonie pubbliche che io, da ragazzo, credevo costituissero l’intero corpo di una religione organizzata, sono in realtà poste al secondo livello, dell’Integrazione. Quello cui abbiamo partecipato oggi apparteneva al livello più alto, dell’Assimilazione.
In accordo con il principio della circolarità, la maggior parte dei partecipanti si radunava in processione, anche se i primi sei ne venivano ora dispensati. Non c’era musica, ed il ricco vestiario della Sicurezza era stato sostituito da abiti inamidati dalle pieghe scultoree che conferivano a noi tutti l’aspetto di icone… Non ci è più consentito, come facevamo un tempo, condurre la cerimonia avvolti nella lucente cintura della galassia, ma raggiungere quell’effetto è quasi altrettanto possibile, se si esclude il campo attrattivo di Urth dall’interno della basilica. Era per me una nuova sensazione, e, sebbene non avessi paura, mi rammentava nuovamente la notte che avevo trascorso sulle montagne quando mi ero sentito sul punto di precipitare dalla superficie del mondo… qualcosa che subirò domani con assoluta serietà. Alle volte, il soffitto sembrava un pavimento oppure (cosa che era per me ancora più fastidiosa) una parete diveniva il soffitto, cosicché si poteva guardare fuori dalle finestre e vedere una montagna coperta d’erba che si alzava eterna verso il cielo. Per quanto fosse stupefacente, quella visione non era meno vera di quel che vediamo comunemente.
Ciascuno di noi divenne un sole; i ruotanti crani d’avorio erano i pianeti. Ho detto che avevamo fatto a meno della musica, ma non è del tutto vero, perché mentre essi ruotavano intorno a noi, ci giunse un debole e dolce ronzare e fischiare, provocato dal fluire dell’aria attraverso le orbite e fra i denti. Quelli che avevano un’orbita costante quasi circolare emettevano una nota continua, che variava solo leggermente quando ruotavano sui loro assi; la musica emessa da quelli con un’orbita ellittica cresceva e calava, aumentando di tono quando mi si avvicinavano, calando ad un gemito quando si allontanavano.
Quanto siamo sciocchi a vedere solo la morte in quegli occhi incassati ed in quelle calotte di marmo! Quanti amici ci sono fra loro! Il libro marrone che avevo trasportato così a lungo, la sola cosa fra quelle che mi ero portato dietro dalla Torre di Matachin che sia ancora con me, era stato impaginato, stampato e composto da uomini e donne con quelle facce ossute; e noi, immersi nel suono delle loro voci, offrivamo ora, a vantaggio di coloro che erano il passato, noi stessi ed il presente alla folgorante luce del nuovo sole.
Eppure in quel momento, circondato dal più significativo e splendido simbolismo, non potei fare a meno di pensare quanto fosse stata diversa la realtà dei fatti quando avevamo lasciato lo zigurrat il giorno successivo a quello del mio colloquio con Vodalus e ci eravamo messi in marcia (io sotto la scorta di sei donne che erano talvolta costrette a trasportarmi) per una settimana o più attraverso la giungla pestilenziale. Non sapevo… e non lo so tuttora,… se stavamo fuggendo gli eserciti della Repubblica o gli Asciani che erano stati alleati di Vodalus. Forse cercavamo soltanto di riunirci al gruppo principale delle forze degli insorti. Le mie guardie si lamentarono dell’umidità che sgocciolava dagli alberi e consumava le loro armi ed armature come acido, e del calore soffocante, ma io non avvertii nessuna delle due cose. Rammento di aver una volta abbassato lo sguardo sulla mia coscia e di aver notato con sorpresa che la carne era caduta in modo da lasciare esposti i muscoli simili a corde e da permettermi di scorgere il movimento del ginocchio così come si vede il funzionamento della ruota di un mulino sul suo asse.
Il vecchio medico era con noi, e mi visitava ora due o tre volte al giorno. All’inizio, tentò di tenermi sulla faccia una benda asciutta, poi, quando vide che era uno sforzo vano, rimosse ogni fasciatura e si accontentò di spalmare il balsamo sulle ferite. Da allora, alcune delle donne della mia scorta rifiutarono di guardarmi e, se dovevano parlarmi, lo facevano tenendo lo sguardo abbassato, mentre altre parvero gloriarsi della loro capacità di sopportare la vista del mio volto lacerato, stando a gambe divaricate (una posa che consideravano evidentemente bellicosa) ed appoggiando la sinistra sull’impugnatura delle armi con studiata noncuranza.
Parlavo con loro più spesso che potevo… non perché le desiderassi, in quanto la malattia generata dalle mie ferite mi aveva tolto ogni desiderio del genere… ma perché nel mezzo di quella sparsa colonna mi sentivo solo come non mi ero sentito quando vagavo nel nord lacerato dalla guerra e neppure quando ero rinchiuso nell’antica cella dello zigurrat, e perché in qualche assurdo angolo della mia mente speravo ancora di fuggire.
Le interrogavo su ogni argomento che potevano ragionevolmente conoscere, e rimanevo sempre stupito nello scoprire quanto pochi fossero i punti su cui le nostre menti avevano opinioni convergenti. Nessuna delle sei si era unita a Vodalus perché comprendeva la differenza fra la restaurazione del progresso, che egli cercava di ripristinare, ed il ristagnare della Repubblica. Tre avevano semplicemente seguito il loro uomo fra le sue file; due erano venute nella speranza di vendicarsi di qualche ingiustizia personale, ed una per fuggire da un detestato patrigno. Tutte, tranne l’ultima, avrebbero adesso desiderato di non essersi unite a Vodalus, e nessuna sapeva con esattezza dove fossimo o in che direzione stessimo andando.
Come guide, la nostra colonna aveva tre selvaggi: un paio di giovani uomini che avrebbero potuto essere fratelli o addirittura gemelli, ed un vecchio, contorto, pensai, da qualche deformità oltre che dall’età, che indossava sempre una maschera grottesca. Anche se i primi due erano più giovani ed il terzo molto più vecchio, tutti e tre mi ricordavano l’uomo nudo che avevo visto una volta nel Giardino della Giungla. Erano nudi come lui, avevano la stessa pelle scura e dall’aria metallica ed i capelli lisci. I due più giovani portavano cerbottane più lunghe del loro braccio e dardi fatti a mano e tinti di un color ambra bruciata, senza dubbio con il succo di qualche pianta selvatica. Il vecchio aveva un bastone storto quanto lui e sormontato dalla testa disseccata di una scimmia.
L’Autarca era trasportato su un palanchino coperto che si trovava molto più avanti di me nella colonna, ed il mio medico mi fece capire che egli era ancora vivo; ed una notte, mentre le guardie chiacchieravano fra loro ed io sedevo a gambe incrociate vicino al nostro piccolo fuoco, vidi la vecchia guida (la sua figura contorta e l’impressione di una testa immensa conferita dalla sua maschera grottesca erano inequivocabili) avvicinarsi al palanchino e scivolare sotto di esso. Trascorse qualche tempo prima che si allontanasse. Si diceva che quel vecchio fosse un uturuncu, uno sciamano capace di assumere la forma di una tigre.
Nel giro di pochi giorni da quando avevamo lasciato lo zigurrat, senza incontrare mai nulla che si potesse definire una strada o anche solo un sentiero, c’imbattemmo in una pista ricoperta di cadaveri. Erano Asciani, ed erano stati spogliati di armi e di equipaggiamento in modo tale che i corpi sembravano essere caduti dal cielo nel punto in cui giacevano. Mi parve che fossero morti da una settimana circa, ma senza dubbio lo stato di decadimento era stato accelerato dall’umidità e dal calore ed in realtà il tempo trascorso era molto minore. La causa della morte era raramente chiara.
Fino ad allora avevamo visto pochi animali più grossi dei grotteschi scarafaggi che ronzavano di notte intorno ai nostri fuochi; gli uccelli che cantavano dalle cime degli alberi si mantennero invisibili, e se qualche pipistrello vampiro ci fece visita, le sue ali nere come inchiostro si fusero con il buio notturno. Adesso sembrava che avanzassimo invece attraverso un esercito di animali attirati verso la sfilza di cadaveri come le mosche lo sono da un animale morto. Passava a stento un turno di guardia senza che udissimo un suono di ossa fracassate da grandi mascelle, e di notte grandi occhi verdi e scarlatti, talvolta anche a due spanne di distanza l’uno dall’altro, ci fissavano dall’esterno dei nostri piccoli cerchi di fuochi. Anche se era assurdo pensare che quelle bestie sazie di carogne potessero assalirci, le mie guardie raddoppiarono le sentinelle e quelle che dormivano lo fecero con le corazze addosso e le armi a portata di mano.
Ad ogni giorno che passava, i corpi diventavano più freschi, fino a che non tutti quelli che trovavamo erano morti. Una pazza, con i capelli tagliati cortissimi, s’imbatté nella nostra colonna poco più avanti del mio gruppo, gridò qualcosa che nessuno riuscì a capire e fuggi fra gli alberi. Udimmo grida d’aiuto, strilli e fruscii, ma Vodalus non permise a nessuno di deviare, e verso mezzogiorno della stessa giornata c’immergemmo… nello stesso senso in cui in precedenza si sarebbe potuto dire che c’eravamo immersi nella giungla… nel grosso dell’orda degli Asciani.
La nostra colonna era formata dalle donne e dalle provviste, da Vodalus stesso e dal suo seguito, e da pochi dei suoi aiutanti con i loro accoliti. In tutto, non ammontava neppure ad un quinto della forza, ma se ogni insorto che militava sotto le sue bandiere fosse stato là e se ciascuno si fosse moltiplicato per cento, il numero sarebbe stato sempre, rispetto a quella moltitudine, ciò che una tazza d’acqua era rispetto al Gyoll.
Quelli che incontrammo all’inizio erano soldati di fanteria. Rammentai come l’Autarca mi avesse detto che non venivano date loro armi fino al momento della battaglia, ma, se era così, i loro ufficiali dovevano aver pensato che quel momento fosse vicino. Ne vidi migliaia armati con il ransieur, tanto che alla fine giunsi a pensare che tutta la fanteria Asciana fosse equipaggiata in quel modo. Poi, quando stava ormai scendendo la notte, ne raggiungemmo altre migliaia armate di demilune.
Dal momento che marciavamo più veloci degli Asciani, ci addentrammo con maggiore profondità nelle loro file, ma ci accampammo più presto di loro (ammesso che si accampassero), e per tutta la notte, fino a quando finalmente non mi addormentai, ne udii le grida rauche e lo strisciare dei piedi. Il mattino dopo eravamo un’altra volta circondati da morti e morenti e impiegammo più di un turno di guardia a raggiungere di nuovo le loro file barcollanti.
Questi Asciani avevano una rigidità, un attaccamento all’ordine privo di volontà, che non avevo mai notato altrove, e che non mi sembrava avesse radici nello spirito o nella disciplina come io li intendevo. Sembrava che obbedissero soltanto perché non riuscivano ad immaginare un altro possibile modo di agire. I nostri soldati portavano quasi sempre parecchie armi… quanto meno un’arma ad energia ed un coltello (fra gli schiavoni, io avevo costituito un’eccezione, non possedendo una simile arma da aggiungere al mio falcione). Ma non vidi mai un Asciano con più di un’arma, e la maggior parte dei loro ufficiali non ne aveva nessuna, come se disprezzassero l’idea di combattere personalmente.
XXIX
AUTARCA DELLA REPUBBLICA
Verso la metà della giornata, oltrepassammo di nuovo tutti coloro che avevamo superato il pomeriggio precedente, prima di raggiungere un convoglio di salmerie. Credo che tutti noi fummo stupiti di scoprire che le grandi forze che avevamo visto non erano altro che la retroguardia di un esercito inconcepibilmente più vasto.
Gli Asciani usavano uintati e platibelodonti come bestie da soma. Mescolate ad essi, c’erano macchine con sei zampe ed in apparenza costruite per servire allo stesso scopo. Per quel che potevo vedere, i conducenti non facevano alcuna differenza fra una di quelle bestie o una macchina; se un animale si sdraiava e non poteva essere costretto a rialzarsi, il suo carico veniva distribuito fra quelli vicini ed esso abbandonato, e lo stesso valeva per le macchine che cadevano e non si raddrizzavano più. Non sembrava che si facesse il minimo sforzo per macellare le bestie in modo da ricavarne carne né per smembrare le macchine ed utilizzarne le parti come ricambi.
Più tardi, nel pomeriggio, un grande eccitamento attraversò la nostra colonna, anche se né io né le mie guardie riuscimmo a determinarne la causa. Vodalus stesso ci passò accanto frettoloso con alcuni dei suoi luogotenenti, ed in seguito ci fu una serie di andirivieni fra la testa ed il fondo della colonna. Quando scese l’oscurità, non ci accampammo, ma continuammo a viaggiare nella notte con gli Asciani. Ci furono passate alcune torce, e, dato che non avevo nessuna arma da trasportare e mi sentivo alquanto più forte che in passato, le portai io, e questo mi diede quasi l’impressione di comandare le sei guardie munite di spada che mi circondavano.
Ci arrestammo verso mezzanotte, a quanto potei giudicare. Una delle guardie trovò rami per il fuoco, che accendemmo con la torcia. Proprio quando stavamo per distenderci, vidi un messaggero destare i portatori del palanchino, fermi più avanti, e farli avanzare nel buio. Non erano ancora svaniti che il messaggero si avvicinò a noi ed ebbe una rapida e sussurrata conversazione con il sergente della mia scorta. Immediatamente mi furono legate le mani (cosa che non era più stata fatta da quando Vodalus me le aveva sciolte), e ci affrettammo a seguire il palanchino. Oltrepassammo la testa della colonna, contrassegnata dal padiglione della Castellana Thea, senza fermarci, e ben presto ci trovammo a vagare fra le miriade di soldati che formavano il grosso dell’esercito degli Asciani.
Il loro quartier generale era una cupola di metallo; suppongo che dovesse essere possibile smontarla e ripiegarla come una normale tenda, ma appariva altrettanto permanente e solida quanto un edificio, nera all’esterno, ma rilucente di una pallida luce priva di una chiara origine quando un lato si aprì per farci entrare. Vodalus era là, rigido e deferente; accanto a lui c’era il palanchino, le tende tirate a mostrare il corpo immobile dell’Autarca. Al centro della cupola, tre donne sedevano intorno ad un basso tavolo. Né allora né più tardi, alcuna di esse dedicò a Vodalus o al palanchino con l’Autarca o a me, quando venni introdotto, più di una fuggevole occhiata. C’erano mucchi di carta davanti a loro sul tavolo, ma le donne non guardavano neppure questi… si fissavano solo a vicenda l’una con l’altra. Come aspetto, non differivano molto dagli altri Asciani che avevo incontrato, salvo per il fatto che i loro occhi avevano uno sguardo meno folle ed un aspetto meno affamato.
— Egli è qui — disse Vodalus. — Ora li vedete entrambi dinnanzi a voi.
Una delle Asciane si rivolse alle altre due nella loro lingua; entrambe annuirono, e quella che aveva parlato esclamò:
— Solo colui che agisce contro la popolazione deve nascondere il volto.
Ci fu una lunga pausa, poi Vodalus mi sibilò:
— Rispondile!
— Rispondere cosa? Non c’è stata nessuna domanda.
— Chi è amico della popolazione? — continuò l’Asciano. — Colui che aiuta la popolazione. Chi è nemico della popolazione?
Parlando molto rapidamente, Vodalus mi chiese:
— Per quello che ne sai, sei tu oppure è quest’uomo privo di conoscenza il capo dei popoli della metà meridionale di questo emisfero?
— No — replicai, e mi fu facile mentire, dal momento che, stando a quanto avevo visto, l’Autarca era capo di ben pochi nella Repubblica. Rivolto a Vodalus aggiunsi, sottovoce: — Che tipo di sciocchezza è questa? Credi che lo confesserei a loro, se fossi il vero Autarca?
— Tutto quello che diciamo viene trasmesso al nord.
Una delle due Asciane che non aveva parlato in precedenza mormorò qualcosa ed accennò nella nostra direzione; quando ebbe finito, tutte e tre sedettero immobili come statue. Ebbi l’impressione che stessero ascoltando qualche voce che io non potevo udire, ma avrei potuto anche immaginarmelo. Vodalus si agitò, ed io cambiai posizione per alleviare un po’ il peso dalla gamba ferita, mentre il petto stretto dell’Autarca si levava nell’incerto ritmo del respiro; le tre donne, invece, rimasero immote come fossero state dipinte.
— Tutte le persone appartengono alla popolazione — annunciò infine quella che aveva parlato per prima, e, a quelle parole, le altre parvero rilassarsi.
— Quest’uomo è malato — obiettò Vodalus, guardando in direzione dell’Autarca, — ed è stato per me un utile servitore, anche se suppongo che la sua utilità sia ora terminata. L’altro l’ho promesso ad uno dei miei seguaci.
— Il merito del sacrificio ricade su colui che, senza pensare alla sua convenienza, offre ciò che ha per il servizio della popolazione. — Il tono della donna Asciana fece capire che non erano possibili ulteriori discussioni.
Vodalus guardò verso di me e scrollò le spalle, poi si girò ed uscì a grandi passi dalla cupola. Quasi immediatamente, entrò una fila di ufficiali Asciani, muniti di fruste.
Fummo imprigionati in una tenda asciana grande forse il doppio della cella che avevo occupato nello zigurrat. C’era un fuoco acceso ma nessun giaciglio, e gli ufficiali che avevano trasportato l’Autarca si limitarono a lasciarlo a terra accanto ad esso. Dopo essermi liberato le mani, tentai di sistemarlo più comodamente, girandolo sulla schiena, nella posizione che aveva sul palanchino, e sistemandogli le braccia lungo i fianchi.
Intorno a noi l’esercito era immerso nella massima tranquillità consentita ad un esercito Asciano. Di tanto in tanto, qualcuno gridava in lontananza… a quanto pareva, nel sonno,… ma per lo più non si udiva alcun suono salvo il lento marciare delle sentinelle all’esterno. Non saprei come esprimere l’orrore che si destò allora in me al pensiero di poter essere obbligato a marciare verso nord in direzione di Ascia. Vedere solo i volti affamati e selvaggi degli Asciani per il resto della mia vita, ed incontrare io stesso ciò che li aveva fatti impazzire, qualsiasi cosa fosse, mi sembrava un fato più orribile di quello che i nostri clienti della Torre di Matachin erano costretti a sopportare. Tentai di sollevare l’orlo della tenda, pensando che i soldati all’esterno non potevano far nulla di peggio che uccidermi, ma non vi riuscii perché era in qualche modo assicurato al terreno. Tutte e quattro le pareti erano formate di una sostanza liscia e resistente che non potevo lacerare, e le sei donne che mi avevano fatto da guardia mi avevano portato via il rasoio di Miles. Ero sul punto di precipitarmi fuori dalla porta, quando la ben nota voce dell’Autarca mi sussurrò:
— Aspetta!
M’inginocchiai accanto a lui, improvvisamente timoroso che potessero udirci.
— Pensavo che stessi… dormendo.
— Suppongo di essere rimasto in coma per la maggior parte del tempo, ma, quando non lo ero, ho fatto finta, in modo che Vodalus non mi potesse interrogare. Hai intenzione di fuggire?
— Non senza di te, Sieur. Ora non più: ti avevo creduto morto.
— Non ti eri sbagliato di molto… certo di non più di un giorno. Sì, io credo che sia meglio, devi fuggire. Padre Inire è con gli insorti. Doveva fornirti i mezzi necessari e poi aiutarti nella fuga. Ma noi non siamo più là… vero? Potrebbe non riuscire ad aiutarti. Apri la mia tunica. Ciò che ti servirà per prima cosa è infilato nella mia cintura.
Feci come aveva chiesto: la pelle che le mie dita sfiorarono era fredda come quella di un cadavere. Vicino al fianco sinistro vidi un’impugnatura di metallo argenteo non più spessa di un dito di donna. Estrassi l’arma, che non era lunga più di mezza spanna ma era forte e spessa ed affilata in un modo che non avevo più visto da quando la mazza di Baldanders aveva fatto a pezzi Terminus Est.
— Non devi andartene ancora — sussurrò l’Autarca.
— Non ti lascerò finché sarai vivo — replicai. — Dubiti forse di me?
— Vivremo entrambi e ce ne andremo entrambi. Tu conosci quell’abominazione… — la sua mano si chiuse sulla mia. — Il nutrirsi dei morti, il divorare le loro vite morte. Ma c’è un altro modo che non conosci, ed un’altra droga. Devi prenderla, e poi inghiottire le cellule viventi del mio cervelletto.
Dovetti trarmi indietro, perché la sua mano strinse con maggior forza la mia.
— Quando giaci con una donna, unisci la tua vita alla sua affinché nasca forse una vita nuova. Quando farai quello che ti ho ordinato, la mia vita e la vita di tutti coloro che vivono in me continueranno in te. Le cellule entreranno nel tuo sistema nervoso e vi si moltiplicheranno. La droga è nella fiala che porto appesa al collo, e quella lama aprirà la ossa della mia testa come fossero legno. Ho avuto modo di usarla, e ti prometto che funzionerà. Ti ricordi che hai giurato di servirmi, quando ho richiuso il libro? Usa quel coltello adesso, e vattene più in fretta che puoi.
Annuii, e promisi che lo avrei fatto.
— Quella droga sarà più forte di qualsiasi altra tu abbia conosciuto, ed ogni pensiero, tranne il mio, risulterà molto vago; ci saranno centinaia di personalità… noi siamo molte vite.
— Capisco — risposi.
— Gli Asciani si mettono in marcia all’alba. È possibile che rimanga più di un solo turno di guardia di ore notturne?
— Spero che tu vivrai per tutto quel tempo, Sieur, e per molto altro ancora. Spero che guarirai.
— Mi devi uccidere adesso, prima che Urth volga il viso verso il sole. Allora io vivrò in te, non morirò mai. Adesso sono ancora vivo per semplice forza di volontà, e sto rinunciando alla vita mentre ti parlo.
Con mia estrema sorpresa, i suoi occhi erano colmi di lacrime.
— Ti ho odiato fin da quando ero bambino, Sieur. Non ti ho fatto alcun male, ma te ne avrei fatto, se solo avessi potuto, ed ora mi dispiace.
La sua voce si attenuò fino a farsi più delicata del frinire di un grillo.
— Avevi ragione di odiarmi, Severian. Io rappresento… come farai tu… così tante cose sbagliate.
— Perché? — chiesi. — Perché? — Ero in ginocchio accanto a lui.
— Perché tutto il resto è peggio. Fino a quando non arriverà il Nuovo Sole, noi possiamo solo scegliere fra una serie di mali. Tutti i tentativi sono stati fatti e tutti sono falliti. Mettere i beni in comune, affidare il governo al popolo… tutto. Desideri il progresso? Gli Asciani lo posseggono. Sono assordati da esso, pazzi per la morte della Natura al punto di essere pronti ad accettare Erebus e gli altri come dèi. Noi manteniamo la razza umana stazionaria… in uno stato di barbarie. L’Autarca protegge il popolo dagli esultanti e gli esultanti… lo riparano dall’Autarca. La religione li conforta. Abbiamo chiuso le strade per paralizzare l’ordine sociale… — I suoi occhi si chiusero, e gli appoggiai una mano sul petto per sentire il debole fluttuare del suo cuore. — Fino a quando il Nuovo Sole…
Era questo ciò da cui avevo cercato di fuggire, non Agia o Vodalus o gli Asciani. Delicatamente, gli sfilai la catena dal collo, aprii la fiala ed inghiottii la droga. Poi, presi la corta ma resistente lama, feci quello che andava fatto.
Quando ebbi finito, lo coprii da testa a piedi con la sua stessa tunica color zafferano e mi appesi al collo la fiala vuota. L’effetto della droga fu violento, proprio come egli mi aveva detto. Tu che leggi queste pagine, e che, forse, non hai mai posseduto più di un’identità, non puoi sapere cosa significhi possederne due o tre, ed ancor meno averne cento. Esse vivevano tutte in me, ed erano felici, ciascuna a suo modo, di scoprire che avevano acquisito nuova vita. L’Autarca morto, il cui volto avevo visto pochi momenti prima ridotto ad una rovina scarlatta, viveva ora di nuovo. I miei occhi e le mie mani erano le sue, conoscevo il lavoro svolto dalle api degli alveari della Casa Assoluta e la loro sacralità, perché esse si muovevano vicino al sole e portavano fertilità ad Urth. Sapevo del suo viaggio fino al Trono della Fenice ed alle stelle e ritorno; la sua mente era la mia, e mi colmò di conoscenze di cui non avevo mai sospettato l’esistenza e del sapere che altre menti avevano apportato alla sua. Il mondo fisico parve farsi tenue e vago come un disegno, gli angoli della sua cima presero a ruotare come il prisma di un caleidoscopio. Ero caduto a terra senza accorgermene, e giacevo ora vicino al cadavere del mio predecessore, ed i tentativi di sollevarmi si risolsero solo in un battere delle mani contro il terreno.
Non so per quanto tempo rimasi in quello stato. Avevo pulito il coltello… che era adesso, ancora, il mio coltello, e lo avevo nascosto come aveva fatto l’Autarca morto. Riuscivo vividamente ad immaginarmi un me stesso formato da dozzine d’immagini sovrimpresse, che tagliava la tela e scivolava nella notte. Severian, Thecla, miriadi di altri, tutti che fuggivano. Il pensiero era talmente reale che spesso ero convinto di averlo fatto, ma sempre, quando credevo di essere in corsa fra gli alberi, evitando gli esausti soldati Asciani che dormivano, mi ritrovavo invece nella familiare tenda, con il cadavere coperto non lontano da me.
Due mani mi afferrarono. Pensai che gli ufficiali fossero tornati con le loro fruste e mi sforzai di vedere e di alzarmi in modo da non essere colpito. Ma un centinaio di ricordi sconnessi s’intromisero in rapida successione, come i quadri che il proprietario di una galleria di terz’ordine mostra ai suoi clienti: una gara di corsa, le torreggianti canne di un organo, un diagramma con angoli numerati, una donna che viaggia su un carretto.
— Stai bene? — mi chiese qualcuno. — Cosa ti è successo?
Sentii la saliva sgocciolarmi dalle labbra, ma non riuscii ad emettere nessun suono.
XXX
I CORRIDOI DEL TEMPO
Un colpo vibrante mi raggiunse al volto.
— Cosa è successo? Lui è morto. Sei stato drogato?
— Sì, drogato. — Qualcun altro stava parlando, e, dopo qualche istante, compresi di chi si trattasse: era Severian, il giovane torturatore.
Ma chi ero io?
— Alzati, dobbiamo andarcene.
— La sentinella.
— Le sentinelle — ci corresse la voce. — Erano tre e le abbiamo uccise.
Stavo scendendo una scalinata bianca come sale, giù verso i nenufari e l’acqua stagnante. Accanto a me camminava una ragazza abbronzata con lunghi occhi obliqui. Da dietro la sua spalla, sbirciava la faccia scolpita di uno degli eponimi: lo scultore aveva lavorato su un pezzo di giada, e l’effetto era quello di una faccia fatta d’erba.
— Sta morendo?
— Ora ci vede. Guarda i suoi occhi.
Sapevo dove mi trovavo. Presto il banditore avrebbe fatto capolino dalla soglia e mi avrebbe ordinato di andarmene.
— Sopra il terreno — osservai. — Mi avevi detto che l’avrei vista sopra il suolo, ma era facile. Lei è qui.
— Dobbiamo andare. — L’uomo mi prese per il braccio sinistro, Agia per il destro e mi condussero fuori.
Camminammo a lungo, proprio come io avevo immaginato la mia fuga, scavalcando talvolta gli Asciani addormentati.
— Fanno ben poca guardia — sussurrò Agia. — Vodalus mi ha spiegato che i loro capi sono obbediti tanto bene che non riescono neppure ad immaginare la possibilità di un attacco a tradimento. In guerra, i nostri soldati li prendono spesso di sorpresa.
— I nostri soldati… — ripetei come un bambino, senza comprendere.
— Hethor ed io non combatteremo più per loro. Come potremmo, dopo averli visti? Quel che devo fare riguarda te.
Cominciavo ad essere di nuovo me stesso, e le menti che componevano la mia mente stavano occupando il loro giusto posto. Mi era stato detto una volta che autarca significava «chi governa se stesso», ed intuii allora da cosa fosse nato quel titolo.
— Tu mi volevi uccidere — osservai, — ed ora mi stai liberando. Avresti potuto pugnalarmi. — Rividi con la memoria la daga ricurva che tremava conficcata nell’imposta della casa di Casdoe.
— Avrei potuto ucciderti anche più rapidamente. Gli specchi di Hethor mi hanno procurato un verme, non più lungo della tua mano, che brilla di un fuoco bianco. Devo solo tirarlo fuori, ed esso uccide e poi torna strisciando da me… ho ucciso così le sentinelle, una alla volta. Ma quest’uomo verde non mi ha permesso di ucciderti, ed io non volevo farlo: Vodalus mi aveva promesso che la tua agonia sarebbe durata settimane intere, e non mi accontenterò di meno.
— Mi stai riportando da lui?
Agia scosse il capo, e, nella debole e grigia luce dell’alba che passava fra le foglie vidi i riccioli marroni sobbalzarle sulle spalle come quando l’avevo osservata mentre sollevava le grate del suo negozio.
— Vodalus è morto. Credi che, avendo questo verme a mia disposizione, avrei potuto permettergli d’ingannarmi e di continuare a vivere? Ti avrebbero portato via. Adesso ti lascerò libero… perché ho una certa intuizione di dove ti dirigerai… ed alla fine cadrai nelle mie mani di nuovo, come hai fatto quando i nostri pteriopi ti hanno preso agli evzoni.
— Allora mi stai salvando perché mi odi — osservai, ed Agia annuì. Vodalus, suppongo, aveva odiato nello stesso modo quella parte di me che era stata l’Autarca.
O, piuttosto, aveva odiato la sua concezione dell’Autarca, perché era stato invece leale, fino al limite della sua capacità, al vero Autarca, che credeva essere un suo servitore. Quando ero un ragazzo, nelle cucine della Casa Assoluta, c’era un cuoco che, nutrendo un profondo disprezzo per gli armigeri e per gli esultanti per i quali cucinava, faceva tutto con una perfezione febbrile in modo da non correre mai il rischio di dover subire l’indegnità dei loro rimproveri. Alla fine, era stato nominato capo dei cuochi di quell’ala. Pensai a lui, e, mentre lo facevo, il tocco di Agia sul mio braccio, che era divenuto quasi impercettibile mentre camminavo, svanì del tutto. Quando la cercai, era scomparsa, ed ero solo con l’uomo verde.
— Come hai fatto ad arrivare qui? — gli chiesi. — Hai quasi perso la vita in quest’epoca, e so che non potrai sopravvivere sotto il nostro sole.
Sorrise; anche se le labbra erano verdi, i suoi denti erano bianchi, e brillarono alla luce della luna.
— Noi siamo i vostri figli, e non siamo meno onesti di voi, anche se non uccidiamo per mangiare. Tu mi hai dato metà della tua pietra, la pietra che ha consunto il ferro e mi ha liberato. Cosa pensavi che avrei fatto, quando la catena non mi avesse più imprigionato?
— Supponevo che saresti tornato nella tua epoca — replicai. L’effetto della droga era svanito quanto bastava per farmi temere che la nostra conversazione potesse svegliare i soldati Asciani. Eppure, non ne vedevo nessuno, solo gli scuri tronchi torreggianti della giungla.
— Noi ricompensiamo i nostri benefattori. Ho continuato a correre su e giù per i corridoi del Tempo, cercando un momento in cui anche tu ti fossi trovato in prigione, in modo da poterti liberare.
Quando sentii quelle parole, non seppi cosa dire, ed alla fine replicai:
— Non puoi immaginare come mi senta strano adesso, sapendo che qualcuno ha frugato nel mio futuro alla ricerca di un’opportunità per farmi del bene. Ma ora, ora che siamo pari, comprenderai certo che io non ti ho aiutato perché credevo che tu avresti potuto aiutare me.
— Lo hai fatto… tu desideravi il mio aiuto per trovare la donna che ci ha appena lasciati, la donna che, da allora, hai ritrovato parecchie volte. Comunque, dovresti sapere che io non ero solo: ci sono altri che stanno cercando, e te ne manderò due. Inoltre, tu ed io non siamo ancora pari, perché, anche se ti ho trovato qui prigioniero, la donna ti aveva trovato a sua volta e ti avrebbe liberato senza il mio aiuto. Quindi, ci rivedremo.
Nel dire quelle parole, mi lasciò andare il braccio e si avviò in quella direzione di cui non avevo mai notato l’esistenza, fino a quando non vi avevo visto l’astronave svanire dalla cima del castello di Baldanders, direzione che sembrava essere visibile solo quando in essa vi era qualcosa.
Immediatamente, cominciò a correre, e, nonostante il cielo dell’alba non fosse molto luminoso, potei distinguere la sua figura in corsa per parecchio tempo, illuminata da lampi intermittenti ma regolari. Alla fine, svanì in un punto d’oscurità, ma poi, proprio quando mi aspettavo che sparisse del tutto, quel punto cominciò ad ingrossarsi, tanto che ebbi l’impressione che qualcosa d’immenso mi stesse precipitando addosso attraverso un tunnel stranamente angolato.
Non era la nave che avevo visto, ma un’altra molto più piccola; eppure era tanto grande che, quando entrò alla fine nel nostro campo di consapevolezza, le sue frisate toccarono contemporaneamente parecchi degli spessi tronchi. Lo scafo si allargò ed una rampa, più piccola di quella che portava al velivolo dell’Autarca, scivolò giù a toccare il suolo.
Da essa scesero il Maestro Malrubius ed il mio cane, Triskele.
In quel momento, riacquistai quel comando sulla mia personalità che non avevo più veramente posseduto da quando avevo bevuto l’alzabo con Vodalus e mangiato la carne di Thecla… Non era che Thecla fosse svanita (ed in effetti non desideravo che se ne andasse, anche se sapevo che, sotto molti aspetti, era stata una donna sciocca e crudele) o che il mio predecessore e le cento menti che erano state contenute nella sua fossero scomparsi. L’antica, semplice struttura della mia personalità non esisteva più, ma quella nuova e complessa struttura non mi stupiva e non mi sconcertava. Era un labirinto, ma io ne ero il proprietario e perfino il costruttore, con l’impronta del mio pollice su ciascun passaggio. Malrubius mi toccò, quindi, presa la mia mano nella sua, l’appoggiò delicatamente contro la sua guancia fresca.
— Allora sei reale — dissi.
— No. Noi siamo quasi ciò che tu pensi che siamo… poteri da dietro le quinte. Soltanto, non siamo veramente divinità. Tu sei un attore, credo.
— Non mi riconosci, Maestro? — replicai, scuotendo il capo. — Tu mi hai istruito quando ero un bambino, e sono diventato artigiano della corporazione.
— Eppure sei anche un attore. Tu hai altrettanto diritto di pensare a te stesso in un modo quanto nell’altro. Facevi l’attore quando abbiamo parlato con te nel campo vicino alle Mura, e la volta successiva che ti abbiamo visto, vicino alla Casa Assoluta, stavi recitando di nuovo. Era una bella commedia, e mi sarebbe piaciuto vederne la fine.
— Eravate fra il pubblico?
— Come attore, Severian — annuì il Maestro Malrubius, — conoscerai certo la frase cui ho accennato un momento fa. Si riferisce ad una qualche forza soprannaturale, personificata e portata sul palcoscenico nell’ultimo atto in modo che la vicenda finisca bene. C’è chi sostiene che solo i miseri commediografi ricorrono a questo espediente, ma quelli che lo dicono dimenticano che è meglio avere un essere potente calato con una corda che fa finire bene la commedia, piuttosto che non avere nessuno ed una commedia che finisce male. Qui c’è la nostra corda… molte corde ed una robusta nave, per di più. Vuoi salire a bordo?
— È per questo che siete come siete? — chiesi. — Perché mi fidi di voi?
— Sì, se così vuoi. — Maestro Malrubius accennò con il capo, e Triskele, che se ne stava seduto ai miei piedi fissandomi, si alzò e corse con la sua andatura sobbalzante a tre zampe su per la rampa fino a metà, poi si volse a guardarmi, il mozzicone della coda che ondeggiava e gli occhi che mi supplicavano come solo gli occhi di un cane sanno fare.
— So che tu non puoi essere ciò che sembri. Forse Triskele lo è, ma ti ho visto seppellire, Maestro. Il tuo volto non è una maschera, ma c’è una maschera da qualche parte, e sotto di essa, tu sei ciò che la gente comune chiama un cacogeno, anche se una volta il Dr. Talos mi ha spiegato che preferite essere chiamati Hieroduli.
— Non t’inganneremmo neppure se potessimo farlo. — Il Maestro Malrubius appoggiò una mano sulla mia. — Ma spero che tu ingannerai te stesso per il tuo bene e per quello di tutta Urth. Una qualche droga intontisce ora la tua mente… più di quanto tu comprenda… così come eri sotto l’effetto del sonno quando ti abbiamo parlato nel prato vicino alle Mura. Se adesso tu non fossi drogato, forse ti mancherebbe il coraggio di venire con noi, anche se la ragione ti convincesse che è necessario.
— Fino ad ora non mi sono convinto di questo né di altro — ribattei. — Dove mi volete portare e perché lo volete fare? Sei il Maestro Malrubius oppure sei uno Hierodulo? — Mentre parlavo, divenni maggiormente consapevole degli alberi, eretti e fermi come stanno i soldati quando gli ufficiali discutono di qualche questione strategica. Era ancora notte, ma anche qui l’oscurità si andava attenuando.
— Conosci il significato della parola Hierodulo che stai usando? Io sono Malrubius e non uno Hierodulo. Piuttosto, servo coloro che sono serviti anche dagli Hieroduli. Hierodulo significa schiavo santo. Credi che ci possano essere schiavi senza padroni?
— E mi porterai…
— Verso l’Oceano, per salvare la tua vita. — Come se mi avesse letto nel pensiero, aggiunse: — No, non ti porteremo dalle amanti di Abaia, che ti hanno risparmiato ed aiutato perché eri un torturatore e saresti divenuto Autarca. In ogni modo, hai cose ben peggiori da temere. Presto, gli schiavi di Erebus, che ti hanno tenuto prigioniero qui, scopriranno che sei fuggito, ed Erebus getterà quell’esercito, e molti altri simili ad esso, nell’abisso pur di catturarti. Vieni.
E mi trasse sulla rampa.
XXXI
IL GIARDINO SULLA SABBIA
Quella nave era azionata da mani che non potevo vedere. Avevo pensato che avremmo galleggiato nell’aria come aveva fatto il velivolo o che saremmo svaniti lungo il corridoio del tempo come l’uomo verde, ma invece salimmo rapidamente, tanto che mi sentii male. Lungo le pareti, avvertii lo spezzarsi dei grossi rami.
— Adesso tu sei l’Autarca — mi disse Malrubius. — Lo sai? — La sua voce parve fondersi con il sibilo del vento nel sartiame.
— Sì. Il mio predecessore, la cui mente è ora una delle mie, ha assunto la sua carica nello stesso modo. Conosco i segreti e le parole d’autorità anche se non ho avuto ancora il tempo di pensarci. Mi riporterete alla Casa Assoluta?
— Non sei ancora pronto — rispose, scuotendo il capo. — Credi che tutto ciò che il vecchio Autarca sapeva sia adesso a tua disposizione. Hai ragione… ma non tieni ancora in pugno ciò che sai, e, quando verrà il momento della prova, incontrerai molti che sarebbero pronti ad ucciderti se tu dovessi esitare. Sei stato allevato nella Cittadella di Nessus… quali sono le parole per il suo castellano? Come si può comandare agli uomini-scimmia della miniera del tesoro? Quali frasi aprono le volte della Casa Segreta? Non hai bisogno di dirmelo, perché queste cose costituiscono l’arcano del tuo stato, e tu le conosci in ogni caso. Ma sapresti pronunciare subito queste parole fra te, senza molto riflettere?
Le frasi che mi servivano erano presenti nella mia mente, eppure fallii quando cercai di pronunciarle fra me e me: come piccoli pesci, esse continuavano a scivolare via, ed alla fine potei solo sollevare le spalle.
— E c’è ancora qualcosa che devi affrontare. Ancora un’avventura, accanto alle acque.
— Di che si tratta?
— Se te lo dicessi, la cosa non accadrebbe. Non ti allarmare, si tratta di qualcosa di semplice, che finirà nel volgere di un respiro. Ma devo spiegarti molte cose e non ho tempo per farlo. Hai fede nella venuta del Nuovo Sole?
Come avevo frugato dentro di me alla ricerca delle parole di comando, così guardai nel mio intimo alla ricerca di quella fede; e non la potei trovare più di quanto avessi trovato le parole.
— Mi è stato insegnato così per tutta la vita — risposi. — Ma da insegnanti… il vero Malrubius è stato uno di loro… che non vi credevano essi stessi. Così, non posso dire se credo o meno.
— Chi è il Nuovo Sole? Un uomo? Se è un uomo, com’è possibile che ogni pianta si colori di un verde più intenso alla sua venuta e che i granai si colmino?
Era una cosa spiacevole essere riportato a cose sentite solo a metà quando ero bambino proprio ora che cominciavo a comprendere di aver appena ereditato l’intera Repubblica.
— Sarà il Conciliatore ritornato — replicai, — il suo avatar, che porterà giustizia e pace. Nelle immagini, è mostrato con un volto lucente, come quello del sole. Io ero un apprendista dei torturatori, non un accolita, e questo è tutto quello che posso dirti. — Mi avvolsi più strettamente nel mantello per proteggermi dal vento freddo. Triskele era accoccolato ai miei piedi.
— E di cosa l’umanità ha maggiormente bisogno? Giustizia e pace? Oppure di un Nuovo Sole?
A quelle parole, tentai di sorridere.
— Mi è venuto in mente che, anche se non sei forse il mio vecchio maestro, tu puoi aver incorporato la sua personalità come ho fatto io con quella della Castellana Thecla. Se è così, conosci già la mia risposta. Quando un cliente è ridotto nelle condizioni più estreme, ciò che egli desidera sono calore, cibo ed assenza di dolore. Pace e giustizia vengono dopo. La pioggia simboleggia la pietà e la luce del sole la carità, ma la pioggia ed i raggi del sole sono migliori delle cose che simboleggiano, altrimenti la degraderebbero.
— Hai in gran parte ragione. Il Maestro Malrubius che conoscevi vive in me, ed il tuo vecchio Triskele in questo Triskele. Ma ciò non ha importanza ora. Se ci sarà tempo sufficiente, comprenderai prima che noi ce ne andiamo. — Il Maestro Malrubius chiuse gli occhi e si grattò i peli grigi sul petto, proprio come ricordavo di avergli visto fare quando ero il più giovane dei suoi apprendisti. — Avevi paura di salire su questa piccola nave, anche dopo che io ti avevo assicurato che non ti avrebbe portato via da Urth e neppure su un continente diverso da quello che conosci. Supponi che io ti dicessi… io non lo dico, ma supponi che lo facessi… che essa ti porterebbe effettivamente lontano da Urth, oltre l’orbita di Phaleg, che voi chiamate Verthandi, ed attraverso il buio fino ad un altro luogo. Avresti paura, ora che sei salpato con noi?
— A nessun uomo piace ammettere di aver paura. Ma, si, ne avrei.
— Paura o no, verresti, se ciò potesse portare il Nuovo Sole?
Mi parve che qualche spirito gelido avesse già avvolto le mani intorno al mio cuore. Non ero stato ingannato, e credo che non avesse intenzione di farlo: rispondere sì avrebbe significato intraprendere quel viaggio. Esitai, immerso nel silenzio, salvo il rombare del mio stesso sangue nei miei orecchi.
— Non c’è bisogno che tu risponda ora, se non puoi. Ti verrà chiesto ancora. Ma non ti posso dire altro fino a che non avrai risposto.
Per lungo tempo rimasi in piedi su quello strano ponte, talvolta camminando su e giù e soffiandomi sulle dita nel vento gelido, mentre i pensieri si affollavano tutt’intorno a me. Le stelle ci guardavano, e mi sembrava che gli occhi del Maestro Malrubius fossero due di loro.
Alla fine, tornai da lui e dissi:
— Ho desiderato per lungo tempo… Se questo portasse il Nuovo Sole, andrei.
— lo non posso darti nessuna assicurazione in merito. Se questo potesse portare il Nuovo Sole, andresti, dunque? Giustizia e pace, sì, ma un Nuovo Sole… un riversarsi di calore ed energia su Urth quale il pianeta conosceva prima della nascita del primo uomo?
Allora si verificò la cosa più strana di tutto questo già troppo lungo racconto; eppure, non ci fu alcun suono o immagine da associare ad essa, nessuna bestia parlante o donna gigantesca. Fu solo che quando la sentii, avvertii un pressione al petto come quella che avevo provato in Thrax quando avevo saputo che sarei dovuto andare a nord con l’Artiglio. Rammentai la ragazza nello jacal.
— Sì — risposi. — Se questo potesse portare il Nuovo Sole, andrei.
— E se tu dovessi superare una prova, una volta giunto? Hai conosciuto colui che era autarca prima di te, ed alla fine sei giunto a volergli bene. Egli vive in te. Era un uomo?
— Era un essere umano, cosa che, credo, tu non sei, Maestro.
— Non era questa la mia domanda, e tu lo sai bene quanto me. Era egli un uomo come lo sei tu? La metà della coppia formata da uomo e donna?
Scossi il capo.
— Così diverrai anche tu, se dovessi fallire la prova. Andrai ugualmente?
Triskele mi appoggiò la testa sfregiata contro un ginocchio, ambasciatore di tutti gli esseri mutilati, dell’Autarca che aveva portato un vassoio nella Casa Assoluta, ed era rimasto paralizzato nel palanchino, in attesa di trasmettere a me le voci ronzanti nel suo cranio, ambasciatore di Thecla che si contorceva sotto l’effetto del Rivoluzionario, e della donna che io, che mi vantavo di non dimenticare mai nulla, avevo quasi dimenticato, sanguinante e morente sotto la nostra torre. Forse, dopo tutto, era stata la scoperta di Triskele che, contrariamente a quel che ho detto in precedenza, aveva cambiato ogni cosa. Questa volta non dovetti rispondere, perché il Maestro Malrubius mi lesse in volto la risposta.
— Conosci quegli abissi nello spazio, che alcuni chiamano Buchi Neri, da cui non ritorna mai né una particella di materia né un bagliore di luce. Ma quello che non hai mai saputo fino ad ora è che questi abissi hanno i loro corrispettivi nelle Fontane Bianche, dalle quali materia ed energia rifiutati da un universo più elevato fluiscono in questo in una cataratta interminabile. Se tu supererai la prova… se la tua razza sarà ritenuta pronta a rifare il suo ingresso nello spazio… una di queste fontane bianche verrà creata nel cuore del nostro sole.
— Ma, e se fallissi?
— Se fallissi, ti verrebbe sottratta la tua virilità, in modo che tu non possa trasmettere il Trono della Fenice ai tuoi discendenti. Anche il tuo predecessore aveva accettato la sfida.
— Ed aveva fallito. È evidente da quanto hai detto.
— Sì. Eppure, egli era un uomo molto più coraggioso di quelli che sono chiamati eroi, il primo ad andare in molti regni. Ymar, di cui avrai sentito parlare, era stato l’ultimo prima di lui.
— Eppure, anche Ymar deve essere stato giudicato indegno. Andremo ora? Riesco a vedere solo stelle tutt’intorno.
— Non stai guardando attentamente come credi. — Il Maestro Malrubius scosse il capo. — Siamo già vicini alla tua destinazione.
Ondeggiando, mi avvicinai al parapetto. Parte della mia mancanza di equilibrio aveva la sua origine nel moto della nave, credo, ma in parte era anche dovuta agli effetti residui della droga.
La notte ricopriva ancora Urth, perché avevamo viaggiato rapidamente verso ovest, e la debole luce dell’alba che aveva raggiunto l’esercito Asciano nella giungla, non era ancora apparsa qui. Dopo un momento, notai che le stelle, di lato, sembravano scivolare e slittare nel cielo, con un moto agitato ed ondeggiante. Pareva quasi che qualcosa si muovesse fra di loro come il vento si muove fra il grano. Allora, pensai, questo è il mare… ed in quel momento il Maestro Malrubius mi avvertì:
— Questo è il grande mare chiamato Oceano.
— Ho desiderato a lungo di vederlo.
— Fra breve tempo ti troverai sulla sua riva. Hai chiesto quando lascerai questo pianeta: non prima che il tuo governo qui sia solido. Quando la città e la Casa Assoluta ti obbediranno ed i tuoi eserciti avranno respinto l’invasione degli schiavi di Erebus. Forse nel giro di pochi anni, oppure fra decenni. Noi due ti verremo a prendere.
— Stanotte sei la seconda persona che mi dice che la rivedrò — osservai, e, proprio mentre parlavo, ci fu un leggero urto, simile alla sensazione che si prova quando una barca viene fatta abilmente attraccare. Scesi lungo la rampa e sulla sabbia, ed il Maestro Malrubius e Triskele mi seguirono. Chiesi se non potevano rimanere con me per qualche tempo, per consigliarmi.
— Solo per breve tempo. Se hai altre domande, le devi porre adesso.
La lingua argentea della rampa stava già rientrando lentamente nello scafo, e parve che la nave fosse appena atterrata quando si sollevò e scomparve attraverso la stessa apertura nel tempo reale in cui era entrato di corsa l’uomo verde.
— Tu hai parlato della pace e della giustizia che il Nuovo Sole porterà. C’è giustizia nel fatto che mi chiami perché vada cosi lontano? Qual è la prova che devo superare?
— Non è lui che ti chiama. Coloro che chiamano sperano di convocare presso di loro il Nuovo Sole. — rispose il Maestro Malrubius, ma io non lo compresi. Quindi, in brevi parole, mi raccontò la storia segreta del Tempo, che è il più grande di tutti i segreti e che io spiegherò poi nel punto più adeguato.
Quando ebbe finito, la testa mi girava, e temetti che avrei dimenticato tutto quello che aveva detto: mi sembrava una cosa troppo grande perché qualsiasi essere vivente potesse venirne a conoscenza, ed avevo appreso finalmente che la nebbia della dimenticanza poteva avvolgermi come qualsiasi altro uomo.
— Tu non dimenticherai, tu al di sopra di ogni altro. Al banchetto di Vodalus, hai detto che ti sentivi certo che non avresti ricordato la sciocca parola d’ordine che egli ti aveva insegnato ad imitazione delle parole d’autorità, ma non è stato così. Tu rammenterai tutto. Rammenta anche di non aver paura. È probabile che l’epica penitenza subita dalla razza umana stia volgendo al termine. Il vecchio Autarca ti ha detto la verità… non torneremo fra le stelle a meno che sotto forma di divinità, ma ora può darsi che quel tempo non sia molto lontano. Può darsi che in te tutte le diverse tendenze della nostra razza abbiano raggiunto la loro sintesi.
Triskele si sollevò per un momento sulle zampe posteriori come era solito fare, poi si volse e corse lungo la spiaggia illuminata dalle stelle, infrangendo le piccole onde della riva con le sue tre zampe. Quando fu giunto ad un centinaio di passi di distanza, si volse a guardarmi, come se volesse che lo seguissi. Feci qualche passo verso di lui, ma il Maestro Malrubius intervenne:
— Non puoi andare dove sta andando lui, Severian. So che ci ritieni una sorta di cacogeni, e per qualche tempo ho creduto che sarebbe stato poco saggio disingannarti, ma adesso lo devo fare. Noi siamo acquastori, esseri creati e sostenuti dal potere dell’immaginazione e dalla concentrazione del pensiero.
— Ho sentito parlare di simili cose — replicai. — Ma io vi ho toccati.
— Questo non prova nulla. Noi siamo altrettanto solidi quanto la maggior parte delle cose false… una danza di particelle nello spazio. Solo le cose che nessuno può toccare sono vere, e tu lo dovresti sapere. Una volta hai incontrato una donna di nome Cyriaca che ti ha narrato alcune storie a proposito delle grandi macchine del passato. C’è una macchina del genere sulla nave su cui abbiamo viaggiato. Essa ha il potere di guardare nella tua mente.
— Allora voi siete macchine? — chiesi, mentre in me crescevano una sensazione di solitudine ed un vago timore.
— Io sono il Maestro Malrubius e Triskele è Triskele. La macchina ha guardato fra i tuoi ricordi e ci ha trovati. Le nostre vite nella tua mente non sono altrettanto complete come quella di Thecla e del vecchio Autarca, ma sono ugualmente presenti, e vivono finché tu vivi. Ma noi siamo mantenuti nel mondo fisico dall’energia di quella macchina, ed il suo raggio è solo di poche migliaia di anni.
Mentre pronunciava quelle parole, la sua carne si stava già trasformando in polvere lucente. Per un momento, brillò nella fredda luce stellare, quindi scomparve. Triskele rimase con me per qualche respiro ancora, poi, quando già il suo pelo giallo si era fatto argenteo e cominciava a disperdersi nella brezza delicata, udii il suo abbaiare.
Rimasi solo sulla riva del mare che avevo tanto desiderato vedere; ma, per quanto fossi solo, lo trovai rallegrante, e respirai quell’aria così diversa da ogni altra, e sorrisi nel sentire il morbido canto delle onde. La terra… Nessus, la Casa Assoluta, tutto il resto si trovava ad est, ma io mi avviai verso nord, perché ero riluttante a lasciare tanto presto il mare e perché Triskele si era messo a correre in quella direzione, lungo la riva. L’immenso Abaia poteva anche dimorare là con tutte le sue donne, ma il mare rimaneva più antico e più saggio di lui; noi esseri umani, come tutte le forme di vita terrestri, eravamo venuti dal mare, e, poiché non lo potevamo conquistare, era sempre nostro. Il vecchio, rosso sole sorse alla mia destra e sfiorò le onde con la sua sbiadita bellezza, ed udii il richiamo degli innumerevoli uccelli marini.
Quando le ombre si furono accorciate, ero stanco. La faccia e la gamba ferita mi facevano soffrire, non avevo mangiato dal mezzogiorno del giorno precedente e non avevo dormito affatto, salvo il periodo di trance nella tenda degli Asciani. Mi sarei riposato, se avessi potuto, ma il sole era caldo e la linea di colline al di là della spiaggia non offriva ombra alcuna. Alla fine, seguii le tracce di un carretto a due ruote e raggiunsi una macchia di rose selvatiche che crescevano su una duna. Là mi arrestai e sedetti all’ombra per togliermi gli stivali ed estrarne la sabbia che era penetrata attraverso le suole consunte.
Una spina s’impigliò nel mio avambraccio e si staccò dal suo ramo, essendosi conficcata nella mia carne, con una goccia di sangue non più grande di un chicco di miglio alla sua estremità. La estrassi… e poi caddi in ginocchio.
Era l’Artiglio.
L’Artiglio, perfetto, di un nero lucente, proprio com’era quando lo avevo collocato sotto l’altare di pietra delle Pellegrine. Tutto quel cespuglio e tutti gli altri che gli crescevano accanto erano coperti di boccioli bianchi e di questi perfetti Artigli. Quello sul mio palmo brillava di una luce splendente mentre lo fissavo.
Avevo restituito l’Artiglio, ma avevo conservato la piccola sacca di pelle che Dorcas aveva cucito per esso. L’estrassi dalla giberna e me l’appesi al collo alla vecchia maniera, con l’Artiglio ancora una volta al suo interno. Fu solo dopo che lo ebbi riposto in quel modo che rammentai di aver visto uno di quei cespugli nel Giardino Botanico, all’inizio del mio viaggio.
Nessuno può spiegare cose del genere. Da quando sono arrivato alla Casa Assoluta, ho parlato con l’heptarca e con svariati acaryas, ma essi sono stati in grado di dirmi ben poco, salvo che l’Increato aveva già in passato scelto di manifestarsi per mezzo di simili piante.
In quel momento non ci pensai, pieno com’ero di meraviglia… ma non poteva darsi che fossimo stati guidati all’incompiuto Giardino sulla Sabbia? Avevo portato indosso l’Artiglio perfino quando non sapevo di averlo, perché Agia lo aveva fatto scivolare sotto la chiusura della mia giberna. Non poteva darsi che fossimo giunti all’incompiuto Giardino sulla Sabbia affinché l’Artiglio, volando tome faceva contro il vento del Tempo, potesse dare il suo addio? È un’idea assurda, ma, del resto, tutte le idee lo sono.
Quello che mi colpì là sulla spiaggia… e mi colpì davvero, tanto che barcollai come se avessi ricevuto un colpo… fu che se il Principio Eterno era stato racchiuso in quella spina ricurva che avevo portato con me, appesa al collo, per così tante leghe, e se riposava ora nella nuova spina (forse la stessa spina) che avevo appena riposto, allora esso poteva risiedere in ogni cosa, in ogni spina di ogni cespuglio, in ogni goccia d’acqua di mare. La spina era un sacro Artiglio perché tutte le spine erano sacri Artigli; la sabbia nei miei stivali era sabbia sacra perché proveniva da una spiaggia di sabbia sacra. I cenobiti conservano le reliquie dei sannysini perché i sannysini hanno accostato il Pancreatore. Ma ogni cosa aveva accostato e perfino toccato il Pancreatore, perché ogni cosa era caduta dalla sua mano, ogni cosa era una reliquia. Mi tolsi gli stivali che avevo calzato per così tanto tempo e li gettai in mare, in modo da non camminare con essi su un suolo sacro.
XXXII
LA SAMRU
Continuai a camminare come se fossi stato un possente esercito, perché sentivo di essere accompagnato da tutti coloro che camminavano dentro di me. Ero circondato da una numerosa guardia, ed ero io stesso la guardia intorno alla persona del monarca. C’erano donne nei miei ranghi, sorridenti e cupe, e bambini che correvano e ridevano, e, sfidando Erebus ed Abaia, gettavano conchiglie nel mare.
Nell’arco di mezza giornata raggiunsi la bocca del Gyoll, così ampia che la riva opposta si perdeva in lontananza. In essa giacevano isole triangolari fra le quali vascelli dalle vele gonfie di vento si facevano strada come nubi fra i picchi delle montagne. Salutai gli occupanti di una nave che oltrepassava la punta su cui mi trovavo e chiesi un passaggio per Nessus. Dovevo sembrare una figura selvaggia, con il volto sfregiato, il mantello lacero e le costole che sporgevano.
Il suo capitano mandò ugualmente una barca a prendermi, una gentilezza che non ho mai dimenticato. Lessi paura e rispetto negli occhi dei rematori. Forse era a causa della vista delle mie ferite guarite solo parzialmente, ma quelli erano uomini che avevano visto molte ferite, ed allora rammentai come mi ero sentito quando avevo per la prima volta osservato la faccia dell’Autarca, nella Casa Azzurra, anche se egli non era un uomo alto e neppure un vero uomo.
La Samru risalì il Gyoll per venti giorni e venti notti. Usavamo le vele quando era possibile, e remavamo, una dozzina di remi per lato, quando non si poteva. Fu un periodo duro per i marinai, perché la corrente, per quanto lenta tanto da risultare quasi impercettibile, scorreva giorno e notte, ed i meandri del canale erano tanto lunghi ed ampi che spesso un rematore scorgeva ancora a sera il punto da cui aveva cominciato a faticare quando il tamburo aveva scandito il primo turno di guardia.
Per me, il viaggio era gradevole come una spedizione di piacere. Per quanto mi fossi offerto di remare e di lavorare alle vele con tutti gli altri, non me lo vollero permettere. Allora dissi al capitano, un uomo dal volto astuto che aveva l’aria di vivere tanto di commercio quanto di navigazione, che gli avrei pagato il passaggio quando fossimo arrivati a Nessus, ma egli non ne volle sapere ed insistette (tirandosi i baffi, cosa che faceva quando desiderava mostrare di essere sincero al massimo) che la mia presenza era una sufficiente ricompensa per lui e per l’equipaggio. Io non credo che avessero intuito che ero l’Autarca, e, per timore di tipi come Vodalus, fui attento a non lasciarmi sfuggire i! minimo accenno che potesse farlo capire. Ma, dai miei occhi e dai miei modi, essi parvero ricevere l’impressione che fossi un adepto.
L’incidente relativo alla spada del capitano dovette rafforzare la loro superstizione. Si trattava di una craquemarte, la più pesante delle spade di mare, con una lama larga quanto il mio palmo, ricurva e decorata con stelle e soli ed altri simboli che il capitano non capiva. Egli la portava quando eravamo tanto vicini ad un villaggio della riva o ad un’altra nave da fargli sentire che l’occasione richiedeva una certa dignità, ma per la maggior parte del tempo la lasciava sul piccolo cassero. Io la trovai là, e, non avendo altro da fare che osservare bastoni e bucce che galleggiavano sulla corrente, tirai fuori la mia mezza pietra e l’affilai. Dopo qualche tempo, il capitano mi notò, mentre provavo il taglio con il pollice, e prese a vantarsi della propria abilità di spadaccino, e, dal momento che la craquemarte pesava circa due terzi di quanto aveva pesato Terminus Est, con una corta impugnatura, era divertente sentirlo e lo ascoltai con piacere per circa un turno di guardia. Per caso, c’era nelle vicinanze un rotolo di cavo spesso quanto il mio polso, e, quando il capitano cominciò a perdere interesse alle sue stesse invenzioni, chiesi a lui ed al nostromo di tendere circa tre cubiti di quella corda fra loro. La craquemarte la tagliò come fosse un capello, e poi, prima che i due si fossero ripresi dallo stupore, la lanciai verso il sole e la riafferrai per l’elsa.
Come temo che quell’incidente mostri fin troppo chiaramente, cominciavo a sentirmi meglio. Non c’è nulla che possa incantare il lettore se si scrive di riposo, aria fresca e cibo semplice; ma essi possono operare meraviglie sulle ferite e sulla stanchezza.
Il capitano mi avrebbe ceduto la sua cabina se glielo avessi permesso, ma dormii invece sul ponte, avvolto nel mio mantello, e, in una notte di pioggia, mi riparai sotto la barca di salvataggio, che era conservata, rovesciata, nel centro della nave. Come appresi a bordo di quella nave, la natura delle brezze è quella di svanire quando Urth volge la schiena al sole; così, la maggior parte delle notti, andavo a dormire con il canto dei rematori negli orecchi, ed al mattino mi destavo al tintinnare della catena dell’ancora.
Talvolta, tuttavia, mi svegliavo prima dell’alba, quando eravamo accostati alla riva e con una sola assonnata sentinella di guardia sul ponte. E qualche altra volta mi destava la luce della luna, e trovavo la nave in movimento sotto la spinta delle vele, il nostromo al timone e gli uomini che dormivano. Durante una di quelle notti, poco dopo che avevamo oltrepassato le Mura, andai a poppa, e vidi la fosforescenza della nostra scia simile ad un freddo fuoco sull’acqua scura e pensai per un momento che gli uomini-scimmia della miniera stessero venendo per essere curati dall’Artiglio o per prendersi un’antica rivincita. Questo, naturalmente, non era del tutto strano… solo lo sciocco errore di una mente ancora in parte addormentata. Neppure quello che accadde la mattina successiva fu strano, ma mi colpì profondamente.
I rematori stavano remando lentamente per farci aggirare una curva lunga parecchie leghe, fino ad un punto dove avremmo potuto intercettare un po’ di vento. Il battito del tamburo ed il suono dell’acqua che cadeva dai lunghi remi era come ipnotico, credo perché era tanto simile al battito del cuore nel sonno ed al suono che il sangue fa quando supera l’orecchio interno per raggiungere il cervello.
Ero in piedi vicino al parapetto e guardavo la riva, ancora paludosa dove le antiche pianure erano state allagate dal Gyoll, e mi parve di vedere forme precise sulle collinette e sulle alture, come se tutta quella vasta e dolce distesa possedesse un’anima geometrica (come accade a certi disegni) che svaniva quando la fissavo, per poi riapparire appena distoglievo lo sguardo. Il capitano venne a sostare accanto a me, ed io, avendo sentito dire che le rovine della città si stendevano a valle del fiume, gli chiesi quando le avremmo avvistate. Egli rise e mi spiegò che le stavamo già costeggiando da due giorni, e mi prestò il suo cannocchiale, in modo che potessi vedere come quello che avevo preso per un tronco fosse in effetti un moncone inclinato di colonna ricoperto di muschio.
Immediatamente tutto… strade, muri, monumenti… parve balzare fuori dal suo nascondiglio, proprio come la città di pietra si era ricostruita mentre noi la osservavamo dal tetto della tomba insieme alle due streghe. Nessun mutamento si era verificato all’esterno della mia mente, ma ero stato trasportato, ad una velocità molto maggiore di quella della nave del Maestro Malrubius, da una campagna desolata al cuore di un’immensa ed antica distesa di rovine.
Anche oggi, non posso fare a meno di chiedermi quanto ognuno di noi veda di ciò che è stato prima di noi. Per settimane, il mio amico Jonas non mi era parso altro che un uomo con una mano artificiale, e, quando mi trovavo con Baldanders ed il Dr. Talos, avevo trascurato un centinaio d’indizi che avrebbero dovuto farmi capire che Baldanders era il padrone. Come quando ero rimasto colpito, all’esterno della Porta della Pietà, dal fatto che Baldanders non era sfuggito al dottore quando ne aveva avuto l’opportunità.
Man mano che la giornata trascorreva, le rovine divennero sempre più distinte. Ad ogni piega del fiume, le verdi mura si levavano più alte e da un terreno più compatto. Quando mi destai la mattina successiva, alcuni degli edifici più solidi conservavano ancora i piani superiori. Non molto tempo dopo, scorsi una piccola barca, costruita da poco, legata ad un antico ormeggio. L’indicai al capitano, il quale sorrise della mia ingenuità e mi spiegò:
— Ci sono intere famiglie che vivono, nipote dopo nonno, saccheggiando queste rovine.
— Così mi è stato detto. Ma quella non può essere una delle loro barche: è troppo piccola per contenere un grosso bottino.
— Gioielli o monete. Nessun altro scende a riva qui. Non c’è legge. I saccheggiatori si uccidono a vicenda, ed uccidono chiunque altro scenda a terra.
— Io devo andare là. Mi potete aspettare?
— Per quanto? — chiese, fissandomi come se fossi impazzito.
— Fino a mezzogiorno, non oltre.
— Guarda — rispose, indicando, — più avanti c’è l’ultima grande curva. Lasciaci qui e vienici incontro laggiù, dove il canale si ripiega ancora. Sarà pomeriggio prima che ci arriviamo.
Acconsentii ed egli fece calare la barca della Samru per me ed ordinò a quattro uomini di accompagnarmi a riva. Quando eravamo sul punto di partire, si tolse dalla vita la sua craquemarte e me la porse, esclamando solennemente:
— Mi ha fiancheggiato in molte dure lotte. Colpiscili alla testa, ma sta’ attento a non spuntarla contro le cinture.
Accettai la spada, ringraziandolo, e risposi che preferivo sempre colpire al collo.
— È un bene — replicò, — se non hai vicino qualche compagno che può restare ferito quando la fai roteare di piatto. — E si tirò un baffo.
Seduto a prua, avevo ampia opportunità di osservare i volti dei miei rematori, ed era evidente che erano quasi altrettanto spaventati dalla riva quanto lo erano da me. Accostarono accanto alla piccola barca, poi quasi rovesciarono la loro nella fretta di allontanarsi. Dopo essermi accertato che quel che avevo visto dalla nave era esattamente ciò che mi era sembrato, e cioè un papavero scarlatto lasciato ad appassire sull’unico sedile, li guardai tornare verso la Samru e notai che, anche se un leggero vento favoriva ora la velatura, i remi erano stati calati e battevano un ritmo rapido. Presumibilmente, il capitano aveva in mente di aggirare la curva il più in fretta possibile; se io non mi fossi fatto trovare nel punto che mi aveva indicato, avrebbe potuto procedere senza di me, dicendo a se stesso (e ad altri, se altri lo avessero chiesto) che ero stato io a non tener fede all’appuntamento, e non lui. Separandosi dalla sua craquemarte si era alleggerito la coscienza.
Alcuni gradini molto simili a quelli da cui mi tuffavo da ragazzo erano stati intagliati nei lati del molo, la cui cima era vuota e quasi lussureggiante come un giardino, a causa dell’erba che era cresciuta fra le pietre. La città in rovina, la mia città di Nessus, anche se era una Nessus di un lontano passato, si stendeva quieta dinnanzi a me. Qualche uccello roteava in alto, ma tacito come le stelle sbiadite dal sole. Il Gyoll, che sussurrava fra sé, sembrava già distaccato da me e dai gusci vuoti degli edifici fra i quali zoppicavo. Non appena fui fuori dalla vista delle sue acque, esso tacque, come un visitatore incerto che smetta di parlare quando entra in un’altra stanza.
Mi sembrava difficile che fosse questo il quartiere da cui (come Dorcas mi aveva detto) venivano prelevati gli utensili ed i pezzi di mobilio. All’inizio, osservai di frequente attraverso porte e finestre, ma non era stato lasciato nulla se non rovine e poche foglie gialle cadute dai giovani alberi che stavano dissestando i pavimenti. Non vidi neppure traccia di razziatori umani, anche se c’erano escrementi di animali, piume e qualche osso sparsi qua e là.
Non so quanto mi spinsi all’interno. Forse per una lega, anche se poteva essere stato molto meno. Perdere il trasporto offerto dalla Samru non m’infastidiva molto. Avevo percorso camminando la maggior parte della strada da Nessus alle montagne, e, anche se i miei passi erano ancora incerti, i miei piedi nudi si erano induriti sul ponte della nave. Poiché non mi ero mai veramente abituato a portare una spada alla cintura, appoggiai la craquemarte alla spalla come avevo spesso fatto con Terminus Est. La luce del sole estivo contiene una sorta di piacevole calore che aumenta quando un indizio di freddo penetra nell’aria del mattino. Io ne godetti, come anche del silenzio e della solitudine, e ne avrei goduto di più se non avessi pensato a Dorcas, a quello che le avrei detto se l’avessi trovata, a quello che lei avrebbe detto a me.
Se solo avessi saputo, mi sarei risparmiato quella preoccupazione: la trovai più presto di quanto mi sarei ragionevolmente aspettato, e non le parlai… né lei mi parlò o, per quanto posso giudicare, mi vide.
Gli edifici, che lungo il fiume erano stati grandi e solidi, avevano già da parecchio ceduto il passo a strutture più piccole e malandate che un tempo dovevano essere state case e negozi. Non so cosa mi guidò da lei. Non c’era alcun suono di pianto, anche se poteva esserci stato qualche piccolo rumore captato inconsciamente, come lo scricchiolio di un cardine o lo strisciare di una scarpa. Forse non fu nulla di più del profumo del fiore che portava indosso, perché, quando la vidi, notai un aurum, punteggiato di bianco e fragrante come lo era sempre stata Dorcas, infilato nei suoi capelli. Indubbiamente, se lo era portato dietro a quello scopo, ed aveva sfilato e gettato via il papavero appassito quando aveva legato la sua barca. (Ma sto anticipando i tempi della mia storia.)
Tentai di entrare nell’edificio dal davanti, ma il pavimento marcito stava precipitando nelle fondamenta in punti in cui le arcate di sostegno erano crollate. Il magazzino sul retro era meno aperto; il silenzioso vialetto ombreggiato e verde di felci doveva un tempo essere stato un vicolo pericoloso, ed i commercianti avevano aperto su di esso poche finestre o addirittura nessuna. Comunque, trovai una stretta porta nascosta sotto l’edera, una porta il cui chiavistello era stato consunto come zucchero dalla pioggia ed il cui legno di quercia stava marcendo. Una fila di scalini quasi solidi portava al piano superiore.
Era inginocchiata con la schiena rivolta verso di me. Era sempre stata snella, ma ora le sue spalle mi fecero pensare alla spalliera di una sedia cui fosse stato appeso un vestito da donna. I capelli, simili all’oro più pallido, erano gli stessi, immutati dalla prima volta che l’avevo vista nel Giardino del Sonno Eterno. Il corpo del vecchio che aveva sospinto la sua barca sulle acque di quel giardino giaceva in una bara dinnanzi a lei, la schiena così diritta, il volto, nella morte, così giovane che quasi non lo riconobbi. Sul pavimento accanto a lei c’era un canestro, non grande ma neppure piccolo, ed un’olla d’acqua, chiusa.
Non dissi nulla, e, dopo aver guardato per qualche tempo, mi allontanai. Se Dorcas si fosse trovata lì da parecchio, l’avrei chiamata e l’avrei abbracciata, ma era appena arrivata, e compresi che una cosa del genere era impossibile. Tutto il tempo che io avevo impiegato ad andare da Thrax al Lago Diuturna, e dal lago alle montagne dove si combatteva, e tutto il tempo durante il quale ero stato prigioniero di Vodalus ed avevo risalito il Gyoll, lei lo aveva impiegato per tornare in quel luogo, dove aveva vissuto quarant’anni prima ed anche più, anche se ora era caduto in rovina. Proprio come avevo fatto io, un antico ronzante per l’antichità come un cadavere ronza per le mosche. Non che la presenza della mente di Thecla e del vecchio Autarca e delle cento menti contenute nella sua mi avessero reso vecchio. Non erano i loro ricordi ad invecchiarmi, bensì i miei, mentre pensavo a Dorcas che rabbrividiva accanto a me sul sentiero marrone di carici galleggianti, entrambi gelati e gocciolanti, intenti a bere dalla fiaschetta di Hildegrin come i due neonati che effettivamente eravamo stati.
Non prestai alcuna attenzione a dove andavo. Scesi lungo una strada viva di silenzio, e, quando essa terminò, svoltai a caso. Dopo qualche tempo raggiunsi il Gyoll e vidi la Samru all’ancora al luogo convenuto: se un basilosauro fosse uscito nuotando dal mare, non mi sarei stupito maggiormente.
Nel giro di pochi minuti mi trovai circondato da marinai sorridenti. Il capitano mi strinse la mano, dicendo:
— Avevo paura che fossimo arrivati troppo tardi. Con gli occhi della mente mi pareva di vederti lottare per la tua vita nei pressi del fiume, mentre noi eravamo ancora ad una lega di distanza.
Il nostromo, un uomo così abissalmente stupido da ritenere che il suo capitano fosse un condottiero d’uomini, mi diede un colpetto sulla schiena e gridò:
— La tua sarebbe stata una gran bella lotta!
XXXIII
LA CITTADELLA DELL’AUTARCA
Anche se ogni lega che ci separava da Dorcas mi lacerava il cuore, era una cosa più bella di quanto possa esprimere essere tornato sulla Samru, dopo aver visto il vuoto e silenzioso sud.
I ponti della nave avevano quel bianco impuro ma adorabile del legno tagliato di fresco, lavato quotidianamente con un grosso straccio chiamato l’orso… una sorta di stuoia fatta di vecchio cordame intrecciato ed appesantita con i voluminosi corpi dei due cuochi, e che l’equipaggio doveva trascinare sull’ultimo tratto di ponte prima di colazione. Le crepe fra le travi erano sigillate con la pece, cosicché i ponti sembravano terrazze pavimentate con un audace e fantastico disegno.
La nave aveva la prua alta che si ripiegava all’indietro. Due occhi, ciascuna pupilla grande come un piatto e con un’iride azzurro cielo dipinta del colore più brillante che fosse possibile ottenere, aiutavano la Samru a trovare la strada, e l’occhio sinistro piangeva l’ancora.
Più avanti sulla prua, c’era, sostenuta da un supporto triangolare anch’esso lavorato, dorato e dipinto, la figura distintiva della nave, rappresentante l’uccello dell’immortalità. La sua testa era quella di una donna, il volto lungo ed aristocratico, gli occhi piccoli e neri, la sua mancanza d’espressione una magnifica raffigurazione della cupa tranquillità di coloro che non conosceranno mai la morte. Penne di legno dipinto sporgevano dal cranio per rivestirle le spalle e circondare i seni circolari. Le braccia erano ali sollevate in alto ed all’indietro, le punte che s’innalzavano oltre la parte terminale della prua, le penne primarie d’oro e di porpora che oscuravano in parte il sostegno triangolare. L’avrei ritenuta una creatura assolutamente fiabesca, come senza dubbio facevano i marinai… se non avessi avuto modo di vedere le anpiels dell’Autarca.
Un lungo bompresso passava a tribordo della prua, fra le ali della Samru.
L’albero di prua, di poco più alto del bompresso, sorgeva dal castello di prua. Era inclinato in avanti in modo da dare alla vela il massimo spazio, anche se era stato mandato fuori squadra dall’albero di trinchetto e dal fiocco. L’albero principale sorgeva dritto come il pino che un tempo era stato, mentre l’albero di mezzana era inclinato all’indietro, per cui le cime dei tre alberi erano considerevolmente più separate delle loro basi. Ciascun albero sorreggeva un pennone inclinato, ottenuto legando insieme due pali affusolati che erano stati un tempo un alberello intero. Ciascuno di quei pennoni reggeva a sua volta una singola vela color ruggine.
Lo scafo era dipinto di bianco al di sotto del livello dell’acqua e di nero al di sopra, salvo che per la figura e gli occhi di cui ho già parlato, ed anche per il parapetto del cassero, a simboleggiare sia l’alta condizione del capitano sia il suo passato sanguinario. Quel cassero non occupava in effetti più di un sesto della lunghezza della Samru, ma su di esso c’erano la ruota del timone e l’abitacolo, ed era di là che si vedeva il panorama migliore, salvo quello fornito dalle alberature. L’unico effettivo armamento della nave, un cannoncino ruotante non più grande di quello di Mamillian, era collocato là, pronto sia per eventuali pirati che per un ammutinamento. Appena a prua del parapetto, due pali di ferro, delicatamente inclinati come le corna di un grillo, reggevano lanterne sfaccettate, una di un rosso pallido, e l’altra di un verde vivo come quello della luce lunare.
La sera successiva, mi trovavo vicino a quelle lanterne, intento ad ascoltare il tonfo del tamburo, il morbido sciacquio dei remi ed il canto dei rematori, quando scorsi le prime luci lungo la riva. Questo era il confine morente della città, la dimora dei più poveri fra i poveri… il che significava soltanto che qui c’era il confine vivente della città, che qui terminava il dominio della morte. Qui c’erano esseri umani che si stavano preparando a dormire, che forse stavano ancora dividendo il pasto che contrassegnava la fine della giornata. Vidi un migliaio di scene gentili in ciascuna di quelle luci, ed udii un migliaio di storie narrate vicino al focolare. In un certo senso, ero tornato a casa, e lo stesso canto che mi aveva spinto avanti in primavera, mi riportava ora indietro:
Remate, fratelli, remate!
La corrente è contro di noi.
Remate, fratelli, remate!
Eppure Dio è con noi.
Remate, fratelli remate!
Il vento è contro di noi.
Remate, fratelli, remate!
Eppure Dio è con noi.
Non potei fare a meno di pensare a chi stava partendo quella notte.
Ogni lunga storia, se narrata sinceramente, conterrà tutti gli elementi che hanno contribuito al dramma umano fin da quando la prima rozza astronave raggiunse le spiagge lunari: non solo nobili azioni e tenere emozioni, ma cose grottesche, goffe discese dal sublime al ridicolo, e così via. Io mi sono sforzato di esporre qui la verità senza abbellimenti, senza la minima preoccupazione che tu, lettore, potessi trovare alcune parti improbabili ed altre insipide. E se le montagne dove c’era la guerra erano teatro di grandi imprese (compiute più da altri che da me) ed il mio imprigionamento da parte di Vodalus e degli Asciani un periodo di orrore, ed il viaggio sulla Samru un interludio di tranquillità, adesso eravamo arrivati all’intervallo della commedia.
Ci avvicinammo a quella zona della città di cui fa parte la Cittadella… che è il lato meridionale ma non quello più a sud di tutti… navigando a vela e durante il giorno. Osservai con estrema attenzione la riva orientale dorata dal sole, e mi feci depositare dal capitano su quegli stessi scivolosi gradini dove un tempo avevo nuotato e lottato. Speravo di passare attraverso il cancello della nostra necropoli ed entrare così nella Cittadella attraverso la breccia nel muro di cinta, vicino alla Torre di Matachin, ma il cancello era chiuso a chiave, e non arrivò nessun gruppetto di volontari che mi facesse entrare. Pertanto, fui invece costretto a camminare per parecchie catene lungo il confine della necropoli, e per parecchie altre lungo il muro, fino al barbacane.
Là, incontrai un numeroso drappello di guardie, che mi condusse dinnanzi all’ufficiale di turno, il quale, quando gli dichiarai che ero un torturatore, suppose che io fossi uno di quei miseri che molto spesso, all’avvicinarsi dell’inverno, cercano di essere ammessi nella corporazione. Egli decise (molto saggiamente, se la sua supposizione fosse stata esatta) di farmi frustare, e, per evitare la cosa, fui costretto a spezzare il pollice a due dei suoi uomini ed a richiedere, mentre lo tenevo nella stretta che chiamiamo del gattino e della palla, di essere condotto dal suo superiore, il castellano.
Ammetto che ero alquanto intimorito al pensiero d’incontrare quel personaggio, che avevo sia pur raramente intravisto negli anni in cui ero stato apprendista nella fortezza che egli comandava. Scoprii che era un vecchio soldato, con i capelli argentei e zoppo quanto me. L’ufficiale spiegò balbettando quali erano le accuse mentre io attendevo vicino a lui: avevo assalito ed insultato (questo non era vero) la sua persona, malmenato due dei suoi uomini, e così via. Quando ebbe finito, il castellano spostò lo sguardo da lui a me e viceversa, quindi lo congedò e mi offrì di sedermi.
— Non sei armato — osservò, con voce rauca ma morbida, come se fosse stata a lungo sforzata nel gridare ordini.
Ammisi che lo ero.
— Ma hai partecipato ai combattimenti e sei stato nelle giungle a nord delle montagne, dove non si sono più combattute battaglie da quando il nemico ha fatto ripiegare il nostro fianco attraversando l’Uroboros.
— Questo è vero — convenni. — Come fai a saperlo?
— La ferita sulla tua coscia è stata causata da una delle loro lance, ne ho viste abbastanza da saperle riconoscere. Il raggio ha attraversato la carne ed è stato deviato dall’osso. Potevi trovarti su un albero ed essere stato colpito da un hastato a terra, suppongo, ma è più probabile che facessi parte della cavalleria e stessi attaccando un corpo di fanteria. Non un corpo di catafratti, altrimenti non ti avrebbero colpito così facilmente. Le demilance?
— Solo gli irregolari leggeri.
— Dovrai parlarmi di questo più tardi, perché dall’accento tu sembri un uomo di città, mentre gli irregolari sono per lo più eclettici e simili. Hai anche una doppia cicatrice sul piede, bianca e pulita, con i segni distanti mezza spanna fra loro. Quello è il morso di un pipistrello vampiro, e quelle bestie non diventano tanto grosse se non nelle nere giungle lungo la cintura del mondo. Come ci sei arrivato?
— Il nostro velivolo è precipitato e sono stato fatto prigioniero.
— E sei fuggito?
Ancora un momento e sarei stato costretto a raccontare di Agia e dell’uomo verde e del mio viaggio dalla giungla alla bocca del Gyoll, e quelli erano fatti importanti che non desideravo rivelare in maniera così casuale. Invece di rispondere, pronunciai le parole di autorità applicabili alla Cittadella ed al suo castellano.
Poiché l’uomo era zoppo, avrei voluto che rimanesse seduto, ma egli balzò in piedi, salutò, poi s’inginocchiò e mi baciò la mano. In questo modo era il primo, anche se non poteva saperlo, a rendermi omaggio, una distinzione, questa che dà diritto ad un’udienza privata una volta all’anno… udienza che non ha mai richiesto e forse non richiederà mai.
Adesso era per me impossibile procedere vestito com’ero. Il vecchio castellano avrebbe avuto un collasso se avessi avanzato una simile pretesa, ed era talmente preoccupato per la mia sicurezza che se anche avessi tentato di mantenere l’incognito mi avrebbe fatto seguire da almeno un plotone di alabardieri. Ben presto mi trovai vestito di una tunica cosparsa di lapislazzuli, di un coturnio e di uno stefane, il tutto accompagnato da un bastone d’ebano e da un voluminoso manto damascato e ricamato con perle ormai fatiscenti. Tutti quegli abiti erano incredibilmente antichi, perché erano stati prelevati da una riserva risalente ai tempi in cui la Cittadella era la sede degli autarchi.
Così, invece di rientrare nella nostra torre, com’era mia intenzione, con lo stesso mantello che portavo quando l’avevo lasciata, vi feci ritorno come un essere irriconoscibile, abbigliato in modo cerimoniale e bizzarro, magro come uno scheletro, zoppo ed orrendamente sfregiato. Fu in questo modo che entrai nello studio del Maestro Palaemon, e sono certo che dovetti spaventarlo a morte, dato che gli era stato annunciato solo pochi istanti prima che l’Autarca si trovava nella Cittadella e desiderava conversare con lui.
Mi parve che fosse molto invecchiato da quando ero partito, ma forse perché io lo ricordavo non com’era al momento del mio esilio, ma come lo avevo visto nella nostra piccola aula quando ero bambino. Eppure, mi piace pensare che fosse preoccupato per me, e non è veramente troppo improbabile che lo fosse: io ero sempre stato il suo migliore allievo ed il suo preferito, ed era stato senza dubbio il suo voto a contrastare quello del Maestro Gurloes ed a salvarmi la vita. Era stato lui a darmi la sua spada.
Comunque, che si fosse preoccupato molto o poco, il suo volto era più profondamente segnato di quanto fosse mai stato, ed i suoi radi capelli, che avevo pensato fossero grigi, erano adesso di quella pallida tonalità di giallo che si nota nel vecchio avorio. S’inginocchiò a baciarmi le dita, e rimase più che sorpreso quando lo aiutai ad alzarsi e lo invitai a sedere nuovamente dietro il suo tavolo.
— Sei troppo gentile, Autarca — esclamò, e poi aggiunse, usando una vecchia formula: — La tua pietà si estende da sole a sole.
— Non ti ricordi di noi?
— Sei stato confinato qui in passato? — Mi sbirciò attraverso un curioso insieme di lenti che era l’unica cosa che ancora gli permettesse di vedere, e compresi che la sua vista, già consumata sui registri della corporazione molto tempo prima che io nascessi, doveva essersi deteriorata ulteriormente. — Hai subito una tortura, vedo, ma è un lavoro troppo rozzo, spero, perché sia opera nostra.
— Non è stata opera vostra — replicai, toccandomi le cicatrici sulla guancia. — Nondimeno, noi siamo stati rinchiusi qui per un certo tempo, nella segreta sotto questa torre.
Egli sospirò, il basso respiro di un vecchio, ed abbassò lo sguardo sul grigio strato di carte che aveva dinnanzi. Quando parlò, non riuscii a sentire le sue parole, e dovetti chiedergli di ripeterle.
— È successo — spiegò. — Sapevo che sarebbe accaduto, ma speravo che sarei stato sepolto e dimenticato. Ci congederai, Autarca? Oppure ci affiderai qualche altro compito?
— Non abbiamo ancora deciso cosa faremo di te e della corporazione cui appartieni.
— Non servirà. Se ti offendo, Autarca, ti chiedo indulgenza in nome della mia età… ma non servirà lo stesso. Alla fine, scoprirai di aver bisogno di uomini che facciano quello che noi facciamo. Puoi definirlo un’attività di guarigione, se vuoi, come è stato detto spesso. Oppure un rituale, come è anche stato detto. Ma scoprirai che la cosa stessa diventa ancora più terribile sotto il suo travestimento. Imprigionerai coloro che non meritano la morte? Scoprirai di avere così un possente esercito in catene, di trattenere prigionieri la cui fuga sarebbe una catastrofe, e di aver bisogno di servi che insegnino la giustizia a coloro che hanno fatto morire nell’agonia dozzine di persone. Chi altro lo farà?
— Nessuno insegnerà quel tipo di giustizia che insegnate voi. Hai affermato che la nostra pietà si estende da sole a sole, e noi speriamo che sia così. Nella nostra pietà, concederemo anche ai più malvagi una rapida morte, non perché li compatiamo, ma perché è intollerabile che uomini buoni debbano trascorrere la loro vita dispensando sofferenza.
La sua testa si sollevò e le lenti lampeggiarono: per la prima ed unica volta in tutti quegli anni, riuscii ad intravedere in lui il giovane che era stato.
— Deve essere fatto da uomini buoni. Sei stato mal consigliato, Autarca! Quel che è intollerabile è che possa essere fatto da uomini cattivi!
Sorrisi. Il suo volto, come lo vedevo allora, mi aveva ricordato qualcosa che avevo allontanato dalla mia mente alcuni mesi prima, e cioè il fatto che la corporazione era la mia famiglia e l’unica casa che avrei mai posseduto. Non avrei mai trovato un amico al mondo se non ne avessi trovati qui.
— In confidenza, Maestro — risposi, — noi abbiamo deciso che non debba essere fatto per nulla.
Non mi rispose, e compresi dalla sua espressione che non mi aveva neppure sentito; stava ascoltando invece il suono della mia voce, ed un’espressione di dubbio e di gioia gli attraversò la vecchia faccia consunta come un alternarsi di ombre e luci.
— Sì — confermai, — sono Severian. — E, mentre egli lottava per riacquistare il controllo di sé, mi avvicinai alla porta e recuperai la mia giberna, che avevo ordinato ad uno degli ufficiali della mia guardia di portare. Avevo riposto in essa quello che era stato il mio mantello color fuliggine della corporazione, ora sbiadito ad un nero rugginoso. Disteso il mantello sulla scrivania del Maestro Palaemon, vi rovesciai sopra il contenuto della giberna. — Questo è tutto ciò che ho riportato indietro.
Sorrise, come era solito fare nell’aula quando mi coglieva a commettere qualche infrazione di minore importanza.
— Questo ed il trono? Me ne parlerai?
E lo feci. Ci volle molto tempo, e più di una volta i miei protettori bussarono alla porta per accertarsi che fossi sano e salvo, ed alla fine feci portare il pranzo. Quando il fagiano fu ridotto ad un mucchio di ossa, i pasticcini scomparsi ed il vino bevuto, stavamo ancora parlando. Fu allora che concepii l’idea che ha finalmente dato i suoi frutti in questo resoconto finale della mia vita. Dapprima, avevo avuto intenzione d’iniziare il racconto dal giorno in cui avevo lasciato la torre per concluderlo con il giorno del mio ritorno, ma compresi ben presto che, se una simile struttura avrebbe fornito quella simmetria tanto cara agli artisti, sarebbe però stato impossibile per chiunque comprendere le mie avventure senza sapere qualcosa della mia adolescenza. Allo stesso modo, alcuni elementi della mia storia rimarrebbero incompleti se io non ne prolungassi il resoconto (come intendevo fare) ad alcuni giorni dopo il mio ritorno. Forse, per qualcuno, sono riuscito a creare il Libro D’Oro. In effetti, può darsi che tutti i miei vagabondaggi non siano stati altro che un’invenzione dei librai per procurarsi clienti; ma forse, anche questo è sperare troppo.
XXXIV
LA CHIAVE DELL’UNIVERSO
Quando ebbe sentito tutto, il Maestro Palaemon si accostò al mucchietto dei miei averi e sollevò l’impugnatura e l’elsa che erano tutto ciò che rimaneva di Terminus Est.
— Era una buona spada — osservò. — Per poco non ti ho regalato la tua stessa morte, ma era una buona spada.
— Noi eravamo sempre orgogliosi di portarla, e mai abbiamo trovato motivo di lagnarcene.
Egli sospirò, ed il respiro parve arrestarglisi in gola.
— È scomparsa. È la lama a fare una spada, non gli accessori.
«La corporazione conserverà questi oggetti da qualche parte, insieme al mantello ed alla giberna, perché ti hanno appartenuto. Quando tu ed io saremo ormai morti da secoli, vecchi come me li indicheranno ai nostri apprendisti. È un peccato che non abbiamo anche la lama. L’ho usata per molti anni prima che tu entrassi nella corporazione, e non ho mai pensato che sarebbe andata distrutta combattendo contro una qualche diabolica arma. — Depose il pomo d’acciaio e mi fissò, accigliato. — Cosa ti disturba? Ho visto uomini sobbalzare di meno quando venivano loro strappati gli occhi.
— Ci sono molti tipi di arme diaboliche, come tu le chiami, che l’acciaio non è in grado di affrontare. Ne abbiamo viste alcune quando eravamo ad Orinthya. E ci sono decine di migliaia di soldati che stanno respingendo quelle armi con lance di fuoco, giavellotti, e spade forgiate molto peggio di Terminus Est. Fino ad ora sono riusciti nel loro intento perché le armi ad energia degli Asciani non sono molto numerose, e sono poco numerose perché gli Asciani non hanno le fonti di energia necessarie per produrle. Cosa accadrà se ad Urth verrà concesso un Nuovo Sole? Non riusciranno magari gli Asciani ad utilizzare la sua energia meglio di noi?
— Forse potrebbe accadere — riconobbe il Maestro Palaemon.
— Noi abbiamo riflettuto insieme agli autarchi che sono esistiti prima di noi… i nostri fratelli in una nuova corporazione. Il Maestro Malrubius ci ha detto che solo un nostro predecessore immediato ha osato sottoporsi alla prova nei tempi moderni. Quando contattiamo le menti degli altri, scopriamo spesso che essi hanno rifiutato la prova perché sentivano che i nostri nemici, i quali hanno conservato una maggiore conoscenza delle scienze antiche, avrebbero così acquisito un enorme vantaggio. Non è possibile che avessero ragione?
Maestro Palaemon rifletté a lungo prima di rispondere.
— Non lo so. Tu mi ritieni saggio perché un tempo sono stato tuo insegnante, ma io non mi sono trovato al nord, come te. Tu hai visto gli eserciti degli Asciani, mentre io non ho mai incontrato uno solo di loro. Mi aduli, chiedendo la mia opinione. Comunque… stando a quanto hai riferito, sono un popolo rigido, impietrito nelle sue usanze. Suppongo che ben pochi riescano a pensare.
— Questo è vero in ogni parte, Maestro — replicai con una scrollata di spalle. — Ma quel che tu dici è, se possibile, ancora più vero. E ciò che tu chiami rigidità è una cosa terribile… una torpida impassibilità che supera ogni immaginazione. Individualmente, essi sembrano uomini e donne, ma insieme sono come una macchina di legno e pietra.
Il Maestro Palaemon si alzò e si avvicinò al portello, guardando verso le torri affollate.
— Noi siamo troppo rigidi, qui — osservò. — Troppo rigidi nella nostra corporazione, troppo rigidi nella Cittadella. È molto significativo il fatto che tu, che sei stato allevato qui, li hai visti sotto questa luce: devono essere davvero inflessibili. Io credo che possa dipendere dal fatto che, nonostante la loro scienza, la cui portata può essere minore di quanto tu immagini, la gente della Repubblica sarà maggiormente in grado di volgere le nuove circostanze a suo vantaggio.
— Noi non siamo flessibili o inflessibili — replicai, — fatta eccezione per una memoria insolitamente buona, noi siamo un uomo normale.
— No, no! — Il Maestro Palaemon sferrò un colpo sul tavolo e le lenti lampeggiarono nuovamente. — Tu sei un uomo straordinario in un’epoca ordinaria. Quando eri un piccolo apprendista, ti ho battuto, una volta o due… te ne ricorderai, credo. Ma, anche quando ti battevo, sapevo che saresti diventato un personaggio straordinario, il più grande maestro che la nostra corporazione abbia mai avuto. E tu sarai un maestro: anche se distruggerai la nostra corporazione, noi ti eleggeremo!
— Noi ti abbiamo già detto che è nostra intenzione riformare la corporazione, non distruggerla, e non siamo neppure certi di avere la competenza necessaria per farlo. Tu ci rispetti perché siamo ascesi alla posizione più elevata, ma noi l’abbiamo raggiunta per caso, e ne siamo consapevoli. Anche il nostro predecessore l’aveva raggiunta per caso, e le menti che egli ha portato in eredità a noi e che noi tocchiamo debolmente anche ora, non erano, con una o due eccezioni, menti di genii. Per lo più, si tratta di uomini e donne comuni, artigiani e marinai, massaie e donne dissolute. La maggior parte degli altri è costituita da eccentrici studiosi di scarso rilievo, del tipo di cui Thecla era solita ridere.
— Tu non sei semplicemente salito alla posizione più alta — ribatté il Maestro Palaemon, — lo sei diventato: tu sei lo Stato.
— Noi non lo siamo. Lo Stato sono tutti gli altri… tu, il castellano, quegli ufficiali là fuori. Noi siamo la gente, la Repubblica. — Non ne ero consapevole io stesso fino a che non parlai.
— Conserveremo questo — soggiunsi, prendendo il libro marrone. — Esso era una delle cose buone, come la spada. La stesura dei libri sarà nuovamente incoraggiata. Non ci sono tasche in questi abiti, ma forse sarà un bene se saremo visti tenere un libro in mano quando andremo via.
— Portare un libro dove? — Il Maestro Palaemon reclinò la testa come un vecchio corvo.
— Alla Casa Assoluta. Siamo stati privi di contatti, o meglio, l’Autarca lo è stato, se vuoi metterla così, per più di un mese. Dobbiamo scoprire cosa sta succedendo al fronte e forse inviare rinforzi. — Pensai a Lomer, a Nicarete ed agli altri prigionieri nell’Anticamera, ed aggiunsi: — Abbiamo anche altri compiti da svolgere là.
— Prima che tu vada, Severian… Autarca… — Il Maestro Palaemon si massaggiò il mento, — non vorresti fare un giro delle celle in memoria dei vecchi tempi? Dubito che quella gente là fuori sappia della porta che si apre sulle scale ovest.
Quella scala è meno usata e forse più antica della torre. Certo, è quella che è meno cambiata dalla sua condizione iniziale: i gradini sono stretti e ripidi e girano intorno ad una colonna centrale, nera per la corrosione. La porta della stanza in cui io, come Thecla, ero stato assoggettato al congegno chiamato il Rivoluzionario, era incastrata in modo che rimaneva socchiusa, cosicché, sebbene non entrassimo, vidi ugualmente l’antico congegno, spaventoso, eppure meno orribile dei macchinari lucenti e molto più antichi della torre di Baldanders.
Ogni cosa nella segreta significava un ritorno a qualcosa che io avevo ritenuto perduta per sempre dal giorno in cui ero partito per Thrax, eppure i corridoi metallici erano immutati, con le loro lunghe file di porte, e, quando sbirciai attraverso le minuscole finestrelle che si aprivano in esse, vidi i volti familiari di uomini e donne che avevo nutrito e sorvegliato quando ero un artigiano.
— Sei pallido, Autarca — osservò il Maestro Palaemon, — e sento la tua mano che trema. — Lo stavo sostenendo leggermente, una mano appoggiata al suo braccio.
— Sai che i nostri ricordi non svaniscono mai — replicai. — Per noi, la Castellana Thecla siede ancora in una di queste celle, e l’artigiano Severian in un’altra.
— Avevo dimenticato. Sì, deve essere terribile per te. Avevo intenzione di condurti all’antica cella della Castellana, ma forse preferiresti non vederla.
Insistetti per visitarla, ma, quando vi arrivammo, all’interno vi era un nuovo cliente, e la porta non era chiusa a chiave. Feci in modo che il Maestro Palaemon convocasse un fratello di guardia e ci facesse entrare, poi sostai per un momento, osservando il piccolo letto ed il tavolino. Infine, notai il cliente, che sedeva nell’unica cella, gli occhi dilatati ed un’indescrivibile espressione, mista di speranza e stupore, dipinta sul viso. Gli chiesi se mi conosceva.
— No, esultante.
— Noi non siamo un esultante, noi siamo il tuo Autarca. Perché sei qui?
L’uomo si alzò, poi cadde in ginocchio.
— Sono innocente, credimi!
— D’accordo — replicai, — ti crediamo, ma vogliamo che tu ci dica di che cosa sei stato accusato e come mai sei stato condannato.
Con voce acuta, l’uomo si lanciò in uno dei racconti più complessi e confusi che abbia mai udito. Sua cognata e la madre di questa avevano cospirato contro di lui. Avevano dichiarato che aveva colpito la moglie, che l’aveva trascurata quando era malata e che le aveva rubato una certa somma di denaro che il padre le aveva affidato, per scopi su cui loro non erano d’accordo. Nello spiegare tutto questo (e molte altre cose), l’uomo si vantò della propria intelligenza, denunciando al tempo stesso le frodi, i trucchi e le menzogne di coloro che lo avevano mandato nelle segrete. Precisò che il denaro in questione non era mai esistito, ed anche che sua suocera ne aveva una usato una parte per corrompere il giudice. Affermò di non essere stato al corrente della malattia della moglie, ma disse anche di averle procurato il miglior medico che poteva permettersi.
Quando lo lasciai, passai alla cella successiva, ed ascoltai il cliente rinchiuso in essa, poi passai alla successiva e così via, fino a quando non ne ebbi visitati dodici. Undici clienti avevano protestato la loro innocenza, alcuni meglio ed altri anche peggio del primo. Tre ammisero invece di essere colpevoli (anche se uno di essi giurò, ed io gli credo, in tutta sincerità, che anche se aveva commesso la maggior parte dei crimini di cui era accusato, era stato anche incriminato di parecchie colpe che non aveva commesso). Due di quegli uomini promisero solennemente che non avrebbero fatto più nulla che potesse riportarli nelle segrete se solo li avessero rilasciati, cosa che feci. La terza era una donna che aveva rapito alcuni bambini e li aveva costretti a fungere da mobilio in una stanza destinata a quello scopo, arrivando in un caso ad inchiodare le mani di una ragazzina alla superficie di legno di un tavolino in modo che fungesse da piedestallo vivente. Ella mi confessò con eguale franchezza che si sentiva certa che sarebbe tornata al suo divertimento, come lo chiamava, perché quella era la sola attività che le interessava veramente. Non chiese di essere liberata, ma solo che la sentenza fosse commutata in semplice prigionia. Mi sentii certo che fosse pazza, eppure nella sua conversazione o nei suoi limpidi occhi azzurri non c’era nulla che lo indicasse, ed ella mi disse che era stata esaminata prima del processo e giudicata sana di mente. Le toccai la fronte con il Nuovo Artiglio, ma esso rimase inerte come il vecchio Artiglio quando avevo tentato di usarlo con Jolenta o Baldanders.
Non posso sfuggire al pensiero che il potere manifestatosi in entrambi gli Artigli, provenisse da me, ed è per questo che le loro emanazioni, definite calde da altri, mi sono sempre parse invece fredde. Questo pensiero è l’equivalente psicologico di quel doloroso abisso nel cielo in cui avevo temuto di cadere quando avevo dormito sulle montagne. Io lo rifiuto e lo temo perché desidero terribilmente che sia vero; e sento anche che, se in questo pensiero ci fosse anche solo un’eco di verità, io l’individuerei dentro di me, il che non è.
Inoltre, vi sono ulteriori e profonde obiezioni a tale pensiero a parte la sua mancanza di risonanza interiore, e la più importante, convincente ed in apparenza ineliminabile di esse sta nel fatto che l’Artiglio fece rivivere Dorcas dopo parecchi decenni di morte… e lo fece prima che io sapessi di possederlo.
Questa tesi appare conclusiva, eppure, io non sono ancora certo che sia così. Forse che lo sapevo, in realtà? Intendo, ciò che significa sapere, nell’accezione più appropriata del termine? Io ho presunto di essere stato privo di sensi quando Agia aveva fatto scivolare l’Artiglio nella mia giberna, ma potevo essere soltanto intontito, e, del resto, molte persone ritengono da lungo tempo che chi si trova in stato d’incoscienza sia però consapevole di ciò che lo circonda e reagisca alle parole ed alla musica. Come spiegare diversamente i sogni provocati da suoni esterni? Quale porzione del cervello è priva di coscienza, in fin dei conti? Non tutte, altrimenti il cuore cesserebbe di battere ed i polmoni non respirerebbero più. Gran parte della memoria è basata sulla chimica: dopo tutto, quel che mi viene da Thecla e dal precedente Autarca è fondamentalmente così… e le droghe servono solo a far sì che i complicati elementi composti che formano il pensiero possano entrare nel mio cervello sotto forma d’informazioni. Non potrebbe allora darsi che certe informazioni derivate da fenomeni esterni s’imprimano chimicamente nel nostro cervello anche quando l’attività elettrica su cui facciamo affidamento per il pensiero cosciente, cessa per qualche tempo?
Inoltre, se quell’energia ha origine in me, perché avrebbe dovuto essere per me necessario essere consapevole della presenza dell’Artiglio perché essa potesse operare, non più di quanto sarebbe stato necessario se l’energia avesse avuto origine nell’Artiglio stesso? C’era anche un altro forte suggerimento che avrebbe potuto risultare egualmente efficace, e che certo poteva essere suscitato dalla nostra violenta invasione del sacro recinto delle Pellegrine e dal modo in cui Agia ed io eravamo usciti illesi dall’incidente che aveva invece ucciso gli animali. Dalla cattedrale, eravamo andati ai Giardini Botanici, e là, prima che entrassimo nel Giardino del Sonno Eterno, avevo visto un cespuglio coperto di Artigli. A quell’epoca, credevo che l’Artiglio fosse una gemma, ma non poteva darsi che la loro vista ne avesse ugualmente suggerito la presenza? Le nostre menti ci giocano spesso simili scherzi. Nella casa gialla, avevamo incontrato tre persone che ci avevano ritenuti presenze soprannaturali.
Se il potere soprannaturale è mio (eppure, chiaramente, non lo è), come sono giunto a possederlo? Ho elaborato due spiegazioni, entrambe improbabili. Dorcas ed io avevamo parlato una volta del significato simbolico delle cose del mondo reale, le quali, in base agli insegnamenti dei filosofi, rappresentano cose più elevate di quanto esse non siano, e, in un ordine inferiore, sono a loro volta simbolizzate. Per fare un esempio assurdamente semplice, immaginate un artista in un solaio, intento a dipingere una pesca. Se mettiamo quel povero artista al posto dell’Increato, possiamo dire che il suo quadro simbolizza la pesca, e, di conseguenza, i frutti del suolo, mentre la lucente curva della pesca stessa simboleggia lo splendore della femminilità. Se una simile donna dovesse entrare nella soffitta dell’artista (cosa improbabile che dobbiamo presumere per proseguire con la spiegazione), rimarrebbe indubbiamente inconsapevole del fatto che la pienezza dei suoi fianchi e la durezza del suo cuore trovano un’eco nel cesto posato sul tavolo vicino alla finestra, anche se forse l’artista potrebbe non riuscire a pensare ad altro.
Ma se l’Increato è effettivamente al posto dell’artista, non potrebbe essere che simili connessioni, molte delle quali non devono essere neppure lontanamente intuibili da parte degli esseri umani, possano avere profondi effetti sulla struttura del mondo così come l’ossessione dell’artista può colorare la sua pittura? Se sono io colui che dovrà rinnovare la gioventù del sole con la Bianca Fontana di cui mi è stato parlato, non può darsi che mi siano stati dati quasi senza che ne fossi cosciente (se tale espressione può essere usata), gli attributi di luce e di vita che apparterranno al sole rinnovato?
L’altra spiegazione che ho citato è poco più che una speculazione. Ma se, come Maestro Malrubius mi ha detto, coloro che mi giudicheranno fra le stelle mi priveranno della mia virilità se dovessi fallire la prova, non è anche possibile che essi mi concederanno un qualche dono di uguale valore se io dovessi, in qualità di rappresentante dell’Umanità, conformarmi ai loro desideri? Mi sembra che la giustizia lo richieda. Se è così, non potrebbe essere che il loro dono trascenda il tempo, come fanno essi stessi? Gli Hieroduli che avevo incontrato nel castello di Baldanders si erano detti interessati a me perché avrei raggiunto il trono… ma sarebbe stato altrettanto grande il loro interesse se io non fossi stato altro che un governante in guerra di qualche parte del continente o uno dei molti governanti schierati per la guerra nella lunga storia di Urth?
Nel complesso, ritengo che la prima spiegazione sia la più probabile, ma la seconda non è completamente da scartare. Entrambe sembrerebbero indicare che la missione nella quale sto per impegnarmi avrà successo, ed io andrò con cuore tranquillo.
Eppure, c’è una terza spiegazione. Nessun essere umano o quasi umano può concepire l’idea che esistano menti come quella di Erebus o di Abaia e trovare riposo. I loro poteri sorpassano la comprensione, ed oggi so che essi ci potrebbero schiacciare in un giorno se non fosse per il fatto che fanno affidamento solo sulla schiavitù, e non sull’annientamento, come forma di vittoria. La grande ondina che vidi era una loro creatura e qualcosa di meno che una loro schiava: un loro giocattolo. È possibile che il potere dell’Artiglio, l’Artiglio preso da una cosa che cresce così vicino al mare, venga, in ultima analisi, da loro. Essi conoscevano il mio destino altrettanto bene quanto Ossipago, Barbatus e Famulimus, e mi salvarono quando ero un ragazzino in modo che lo potessi realizzare. Dopo che abbandonai la Cittadella, essi mi ritrovarono ancora, e, in seguito, il corso delle mie azioni venne deviato dall’Artiglio. Forse essi sperano di trionfare innalzando un torturatore alla carica di Autarca, o ad una posizione ancora più elevata.
Credo sia adesso giunto il momento di riferire quello che il Maestro Malrubius mi spiegò. Non posso assicurare che sia vero, ma io credo che lo sia, e non so altro se non che sono seduto qui.
Come un fiore matura, getta i suoi semi e poi muore, e quindi risorge dai suoi semi per fiorire ancora, così l’universo che noi conosciamo, si diffonde fino ad annullarsi nell’infinità dello spazio, raccoglie i suoi frammenti (i quali, a causa della curvatura dello spazio s’incontrano alla fine al loro punto di partenza), e torna a fiorire da quel seme. Ciascuno di questi cicli di fioritura e di decadenza contrassegna un anno divino.
E come il fiore che nasce è uguale al fiore da cui deriva, così l’universo che nasce ripete la struttura di quello dalle cui rovine ha avuto origine, e questo è altrettanto vero per le sue caratteristiche più sottili quanto lo è per quelle più generali. I mondi che sorgono non sono dissimili da quelli che sono periti, e sono popolati da razze simili, anche se, così come il fiore si evolve da un’estate all’altra, ogni volta le cose avanzano di un piccolissimo passo.
In un certo anno divino (un tempo per noi inconcepibile, anche se quel ciclo dell’universo non era che uno di una successione interminabile), nacque una razza tanto simile alla nostra che il Maestro Malrubius non si è fatto scrupolo di definirla umana. Tale razza si è allargata fra le galassie del suo universo proprio come si dice che noi abbiamo fatto in un remoto passato, quando Urth era stata, per un certo tempo, il centro o almeno la sede ed il simbolo di un impero.
Questi uomini incontrarono molti esseri su altri mondi, che erano intelligenti in una certa misura o avevano almeno un’intelligenza potenziale, e da essi… in modo da poter aver compagni nella solitudine fra le galassie ed alleati fra i loro mondi sciamanti… avevano formato esseri simili a loro stessi.
Non era stata un’impresa rapida o facile. Innumerevoli bilioni di esseri avevano sofferto ed erano morti sotto la guida delle loro mani, lasciandosi alle spalle ricordi di dolore e di sangue incancellabili. Quando il loro universo era invecchiato, con le galassie talmente distanti fra loro che la più vicina non era visibile neppure come una debole stella, e le astronavi vi arrivavano soltanto sulla base di antiche mappe, la cosa venne completata. Finita, quell’opera era più grande di quanto avrebbero potuto immaginare coloro che l’avevano iniziata: quello che era stato creato non era una nuova razza simile all’Umanità, ma una razza come l’Umanità avrebbe voluto essere essa stessa, unita, compassionevole, giusta.
Non mi è stato detto cosa ne fu dell’umanità di quel ciclo. Forse sopravvisse fino a che il suo universo implose, e poi scomparve con esso. O forse si evolse in modo tale da divenire irriconoscibile. Ma gli esseri che l’Umanità aveva modellato in ciò che uomini e donne desideravano essere, sopravvissero, aprendosi un passaggio fino a Yesod, un universo più elevato del nostro, dove i mondi creati erano adatti a ciò che erano divenuti.
Da quel punto vantaggioso, essi guardano sia avanti che indietro, e nel così fare, ci hanno scoperti. Forse noi non siamo altro che una razza simile a quella che li ha modellati. Forse siamo stati noi a modellarli… oppure i nostri figli… o i nostri padri. Malrubius mi ha confessato di non saperlo, ed io credo che fosse sincero. Comunque possa essere, essi stanno ora modellando noi come sono stati essi stessi modellati, e questo è al tempo stesso il loro modo di ripagarci e di vendicarsi.
Anche gli Hieroduli sono stati trovati e modellati da loro, più rapidamente, perché li servissero nel loro universo? In base alle loro istruzioni, gli Hieroduli costruiscono navi come quella che mi ha trasportato dalla giungla al mare, in modo da poter essere serviti da acquastori come Malrubius e Triskele. Con questi legami, noi veniamo tenuti fermi e forgiati.
Il martello di cui si servono è la loro abilità nel richiamare indietro i loro servitori lungo i corridoi del tempo e di mandarli avanti nel futuro. (Questo potere è essenzialmente lo stesso che permise loro di evitare la morte e di rifugiarsi altrove, perché entrare nei corridoi del tempo significa abbandonare l’universo.) Su Urth infine, la loro incudine è la necessità di vivere, il nostro bisogno, in quest’epoca, di combattere contro un mondo sempre più ostile con le risorse dei continenti impoveriti. Poiché questo metodo è tanto crudele quanto quello con cui essi stessi furono forgiati, la giustizia viene mantenuta; ma quando il Nuovo Sole apparirà, significherà che almeno le operazioni iniziali di questa forgiatura sono complete.
XXXV
LA LETTERA DI PADRE INIRE
Gli alloggi che mi furono assegnati si trovavano nella parte più antica della Cittadella. Le stanze vuote erano rimaste chiuse tanto a lungo che il vecchio castellano ed il cameriere incaricato di mantenerle in ordine pensarono che le chiavi fossero andate perdute e si offrirono, con molte scuse e molta reticenza, di forzare le serrature per me. Non mi concessi il piacere di guardarli in faccia, ma li sentii trattenere il respiro quando pronunciai le semplici parole che controllavano la porta.
Fu affascinante, quella sera, vedere quanto fosse stata diversa dalla nostra la moda del periodo durante il quale erano state arredate quelle camere. Non vi erano sedie, nel senso in cui noi le conosciamo, e come sedili c’erano soltanto complessi cuscini. I tavoli mancavano di cassetti e di quella simmetria che noi siamo arrivati a considerare cosi essenziale. Inoltre, per i nostri criteri, c’erano troppe stoffe e troppo poco legno, cuoio, pietra ed osso. Trovai l’effetto complessivo al contempo scomodo e sibaritico.
Eppure, era impensabile che potessi occupare un alloggio diverso da quello anticamente predisposto per gli Autarchi; ed era anche impossibile che lo facessi riarredare in una certa misura, perché questo avrebbe sottinteso una critica nei confronti dei miei predecessori. E, se l’arredo era più piacevole alla mente che al corpo, che gioia fu scoprire gli altri tesori che quegli stessi predecessori si erano lasciati alle spalle: c’erano documenti relativi a questioni ormai completamente dimenticate e non sempre identificabili; congegni meccanici ingegnosi ed enigmatici; un microcosmo che si animava al contatto delle mie mani ed i cui minuscoli abitanti sembravano farsi più grandi e umani man mano che li guardavo; un laboratorio contenente il favoloso «tavolo di smeraldo» e molte altre cose, la più interessante delle quali era una mandragora sotto spirito.
Il recipiente in cui galleggiava non era più alto di sette spanne né più largo di tre; l’omuncolo racchiuso all’interno non superava le due spanne. Quando picchiai contro il vetro, esso girò gli occhietti simili a perline verso di me, occhi, all’aspetto, più ciechi di quelli del Maestro Palaemon. Non udii alcun suono quando le sue labbra si mossero, eppure compresi immediatamente le parole che si formavano… ed in un qualche modo inesplicabile sentiii che il pallido fluido in cui la mandragora galleggiava era la mia stessa urina tinta di sangue.
— Perché mi hai distratto, Autarca, dalla contemplazione del tuo mondo?
— È veramente mio? — chiesi. — Adesso so che ci sono sette continenti, e che solo una parte di uno di essi obbedisce alle frasi santificate.
— Tu sei l’erede. — L’essere avvizzito mi rispose e poi si girò, non saprei dire se per caso o volutamente, fino a non trovarsi più di fronte a me.
— E tu chi sei? — chiesi, picchiando ancora sul vetro.
— Un essere senza genitori, la cui vita è trascorsa immersa nel sangue.
— Come, io sono stato un essere così! Allora dovremmo diventare amici, tu ed io, come lo sono di solito due esseri con lo stesso passato.
— Stai scherzando.
— Per nulla. Provo una reale simpatia per te, e credo che siamo più simili di quanto tu supponga.
La piccola creatura tornò a girarsi fino a che la sua faccia arrivò a fissare la mia.
— Vorrei poterti credere, Autarca.
— Dico sul serio. Nessuno mi ha mai accusato di essere un uomo onesto, ed ho mentito a sufficienza quando pensavo che mi sarebbe stato utile, ma sono assolutamente sincero. Se posso fare qualcosa per te, dimmi di cosa si tratta.
— Rompi il vetro.
— Ma tu non moriresti? — chiesi, esitando.
— Non ho mai vissuto. Cesserei di pensare. Rompi il vetro.
— Ma tu vivi.
— Io non cresco, non mi muovo, non rispondo ad alcuno stimolo tranne che al pensiero, che non è considerato una reazione. Sono incapace di propagare la mia razza o qualsiasi altra. Rompi il vetro.
— Se davvero non sei vivo, mi piacerebbe trovare un qualche modo per portarti alla vita.
— Ecco a che serve la fratellanza. Quando eri imprigionata qui, Thecla, e quel ragazzo ti ha portato il coltello, perché non hai cercato allora di continuare a vivere?
Il sangue mi bruciò sulle guance, e sollevai il bastone d’ebano, ma non colpii.
— Vivo o morto, hai un’intelligenza penetrante. Thecla è la parte di me più propensa all’ira.
— Se tu avessi ereditato le sue ghiandole, insieme alle sue memorie, sarei riuscito nel mio intento.
— E sai anche questo. Come puoi conoscere tante cose, tu che sei cieco?
— Le azioni delle menti grezze provocano minuscole vibrazioni che agitano l’acqua di questa bottiglia. Io sento i tuoi pensieri.
— Noto che io sento i tuoi. Come può essere che solo io, e non altri, li sento?
Fissando ora direttamente la faccia contratta ed illuminata dall’ultimo raggio di sole che penetrava da un portello polveroso, non fui certo che le labbra si muovessero.
— Senti te stesso, come sempre. Non puoi sentire gli altri perché la tua mente strilla in continuazione, come un neonato che piange nella culla. Ah, vedo che te ne ricordi!
— Ricordo un tempo lontanissimo in cui avevo freddo e fame. Ero steso sulla schiena, circondato da pareti marroni, e sentivo il suono delle mie stesse grida. Sì, dovevo essere un neonato, non abbastanza grade da trascinarmi, credo. Sei molto intelligente: cosa sto pensando adesso?
— Che io non sono altro che un’inconscia manifestazione del tuo potere, come lo era l’Artiglio. È vero, naturalmente. Io ero deforme, e sono morto prima di nascere, e sono stato conservato qui, da allora, immerso in un brandy bianco. Rompi il vetro.
— Ti vorrei prima interrogare.
— Fratello, alla tua porta c’è un vecchio che ha una lettera per te.
Ascoltai. Era strano, dopo aver udito soltanto le sue parole nella mia mente, sentire nuovamente i rumori reali… il richiamo dei sonnacchiosi merli fra le torri ed il bussare alla porta.
Il messaggero era il vecchio Rudesin, colui che mi aveva guidato alla stanza nascosta nel quadro, nella Casa Assoluta. Gli dissi di entrare (con sorpresa, credo, delle sentinelle) perché gli volevo parlare e sapevo che con lui non avevo bisogno di ammantarmi della mia dignità.
— Non sono mai stato qui in tutta la mia vita — esordì. — In che cosa ti posso aiutare, Autarca?
— Siamo già serviti, semplicemente dal fatto di vederti. Sai chi noi siamo, vero? Ci hai riconosciuti, quindi ci hai incontrati in precedenza.
— Se non conoscessi il tuo volto, Autarca, lo avrei già conosciuto una dozzina di volte, a questo punto. Mi è stato descritto spesso. Qui nessuno parla d’altro, sembra. Di come tu sei stato allevato proprio qui, di come ti hanno visto, una volta o l’altra, dell’aspetto che avevi e di quello che hai detto. Non c’è un cuoco che non ti abbia preparato un dolce. Tutti i soldati raccontano storie su di te. È passato un po’ di tempo dall’ultima volta che ho incontrato una donna che non sosteneva di averti baciato e di averti ricucito uno strappo ai pantaloni. Avevi un cane…
— Questo è vero — convenni. — Lo avevamo.
— Ed un gatto ed un uccello ed un coti che rubava mele. E tu ti arrampicavi su ogni muro di questo posto e poi saltavi giù o ti calavi con una corda, oppure ti nascondevi e facevi finta di aver saltato. Tu sei ogni ragazzo che sia mai stato qui, ed ho sentito attribuire a te storie che riguardano persone che erano già vecchie quando io ero solo un ragazzo, e ti hanno anche attribuito cose che io stesso ho fatto settant’anni fa.
— Abbiamo già appreso che il volto dell’Autarca è celato dietro la maschera che il popolo intreccia per lui. Indubbiamente, è una buona cosa: non puoi diventare troppo orgoglioso, quando ti rendi conto di quanto sei diverso in realtà dall’entità di fronte a cui la gente s’inchina. Ma noi vogliamo sapere di te. Il vecchio Autarca ci ha raccontato che tu eri la sua sentinella nella Casa Assoluta, ed ora sappiamo che sei un servitore di Padre Inire.
— Lo sono — confermò il vecchio. — Ho quest’onore, ed è una lettera ciò che ti porto. — Protese una piccola busta alquanto stropicciata.
— E noi siamo il padrone di Padre Inire.
— Lo so, Autarca — rispose con un inchino campagnolo.
— Allora noi ti ordiniamo di sederti e di riposarti: abbiamo alcune domande da porti, e non vogliamo tenere in piedi un uomo della tua età. Quando eravamo quel ragazzo di cui hai detto che tutti stanno parlando, o, almeno, quando eravamo poco più vecchi, tu ci hai indirizzati alla biblioteca del Maestro Ultan. Perché lo hai fatto?
— Non perché sapessi qualcosa che gli altri non conoscevano, e neppure perché me lo aveva ordinato il mio signore, se è questo quello che stai pensando. Non vuoi leggere la sua lettera?
— Fra un momento. Dopo aver avuto un’onesta risposta, in poche parole.
Il vecchio chinò il capo e si tirò la barba. Potevo vedere la pelle secca del suo volto sollevarsi in piccoli coni dalle pareti cave man mano che cercava di seguirne i diversi fili.
— Autarca, tu credi che allora io abbia intuito qualcosa. Forse alcuni lo fecero, forse il mio signore, non lo so. — I suoi occhi reumatici rotolarono sotto le sopracciglia per fissarmi, poi si riabbassarono. — Tu eri cosi giovane, sembravi un ragazzo molto dabbene, perciò ho voluto che vedessi.
— Che vedessi cosa?
— Io sono un vecchio. Ero un vecchio allora e sono un vecchio anche ora. Tu sei cresciuto da allora, lo vedo nel tuo volto. Io sono ben poco più vecchio, perché il tempo non è nulla per me. Se si contasse tutto il tempo che ho impiegato andando su e giù per la mia scala, esso sarebbe più lungo. Io volevo che vedessi che ci sono state molte cose prima di te, che ci sono stati migliaia e migliaia di uomini che hanno vissuto e sono morti prima ancora che tu venissi anche solo concepito, alcuni migliori di te. Voglio dire, Autarca, come eri allora. Potresti pensare che chiunque nasca qui nella Cittadella cresca sapendo tutto questo, ma ho scoperto che non è così. Essendo qui in giro tutto il tempo, essi non lo vedono, ma l’andare giù da Maestro Ultan aiuta i più intelligenti a comprendere.
— Tu sei l’avvocato dei morti.
— Lo sono — annuì il vecchio. — La gente parla dell’essere giusti con questo o con quell’altro, ma nessuno parla di essere giusti con loro. Prendiamo tutto quello che avevano, il che va bene. E sputiamo, di frequente, sulle loro opinioni, il che, suppongo, va anche bene. Ma dovremmo ricordare, di tanto in tanto, quanto di quel che abbiamo viene da loro. Immagino che, finché sono ancora qui, dovrei spendere una parola per loro. Ed ora, se non ti dispiace, Autarca, mi limiterei a deporre la lettera qui su questo buffo tavolo…
— Rudesind…
— Sì, Autarca?
— Stai andando a pulire i tuoi quadri?
— Questo è uno dei motivi per cui sono impaziente di andare — replicò, annuendo ancora. — Sono rimasto alla Casa Assoluta fino a quando il mio signore… — si arrestò e deglutì, come gli uomini sono soliti fare quando sentono di aver forse parlato troppo — … se n’è andato a nord. Ho un Fechin da pulire e sono in ritardo.
— Rudesind, noi conosciamo già le risposte alle domande che tu credi noi siamo sul punto di farti. Sappiamo che il tuo signore è ciò che il popolo chiama un cacogeno e che, per chissà quale ragione, è uno dei pochi che hanno deciso di unire completamente il loro destino a quello dell’umanità, rimanendo su Urth come un essere umano. La Cumana è un altro di questi esseri, anche se tu forse lo ignoravi. Sappiamo perfino che il tuo signore era con noi nelle giungle del nord, dove ha cercato, fino a che non è stato troppo tardi, di salvare il mio predecessore. Vogliamo soltanto dirti che, se un altro giovane con un incarico da svolgere passerà ancora vicino alla tua scala, tu lo dovrai mandare dal Maestro Ultan. Questo è un ordine.
Quando se ne fu andato, strappai l’involucro della lettera. Il foglio all’interno non era grande, ma era coperto da righe sottili, come se uno sciame di ragnetti fosse stato schiacciato sulla sua superficie.
Il suo servitore Inire saluta lo sposo di Urth, il Maestro di Nessus e della Casa Assoluta, il Capo della Sua Razza, l’Oro del suo Popolo, il Messaggero dell’Aurora, di Helios, di Hyperion, di Surya e di Savitar, e nostro Autarca.
Mi sto affrettando e ti raggiungerò fra due giorni.
È passato più di un giorno prima che apprendessi cosa era accaduto. Molte delle mie informazioni sono giunte tramite quella donna, Agia, la quale, almeno stando al suo racconto, è stata lo strumento della tua liberazione. Mi ha anche raccontato qualcosa dei tuoi passati rapporti con lei, perché io posseggo, come tu sai, mezzi adeguati per ottenere le informazioni necessarie.
Avrai appreso da lei che l’Esultante Vodalus è morto per sua mano. La sua amante, la Castellana Thea, ha dapprima tentato di ottenere il controllo di quei mirmidoni che lo circondavano al momento della morte; ma, dato che non è assolutamente adatta a guidarli, ed ancor meno a tenere sotto controllo gli uomini nel sud, ho fatto in modo di mettere questa donna, Agia, al suo posto. Considerata la tua passata clemenza nei suoi confronti, sono certo di incontrare la tua approvazione. È certamente desiderabile mantenere operante un movimento che si è dimostrato tanto utile in passato, e, fintanto che gli specchi di Hethor rimarranno interi, ella fornirà a quel movimento un apprezzabile comandante.
Tu forse considererai la nave che ho mandato in aiuto del mio signore, l’autarca dei suoi giorni, inadeguata… come del resto la considero io… ma era la migliore che sono riuscito ad ottenere, ed ho avuto difficoltà a procurarla. Io stesso sono stato costretto a spostarmi a sud in altro modo e molto più lentamente; potrebbe venire presto il momento in cui i mei cugini decideranno di schierarsi non soltanto con la razza umana, ma con noi…; per ora persistono nel considerare Urth uno dei meno significativi fra i molti mondi colonizzati, e ci pongono sullo stesso piano degli Asciani, e, se è per questo, anche degli Xantodermi e di molti altri.
Tu forse avrai già ottenuto notizie più fresche e precise delle mie.
Nel caso che così non fosse: la guerra va bene e male. Nessuna punta del loro schieramento è penetrata in profondità, e soprattutto la punta meridionale ha subito tali perdite che la si potrebbe correttamente definire distrutta. So che la morte di così tanti miserabili schiavi di Erebus non ti darà alcuna gioia, ma almeno le nostre armate avranno un po’ di respiro.
E ne hanno terribilmente bisogno. Fra i Paraliani c’è un inizio di sedizione che deve essere sradicato. I Tarentini, i tuoi Antrustioni e le legioni della città… i tre gruppi che hanno sopportato l’impatto dell’assalto… hanno sofferto quasi altrettanto duramente quanto il nemico. Fra di loro ci sono coorti che non possono annoverare cento soldati validi.
Non c’è bisogno che ti dica che dovremmo ottenere un maggior numero di piccole armi, ed in particolare di artiglieria, se i miei cugini potranno essere persuasi a cederle ad un prezzo che siamo in grado di pagare. Nel frattempo, bisogna fare tutto il possibile per arruolare truppe fresche, in tempo perché le reclute siano addestrate entro la primavera. Ciò che serve attualmente sono unità leggere in grado di affrontare gli scontri senza sparpagliarsi; ma se gli Asciani si apriranno un varco l’anno prossimo, allora ci serviranno piquenari e pilani a centinaia di migliaia, e potrebbe convenire arruolare fin da ora almeno una parte di loro.
Qualsiasi altra notizia tu abbia sulle incursioni di Abaia, sarà più recente delle mie, dato che non ne ho ricevuta alcuna da quando ho lasciato le nostre linee. Hormisdas è andato a sud, credo, ma Olaguer dovrebbe essere in grado d’informarti.
Affrettatamente e con rispetto,
XXXVI
ORO FALSO E FUOCHI ACCESI
Non mi rimane altro da dire. Sapevo che avrei dovuto lasciare la città fra pochi giorni, per cui dovevo spicciarmi a fare tutto ciò che occorreva. Nella corporazione non avevo altri amici su cui poter contare, tranne il Maestro Palaemon, ed egli mi sarebbe stato di ben poca utilità per ciò che avevo in mente. Convocai Roche, sapendo che non era in grado d’ingannarmi per lungo tempo, se mi stava faccia a faccia (mi aspettavo di vedere un uomo più vecchio di me, ma l’artigiano dai capelli rossi che si presentò al mio cospetto era poco più di un ragazzo; quando se ne fu andato, studiai il mio viso allo specchio, cosa che non avevo fatto prima).
Roche mi disse che sia lui che parecchi altri, che erano stati miei amici più o meno intimi, avevano votato contro la mia condanna a morte quando la volontà della maggioranza della corporazione era quella di uccidermi, ed io gli credetti. Ammise anche liberamente di aver proposto che venissi storpiato ed espulso, anche se aggiunse di averlo fatto perché sperava in questo modo di salvarmi la vita. Credo si aspettasse di essere punito in qualche modo… le sue guance e la fronte, normalmente così rossicce, erano abbastanza bianche da far spiccare le lentiggini come macchie di pittura. La sua voce era ferma, però, ed egli non affermò nulla che servisse a giustificarlo ed a gettare la colpa sugli altri.
Il fatto era, naturalmente, che intendevo punirlo, insieme al resto della corporazione. Non perché portassi rancore verso di lui o uno qualsiasi degli altri, ma perché sentivo che essere rinchiusi per qualche tempo sotto quella torre avrebbe destato in loro una certa sensibilità verso quel principio di giustizia di cui aveva parlato il Maestro Palaemon, e perché sarebbe stato il modo migliore per assicurarmi che l’ordine proibente la tortura, che intendevo emanare, venisse rispettato.
Comunque, non dissi nulla a proposito di Roche e gli chiesi soltanto di portarmi quella sera un abito da artigiano e di tenersi pronto insieme a Drotte e ad Eata ad aiutarmi, il mattino successivo.
Roche tornò con gli abiti subito dopo il vespro. Fu un piacere incredibile togliermi il rigido costume che indossavo e rivestire il manto di fuliggine. Di notte, il suo oscuro abbraccio è la cosa che più si avvicina all’invisibilità che io conosca, e, dopo essere scivolato fuori dalle mie stanze mediante una delle uscite segrete, mi spostai da una torre all’altra come un’ombra, fino a raggiungere la sezione caduta del muro di cinta.
Era stata una giornata calda, ma la notte era fresca e la necropoli era piena di nebbia, proprio come quando ero uscito da dietro il monumento per salvare Vodalus. Il mausoleo nel quale avevo giocato da ragazzo sorgeva come lo avevo lasciato, la porta incastrata chiusa per tre quarti.
Mi ero portato una candela, e l’accesi, una volta all’interno. Gli ottoni funebri che un tempo avevo tenuto lucidi erano nuovamente verdi, e foglie cadute e schiacciate erano sparse dappertutto. Un albero aveva infilato uno snello ramo attraverso la piccola finestra sbarrata.
Resta dove ti metto,
non farti vedere da nessuno,
diventa trasparente come vetro,
ma non per me.
Resta qui ben protetto,
ed inganna la mano di ciascuno
finché tornerò indietro
e ti vedrò.
La pietra era più piccola e leggera di come la ricordassi. La moneta sotto di essa era diventata opaca per l’umidità, ma era ancora là, ed un momento più tardi la tenevo nuovamente in mano, ricordando il ragazzo che ero stato, per poi tornare, scosso, verso il muro rotto, nella nebbia.
Adesso devo chiedere a te, a te che hai perdonato così tante deviazioni e digressioni da parte mia, di perdonarmene ancora una. È l’ultima.
Pochi giorni fa (il che significa parecchio tempo dopo gli eventi che mi sono prefisso di narrare), mi era stato riferito che un vagabondo si era presentato alla Casa Assoluta sostenendo di dovermi una somma di denaro e rifiutandosi di pagarla a chiunque altro. Sospettando che si trattasse di qualche vecchia conoscenza, avevo ordinato al ciambellano di condurlo a me.
Era il Dr. Talos. Sembrava essere ben provvisto di fondi, e, per l’occasione, aveva indossato un mantello di velluto rosso ed una chechia dello stesso materiale. La sua faccia era sempre quella di una volpe impagliata, ma mi parve che talvolta un accenno di vitalità vi facesse capolino, come se qualcosa o qualcuno sbirciasse attraverso gli occhi di vetro.
— Hai migliorato te stesso — osservò, facendo un inchino tanto profondo che la nappa del suo cappello sfiorò il pavimento. — Ricorderai che ho invariabilmente affermato che ci saresti riuscito. Onestà, integrità ed intelligenza non possono essere tenute a freno.
— Entrambi sappiamo che non c’è nulla che si tenga a freno più facilmente — replicai. — La mia antica corporazione lo ha fatto ogni giorno. Ma ho piacere di rivederti, anche se vieni come emissario del tuo signore.
Per un momento, il volto del dottore divenne vacuo.
— Oh, Baldanders, vuoi dire. No, mi ha congedato, temo. Dopo la lotta. Dopo che si è tuffato nel lago.
— Allora credi che sia sopravvissuto.
— Oh, ne sono assolutamente certo. Tu non lo conoscevi quanto me, Severian. Respirare l’acqua non sarebbe stato nulla per lui. Nulla! Aveva una mente meravigliosa, era un genio supremo di un tipo unico: tutto rivolto interiormente. Combinava l’oggettività dello studioso con l’assorbimento in se stesso del mistico.
— Con il che intendi dire che eseguiva esperimenti su se stesso.
— Oh, no, niente affatto! Ha invertito la cosa! Altri esperimentano su se stessi in modo da poter ricavare una regola da applicare al mondo. Baldanders sperimentava sul mondo, ed utilizzava i risultati, se ci si può esprimere così bruscamente, sulla sua persona. Dicono… — Si guardò nervosamente intorno per essere certo che io solo lo sentissi — … dicono che io sono un mostro, e lo sono. Ma Baldanders era un mostro più di quanto lo sia io. In un certo senso, era mio padre, ma si era costruito da solo. È la legge della natura, e di ciò che c’è di più elevato nella natura, che ogni creatura debba avere un suo creatore. Ma Baldanders era la creazione di se stesso; si era eretto dietro se stesso ed aveva tagliato via la linea che collega il resto di noi all’Increato. Tuttavia, sto deviando dall’argomento. — Il dottore portava alla vita un portafoglio di cuoio scarlatto, e ne allentò ora le cinghie, cominciando a frugare all’interno. Sentii un tintinnio di metallo.
— Adesso porti con te il denaro? — chiesi. — Non eri solito dare tutto a lui?
— Tu non faresti lo stesso nella mia attuale posizione? — rispose, con voce tanto fievole che lo udii appena. — Adesso lascio le monete, piccole pile di aes e di oricalchi, vicino all’acqua. — Quindi, a voce più alta, soggiunse: — Non danneggia nessuno e mi ricorda i grandi giorni. Ma io sono onesto, vedi! Lui lo pretendeva sempre da me. Ed anche lui era onesto, a modo suo. Comunque, ti ricordi il mattino che abbiamo oltrepassato le mura? Stavo distribuendo gli incassi della notte precedente e siamo stati interrotti. Era rimasta una moneta, e spettava a te. L’ho conservata, con l’intenzione di rendertela in seguito, ma me ne sono scordato, e poi, quando sei venuto al castello… — Mi lanciò un’occhiata di tralice. — Ma l’onesto commercio è ripagato, come si suol dire, ed io ho qui la moneta.
Essa era esattamente uguale a quella che avevo preso da sotto la pietra.
— Adesso capisci perché non l’ho potuta consegnare al tuo uomo? Mi avrà certo ritenuto matto.
Feci volare in aria la moneta e la ripresi: al tatto, sembrava leggermente unta.
— A dire il vero, Dottore, noi non comprendiamo.
— Perché è falsa, naturalmente. Te lo dissi, quella mattina. Come avrei potuto dire che ero venuto a pagare l’Autarca e poi consegnare una moneta falsa? Hanno una terribile paura di te, e mi avrebbero sventrato, alla ricerca di una moneta buona! È vero che possiedi un esplosivo che ci mette giorni interi a scoppiare, per cui puoi fare la gente a pezzi lentamente?
Stavo guardando le due monete: avevano il medesimo splendore ottonato e sembravano essere state coniate lo stesso giorno.
Come ho detto, però, quel breve colloquio ebbe luogo parecchio tempo dopo la giusta conclusione della mia narrazione. Rientrai nelle mie camere, nella Torre della Bandiera, per la strada da cui ne ero uscito, e, una volta rientrato, mi tolsi il mantello grondante e lo appesi. Il Maestro Gurloes era solito affermare che il non indossare una camicia era la cosa più dura della corporazione. Anche se lo diceva in senso ironico, sotto un certo punto di vista era vero. Io, che avevo attraversato le montagne a petto nudo, ero stato abbastanza ammorbidito dai pochi giorni trascorsi indossando i soffocanti abiti da autarca da rabbrividire in una brumosa sera autunnale.
C’erano focolari in tutte le mie stanze, e ciascuno di essi era pieno di legna così vecchia e secca che sospettai sarebbe andata in briciole se l’avessi sbattuta contro un muro. Non avevo mai acceso nessuno di quei fuochi, ma decisi di farlo adesso per riscaldarmi, e per stendere gli abiti prestatimi da Roche su una sedia ad asciugare. Peraltro, quando cercai la mia attrezzatura per accendere il fuoco, scoprii che, nella mia eccitazione, l’avevo lasciata nel mausoleo insieme alla candela. Pensando vagamente che l’autarca che aveva occupato quelle stanze prima di me (un governatore esistito al di là dei limiti della mia memoria) doveva certo aver avuto un mezzo per accendere i numerosi fuochi a portata di mano, cominciai a frugare nei cassetti degli armadi.
Essi erano pieni zeppi di documenti, gli stessi che mi avevano tanto affascinato in precedenza; però, invece di soffermarmi a leggerli, come avevo fatto durante la mia prima ispezione delle stanze, li tolsi da ciascun cassetto per vedere se non c’era sotto di essi un acciarino o qualcosa del genere.
Non ne trovai; invece, nel cassetto più grande dell’armadio più grande, nascosta sotto una custodia per penne in filigrana, scoprii una piccola pistola.
Avevo già visto armi del genere… la prima volta quando Vodalus mi aveva dato la moneta falsa che avevo appena recuperato. Tuttavia, non ne avevo mai tenuta una in mano, e scoprii adesso che era molto diverso dal vederle in pugno agli altri. Un giorno, mentre Dorcas ed io ci stavamo dirigendo a nord verso Thrax, ci eravamo uniti ad una carovana di commercianti e di stagnini. Avevamo ancora la maggior parte del denaro datoci dal Dr. Talos e che questi aveva diviso quando lo avevamo incontrato nella foresta a Nord della Casa Assoluta, ma eravamo incerti di quanto ci avrebbe permesso di arrivare lontano e di quanta strada avevamo ancora da percorrere, e quindi avevo cercato di arrotondare il gruzzolo con la mia arte, chiedendo in ogni villaggio e piccola città se ci fosse qualche malfattore che andasse mutilato o decapitato. I Vagabondi ci considerarono due dei loro, e, anche se alcuni di essi ci attribuirono una condizione più o meno elevata per il fatto che lavoravo esclusivamente per le autorità, altri affermarono di disprezzarci, in quanto strumenti della tirannia.
Una sera, un arrotino che si era dimostrato più cordiale degli altri e che ci aveva fatto una serie di piccoli favori, si offrì di arrotare Terminus Est per me. Gli spiegai che la mantenevo sempre affilata e lo invitai a provarne il filo con il pollice. Dopo che si fu tagliato leggermente, come sapevo che sarebbe accaduto, l’uomo manifestò una notevole ammirazione per la mia spada, non solo per la lama, ma anche per il morbido fodero, l’impugnatura e così via. Dopo aver risposto ad innumerevoli domande sulla storia della fabbricazione della spada, e sul suo modo d’uso, l’arrotino mi chiese se gli avrei permesso di tenerla in mano. Lo misi in guardia contro il peso ed il pericolo di far sbattere la punta delicata contro qualcosa che l’avrebbe potuta danneggiare, quindi gliela porsi. Sorrise ed afferrò l’elsa come io gli avevo insegnato, ma, quando cominciò a sollevare quel sottile e lucente strumento di morte, il suo volto impallidì e le braccia cominciarono a tremargli tanto che gli tolsi di mano la spada prima che la lasciasse cadere. In seguito, tutto quello che fece fu di continuare a ripetere ho spesso affilato le spade dei soldati, più e più volte.
Adesso compresi come lui si era sentito: deposi la pistola sul tavolo tanto rapidamente che quasi mi sfuggì di mano e le girai intorno più volte come se fosse un serpente pronto a colpire.
Era più corta della mia mano, e lavorata tanto bene che avrebbe potuto rappresentare un articolo di gioielleria; eppure, ogni linea della sua sagoma tradiva un’origine al di là delle stelle. Il suo argento non si era ingiallito col tempo ma sembrava ancora fresco di lavorazione. Era coperta di decorazioni che costituivano forse un tipo di scrittura… non avrei saputo dire di quale delle due cose si trattasse, e, per occhi come i miei, abituati a disegni fatti di linee diritte e di curve, esse apparivano spesso nulla più che complessi o lucenti riflessi, salvo per il fatto che erano riflessi di qualcosa che non era presente. L’impugnatura era ricoperta di pietre nere di cui non conoscevo il nome, gemme simili alla tormalina ma più lucenti. Dopo qualche tempo, notai che una di esse, la più piccola di tutte, sembrava svanire a meno che non la fissassi direttamente, quando brillava di uno splendore a quattro raggi di luce. Esaminandola più da vicino, scoprii che non era affatto una gemma, bensì una lente in miniatura attraverso cui brillava un qualche fuoco interno.
Per quanto possa sembrare illogico, quella conoscenza mi rassicurò. Un’arma può essere pericolosa verso chi la usa, in due modi diversi: ferendolo per sbaglio oppure facendo cilecca al bisogno. Rimaneva il primo pericolo, ma, quando vidi il brillio dietro quel punto di luce, compresi che la seconda ipotesi poteva essere esclusa.
Sotto la canna c’era un pulsante che scivolava e che sembrava controllare l’intensità della carica. Il mio primo pensiero fu che chiunque l’aveva usata l’ultima volta doveva averla regolata sulla massima intensità e che quindi, invertendo la gradazione, l’avrei potuta sperimentare con una certa sicurezza, ma non era così… il pulsante era collocato a metà della sua scala. Alla fine, basandomi su un’analogia con la corda di un arco, decisi che la pistola sarebbe stata probabilmente meno pericolosa quando il pulsante si fosse trovato il più avanti possibile. Lo collocai là, puntai l’arma verso il caminetto e tirai il grilletto.
Il suono di uno sparo è il più orribile che ci sia al mondo, è l’urlo della materia stessa. Adesso lo scoppio non era forte, ma minaccioso e distante come un tuono. Per un istante… una frazione di tempo tanto breve che quasi credetti di aver sognato, uno stretto cono viola lampeggiò fra la bocca della pistola ed il mucchio di legna, poi scomparve, la legna prese fuoco e pezzi di metallo bruciato e contorto si staccarono con un rumore di campane fesse dal dietro del camino. Un rivolo d’argento scese nel focolare a bruciare la stuoia sottostante con una puzza nauseante.
Deposi la pistola nella giberna del mio nuovo abito da apprendista.
XXXVII
DI NUOVO OLTRE IL FIUME
Prima dell’alba, Roche si presentò alla mia porta con Drotte ed Eata. Drotte era il più vecchio di noi, eppure il suo volto e gli occhi lampeggianti lo facevano sembrare più giovane di Roche. Era ancora il ritratto della forza muscolare, ma notai che io ero sempre più alto di lui dell’ampiezza di due dita: doveva essere stato già così quando avevo lasciato la Cittadella, solo che allora non me ne ero reso conto. Eata era rimasto il più basso di noi ed un semplice apprendista… e del resto ero stato lontano solo un’estate dopo tutto. Appariva leggermente stordito quando mi salutò, e supposi che trovasse difficoltà a credere che adesso ero diventato l’Autarca, specialmente perché non mi aveva più rivisto fino a quel momento, quando mi ero ancora una volta rivestito con l’abito della corporazione.
Avevo detto a Roche che dovevano essere armati tutti e tre; egli e Drotte erano muniti di spade simili per forma (anche se di qualità molto inferiore) a Terminus Est, ed Eata portava una clava che rammentavo di aver visto esposta durante i festeggiamenti del nostro Giorno della Maschera.
Prima di aver partecipato ai combattimenti nel nord, li avrei ritenuti ben equipaggiati, ma adesso tutti e tre, e non soltanto Eata, mi sembravano ragazzini armati di bastoni e di pigne e pronti a giocare alla guerra.
Passammo per l’ultima volta attraverso la falla nel muro e percorremmo i sentieri d’osso che passavano fra i cipressi e le tombe. Le rose dei morti che avevo esitato a raccogliere per Thecla presentavano ancora qualche bocciolo autunnale, ed io mi sorpresi a ripensare a Morwenna, la sola donna cui avessi mai tolto la vita, ed alla sua nemica, Eusebia.
Quando superammo i cancelli della necropoli e ci addentrammo nelle squallide strade della città, i miei compagni apparvero più sollevati. Credo avessero avuto l’inconscio timore di poter essere visti da Maestro Gurloes e puniti in qualche modo per aver obbedito all’Autarca.
— Spero che tu non abbia in mente di fare una nuotata — osservò Drotte. — Questi aggeggi ci farebbero affondare.
— Eata potrebbe galleggiare sulla sua mazza — ridacchiò Roche.
— Ci spingeremo molto a nord. Avremo bisogno di una barca, ma credo che ne potremo affittare una, se cammineremo lungo la riva.
— Se qualcuno ce la vorrà affittare. Se non saremo arrestati. Lo sai, Autarca…
— Severian — gli ricordai. — Fintanto che indosserò questi abiti.
— … Severian, si suppone che utilizziamo queste armi solo sul patibolo, e ci vorranno un bel po’ di chiacchiere per convincere i peltasti che è necessaria la presenza di tutti e tre. Capiranno chi sei? Io non…
Questa volta fu Eata ad interromperlo, indicando verso il fiume.
— Guardate, c’è una barca!
Roche seguì la direzione del suo sguardo, tutti e tre agitarono le mani, ed io mostrai uno dei crisi che mi ero fatto prestare dal castellano, tenendolo in modo che la luce del sole che stava iniziando a sorgere, lo facesse brillare. L’uomo al timone agitò il cappello e ciò che sembrava essere uno snello ragazzino balzò in piedi per issare le gocciolanti vele di quarto lungo l’altra bordata.
Era un’imbarcazione a due alberi, bassa di bordo… indubbiamente l’ideale per trasportare merci di contrabbando al di là delle pattuglie che erano venute improvvisamente a trovarsi ai miei ordini. Il vecchio pirata che la pilotava appariva capace di cose anche peggiori, e lo snello «ragazzo» era in effetti una ragazza con occhi ridenti e la propensione a guardare la gente in tralice.
— Bene, sembra che sarà una giornata interessante — osservò il vecchio, dopo aver dato un’occhiata ai nostri abiti. — Pensavo che foste in lutto, fino a quando non mi sono avvicinato. Occhi? Non ne ho mai sentito parlare.
— Lo siamo — replicai, mentre salivo a bordo. Mi diede un ridicolo senso di soddisfazione scoprire che non avevo perso le mie gambe da marinaio, che mi ero fatto sulla Samru, e vedere Drotte e Roche aggrapparsi alle corde quando l’imbarcazione iniziò a rollare sotto il loro peso.
— Ti spiace se dò un’occhiata a quel ragazzo giallo? Solo per vedere se è buono, poi lo rispedirò a casa.
Gli tirai la moneta, ed egli la sfregò, la morse, poi me la restituì con un’occhiata colma di rispetto.
— Potremmo aver bisogno della tua barca per tutta la giornata.
— Per quel ragazzo giallo, la puoi avere anche per tutta la notte. Saremo entrambi lieti della compagnia, come osservò il becchino allo spettro. Questa notte, fino alle prime luci, sono successe alcune cose sul fiume: potrei supporre che esse hanno a che fare con la presenza di voi ottimati quaggiù stamattina?
— Parti — ordinai. — Mi potrai parlare di queste cose, se lo desideri, mentre ci muoviamo.
Anche se era stato il primo ad affrontare l’argomento, il pilota parve riluttante a scendere in dettagli… forse solo perché aveva difficoltà a trovare le parole con cui esprimere quello che aveva visto e sentito e ciò che aveva provato. C’era un leggero vento da occidente, per cui, con le vele consunte dell’imbarcazione tese al massimo, riuscimmo a risalire comodamente il fiume. La ragazza abbronzata non aveva molto da fare salvo che sedere a poppa e scambiare occhiate con Eata. (È possibile che, a causa dei pantaloni e della camicia grigi e sporchi, lo considerasse soltanto un nostro servitore.) Il pilota, che si definiva suo zio, teneva una mano ferma sul timone per impedirgli di deviare e perdere il vento, mentre parlava.
— Vi racconterò quello che ho visto io stesso, come disse il carpentiere quando ebbe montato l’imposta. Eravamo ad otto o nove leghe dal punto dove ci avete incontrati, verso nord. Avevamo un carico di molluschi, vedete, ed in quel caso non c’è possibilità di fermarsi, non quando si prevede un caldo pomeriggio. Scendiamo il fiume e li compriamo dagli allevatori, poi li trasportiamo rapidamente su per il canale in modo che possano essere mangiati prima che vadano a male. Se vanno a male, si perde tutto, ma se si riesce a venderli ancora buoni, si guadagna anche più del doppio.
«Durante la mia vita ho trascorso più ore di chiunque altro sul fiume… si potrebbe dire che è la mia camera da letto e che questa nave è la mia culla, anche se di solito non vado a dormire fino al mattino. Ma la scorsa notte… in qualche momento mi sono sentito come se non fossi affatto sul vecchio Gyoll, ma su un altro fiume, uno che scorra verso il cielo e sottoterra.
«Dubito che lo abbiate notato, a meno che non siate stati fuori fino a tardi, ma era una notte tranquilla, con appena un alito di brezza che soffiava per il tempo che un uomo impiega ad imprecare, e poi moriva, e quindi riprendeva a soffiare. C’era anche la nebbia, spessa come il cotone. Era sospesa sull’acqua come fa sempre, lasciando libero uno spazio largo appena quanto un barile che rotoli fra la riva ed il fiume. Per la maggior parte del tempo, non riuscivamo a vedere le luci lungo riva… solo la nebbia. Avevo un corno in cui soffiare per avvertire chi non ci poteva vedere per via della nebbia, ma è caduto fuori bordo lo scorso anno, e, essendo di rame, è affondato. Così, la notte scorsa, ogni volta che avevo l’impressione che ci fosse un’altra barca o qualche cosa nelle nostre vicinanze, ho gridato un avvertimento.
«Circa un turno di guardia dopo che era salita la nebbia, ho lasciato andare a letto Maxellindis. Entrambe le vele erano issate, e, ad ogni soffio di vento, risalivamo un pezzetto di fiume, poi calavo di nuovo l’ancora. Forse voi non lo sapete, ottimati, ma sul fiume c’è la legge per cui chi lo risale si tiene lungo le rive, mentre chi lo scende sta nel centro. Lo stavamo risalendo, ed avremmo dovuto trovarci vicino alla riva orientale, ma, con quella nebbia, non avrei saputo udirlo.
«Poi udii un suono di remi e guardai attraverso la nebbia, ma non riuscii a scorgere alcuna luce ed allora chiamai perché virassero. Mi chinai oltre la murata ed accostai l’orecchio all’acqua per ascoltare meglio. La nebbia assorbe tutti i rumori, ma si riesce a sentire qualcosa quando si mette la testa in basso, perché i suoni corrono lungo il pelo dell’acqua. Comunque, lo feci, e capii che era una grossa imbarcazione. Quando c’è un buon equipaggio, non riesco a contare il numero dei remi perché si muovono tutti all’unisono, ma quando una grossa nave avanza in fretta, si può sentire l’acqua aprirsi sotto la sua prua, e quella era davvero grossa. Salii sul cassero per tentare di vederla, ma ancora non c’erano luci, anche se sapevo che doveva essere vicina.
«Proprio quando stavo scendendo, l’avvistai… una galeassa a quattro alberi e con quattro file di remi, senza luci, che veniva su per il canale, per quanto potevo giudicare. Una preghiera per quelli che stanno scendendo il canale, pensai, come disse il bue quando scivolò fuori dai finimenti.
«Naturalmente, la vidi solo per un momento prima che sparisse di nuovo nella nebbia, ma in seguito la sentii ancora per parecchio tempo. Il vederla mi diede una sensazione tanto strana che da allora gridai ad intervalli anche se non c’era nessuna barca nelle vicinanze. Avevamo percorso una mezza lega, suppongo, o forse un po’ di meno, quando sentii un uomo che gridava di rimando. Solo, non sembrava che stesse rispondendo a me, ma che qualcuno lo stesse frustando con una fune. Chiamai ancora e ricevetti regolari risposte, ed alla fine vidi che si trattava di un tipo che so chiamarsi Trason e che possiede una barca proprio come me.
«“Sei tu?” mi chiese, ed io risposi che ero io e domandai se stava bene, e lui mi pregò di accostare e di fermarmi.
«Replicai che non potevo, che avevo un carico di molluschi, e che, anche se la notte era fresca, lo volevo vendere il più presto possibile. “Fermati”, mi gridò ancora Trason, “fermati ed accosta alla riva”. Ed allora io gli gridai di rimando: “Perché non lo fai tu?” Proprio allora, lo avvistai, e vidi che la sua barca aveva un carico maggiore di quel che credevo potesse sopportare… erano panduri, avrei detto, solo che tutti i panduri che ho visto fino ad oggi avevano una faccia abbronzata come e più della mia, mentre questi l’avevano bianca come la nebbia stessa… avevano scorpioni e vulgi… potevo scorgere le loro punte sbucare da sopra le creste degli elmetti.
Lo interruppi per chiedergli se quei soldati avevano un’aria denutrita e grandi occhi fissi.
Egli scosse il capo, ed un angolo della sua bocca si piegò verso l’alto.
— Erano uomini grossi, più grossi di te o di me o di chiunque altro su questa barca, una testa più alti di Trason. Comunque, svanirono in un attimo, proprio come la galeassa. Quella è stata la sola altra imbarcazione che ho incontrato fino a che la nebbia non si è sollevata, ma…
— Ma hai visto qualcos’altro — completai, — oppure hai sentito qualcosa.
— Pensavo che forse tu e gli altri foste qui per questo — annuì. — Sì, ho visto ed udito cose strane. C’erano cose su questo fiume che non avevo mai visto prima. Quando si è destata e gliel’ho detto, Maxellindis ha ritenuto che dovevano essere i lamantini. Sembrano pallidi, sotto la luce lunare, ed hanno un aspetto umano, se non ti avvicini troppo. Ma io li conosco da quando ero ragazzo e non sono mai stato ingannato una sola volta. E c’erano voci di donne, non acute ma persistenti. E qualcos’altro. Non riuscivo a capire niente di quello che dicevano ma ne sentivo le intonazioni. Sai com’è quando si ascolta la gente sull’acqua? Le loro voci dicevano così-e-così-e-così. E la voce più fonda, non la posso definire maschile perché non credo lo fosse… diceva andate-e-fate-questo-e-questo-e-quello. Ho sentito per tre volte le voci di donne, e per due volte l’altra voce. Voi non ci crederete, ottimati, ma qualche volta sembrava che le voci uscissero dal fiume.
Detto questo, piombò nel silenzio, guardando i nenufari. Eravamo al di sopra della parte del Gyoll opposta alla Cittadella, ma quei fiori erano ancora più fitti dei fiori selvaggi su un prato al di qua del paradiso.
Adesso la Cittadella era visibile nel suo complesso, e, nella sua vastità, sembrava una lucente roccia fluttuante su una collina, le mille torri di metallo pronte a balzare in aria ad un solo comando. Sotto di esse, la necropoli stendeva un merletto misto di verde e di bianco. So che è di moda parlare con un certo disgusto della crescita “malsana” dei prati e degli alberi in luoghi del genere, ma non ho mai osservato che in essi vi sia effettivamente qualcosa d’insano. Le cose verdi muoiono affinché gli uomini vivano, e gli uomini muoiono affinché possano vivere le piante, anche quell’uomo ignorante ed innocente che avevo ucciso con la sua stessa ascia così tanto tempo fa. Si dice che tutto il nostro fogliame sia sbiadito, ed indubbiamente è così. E quando il Nuovo Sole verrà, la sua sposa, la Nuova Urth, gli darà gloria con le sue foglie simili a smeraldi. Ma nel giorno attuale, il giorno del vecchio sole e della vecchia Urth, io non ho mai visto una tinta di verde più scura di quella dei grandi pini nella necropoli, quando il vento agita i loro rami. Essi traggono la loro forza dalle generazioni defunte della razza umana, e gli alberi delle argosie, che vengono costruiti con l’uso di molti alberi, non sono alti quanto quei pini.
Il Campo Sanguinario sorge lontano dal fiume, e noi quattro attirammo strane occhiate mentre ci dirigevamo fin là, ma nessuno ci fermò. La Locanda dei Perduti Amori, che mi era parsa la meno solida fra le case degli uomini, sorgeva ancora dove era quel giorno, quando vi ero giunto con Dorcas ed Agia. Il grasso oste quasi svenne al vederci, ed io gli ordinai di chiamare Ouen, il cameriere.
Non lo avevo guardato quel pomeriggio, quando aveva portato il vassoio per Dorcas, Agia e me, ma lo feci adesso. Era un uomo con un inizio di calvizie, alto circa quanto Drotte, magro e dall’aria tormentata; i suoi occhi erano di un azzurro profondo, e nel disegno di quegli occhi e della bocca c’era una delicatezza che riconobbi subito.
— Tu sai chi siamo? — gli chiesi.
Scosse lentamente il capo.
— Non hai mai dovuto servire un torturatore?
— Una volta, questa primavera, Sieur — rispose. — E so che questi uomini vestiti di nero sono torturatori. Ma tu non sei un torturatore, sieur, anche se sei vestito come loro.
— Mi hai mai visto? — insistetti, ignorando l’osservazione.
— No, sieur.
— Molto bene, forse è così. — (Com’era strano rendermi conto di essere cambiato tanto.) — Òuen, dal momento che tu non mi conosci, potrebbe essere un bene che io conoscessi te. Dimmi dove sei nato e chi erano i tuoi genitori e come sei finito a lavorare in questa locanda.
— Mio padre era un negoziante, sieur. Vivevamo vicino alla Vecchia Porta, sulla riva occidentale. Quando avevo dieci anni, credo, mi mandò in una locanda perché facessi da sguattero, e da allora ho lavorato così, qua e là.
— Tuo padre era un negoziante. E tua madre?
Il volto di Ouen era ancora improntato alla deferenza dovuta da un cameriere, ma il suo sguardo era perplesso.
— Non l’ho mai conosciuta, sieur. La chiamavano Cas, ma è morta quando ero piccolo. Durante il parto, mi ha detto mio padre.
— Ma sai che aspetto aveva?
— Mio padre conservava un medaglione con il suo ritratto — annuì Ouen. — Quando avevo circa vent’anni, sono andato a trovarlo ed ho scoperto che lo aveva impegnato. In quel momento mi ero fatto un piccolo gruzzolo aiutando un ottimate nei suoi affari… portando messaggi alle signore e rimanendo di guardia fuori dalla porta e così via, quindi sono andato al banco dei pegni, ho pagato e me lo sono preso. Lo porto ancora indosso, sieur. In un posto come questo, con tanta gente che va e viene, è meglio tenere su di sé le cose di valore.
Infilò una mano nella camicia ed estrasse un medaglione di lacca. L’immagine all’interno era quella di Dorcas, di fronte e di profilo, una Dorcas di poco più giovane di quella che avevo conosciuto.
— Hai detto di essere diventato sguattero a dieci anni. Ma sai leggere e scrivere — osservai.
— Un po’, sieur. — Apparve imbarazzato. — Ho chiesto alla gente, parecchie volte, il significato delle parole scritte, ed io non dimentico molte cose.
— Hai scritto qualcosa, quando il torturatore era qui, la primavera scorsa. Rammenti cos’era?
— Solo un biglietto per avvertire la ragazza — replicò, spaventato, scuotendo il capo.
— Io lo so. Diceva: «La donna che è con te è stata qui in precedenza. Non ti fidare di lei. Trudo dice che l’uomo è un torturatore. Tu sei mia madre ritornata.»
Ouen si riinfilò il medaglione sotto la camicia.
— Era solo che le somigliava tanto, sieur. Quando ero giovane, ero solito pensare che un giorno avrei trovato una donna del genere. Dicevo a me stesso, sai, che ero un uomo migliore di mio padre, e lui l’aveva trovata, dopo tutto. Ma non ci sono mai riuscito, ed ora non sono certo di essere un uomo migliore.
— A quel tempo — osservai, — tu non sapevi che aspetto avesse l’abito di un torturatore, ma lo sapeva il tuo amico Trudo, lo stalliere. Lui conosceva molte più cose di te sui torturatori, ed è stato per questo che è fuggito via in quel modo.
— Sì, sieur. Lo ha fatto quando ha sentito che il torturatore chiedeva di lui.
— Ma tu hai notato l’innocenza della ragazza e l’hai voluta mettere in guardia contro il torturatore e l’altra donna. Forse avevi ragione in merito ad entrambi.
— Se lo dici tu, sieur.
— Lo sai, Ouen, le somigli un poco.
Il grasso oste aveva ascoltato più o meno apertamente, ed ora ridacchiò.
— Somiglia di più a te!
Temo che mi voltai a fissarlo.
— Senza offesa, sieur, ma è vero. È un po’ più vecchio, ma quando stavate parlando, ho visto entrambe le vostre facce di profilo e non c’era la minima differenza.
Osservai nuovamente Ouen. I suoi capelli e gli occhi non erano scuri come i miei, ma, a parte il colore, il suo volto avrebbe potuto quasi essere il mio.
— Hai affermato di non aver mai trovato una donna come Dorcas… come quella del tuo medaglione. Eppure, hai trovato una donna, credo.
— Parecchie, sieur. — I suoi occhi non incontrarono i miei.
— Ed hai generato un figlio.
— No sieur! — Era sconcertato. — Mai, sieur!
— Interessante. Hai mai avuto problemi con la legge?
— Parecchie volte, sieur.
— È un bene che tu tenga bassa la voce, ma non fino a questo punto. E guardami, quando parli. Una donna di quelle che hai amato… o forse una che ti amava… una donna dai capelli scuri… è stata forse arrestata una volta?
— Una volta, sieur — rispose. — Sì, sieur. Il suo nome era Catherine. È un nome passato di moda, mi hanno detto. — Fece una pausa e scrollò le spalle. — Ci sono stati guai, come tu dici, sieur: era scappata da un qualche ordine monacale. La legge l’ha presa e non l’ho mai più rivista.
Non voleva venire con noi, ma lo portammo ugualmente via quando tornammo alla barca.
Quando avevo risalito il fiume con la Samru, la linea di divisione fra la città viva e quella morta era come quella fra la scura curva del mondo e la volta celeste stellata. Adesso, in così tanta luce, quella divisione era svanita. Strutture parzialmente in rovina si allineavano lungo le rive, ma non riuscii a capire se si trattasse delle case dei cittadini più poveri o di rovine deserte fino a quando non vidi una corda per stendere da cui pendevano tre stracci.
— Nella corporazione — osservai, rivolto a Drotte, — coltiviamo l’ideale della povertà, ma quella gente non ha bisogno dell’ideale; essi l’hanno raggiunta.
— Mi pare che abbiano maggiormente bisogno di quell’ideale — ribatté.
Ma si sbagliava. L’Increato era là, un essere che andava oltre gli Hieroduli e coloro che essi servivano; perfino sul fiume, potevo percepire la sua presenza come si avverte quella del padrone di una grande casa, anche se questi si trova in una camera scura o ad un altro piano. Quando scendemmo a riva, mi parve che se avessi valicato una qualsiasi di quelle porte avrei sorpreso all’interno una figura luminosa, e che il comandante di tutte quelle figure fosse dovunque, invisibile solo perché era troppo immenso per poter essere visto.
Trovammo un sandalo da uomo, consunto ma non vecchio, abbandonato su una delle strade invase dall’erba.
— Mi è stato detto che ci sono razziatori che girano per questi luoghi — spiegai. — Questo è uno dei motivi per cui vi ho chiesto di venire. Se non fossero implicate altre persone oltre a me stesso, avrei agito da solo.
Roche annuì ed estrasse la spada, ma Drotte obiettò:
— Qui non c’è nessuno. Credo che tu sia diventato molto più saggio di noi, Severian, ma credo anche che tu ti sia abituato a cose che terrorizzano la gente comune.
Compresi cosa intendesse dire.
— Tu sapevi di cosa parlava il battelliere, te lo potevo leggere in faccia, ed anche tu avevi paura, o, per lo meno, eri preoccupato. Ma non eri spaventato come lo era la scorsa notte il battelliere sulla sua barca, o come lo saremmo stati Roche, Eata, Ouen ed io se la notte scorsa ci fossimo trovati vicino al fiume ed avessimo saputo cosa stava accadendo. I saccheggiatori cui ti riferivi erano in circolazione la notte scorsa, e devono tenere d’occhio le barche delle guardie. Non ce ne sarà nessuno vicino all’acqua né oggi né per parecchi giorni a venire.
— Pensi che quella ragazza… Maxellindis… sia in pericolo, laggiù alla barca? — chiese Eata, toccandomi il braccio.
— Lei corre tanto pericolo quanto ne corri tu per causa sua — replicai. Non comprese cosa intendessi dire, ma io lo sapevo: la sua Maxellindis non era Thecla, la sua storia non poteva essere uguale alla mia.
Ma io avevo visto i rotanti corridoi del Tempo dietro i ridenti occhi castani ed il volto da monello. L’amore è una lunga fatica per i torturatori; e, anche se avessi sciolto la corporazione, Eata sarebbe divenuto un torturatore, come lo sono tutti gli uomini, vincolato dal disprezzo per quella ricchezza senza cui un uomo è meno di un uomo, infliggendo sofferenza con la sua stessa natura, che lo volesse o meno. Mi spiaceva per lui, ed ancor più per Maxellindis, la ragazza-marinaio.
Ouen ed io entrammo nella casa, lasciando Roche, Drotte ed Eata a montare la guardia ad una certa distanza. Mentre sostavamo sulla soglia, potevo udire all’interno i soffici passi di Dorcas.
— Noi non ti diremo chi siamo — mi rivolsi ad Ouen, — e non ti possiamo rivelare cosa potresti diventare. Ma noi siamo il tuo Autarca, e ti spiegheremo ora che cosa devi fare.
Non avevo parole di comando per lui, ma scoprii di non averne bisogno: egli s’inginocchiò immediatamente, come aveva fatto il castellano.
— Abbiamo portato i torturatori con noi affinché tu avessi modo di sapere cosa ti aspettava se ci avessi disobbedito. Ma noi non desideriamo costringerti, ed ora, avendoti incontrato, dubitiamo che la loro presenza fosse necessaria. C’è una donna, in questa casa in cui entrerai fra un momento. Le devi raccontare la tua storia come l’hai raccontata a noi, e devi rimanere con lei per proteggerla, anche se lei tenterà di mandarti via.
— Farò del mio meglio, Autarca — replicò Ouen.
— Quando potrai, la dovrai persuadere a lasciare questa città di morte. Fino ad allora, ti diamo questa. — Trassi fuori la pistola e gliela porsi. — Vale un carro di crisi, ma, fintanto che rimarrai qui, ti sarà più utile. Quando tu e la donna sarete al sicuro, la ricomprerò da te, se lo vorrai. — Gli feci vedere come far funzionare la pistola e lo lasciai.
Allora fui solo, ed indubbiamente ci saranno alcuni che, leggendo il resoconto di quell’estate più che turbolenta, penseranno che lo ero stato spesso. Jonas, il mio unico, vero amico, era ai suoi stessi occhi soltanto una macchina; Dorcas, che amo ancora, era ai suoi stessi occhi una sorta di fantasma.
Io non ritengo che sia così. Noi scegliamo di essere o di non essere soli quando decidiamo chi accettare come nostri compagni e chi rifiutare. Così, un eremita nella sua grotta di montagna è in compagnia, perché gli uccelli, i conigli, gli iniziati le cui parole vivono nei suoi «libri della foresta» ed i venti… i messaggeri dell’Increato, sono i suoi compagni. Un altro uomo, che viva fra milioni di persone, può essere solo, perché non ha altro che nemici e vittime intorno a sé.
Agia, che avrei potuto amare, aveva preferito invece diventare una Vodalus in veste femminile, scegliendo come proprio avversario tutto ciò che più pienamente vive nell’umanità. Io, che avrei potuto amare Agia, che avevo amato Dorcas profondamente ma forse non abbastanza profondamente, ero adesso solo perché ero divenuto parte del suo passato, che lei amava più di quanto avesse (salvo, credo, all’inizio) amato me.
XXXVIII
RESURREZIONE
Non rimane quasi più nulla da dire. È sorta l’alba, il sole è rosso come un occhio insanguinato. Il soffio freddo del vento penetra dalla finestra. Fra pochi momenti, un servitore entrerà portando un vassoio fumante; indubbiamente, con lui ci sarà il vecchio, piegato Padre Inire, ansioso di conferire con me durante i pochi momenti che rimangono; il vecchio Padre Inire, che ha tanto superato la longevità breve della sua razza; il vecchio Padre Inire che non sopravviverà di molto, temo, al sole rosso. Come rimarrà seccato nello scoprire che sono rimasto alzato a scrivere tutta la notte quassù.
Presto dovrò indossare abiti d’argento, il colore che è più puro del bianco. Non importa.
Ci saranno lunghi e lenti giorni sulla nave. Leggerò. Ho ancora così tanto da imparare. Dormirò, assopito nella mia cuccetta, ascoltando i secoli che sfiorano lo scafo. Manderò questo manoscritto al Maestro Ultan; però, mentre sarò sulla nave, quando non riuscirò a dormire e mi sarò stancato di leggere, lo scriverò di nuovo… io che non dimentico nulla… riscriverò ogni parola che ho scritto qui. Lo chiamerò Il Libro del Nuovo Sole, perché quel libro, ormai perduto da così tanti secoli, si dice abbia predetto il suo arrivo. E quando avrò finito quella seconda copia, la sigillerò in un contenitore di piombo e la manderò alla deriva nei mari dello spazio e del tempo.
Ho detto tutto quello che avevo promesso di narrare? Mi rendo conto che in vari punti del racconto mi sono impegnato di chiarire questo o quello alla conclusione della storia. Ricordo tutti quei punti, ne sono certo, ma ricordo anche molte altre cose. Prima di presumere che io ti abbia ingannato, lettore, leggi di nuovo, come io scriverò di nuovo.
Due cose mi sono chiare. La prima è che io non sono il primo Severian. Coloro che percorrono i corridoi del Tempo lo hanno visto ottenere il Trono della Fenice, ed è stato per questo che l’Autarca, cui era stato detto di me, ha sorriso nella Casa Azzurra, e l’ondina mi ha sospinto in alto quando sembrava che stessi per annegare. (Eppure certo il primo Severian non lo sapeva; qualcosa aveva già cominciato a rimodellare la mia vita.) Permettetemi ora di supporre, anche se sono solo supposizioni, quale sia stata la vita di quel primo Severian.
Anch’egli era stato allevato dai torturatori, credo. Anch’egli era stato inviato a Thrax e ne era fuggito, e, anche se non portava con sé l’Artiglio del Conciliatore, doveva essere stato attirato a partecipare ai combattimenti nel nord… indubbiamente con la speranza di sfuggire all’arconte nascondendosi nell’esercito. Non potrei dire come fece ad incontrare l’Autarca, una volta là, ma lo incontrò, e così, come me, anch’egli (che in un senso finale era ed è me stesso) divenne a sua volta Autarca e navigò fra le stelle oltre le candele della notte. Allora coloro che percorrono i corridoi, tornarono indietro nel tempo e la mia storia… come l’ho narrata qui in così tante pagine… iniziò.
La seconda cosa è questa. Egli non venne riportato nel suo tempo, ma divenne egli stesso un percorritore dei corridoi del tempo. Adesso conosco l’identità dell’uomo chiamato la Testa del Giorno e so perché Hildegrin, che era troppo vicino, perì quando c’incontrammo e perché le streghe fuggirono. Adesso so anche a chi apparteneva il mausoleo in cui mi rifugiavo da bambino, quel piccolo edificio di pietra con le sue rose, la sua fontana e la nave volante rappresentate nell’incisione. Ho disturbato la mia stessa tomba, ed ora vado a giacere in essa.
Quando Drotte, Roche, Eata ed io ritornammo alla Cittadella, ricevetti urgenti messaggi da parte di Padre Inire e della Casa Assoluta, ma indugiai ancora. Chiesi una mappa al castellano. Dopo molte ricerche, ne tirò fuori una, grande e vecchia, spaccata in molti punti. Mostrava il muro di cinta tutto intero, ma i nomi delle torri non erano quelli che io conoscevo… o quelli che conosceva il castellano… e su quella mappa figuravano torri che non ci sono nella Cittadella, mentre alcune torri della Cittadella non esistevano sulla mappa.
Allora ordinai un velivolo e per mezza giornata volai fra le torri. Indubbiamente, vidi molte volte il posto che cercavo, ma non lo riconobbi.
Alla fine, con una lampada forte e sicura, scesi ancora una volta nella nostra segreta, giù per file e file di scalini fino a che raggiunsi il livello più basso. Che cos’è, mi chiedo, ciò che ha dato ai luoghi sotterranei un così grande potere di preservare il passato? Una delle scodelle in cui avevo portato il cibo a Triskele era ancora là (Triskele, che era tornato alla vita sotto la mia mano due anni prima che trovassi l’Artiglio). Seguii ancora una volta le impronte del mio cane, come avevo fatto quando ero un apprendista, fino ad un’apertura dimenticata, e di là seguii le mie tracce nel labirinto di gallerie.
Adesso, sotto la costante luce della mia lampada, vidi dove avevo perso le tracce, tirando diritto dove Triskele aveva svoltato. Fui tentato di seguire le sue tracce invece delle mie, in modo da poter vedere dov’era sbucato, ed in quel modo scoprire magari chi gli era stato amico e da chi era solito tornare dopo avermi salutato, qualche volta, nelle strade della Cittadella. Può darsi che lo farò al mio ritorno su Urth, se mai tornerò.
Ma, ancora una volta, non deviai. Seguii il ragazzo-uomo che ero stato, giù per un corridoio diritto coperto di fango e trapassato di tanto in tanto da proibitive aperture. Il Severian di cui stavo seguendo le tracce portava scarpe fuori misura, consumate ai tacchi e con le suole consunte; quando mi volsi e feci lampeggiare la luce sulle mie tracce, notai che il Severian che lo seguiva, pur portando stivali eccellenti, aveva passi di lunghezza ineguale, e che la punta di uno stivale si strascicava ad ogni passo. Un Severian ha buoni stivali, pensai, ma l’altro aveva buone gambe. E risi di me stesso, chiedendomi chi sarebbe venuto qui in futuro e se avrebbe indovinato che le orme erano state lasciate dagli stessi piedi.
Non potrei dire che uso avessero un tempo quei tunnels. Parecchie volte vidi scale che un tempo scendevano ancora più in basso ma che conducevano sempre a polle d’acqua scura e calma. Trovai uno scheletro, le sue ossa sparpagliate dai piedi in corsa di Severian, ma era solo uno scheletro, e non mi disse nulla. In alcuni punti c’erano scritte sui muri, in uno sbiadito arancio o in un robusto nero, ma erano caratteri che non ero capace di leggere, inintelleggibili come le tracce lasciate dai topi nella biblioteca del Maestro Ultan.
Alcune delle stanze in cui guardai, presentavano mura sulle quali avevano un tempo ticchettato mille e più orologi di vario tipo, e, sebbene adesso fossero tutti fermi, le loro note zitte e le lancette bloccate ad ore che non sarebbero più tornate, pensai che costituissero un buon presagio per chi stava cercando l’Atrio del Tempo.
Alla fine lo trovai. La piccola chiazza di sole era proprio come la ricordavo. Senza dubbio, mi comportai scioccamente, ma spensi la lampada e sostai per un momento nel buio, osservandola. Tutto era silenzio, e quel luminoso ed ineguale quadrato appariva misterioso come allora.
Temevo che avrei trovato difficoltà a passare attraverso lo stretto crepaccio, ma se l’attuale Severian aveva le ossa un po’ più larghe, era anche più snello, cosicché, quando ebbi fatto passare le spalle, il resto seguì facilmente.
La neve che ricordavo era svanita, ma nell’aria c’era una nota di freddo che ne preannunciava un imminente ritorno. Alcune foglie morte, che qualche corrente d’aria doveva aver trasportato davvero molto in alto, erano venute a riposare qui fra le rose morenti. Le meridiane inclinate proiettavano ancora le loro pazze ombre, inutili quanto lo erano stati gli orologi morti, sotto di esse, anche se non erano altrettanto immote. Gli animali intagliati continuavano a guardarle fissamente.
Raggiunsi la porta e bussai. Apparve la vecchia timorosa che ci aveva serviti, ed io, entrato nella stanza ammuffita in cui mi ero riscaldato in precedenza, le ordinai di portare Valeria da me. Si affrettò ad andarsene, ma, prima che scomparisse, qualcosa si ridestò nelle pareti consunte dal tempo, voci prive di corpo, centinaia di lingue, che richiedevano che Valeria si presentasse al cospetto di un antico e titolato personaggio che, con un sussulto, compresi essere io stesso.
Qui si arresterà la mia penna, anche se io non mi fermerò. Ti ho condotto da una porta ad un’altra… dalla porta chiusa e velata di nebbia della necropoli di Nessus a quella porta affollata di nubi che chiamiamo il cielo, la porta che mi condurrà, come spero, al di là delle stelle più vicine.
La mia penna si arresta, anche se io non lo faccio, lettore, e tu non camminerai più oltre con me. È tempo che ciascuno di noi viva la propria vita.
A questo resoconto, io, Severian lo Zoppo, Autarca, appongo la mia firma in quello che sarà chiamato l’ultimo anno del vecchio sole.
APPENDICE
LE ARMI DELL’AUTARCA E LE NAVI DEGLI HIERODULI
I manoscritti del Libro del Nuovo Sole non sono mai tanto oscuri come quando parlano di armi e di organizzazione militare.
La confusione relativa all’equipaggiamento degli alleati e degli avversari di Severian sembra derivare da due fonti, la prima delle quali è la sua evidente tendenza a contrassegnare ogni variazione di disegno o di scopo nelle armi con un nome diverso. Nella traduzione, ho cercato di tenere a mente il significato fondamentale delle parole impiegate, come anche ciò che deduco essere l’aspetto e la funzione delle armi stesse. Così, falcione, fuscina e molti altri. Ad un certo punto, ho messo l’athame, l’arma dello stregone, in mano ad Agia.
La fonte di difficoltà sembra essere il fatto che sono coinvolti i tre diversi gradi di civiltà tecnologica. Il livello più basso fra questi può essere definito quello del fabbro. Le armi da esso prodotte, sembrano consistere di spade, coltelli, asce e picche, quali avrebbero potuto essere forgiate da qualsiasi abile modellatore di metalli, diciamo, del quindicesimo secolo. Sembra che questo tipo di armi sia facilmente ottenibile da parte della cittadinanza media e rappresenti la capacità tecnologica della società nel suo complesso.
La seconda gradazione può essere definita del livello di Urth. Le lunghe armi della cavalleria che ho scelto di chiamare lance, conti e così via, appartengono a questo gruppo, come anche le «lance» con cui gli hastari minacciarono Severian fuori dalla porta dell’Anticamera e le altre armi usate dalla fanteria. Dal testo non risulta chiaro quanto facilmente ottenibili fossero queste armi, testo che ad un certo punto parla di «frecce» e di «khetens dall’impugnatura lunga» offerti in vendita a Nessus. Mi sembra certo che gli irregolari di Guasacht ricevessero i loro conti prima della battaglia e che in seguito questi venissero raccolti e conservati da qualche parte (possibilmente nella sua tenda). Forse, si dovrebbe far notare che piccole armi venivano distribuite e ritirate in questo modo sulle navi nel diciottesimo e diciannovesimo secolo, anche se coltelli e armi da fuoco potevano essere liberamente acquistati a riva. Le balestre usate dagli assassini di Agia fuori dalla miniera appartenevano certo a quelle che si possono chiamare armi di Urth, ma probabilmente quegli uomini erano disertori.
Le armi di Urth, quindi, sembrano rappresentare la tecnologia più elevata reperibile sul pianeta e forse nel suo sistema solare. È difficile dire quale sarebbe la loro efficienza in confronto alle nostre armi. Sembra che le armature non siano totalmente inefficaci contro di esse, ma questo è vero anche nei confronti dei nostri fucili, carabine ed armi semiautomatiche.
Il terzo grado è quello che definirei il livello stellare. La pistola data a Thea da Vodalus e quella data ad Ouen da Severian sono indubbiamente armi stellari, ma non possiamo essere altrettanto certi in merito a molte altre armi citate nel manoscritto. Alcune, o forse anche tutte le armi di artiglieria usate nella guerra di montagna potrebbero appartenere al livello stellare. I fucili e gli jezails di cui sono dotate le truppe speciali su entrambi i fronti, potrebbero appartenere o meno a questo livello, ma io sono incline a ritenere che lo siano.
Mi sembra evidente che le armi stellari non potevano essere prodotte su Urth e che dovevano essere ottenute a grande prezzo dagli Hieroduli. Un interessante interrogativo, cui non ho alcuna risposta valida da offrire, è quello relativo ai beni offerti in cambio. L’Urth del vecchio sole sembra, per i nostri standards, essere ridotta al livello dei materiali grezzi. Quando Severian parla di miniere, sembra far riferimento a quelle che noi definiremmo razzie archeologiche, ed i nuovi continenti che si dice sorgeranno con la venuta del Nuovo Sole (nella commedia del Dr. Talos) hanno fra i loro pregi «oro, argento, ferro e rame…» (il corsivo è aggiuntivo).
Schiavi (un certo grado di schiavitù esiste all’epoca di Severian), pelli, carne ed altro cibo, ed oggetti che richiedono cure particolari, come gioielli fatti a mano, sembrerebbero altri beni possibili da scambiare.
Ci piacerebbe saperne di più su quasi tutte le cose citate in questi manoscritti, ma soprattutto, è certo, ci piacerebbe saperne di più sulle navi che vagano fra le stelle, comandate dagli Hieroduli, ma talvolta dotate di un equipaggio di esseri umani. (Due delle figure più enigmatiche del manoscritto, Jonas ed Hethor, sembrano essere stati un tempo quel tipo di marinai.) Ma qui il traduttore è ancora una volta costretto ad affrontare la più assurda di tutte le difficoltà… l’incapacità di Severian di distinguere fra la navigazione stellare e quella oceanica.
Per quanto questo sia irritante, sembra assolutamente naturale, considerate le circostanze: se un distante continente è remoto quanto la luna, allora la luna non è più remota di un distante continente. Inoltre, le navi che salpano fra le stelle, sembrano essere alimentate dalla pressione della luce su immense vele di metallo, cosicché la scienza dell’uso di alberi cavi e di vele è applicabile ad entrambi i tipi di navi. Presumibilmente, dal momento che molte capacità (e forse sopra ogni altra quella di saper sopportare lunghi periodi di isolamento) erano richieste ugualmente da entrambi i tipi di imbarcazioni, marinai provenienti da imbarcazioni tali da suscitare solo il nostro disprezzo erano in grado di arruolarsi su altre le cui capacità ci avrebbero stupiti. C’è da notare che il comandante della barca noleggiata da Severian ha lo stesso modo di parlare di Jonas.
Ed ora, un commento finale. Nelle mie traduzioni, e nei commenti che ho aggiunto ad esse ho cercato di evitare ogni speculazione; mi sembra che ora che la fine di questi sette anni di fatica si avvicina, abbia il diritto di concedermene una. Si tratta della capacità di attraversare ore ed eoni posseduta da queste navi: essa potrebbe costituire semplicemente la naturale conseguenza della loro capacità di penetrare lo spazio interstellare ed anche intergalattico, e di sfuggire alle convulsioni mortali dell’universo. E potrebbe darsi che viaggiare in questo modo nel tempo non sia così complesso e difficile come siamo portati a supporre. È possibile che Severian avesse fin dall’inizio un presentimento di quello che sarebbe stato il suo futuro.