Potrebbe capitare a ognuno di noi: fare un passo falso, inciampare in quello che sembrava un sasso (ma non lo era), scivolare oltre una soglia invisibile o molto ben nascosta e trovarci in un mondo sconosciuto, completamente diverso dal nostro. Ci sono porte che si spalancano fra le dimensioni, e alcune — come si accorgerà il protagonista di questo romanzo — sono dimensioni proibite. Ma se dall’altra parte incontrassimo un personaggio straordinario, una donna dotata di poteri stupefacenti, un essere di cui non possiamo più fare a meno? Ci mettererrimo alla ricerca di lei a ogni costo, rischieremmo la vita per trovarla e scoprire il suo segreto. Ma cosa ci aspetterebbe alla fine dell’awentura? È pericoloso scherzare con i mondi altrui: non si sa mai quello che può succedere…

Gene Wolfe

Dimensioni proibite

1. Lara

— Tu credi nell’amore? — le chiese.

— Sì — rispose Lara. — Ma non vorrei.

Lui non seppe cosa dire. Tutto quello che aveva pensato nel pomeriggio tornando a casa a piedi dal lavoro gli si era fermato in gola.

— Io e le donne lo usiamo… — gli disse lei. — Dobbiamo farlo.

Lui annuì. — È vero, le donne usano l’amore, certo. Ma anche gli uomini, e normalmente gli uomini lo usano in modo peggiore. Non credi che questo sia la prova che è una cosa effettivamente reale? Se non lo fosse, nessuno potrebbe usarlo. — Il brandy gli aveva dato alla testa e quando finì il discorso, non sapeva nemmeno di cosa avessero parlato.

— È reale, hai ragione — gli disse Lara. — Ma io non sono una donna.

— Una ragazza… — Cominciò a stringerla.

Lei gli infilò una mano nel pigiama.

— Una signora. — Sentì il bicchiere vicino alle labbra.

Lo prese dalla mano di lei e ne bevve un sorso.

— …e poi gli uomini muoiono. Sempre. La donna trattiene il suo sperma, lo conserva, mette al mondo i suoi figli, uno dopo l’altro, per il resto della sua vita. Forse tre figli. O magari tre dozzine.

— Ti amo — farfugliò. — Morirei per te, Lara.

— Ma così è meglio… come fate voi è molto meglio. Ora devo tornare indietro. Ascolta, ci sono porte che…

Non se ne andò subito. Si abbracciarono ancora, distesi sul pavimento di fronte al caminetto a gas. Per la seconda volta quella sera si perse dentro di lei.

Poi la strinse forte a sé, con la sensazione di essere solo con lei su una barca in mezzo al mare, una barchetta cullata e sospinta dalle onde; solo tenendo i loro corpi premuti uno all’altro avrebbero potuto salvarsi dal gelo di quella schiuma gelida.

— Devi stare attento — gli disse mentre lui si stava addormentando. — Perché questa notte noi due siamo stati così vicini.

Si svegliò con un terribile mal di testa. Vide la luce del sole che filtrava dalla finestra e si rese conto di aver perso una giornata di lavoro. Si alzò dal letto e bevve tre bicchieri d’acqua.

Lara se n’era andata, ma c’era da aspettarselo: erano quasi le undici.

Probabilmente era uscita in cerca di un lavoro, o a comprare qualche vestito o qualcosa da mangiare.

Telefonò al negozio. — Ho l’influenza… mi è venuta stanotte. Mi scuso, mi scuso molto di non aver chiamato prima. — “Parlo proprio come un giapponese”, pensò. “A forza di vendere Sony”.

Ella, dell’ufficio personale, disse: — Ti segno assente.

Non preoccuparti… è il tuo primo giorno di malattia quest’anno.

“Un’aspirina”, pensò. “Faresti bene a prendere un’aspirina”. Ne ingoiò tre.

Sul tavolino c’era un biglietto. Un biglietto con la calligrafia angolosa di Lara.

Caro,

ho cercato di dirti addio ieri notte, ma non mi hai sentito. Non sono una vigliacca, devi credermi.

Se non fosse per le porte non ti direi nulla, e forse sarebbe meglio. Ti può capitare di vederne una o più di una, magari per un solo istante. Sarà chiusa su tutti e quattro i lati (deve esserlo). Può essere una vera porta, oppure solo un cavo telefonico sostenuto da due pali, o un arco in un giardino. Qualunque cosa sia, avrà un aspetto significativo.

Ti prego di leggere con attenzione e di ricordare tutto quello che ti dico. Non devi attraversarla.

Se l’attraversi senza accorgertene, non voltarti. Se lo fai, sarà finita. Cammina immediatamente all’indietro.

Lara

P.S. Lo aggiungete sempre, no? Alla fine.

Alla fine voglio dirti che ti ho amato. Ti ho amato davvero. (E ti amo ancora.)

Lo lesse tre volte, prima di rimetterlo giù, pensando che doveva esserci qualcosa di sbagliato, doveva essergli sfuggito qualcosa d’importante, come succede quando si osserva un’illusione ottica. Quella parola sottolineata era proprio significativo? E se sì, cosa voleva dire?

Tenne la testa sotto la doccia e lasciò che lo spruzzo d’acqua gelida gli sferzasse i capelli e la nuca. Rimase lì sotto (piegato, con una mano poggiata alle piastrelle) fino a che il lento flusso dell’acqua riempì la vasca, poi si sciacquò il viso sette volte, si rase, e si sentì meglio.

Se fosse uscito, avrebbe corso il rischio che qualcuno del negozio lo vedesse; ma era un rischio che doveva correre. Mentre faceva il nodo alla cravatta marrone, esaminò la porta dell’appartamento. Non aveva un aspetto significativo, o forse sì.

Capini era solo a un isolato e mezzo da lì. Ordinò un bicchiere di vino rosso con un piatto di linguine e, grazie al vino e alle linguine, si sentì quasi normale.

Mamma Capini non c’era o stava in cucina, ed era con Mamma Capini che lui avrebbe voluto parlare. C’erano tre o quattro dei suoi figli — non aveva mai imparato i loro nomi — ma era probabile che loro non gli avrebbero detto niente.

Mamma Capini sì, perciò decise di ritornare per l’ora di cena. Nel frattempo la polizia, l’obitorio…

— Sono alla ricerca di una donna — disse alla donna dai capelli grigi e dai denti di coniglio che finalmente lo ricevette al Centro di Igiene Mentale. E poi, dal momento che l’espressione suonava un po’ ambigua, aggiunse: — Non una donna qualsiasi.

— E pensa che noi potremmo sapere dove si trova?

Lui annuì.

— Come si chiama?

— Lara Morgan — scandì lettera per lettera. — Non sono certo che questo sia il suo vero nome. Non ho visto la sua carta d’identità.

— Allora aspettiamo un momento prima di consultare il computer. Me la può descrivere?

— Alta circa un metro e settantacinque. Capelli rossi lunghi fino alle spalle. Rosso scuro. Ramati, si dice così?

La donna dai denti di coniglio annuì.

— Molto carina… anzi, bella. Occhi color smeraldo. Un nugolo di lentiggini. Carnagione latte e miele, capisce cosa intendo dire? Non so se sono in grado di valutare il peso di una donna, ma potrebbe essere sui cinquantacinque chili.

— Color smeraldo, signor…?

— Green… lo smeraldo è un verde che tende al blu. Mi deve scusare. Adesso mi occupo della vendita di registratori e roba del genere, ma prima mi occupavo di accessori. Il verde smeraldo è più azzurro del colore dell’avocado.

— Capisco. E cosa indossava questa donna l’ultima volta che l’ha vista?

Resistette all’impulso di risponderle “niente!”. — Un abito verde. Di seta, credo, ma forse era nailon. Stivali con i tacchi alti, penso di lucertola, ma potevano anche essere di serpente. Una collana d’oro e un paio di braccialetti d’oro… portava molti gioielli d’oro. Una pelliccia nera con il cappuccio. Forse era finta, ma a guardarla e a toccarla a me è parsa vera.

La donna dai denti di coniglio disse: — Noi non l’abbiamo vista, signor Green. Se fosse entrata qui una persona simile a quella che mi ha appena descritta, l’avrei saputo.

Se fosse venuta per vedere un medico, cosa di cui dubito, sarebbe stato uno psichiatra privato. Cosa le fa credere che soffra di disturbi mentali?

— Il suo comportamento. Certe cose che ha detto.

— E qual era il suo comportamento, signor Green?

Rifletté un momento. — Per esempio, non conosceva le macchinette del ghiaccio. Una volta è andata ad aprire il frigorifero per prendere del ghiaccio — voleva fare una limonata — ma è ritornata dicendo che non ce n’era. Così l’ho accompagnata per mostrarle come funzionava, e lei ha detto: “Che carini questi cubetti”.

La donna dai denti di coniglio aggrottò la fronte e unì le mani solo per la punta delle dita, come fanno gli uomini. — Dev’esserci stato certamente qualcosa di più.

— Be’, aveva paura che qualcuno stesse per riportarla indietro. Così mi ha detto.

L’espressione della donna dai denti di coniglio diceva “Ora sì che stiamo arrivando al punto”. Si protese verso di lui dicendo: — Riportarla dove, signor Green?

Stava per chiederle come facesse a conoscere il suo nome (si era rifiutato di dirlo alla sostituta della segretaria) ma pensò che fosse meglio di no. — Questo non lo ha detto, dottoressa. Attraverso le porte, credo.

— Le porte?

— Ha parlato di porte. Poco prima di andarsene… le porte, o una sola porta, ecco come è arrivata fin qui. Se loro fossero venuti per riportarla indietro, l’avrebbero trascinata attraverso una porta, perciò ha preferito andarsene via da sola. — Quando vide che la donna dai denti di coniglio non faceva commenti, aggiunse: — Almeno questo è quello che mi è parso di capire.

— Allora queste porte potrebbero essere quelle di un istituto — disse la donna dai denti di coniglio.

— È quello che ho pensato anch’io.

— Non le è venuto in mente che quell’istituto potrebbe essere una prigione, signor Green?

Lui scosse la testa. — Lei non dava affatto quell’impressione. Sembrava come dire, in gran forma. Solo un po’ confusa.

— Le persone intelligenti che sono passate attraverso l’esperienza di un istituto danno spesso quell’idea. Mi è parso di capire che avesse più o meno la sua stessa età, giusto?

Lui annuì.

— E lei ha…?

— Trent’anni.

— Allora diciamo che anche questa bella donna che si fa chiamare Lara Morgan ha trent’anni. E se avesse commesso un grave crimine nell’adolescenza — magari un omicidio, o complicità in un omicidio — sarebbe stata mandata in un riformatorio femminile fino alla maggiore età, per poi essere trasferita in un carcere femminile a ultimare la condanna. Così potrebbe aver trascorso gli ultimi dieci o dodici anni in una prigione o in un’altra, signor Green.

Lui cominciò a dire: — Non credo…

— Capisce, signor Green, quelli che evadono dai nostri ospedali psichiatrici non sono puniti. Sono malati, e non si può punire la malattia. Ma i criminali che evadono dal carcere sono puniti. Sono felice che sia ritornato, signor Green. Cominciavo a preoccuparmi per lei.

Quando uscì dal Centro si accorse che stava tremando; prima non si era reso conto di quanto tenesse a Lara.

Il Centro di Igiene Mentale era situato sull’angolo di un incrocio pentadirezionale. Tutte e cinque le strade erano congestionate dal traffico e quando si soffermò a guardarle ebbe l’impressione che dipartissero da lui come i raggi di una ruota, tutte affollate, rumorose, diritte e dirette all’infinito. Nessuna uguale alle altre; e nessuna — quando guardò di nuovo — era identica a come era quando era arrivato. Quel teatro non era forse un campo di bowling? E le autopompe non avrebbero dovuto essere rosse, gli autobus gialli, o magari arancione?

Dov’erano le porte? “Potrebbe essere un cavo telefonico sostenuto da due pali”. Così aveva scritto Lara. Alzando lo sguardo vide che si trovava sotto a un reticolo di cavi metallici. C’erano cavi per sostenere la segnaletica stradale, sottili cavi neri tesi fra un edificio e un altro, cavi per i tram sferraglianti. Ai lati c’erano gli edifici, in basso le strade e i marciapiedi, e in alto i cavi. Una dozzina — no, almeno due dozzine — due dozzine di porte, e tutte avevano un aspetto significativo.

Quell’ospedale per le bambole c’era anche prima? C’era mai stato al mondo un posto simile? Con la sensazione di essere lui stesso una bambola rotta, s’incamminò in quella direzione.

2. Inferno o paradiso? Chissà?

Il locale era rivestito di scaffali con i ripiani disposti alla distanza di venti, ventidue centimetri. Sui ripiani c’erano dei lettini. In ogni letto, una bambola.

— È venuto per una bambola, signore?

Fece finta di non aver sentito. “Che posto interessante. Credo di non averne mai visto uno simile in vita mia. Piacerebbe molto a Lara” si trovò a pensare. Poi, ad alta voce, aggiunse: — Sono tutte rotte?

— Ma no — disse il negoziante. L’uomo aveva circa la sua età, ma era quasi ingobbito e sembrava non essersi accorto che i capelli, lunghi fino alle spalle magre, stavano diventando radi.

— Allora perché…

— Erano rotte quando le hanno portate qui — spiegò il negoziante. Sollevò la coperta e il lenzuolo della bambola più vicina. — Ora sono in perfette condizioni.

— Capisco.

— Se ha una bambola da aggiustare, deve lasciare un deposito che le sarà restituito quando tornerà a ritirarla.

— Avete incassato un deposito per tutte queste bambole?

Il negoziante allargò le braccia magre. — In qualche modo dobbiamo pur guadagnare per tenere aperto il negozio. Prima facevamo pagare le riparazioni, ma quasi nessuno tornava a riprendersi le bambole, quando erano pronte. Così ora abbiamo deciso di farci dare un deposito piuttosto sostanzioso e non ci facciamo pagare le riparazioni. Se il proprietario o, come avviene quasi sempre, la madre del proprietario, torna per ritirare la sua bambola, liberiamo un posto nello scaffale e gli restituiamo per intero il deposito. Altrimenti… — Il negoziante si strinse nelle spalle.

— Non vendete mai le bambole?

Il negoziante annuì. — Quando il proprietario muore.

— Allora alcune bambole restano qui per molto tempo.

Il negoziante annuì di nuovo. — Ce ne sono alcune che sono qui da quando abbiamo aperto il negozio. Ma qualche volta succede che quando diventa adulto, un ragazzo si ricordi della sua bambola. Qualche volta gli capita di trovare la ricevuta fra le carte di sua madre. Quando ci consegnano le bambole prendiamo nota del nome dei proprietari e poi controlliamo gli annunci mortuari. — Il negoziante allungò il braccio fino al ripiano più alto e prese un lettino. — Questa per esempio è in vendita. Se conosce qualcuno…

Era Lara…

Lara in miniatura, alta venticinque centimetri. Ma Lara, senza ombra di dubbio… i suoi capelli rosso scuro, le lentiggini, gli occhi, il naso la bocca e il mento.

Riuscì a dire: — Sì — e tirò fuori il portafoglio.

— È una bambola piuttosto costosa, signore — disse il negoziante. — Non solo cammina e parla… ma fa di tutto.

— Sta scherzando? — cercò di sollevare un sopracciglio.

— Ma no, signore. È una di quelle che vanno bagnate con una soluzione salina che agisce da elettrolito. Adesso temo, però, che sia completamente a secco. Lei capisce, è rimasta qui per molto tempo.

— Capisco. — Esaminò la bambola da vicino. Sulla camicetta era ricamato un nome, Tina.

— È la dea, naturalmente — disse il negoziante. — La dea a sedici anni. Era di un ragazzo che è morto otto anni fa. Malicapata. Piuttosto triste, non è vero? Ma ora farà la gioia di qualche altro bambino per molti anni ancora. La vita continua.

— Qualche volta — disse lui.

— Prego?

— E dove posso trovare la vera dea?

— A Overwood, credo. Se vuole la bambola, il prezzo è centocinquanta.

— Devo farle un assegno.

Il negoziante ebbe un attimo di esitazione, poi disse: — Va bene.

La bambola entrava facilmente nella tasca anteriore del soprabito e la sua figuretta snella si adattava a perfezione alla forma allungata della tasca.

Sul marciapiede si guardò intorno per orientarsi. Ai cinque angoli dell’incrocio altrettanti edifici: un negozio di alimenti integrali, un’agenzia immobiliare, una libreria, un ufficio legale, un negozio di liquori, una boutique con l’insegna “fiori finti di vera seta” e un negozio di oggetti antichi. Le strade che trafiggevano l’orizzonte gli sembrarono del tutto sconosciute. Un tram rosso sferragliò lì accanto e lui si ricordò che i tram non c’erano più nemmeno quando era un bambino.

Come se la sua mente non avesse spazio che per un solo interrogativo, gli venne in mente la soluzione del primo.

Quando era uscito dalla clinica delle bambole aveva preso la strada sbagliata e ora si trovava a un incrocio diverso.

Tornò sui suoi passi e, davanti alla vetrina, salutò con la mano il negoziante. Divertito, notò che c’era già un’altra bambola fra le lenzuola del lettino di Tina.

— Ma non le cambiano mai? — mormorò.

— No, sono sempre le stesse — disse l’uomo con la faccia paonazza che gli camminava accanto indicando un negozio.

Lui vide che in quella vetrina erano esposti spartiti di canzoni ingialliti e polverosi. “Il vero amore” diceva il titolo di una canzone scritto nei caratteri floreali in voga all’inizio del secolo. In un angolo del foglio era appiccicata una mosca morta.

— La solita zuppa — disse. Era l’espressione che usavano nel negozio dove lavorava quando volevano parlar male dell’operazione commerciale di un concorrente.

— Ha bisogno di qualcosa? — disse l’uomo dalla faccia paonazza ridendo.

Il ghiaccio era rotto e lui era ansioso di fare una domanda: — Sa dirmi come posso arrivare a Overwood?

L’uomo si fermò e si voltò a guardarlo. — No — disse. — Non lo so.

— Non fa niente.

— Però… — l’uomo alzò un dito. — Posso dirle come fare per arrivare da quelle parti. Una volta là, può chiedere indicazioni più precise.

— Benissimo! — disse lui. (Ma dov’era Overwood e perché il negoziante aveva chiamato Lara “la dea”?)

— …alla stazione. Marea è là, ai piedi delle montagne.

Quando sarà lì potrà trovare qualcuno che sia in grado di dirle dove si trova Overwood.

— Bene.

L’uomo dalla faccia paonazza indicò col dito. — Guardi dall’altra parte della strada… c’è una cartografia. Forse lì può trovare una mappa.

Anche se era piccolo, il negozio aveva il soffitto molto alto. Il proprietario aveva sfruttato questa caratteristica per mettere in mostra alcune carte topografiche molto grandi. Una era la mappa della città. Come lui aveva pensato, c’erano molti incroci a cinque strade; attraversò il negozio per esaminarla meglio, con la speranza di riuscire a riconoscere il tragitto dal suo appartamento al ristorante Capini e di lì al Centro di Igiene Mentale.

Ma non riuscì a individuare la zona dove abitava e nemmeno i grandi magazzini dove lavorava; anche se il negozio non aveva finestre, era sicuro che si trovasse vicino al fiume. Nella mappa si notavano diversi corsi d’acqua tortuosi e a un certo punto due sembravano intersecarsi, ma nessuno era largo come il fiume che ricordava o altrettanto diritto.

Una commessa disse: — Cosa desidera? — Lui si voltò a guardarla. Era una ragazza piccola dall’espressione vivace e i capelli castani.

— Una mappa di Overwood.

La ragazza sorrise: — È raro che qualcuno voglia andare in quel posto.

Nel suo aspetto c’era qualcosa che non andava, pensò.

Aveva l’espressione di una commessa che mantiene un atteggiamento cortese mentre cerca disperatamente di richiamare l’attenzione del caporeparto. — Non ho detto che voglio andarci — le disse. — Vorrei solo una mappa del posto.

— Sono molto costose, ma non possiamo garantire che siano accurate.

— Andrà bene lo stesso.

La ragazza annuì. — Come vuole. Mi segua, per favore.

Gli prese un accesso di ilarità. — “Mi segua per favore”, disse la lumaca alla lepre. — Era una vecchia battuta a cui aveva dovuto obbligatoriamente ridacchiare un centinaio di volte.

Lei lo ignorò o, più probabilmente, non lo sentì. — Eccoci arrivati, signore. Slumberland, Disneyland, Cleveland e Paradiso, Inferno e Limbo… tutti e tre sulla stessa mappa. — Gli lanciò un’occhiata ironica. — Un bel risparmio.

— No — disse lui. — Overwood.

— Overwood. — La ragazza dovette alzarsi in punta di piedi per tirar fuori la mappa dallo scomparto più alto.

— È l’ultima che abbiamo. Dovremo riordinarle. Fa ventinove e novantotto più le tasse.

— Prima voglio essere sicuro che sia quella che cerco. — Aprì un lembo della mappa che era voluminosa e ripiegata in modo alquanto complicato.

— Questa è la zona di Overwood — disse la commessa indicando col dito. — La Gola di Cristallo, la Foresta d’Acciaio, eccetera.

Lui fece un cenno col capo, chino sulla mappa.

— Fa ventinove e novantotto più le tasse.

Sulla mappa non erano segnati né sentieri, né strade, né edifici. Tirò fuori il portafoglio… un biglietto da venti, uno da dieci e uno da cinque.

La commessa diede un’occhiata e scosse la testa. — Ma questi non sono soldi veri. Non qui, almeno. Da dove viene?

Lui disse: — Cosa intende dire? Ho appena comprato una bambola in un negozio qui vicino. — Poi si ricordò di averla pagata con un assegno.

La commessa si affrettò verso la cassa e schiacciò un pulsante. — Signora Peters, credo sia meglio che lei venga qui.

Lui cominciò a ripiegare la mappa. Fra un momento non ci sarebbe stato più nulla da fare.

— Aspetti un momento! — gli gridò dietro la commessa. — Ehi!

Lui era già fuori della porta e correva per la strada.

Non aveva immaginato che lei gli andasse dietro, ma la ragazza lo fece, correndo come una forsennata, le scarpe nere con i tacchi alti in mano, e la gonna sollevata fin sopra le cosce. — Fermatelo!

Una donna allungò l’ombrello cercando di farlo inciampare, lui barcollò ma continuò a correre. Un ciccione urlò: — Dai, Fulmine! — Si sentirono i clacson mentre un poliziotto spronava il suo cavallo scalpitante in mezzo al traffico.

Un vicolo. In televisione i criminali che fuggono si infilano sempre in qualche vicolo, ma quando ci fu dentro si rese conto che probabilmente quelli dovevano conoscere bene i vicoli in cui si infilavano.

Questo si andava restringendo a ogni passo, curva dopo curva, come se non dovesse più sboccare in nessuna strada.

Il frastuono degli zoccoli dietro di lui sembrava la carica di cavalleria in un film. Sentì il rumore ritmico interrompersi di colpo quando il cavallo saltò lo stesso bidone della spazzatura rovesciato che lui aveva scavalcato un attimo prima. Poi sentì l’urlo disperato dell’animale e un rumore sordo mentre gli zoccoli ferrati scivolavano sul selciato ghiacciato.

Continuò a correre, la mappa che gli sventolava in una mano e la bambola che rimbalzava sul suo petto ansante, ogni volta che riprendeva fiato. Un gatto nero sibilò arrampicato in cima a una staccionata cadente; un cinese gli sorrise benevolmente, sdraiato su un vecchio divano a fumare quella che sembrava una pipa di oppio.

Lui svoltò l’angolo e si trovò di fronte a un vicolo cieco.

— Tu vuole uscire? — domandò il cinese.

Lui girò la testa per guardarlo al di sopra della spalla.

— Sì. Devo… uscire… di qui.

Il cinese si alzò in piedi, lisciandosi un baffo spiovente. — Va bene. Tu viene.

Entrarono in una porta sbilenca che portava in uno scantinato. Quando il cinese la richiuse, la stanza piombò nel buio rischiarato solo dal minuscolo bagliore rosso del fornello della sua pipa.

— Dove ci troviamo? — domandò lui.

— Ora nessun posto — gli disse il cinese. — Con buio, chissà?

Il fumo dolciastro della pipa contrastava l’aria che sapeva di muffa; poteva quasi vederlo avvolgersi attorno a lui come un serpente bianco, un pallido drago cinese.

Mentre cercava di ripiegare la mappa si accorse di farlo nel modo sbagliato; subito dopo infilò l’involto malfatto in tasca.

— Forse paradiso. Forse inferno. Chissà?

Lui disse: — Lo saprei, se avessi un fiammifero.

Il cinese ridacchiò e il suono di quella risata somigliava al tintinnio di nove biglie d’avorio nelle bocche di nove leoni d’avorio. Sentì che gli metteva in mano una scatoletta di fiammiferi dura e squadrata. — Fiammiferi. Tu accende, poi tu sa.

Scosse la testa, ma si rese conto che il cinese non poteva vederlo. — Potrei appiccare un incendio.

— Allora inferno. Tu accende fiammifero.

— No — disse lui.

— Io accende — gli disse il cinese. Uno strofinio secco e un lampo di luce. Stavano accanto a un mucchio di materassi. Lo scantinato era ingombro di barili, bidoni, sporte, scatole e pile di libri. I travetti del soffitto erano appena a tre centimetri dalla sua testa, forse meno.

— Paradiso? Inferno? — domandò il cinese. — Ora sa.

— Paradiso.

— Ah! Tu saggio! Tu viene sopra, e beve tè. Uomo polizia guarda fuori e non trova.

Seguì il cinese su per una rampa di scalini ripidi, attraverso una botola, fino a una bottega zeppa di mercanzia. Lanterne di carta scarlatta con scritte in caratteri cinesi neri dondolavano dal soffitto e lunghi rotoli appesi a ganci sulle pareti mostravano tigri sinuose come serpenti.

— Tu vuole vende? Sheng compra. Tu vuole compra? Sheng vende — gli disse il cinese. — Tè no. Tè per niente, per amici.

Accese un altro fiammifero e il gas sbocciò violetto su un anello di ferro in una stanza minuscola dietro la tenda di perline.

— Ti sei già fatto un amico — disse lui.

— Tu vuole qualcosa, viene da Sheng. Bene! Tu vuole, Sheng dà. Se Sheng non ha, trova. Tu vuole siede?

Lui si mise a sedere in una fragile sedia di bambù che sembrava fatta per un bambino. Anche se fuori faceva freddo, sentì che stava sudando.

— Tè, spezie, fuochi artificio, medicine. Molte, molte cose, poco prezzo.

Lui annuì mentre si domandava quanti anni avesse il cinese. Era la prima volta che incontrava un cinese che non parlava correntemente americano. Se qualcuno glielo avesse chiesto (ma nessuno lo aveva mai fatto) avrebbe sicuramente risposto che c’erano centinaia di milioni di persone che non lo parlavano, e che non conoscevano altra lingua che la loro.

Ora si rendeva conto che esiste una bella differenza fra conoscere e comprendere.

Il cinese batté la pipa sul tavolo, la riempì di nuovo e l’accese sulle lingue di fuoco violetto. Dopo una o due tirate, mise un bollitore di rame tutto ammaccato sul fuoco. — Sheng dice: paradiso, inferno? Tu dice paradiso.

— Perché tu… cosa c’è?

La bambola si era mossa.

3. La parata

Con molta cautela tirò fuori la bambola dalla tasca. Prima aveva le gambe tese, ne era certo. Ora invece aveva un ginocchio lievemente piegato. Il viso era calmo e serio, avrebbe detto inespressivo, se non avesse amato quel viso così tanto. Le labbra erano leggermente incurvate.

— Ah, tu ammira dea!

Quasi inconsapevolmente, lui annuì.

— Ah, molto bene! Io vede?

Il cinese allungò la mano, e con un certo fastidio lui gli porse la bambola.

— Oh, molto bella! Molto bella! Lunghe gambe, piccoli piedi! — Il cinese ridacchiò. — Tu non piace Sheng tiene bambola. Sheng capisce.

Solo dopo averla riposta nella tasca si decise ad ammettere di aver temuto che lui non gliela restituisse.

— Presto Sheng mostra. Prima beve tè. — Il drago di fumo bianco della pipa si confuse, azzuffandosi, con il selvaggio drago di vapore del bollitore del tè. L’acqua bollente sgorgò nella teiera, seguita da una spruzzata di foglie fragranti.

— Presto — disse Sheng. — Molto presto. Piace teiera? Molto bella, poco cara. Porcellana di Nanchino, vecchia cento anni. Ho altre.

Lui annuì. — Come mai è arrivato fin qui, signor Sheng?

Il cinese sorrise. — Costruzione ferrovie. Quando giovane, pensa che lontano tutto è meglio. — Una mano sottile attorcigliò i baffi pensierosa. — Torna a casa ricco — disse il cinese con un sospiro.

— E vorrebbe ancora tornare a casa? — All’improvviso si accorse di essere rimasto incantato dalla storia di quell’ometto di mezza età dalla pelle scura. Era come se stesse osservando il suo stesso futuro in uno strano specchio orientale. — Anche lei era d’accordo con me che il suo scantinato fosse il paradiso.

— Paradiso per giovane. Così lui sogna. Lavora in ferrovia. Strappa camicia. — Il cinese si fermò pensieroso.

— Niente ago. Chiede amico, tu ha ago? Ha filo? Lui non ha…

— E allora?

— Va in città. Sabato. Compra filo. Chiede ago, negoziante non vende ago. Vende pacchetto, venti aghi. Sheng allora compra. Poi dice: tu vuole ago? Paga dieci centesimi. Così ecco Sheng. — Con un rapido gesto della mano dalle dita affusolate indicò il negozietto, poi afferrò lesto la teiera. Un liquido profumato si riversò nelle tazze. — Paradiso di Sheng.

— Capisco.

— Poi Sheng sogna altro paradiso, tanti bambini, tanti figli che prega per povero Sheng. Giovane Sheng sogna così, questo Sheng no. Legge Celeste dice: a un uomo, solo un paradiso.

Lui annuì, sorseggiando il tè bollente e domandandosi come avesse potuto distrarsi così facilmente dalla sua ricerca di Lara.

Senza alzarsi, il cinese allungò un braccio verso uno dei ripiani e prese una scatola laccata. — Ora Sheng mostra. Tu vuole tocca, va bene, tu tocca. Ma Sheng piace meglio tu non tocca.

Lui annuì, appoggiando la tazza. Il coperchio della scatola aveva delle scanalature lungo i bordi. Si ricordò vagamente di aver visto una scatola di biglie in un negozio di oggetti antichi che si apriva nello stesso modo. Dentro la scatola c’era una bambola, accuratamente vestita, non più lunga della sua mano.

— Questa Heng-O — spiegò il cinese. — Uguale tua.

Si chinò in avanti per guardarla meglio. Era senza dubbio lo stesso viso, come se un orientale avesse scolpito Lara, aggiungendo inconsciamente i tratti somatici che un artista orientale troverebbe normali e attraenti. Era vestita di pura seta; un costume che avrebbe potuto essere indossato da una minuscola imperatrice, punteggiato di uccelli ricamati e bestie strane.

— Com’è bella — disse al cinese. — Molto, molto bella.

— È così. — Il coperchio si richiuse silenziosamente. — Quando luna piena, lei è qui. Brucia joss. Fa solamente questo. Quando funerale Sheng, cuoce riso su tomba Sheng, lei vede me, sorride e dice: “Tu brucia joss per me”. Felice per sempre.

Lui annuì di nuovo e scolò il resto del tè, grato per il suo confortevole tepore. I loro sguardi s’incrociarono per un istante e lui capì che il cinese era suo fratello, nonostante le abissali differenze e che il cinese lo sapeva già fin da quando si erano incontrati nel vicolo.

— Ho abusato fin troppo della sua ospitalità, signor Sheng — disse. — Ora devo andare. — E si alzò.

— No, no! — Il cinese sollevò le mani coi palmi rivolti all’insù. — Tu non va, prima Sheng mostra merce!

— Se proprio insiste…

L’espressione impassibile del suo viso si aprì in un grande sorriso. — Tu vede tante cose. Dice amici. Loro viene e compra da Sheng. Sicuro!

Cercò di pensare ai suoi amici. Non ne aveva. — Mi dispiace, lei è il solo amico che ho, signor Sheng.

— Tu allora vive troppo solo. Tu guarda! — Era un mazzo di carte.

— Amuleto magico, porta amici! Tu impara poker, bridge, ramino. Tu va e dice. “Io vuole gioca, nessuno vuole?”. Presto, molto presto, tanti amici!

Lui scosse la testa. — Buona idea, ma io sono troppo timido.

Il cinese sospirò. — Niente amuleto per timidi. Niente licenza per vende liquori. Tu piace posta?

— Sì, molto.

— Bene! Uomo timido tanta posta. Amuleto magico! — Il cinese sollevò una radice rinsecchita e appiattita.

— E quella mi farà davvero ricevere posta?

— Sì! Radice posta — disse il cinese. (O forse “radice tosta”.) La prese fra le dita; era ruvida e sottile. Nella penombra avrebbe potuto giurare di tenere in mano una busta.

— Vorrei comprarla — disse. Doveva comunque a Sheng qualcosa per averlo salvato dalla polizia.

— Tu no compra! Niente soldi! Altra volta, tu compra. — La radice secca era legata a un filo di seta rossa. — Tu mette collo e tiene sotto camicia. Tanta posta.

Fece come gli aveva detto. Un rombo ritmico, silenzioso ma cupo, risuonò all’esterno. Avrebbe voluto chiedere cosa fosse, ma il cinese lo precedette.

— Tu guarda! — dispiegò un rotolo di carta rivelando l’immagine di un uomo di dimensioni ridotte. — Brucia su tomba. Poi ha buoni servitori in altro posto. — Il cinese fece un altro sorriso. — Tu muore presto?

— Spero di no.

— Allora no serve. Più tardi, forse. Che dice di cavallo? — Era l’immagine di un cavallo robusto e selvaggio schizzata con pochi tratti veloci.

— Non ne ho mai cavalcato uno — ammise.

— In altro posto tu impara. Ha tanto tempo.

Lo sguardo gli cadde su una spessa mazzetta di banconote da cinquanta dollari avvolta in una fascetta di carta marrone. — Non dovrebbe lasciare queste cose in giro, signor Sheng.

Il cinese ridacchiò. — Soldi finti! Tu brucia su tomba, altro posto tanto ricco! Tu vuole?

Lui si avvicinò a una finestrella impolverata. Erano banconote vere, semi nuove. Quando le estrasse dalla fascetta di carta, il volto del generale Grant gli apparve netto e chiaro.

— Tu vuole?

Sulla fascetta c’era scritto SICURPOL-TRASPORTO VALORI. Accanto a queste parole un carattere cinese in inchiostro nero e la cifra dieci centesimi.

— Sì — disse. — Mi piace molto. Ma deve lasciarmi pagare. — Tirò fuori dieci centesimi, sentendosi un ladro. Il cinese prese la moneta senza nemmeno guardarla, e gli mise la mazzetta di banconote nella tasca del soprabito, opposta a quella dove teneva la mappa.

Fuori la strada non era quella che aveva lasciato per entrare nel vicolo, era più piccola e più stretta, costeggiata da auto parcheggiate e da edifici di mattoni fuligginosi. Vide che stava passando una parata. Le majorette sfilavano impettite roteando le bacchette con le gambe nude striate di blu per il vento invernale. I soldati in giubba verde brillante si mettevano e si toglievano i fucili dalle spalle; gli uomini politici sorridevano e salutavano con la mano offrendosi l’un l’altro sigari e caramelle. Squillavano le trombe. Carri enormi avanzavano lentamente come tanti colossi multicolori, evidentemente instabili, oscillavano come narcisi mentre graziose fanciulle con abiti ornati di fiori, piume e lustrini ballavano da sole o in gruppo.

Un tamburo rullava sordo al ritmo del suo cuore.

Una piccola folla di uomini e ragazzi, e solo qualche donna, seguiva l’ultimo carro, convinti forse di far parte della parata. Gli balenò l’idea che se la polizia lo stava ancora cercando — anche se gli pareva impossibile — quel gruppetto sparso gli offriva l’occasione di sfuggire alla ricerca. Si unì alla folla, spingendosi nel mezzo fino a trovarsi a camminare proprio dietro il carro. Nessuno dai lati della strada avrebbe potuto individuarlo.

Una pattinatrice in tutù rosa piroettava quasi sul bordo della piattaforma. Quando lo vide si fermò e gli sorrise dirigendosi verso i tre scalini metallici che sporgevano dal retro del carro.

Lui pensò che lo stesse invitando a raggiungerla e gridò: — Non ho i pattini!

Lei annuì, continuando a sorridergli, e gli indicò una porta inghirlandata di rose.

Lui esitò un istante. Se avesse raggiunto con un balzo gli scalini, sarebbe rimasto visibile finché non oltrepassava la porta, ma una volta dentro il carro sarebbe stato completamente al sicuro.

La pattinatrice sorrise ancora e gli fece cenno di raggiungerla. Era bionda con gli occhi azzurri, guance rosse come due mele nel vento tagliente.

Non appena salì gli scalini, il gruppetto che era dietro di lui cominciò a fischiare, ad applaudire e acclamare.

Anche il pubblico lungo i marciapiedi acclamava, uno dei ballerini accese la miccia di un fuoco d’artificio che esplose in una cascata di scintille dorate proprio mentre la pattinatrice apriva la porta inghirlandata di rose per farlo entrare.

— Faccio in un attimo — disse. — Il tempo di sfilarmi i pattini.

Si ritrovò nel retro di un camper. C’erano due ampie cuccette a castello, sedili girevoli, un piccolo lavello e uno scrittoio con un lavandino incorporato. Al volante c’era una donna di mezza età che non si voltò nemmeno a guardarlo; ma lui incrociò il suo sguardo nello specchietto retrovisore, sguardo che lo seguì, almeno così gli sembrò, più del dovuto.

Il soffitto era fastidiosamente basso. Si mise a sedere cercando di guardarsi intorno, ma le fiancate del carro oscuravano tutti i finestrini. Sentiva ancora le acclamazioni della folla all’esterno e il rimbombo dei fuochi d’artificio.

La porta si aprì. La pattinatrice entrò senza far rumore a piedi scalzi. Gli accarezzò il viso con la punta delle dita, indugiando sullo zigomo. — Non sono una di quelle che ti puntano una pistola alla testa — disse lei. — Se dovessi cambiare idea…

Lui disse: — Mi piace questo posto.

— Bene. Anche a me. — Indossava un pullover di seta azzurro orlato di pelliccia bianca intorno al collo e sui polsi. Se lo sfilò dalla testa con un unico movimento languido e morbido, rivelando un piccolo reggiseno di pizzo color pesca. — Vuoi che ti spogli io? So che a qualcuno piace… Come’ vuoi, farò qualunque cosa tu abbia desiderato durante tutti questi anni.

Mentre si alzava ascoltò la sua voce come se stesse ascoltando parlare qualcun altro. — Ho sempre desiderato Lara.

Lei rimase un attimo in silenzio, con le mani ferme sui bottoni del suo soprabito. — Lara?

— Io l’amo — disse lui; e poi: — Ma tu non sei lei, e io proprio non immaginavo che sarebbe andata in questo modo. — Fece un passo indietro.

Lei rimase a bocca aperta. Per un istante il suo volto divenne una maschera di incredulità e disappunto. L’odio la consumò come il fuoco disintegra una foresta; i suoi occhi azzurri fiammeggiavano e lampeggiavano.

— È meglio che me ne vada — disse lui.

Uno dei cassetti sotto al lavandino tintinnò; lei gli si avventò contro con un coltello da cucina. Lui fece uno scarto di lato, e il coltello affondò nella sottile parete divisoria. Le afferrò un braccio con una mano e con l’altra la spinse da parte.

La porta si aprì facilmente e per fortuna verso l’esterno. Corse fuori senza ricordarsi della pista di ghiaccio dove lei pattinava.

Le gambe gli mancarono e cadde dal carro. Per un assurdo istante pensò di stare precipitando dal mondo, e di volare nello spazio. L’asfalto nero lo colpì come un pugno.

4. I Riuniti

Stava guardando da una grande altezza la sconfinata distesa di neve. Era una pianura quasi piatta, ma la luce obliqua del sole creava ugualmente lunghe ombre che si stendevano verso est, più nette e visibili delle lievi alture che le originavano.

Da nord la notte sopravvenne rapida, divorando le ombre, e trasformò la pianura in un’oscurità informe illuminata solo dal ricordo della luce.

— Sta chiudendo gli occhi, dottor Pillo-Lin — disse una voce di donna. — Sembra anche a me. — Era una voce androgina a cui fece seguito un suono di passi, né pesanti né leggeri. E fu di nuovo giorno, in un lampo.

— È sveglio?

Lui disse: — Credo di sì.

Una donna di mezza età con una cuffia bianca si chinò su di lui; la distesa di neve si dissolse e si trasformò in un soffitto.

— Una bella botta!

— Che è successo? — Sentiva una pulsazione sorda alla base della nuca.

— È caduto per la strada.

— E ho fatto un sogno terribile — le disse. — Ho sognato che Lara era solo una bamboletta e io l’ho mostrata a un vecchio cinese. Può darmi qualcosa contro il mal di testa?

La donna annuì e tolse il tappo da una bottiglia marrone. — Qui. Annusi questa.

Aveva il profumo della primavera, quando la nuova vegetazione contrasta l’odore della neve che si scioglie nell’aria lavata dalla pioggia. La pulsazione diminuì e quasi scomparve.

— Che cos’era? — le domandò.

— Aspenina. Forse per un po’ di tempo sentirà il naso chiuso. — Si rialzò. — Si sente bene ora?

Lui annuì, risvegliando il fantasma della pulsazione. — Quando potrò uscire di qui?

— Forse domani. Il dottor Pillo-Lin la visiterà di nuovo e può darsi che la dimetta, oppure che decida di tenerla qui ancora per qualche giorno. Se ha bisogno di me, schiacci questo pulsante.

Prima che potesse farle un’altra domanda la donna se n’era andata. Si sedette sul letto con le ossa doloranti.

La stanza era piccola; c’era solo lo spazio per lo stretto lettino da ospedale, una minuscola sedia laccata di bianco e un tavolino da notte bianco. Anche le pareti erano bianche e bianche le piastrelle che rivestivano il pavimento.

Con movimenti cauti mise giù i piedi dal letto.

Probabilmente nell’armadietto c’erano i suoi vestiti e la bambola… Lara-Tina. Scoppiò a ridere.

Un sogno! Era stato un sogno, niente altro: il Centro di Igiene Mentale, l’ospedale delle bambole, lo strano negozio dall’alto soffitto dove vendevano mappe della terra degli elfi, la buffa parata… solo un sogno.

Ma Lara?

Anche Lara era stato solo un sogno? Se era così, non voleva svegliarsi.

No, Lara era reale, una donna reale con la quale aveva parlato e passeggiato lungo il fiume, mangiato, bevuto e dormito, ieri. O forse l’altroieri. Forse aveva perso un giorno, qui in ospedale. Probabilmente ora Lara era preoccupata, nel vecchio appartamento pieno di spifferi.

Doveva chiamarla, doveva rassicurarla.

Eppure, era sicuramente estate quando avevano passeggiato lungo il fiume. Ricordava il profumo dei fiori, delle foglie verdi, ne era certo. Ma adesso non era inverno?

Con passo malfermo si avvicinò alla finestra. Il prato minuscolo davanti all’ospedale era pallido di neve; sagome scure, infagottate in indumenti di lana e avvolte in sciarpe fino agli occhi, camminavano a fatica sul sentiero ghiacciato. La strada era grigia di fanghiglia; anche gli sferraglianti tram rossi erano incappucciati di neve.

L’armadietto bianco era chiuso e non c’era la chiave. Si mise a scuotere la serratura fino a che un uomo di colore in uniforme bianca si affacciò sulla porta a guardarlo.

Lui disse: — Voglio i miei vestiti.

— Li avrà quando potrà uscire di qui. Fino ad allora rimarranno chiusi lì dentro. — L’uomo si avvicinò con fare minaccioso. — Ora si rimetta a letto o a cena non avrà il budino di cioccolato. Vuole che le faccia un’iniezione? Ho qui con me un ago affilato come un’unghia. — Senza nemmeno toccarlo, l’uomo di colore lo costrinse di nuovo verso il letto.

— A chi devo rivolgermi per farlo aprire?

— Al suo dottore. — L’uomo di colore fece un passo indietro per studiare la cartella clinica appesa ai piedi del letto. — Il dottor Pillo-Lin, farà il suo giro di visite domani. Fino a quel momento, lei se ne starà a letto, a meno che l’infermiera non le dirà che può alzarsi.

— Va bene.

— È ricoverato per un cambiamento di sesso, eh?

Lui saltò in piedi.

— Ehi! Che le ho detto?! Mi sono sbagliato. Si tratta solo di un trauma, ematomi vari e così via. Adesso se ne stia buono a letto, se vuole il suo budino.

Quando l’uomo di colore fu uscito, esaminò la possibilità di andarsene di lì. Sembrava che non ci fosse nulla da fare. L’armadietto era chiuso a chiave, e non aveva niente per tentare di aprirlo. La chiave era sicuramente in qualche cassetto della scrivania delle infermiere. Però poteva telefonare a Lara per dirle che era vivo e non era ferito gravemente.

Sul tavolino da notte non c’era telefono. Cercò il pulsante per chiamare l’infermiera e scoprì il comando a distanza di un piccolo televisore installato in alto, in un angolo della stanza. Schiacciò il bottone, ma non successe nulla.

Il pulsante per chiamare l’infermiera dondolava appeso a un cordino bianco sulla testata del letto. Lo schiacciò e sentì un suono indistinto, come un tintinnio di campane da una riva distante, avvolta nella nebbia. Disse a se stesso che aveva fatto tutto quello che era possibile al momento e si sdraiò di nuovo con l’orecchio teso allo scampanio, le mani intrecciate dietro la testa.

Sullo schermo del televisore era apparso un chiarore grigiastro, tremolante, che andava e veniva, quasi indugiando, prima di illuminarsi definitivamente. Apparve una tempesta di neve attraversata da righe diagonali dietro le quali fluttuò il volto di Lara, come l’immagine di una fotografia sovraesposta, poi scomparve.

“…e nella capitale la presidente — come aveva minacciato di fare — ha posto il veto contro la legge…”

Cercò il pulsante per regolare il volume.

“…sulla famiglia in base alla quale sarebbe stato possibile sterilizzare, contro la loro volontà, donne già madri di venticinque o più figli. Un portavoce della…”

Era sicuro di aver visto Lara, forse su un altro canale che trasmetteva sulla stessa frequenza. Questo era il primo canale. Provò sul secondo e sul terzo. Niente. Quando ritornò sul primo, due squadre miste stavano giocando una complicata partita che prevedeva il rapimento dei giocatori della squadra avversaria.

Continuò senza sosta a passare da un canale all’altro, ma tutto quello che riuscì a vedere fu un insegnante che teneva una conferenza e gli innamorati di una soap opera nel pieno del solito dialogo reso vivace dal moderno ribaltamento dei ruoli.

“Non capisci, Beverly? Io voglio che il sentimento che proviamo l’uno per l’altra duri in eterno. Voglio che il nostro amore percorra l’infinito sentiero del tempo e dimostri a tutta la dannata razza umana, chiusa nel suo egoismo, che ci sono valori più alti dell’individuo.”

“No, Robin. Tu così vuoi che il nostro amore finisca per sempre.”

All’improvviso gli fu chiaro che si trovava in un’altra città. Nella sua ci sarebbero stati otto canali. Cambiò canale e tornò alla partita dal gioco complicato.

L’infermiera entrò affannata nella stanza portando un grande vaso colmo di rose. — Che fortuna! Lei mi ha chiamato proprio quando stavo per portarle queste. Ho preso due piccioni con una fava. Non sono belle?

Lui annuì. Rose rosse, gialle, bianche e rosa, rose screziate di mille colori, cinabro macchiato di bronzo, oro antico con un tocco fiammeggiante, che sembravano sul punto di saltar fuori dal vaso e spargersi per tutta la stanza.

— Nel Reparto Arredamento c’è un tavolo da gioco che sul ripiano ha un’immagine simile a questa — disse lui. — Non ho mai visto un mazzo di rose così in vita mia! In genere sono tutte dello stesso colore.

L’infermiera aveva un’espressione maliziosa. — A quanto pare, la sua amichetta non ama le cose tradizionali. Ha voluto qualcosa d’insolito. Naturalmente con tutti i soldi che ha… — Appoggiò il vaso sul tavolinetto bianco a pochi centimetri dalla sua testa. Da una delle anse del vaso pendeva un minuscolo biglietto appeso a un cordoncino dorato.

Lui disse: — Mi stavo chiedendo se poteva portarmi un telefono. Devo chiamare una persona.

— Ahh! — Appoggiandosi le mani aperte sui seni poderosi, l’infermiera aspirò a pieni polmoni. — Non hanno un profumo meraviglioso? Ma certo che deve chiamarla. Le porto subito un telefono. Sa, non avremmo mai immaginato che lei conoscesse una persona simile.

— Lara? — Chi poteva avergli mandato dei fiori se non Lara?

L’infermiera scosse la testa. — No, no! La dea. — Vedendo la sua espressione attonita, aggiunse: — La dea dello schermo argentato… non è così che la chiamano? Le porto subito un telefono.

Appena l’infermiera fu uscita, si voltò su di un fianco per esaminare il biglietto. Un monogramma del tutto incomprensibile contornato da un bordo dorato. Aprì il biglietto e vide una foto di Lara e il nome “Marcella” stampato in caratteri dorati.

Lara era una stella del cinema, una stella di nome Marcella. L’infermiera aveva visto la foto e l’aveva riconosciuta.

Eppure lui noleggiava film due o tre volte alla settimana e altri ne guardava nel programma i “Top del Box Office”; se Lara fosse stata un’attrice così famosa l’avrebbe riconosciuta subito. Non aveva riconosciuto nemmeno la foto sul biglietto, si era accorto solo che era Lara… anche la pettinatura era la stessa.

I muscoli gli facevano male. Si rimise sdraiato e vide che il volto di Lara era apparso di nuovo sullo schermo; cercò il telecomando, ma appena mosse la mano Lara sbiadì e scomparve. Schiacciò più volte il pulsante ON, ma il volto di Lara non riapparve. Qualsiasi bottone schiacciasse, il televisore non dava segno di vita, alla fine prese la seggiolina laccata, ci salì sopra e si mise a girare le manopole del televisore. Ma non riuscì a far illuminare di nuovo lo schermo. Gli venne in mente l’espressione che usava quando lavorava al Reparto Audiovisivi: il quadro era scomparso.

Quando l’infermiera rientrò nella stanza, lui era di nuovo a letto. — Mi spiace molto disturbarla ancora — disse. — Ma sembra che il mio televisore sia guasto.

Lei provò il telecomando, ma senza risultato. — Non si preoccupi, avverto il servizio riparazioni. Gliene porteranno uno nuovo domani.

Sentì un acuto senso di gioia quando lei si chinò a inserire la presa del telefono. — Ancora una cosa — le disse. — Mi vuole leggere per favore la diagnosi sulla cartella appesa in fondo al letto?

L’infermiera sollevò la cartella dal gancio come aveva fatto l’inserviente di colore. — Trauma, ematomi vari, alcolismo.

— Alcolismo?

— Non sono stata io a fare la diagnosi — gli disse brusca la donna. — È stato il suo dottore.

— Ma io non sono un alcolizzato!

— Allora non dovrà faticare per convincere il dottor Pillo-Lin a cambiare la diagnosi. Lei beve?

— Qualche volta. Ma non è un problema.

— Forse il dottore lo considera un problema più di quanto lo faccia lei. In particolare se il paziente cade per la strada e si procura un trauma cranico.

— C’è scritto davvero alcolismo?

— Gliel’ho detto. Vuole vedere?

— Ma non parla di cambiamento di sesso? — Gli era rimasta una sensazione di paura.

L’infermiera ridacchiò. — Gli hanno detto questo? È così che a volte chiamiamo l’alcolismo perché fa diminuire il testosterone negli uomini. La barba smette di crescere e quasi sempre diventano calvi.

Quando la donna se ne fu andata, allungò la mano verso il telefono, ma vide che tremava così forte che la tirò indietro. Nella stanza non c’erano specchi. Si alzò comunque dal letto convinto che dovesse essercene uno da qualche parte e rimase sorpreso nel vedere la sua faccia riflessa sul vetro scuro della finestra.

Il breve giorno invernale era finito. Fuori, le macchine, alte e dalla sagoma sgraziata come quella di una jeep, affollavano la strada con i fari abbaglianti accesi. I pedoni non avevano una loro individualità, ma apparivano come un fluido nero, spesso e lento come petrolio, che fluiva e turbinava ai bordi del traffico.

Gli venne l’idea che forse quel siero vischioso era davvero la realtà, che i volti e le figure a cui era abituato fossero in fondo falsi, come lo erano le microfotografie stampate sui giornali nei giorni in cui non c’erano molte notizie da pubblicare.

Immagini che trasformavano la pelle umana in un deserto roccioso e una formica o una mosca in un mostro peloso. Se era così che Dio vedeva gli uomini e le donne, chi poteva condannarlo se li dannava o li abbandonava al loro destino?

— So a cosa stai pensando.

Si voltò di scatto, imbarazzato al suono della voce. Un uomo piccolo, dal portamento eretto e la testa liscia come una biglia, lo osservava dal vano della porta. Con un certo sollievo notò che l’ometto indossava un pigiama come il suo.

— Stavo pensando alla posta — mentì. — Oggi qualcuno mi ha dato un amuleto che avrebbe dovuto farmi arrivare la posta, e io credo di averla già ricevuta.

L’ometto entrò nella stanza. — Vediamo.

— Mi riferivo alle rose… e a qualcosa che ho visto alla Tv, ma non posso fartelo vedere.

— Certo, un amuleto. Vediamo.

Lui si strinse nelle spalle. — Non posso mostrarti nemmeno quello. È chiuso nell’armadietto, credo.

— Se c’era Joe, apriva quella scatola di latta come la dinamite. — L’ometto scosse la serratura.

— Joe è l’inserviente?

L’ometto sorrise e scosse la testa luccicante. — Joe è il mio pugile. Io organizzo incontri di boxe. Joe è forte come due tori messi insieme. Spaccherebbe in due questa scatola di latta, se glielo chiedessi.

— Non credo che quelli della direzione dell’ospedale lo gradirebbero. Comunque, credo che il mio amuleto stia lì, ma non lo so per certo, perché non mi hanno dato nessun inventario o roba del genere.

— Joe è campione mondiale dei pesi massimi. Prima avevo altri due pugili, Mel e Larry. Ma quando Joe ha vinto il campionato mondiale, li ho lasciati andare. Mi sono interessato che li prendesse un altro agente, un buon agente. Loro hanno capito. Sanno che gli do una possibilità di fare un incontro, tutte le volte che posso. Questo è il mio biglietto da visita. — L’ometto mise la mano dove ci sarebbe dovuto essere il taschino della giacca, se avesse indossato un abito invece del pigiama. La ritirò vuota e sorrise di nuovo, questa volta con espressione imbarazzata.

Lui si sedette sul bordo del letto e indicò la seggiolina. — Perché non ti siedi? Io ho avuto un incidente e sono ancora un po’ debole. Possiamo sedere e parlare un po’ insieme.

— Grazie — disse l’ometto. — Mi piace stare seduto a chiacchierare… mi fa sentire come se stessi organizzando un incontro per Joe, capisci quello che voglio dire? Allora stammi a sentire! Ci devono dare un centomila, in anticipo, se no non facciamo l’incontro.

Lui disse: — Li avrai, non preoccuparti.

L’ometto annuì. — Così va bene, amico. Ho letto il tuo nome sulla cartella appesa al letto. Io mi chiamo Eddie Walsh, presidente della Walsh Promotions. — La mano di Walsh era piccola, fredda e dura.

— Piacere di conoscerti. Dove ci troviamo, Eddie? Come si chiama questo posto?

— Riuniti — gli disse Walsh. — Credevo che tu stessi pensando di uscire di qui. — Poi, accorgendosi del suo sguardo interrogativo, aggiunse: — Ospedali Psichiatrici Riuniti. Questo è il reparto non agitati.

5. North

Stava sdraiato supino con le mani ancora intrecciate dietro la nuca, cercando di addormentarsi. La corsia o l’ala o cosa diavolo fosse, stava già dormendo. Di tanto in tanto sentiva i passi felpati delle infermiere con le soprascarpe di gomma; e ancor più raramente il passo strascicato delle leggere pantofole di qualche paziente. Stava pensando al mondo.

Non al mondo in cui ora si trovava, ma al mondo reale, il mondo normale.

Là, i cino-americani parlavano inglese correntemente e diventavano fisici nucleari; le ragazze sui carri non invitavano gli uomini a montare. Nel mondo reale, pensava, gli alcolizzati non stanno in camere singole.

Probabilmente.

E, fatto ancor più importante, nel mondo reale i tram erano stati eliminati molto, moltissimo tempo fa, e le rotaie erano state sepolte da strati e strati di asfalto.

È vero, eliminarli era stata un’operazione insensata.

Erano economici, consumavano poco e non inquinavano. Eppure erano stati eliminati, mentre un centinaio di altri congegni nocivi erano invece rimasti intoccati… era questo il modo per riconoscere che si trattava del mondo reale.

In quel momento accanto all’ospedale passò una vettura tranviaria. Lui avvertì il buffo rintocco metallico della campanella, e pensò che se si fosse affacciato alla finestra avrebbe visto il fanale anteriore risplendere dorato tra i fiocchi di neve.

La stanza non aveva porte e dal corridoio esterno debolmente illuminato entrava una luce tenue. Quando anche quella luce si oscurò si alzò a sedere sul letto.

Sul vano della porta c’era un uomo in piedi. Per un istante pensò che fosse Walsh. Ma Walsh era completamente calvo; la sagoma di quell’uomo invece, sebbene non molto più alta, rivelava una testa rigogliosa di capelli arruffati.

— Sei sveglio? — sussurrò l’uomo.

— Sì — rispose lui.

— Vorrei dirti che… qui usiamo una specie di telegrafo senza fili. Passaparola. Capisci cosa intendo?

— Credo di sì.

— Così, qualunque cosa uno viene a sapere, la sappiamo tutti. È così che riusciamo a sopravvivere in questo posto. Quella Gloria Brooks, stanotte lo ha fatto con Bailey. Billy North è andato nella camera di Al per scroccargli una sigaretta e li ha beccati mentre lo stavano facendo. Passaparola.

Lui annuì. — Okay, lo dirò a qualcuno. A chi devo dirlo?

— Ti ho visto parlare con Eddie.

— Va bene, lo dirò a lui. Dov’è?

— In fondo al corridoio, la seconda o la terza porta dopo la curva.

— Va bene — disse di nuovo. Prima che riuscisse ad alzarsi, l’uomo era già andato via.

Non riusciva ancora ad addormentarsi, si disse, e stava diventando sempre più depresso. Aveva allungato la mano verso il telefono almeno una dozzina di volte; e per una dozzina di volte l’aveva ritratta, dicendo a se stesso che avrebbe svegliato Lara, che si sarebbe arrabbiata con lui; ma lui sapeva che la verità era un’altra, temeva di non trovarla, che nell’appartamento non ci fosse nessuno, assolutamente nessuno. Che non ci fosse mai stato nessuno in quell’appartamento eccetto lui stesso.

La sua cartella diceva alcolismo. Si ricordava di aver bevuto molto qualche volta, e aveva bevuto troppo la notte prima, con Lara. Una volta sua madre gli aveva detto che suo nonno beveva molto e che poco prima di morire aveva visto un bimbetto dai capelli d’oro… un bimbetto dai capelli d’oro che nessun altro aveva mai visto. A lui era successa la stessa cosa con Lara? Cercò di ricordarsi il nome del bimbetto dai capelli d’oro. Chester? Mortimer? Sua madre gli aveva detto che suo nonno aveva ripetuto spesso quel nome nei mesi precedenti la sua morte, ma poi era sparito, sparito per sempre; nessun altro aveva più visto il bimbetto dopo la morte di suo nonno.

Ma Lara l’aveva mai vista qualcuno? L’avrebbe mai potuta vedere qualcuno se lui fosse morto quella notte? Non aveva intenzione di morire quella notte, anzi, sentiva che quella notte non avrebbe mai avuto fine, che le vetture tranviarie rosse avrebbero continuato a procedere nell’oscurità e nella neve in eterno.

Il corridoio era illuminato da deboli luci verdastre.

Chartreuse, pensò, chiedendosi se non fosse davvero un alcolizzato; se definire il nome di un colore con quello di un liquore non fosse davvero indice del suo alcolismo, un vizio che teneva nascosto perfino a se stesso. Una volta quelli del negozio non gli avevano fatto frequentare un corso? Era forse un programma di recupero per alcolizzati?

— In fondo al corridoio, la seconda o la terza porta dopo la curva.

Era la seconda, o la terza? Decise di provare prima la seconda, e scoprì che non c’era la porta, che tutte le camere erano senza porta come la sua. Il numero di ottone sulla parete diceva che la seconda porta era la 86E. Nella scanalatura di ottone posta sotto il numero avrebbe dovuto esserci un cartoncino con il nome dell’occupante. Invece ne era priva, anche se lui avvertiva il debole sospiro del paziente che respirava all’interno.

Gli venne in mente che l’uomo nella stanza poteva essere un maniaco omicida. Dopotutto quello restava sempre una specie di ospedale psichiatrico. Walsh aveva detto che quella era l’ala più tranquilla, e questo era rassicurante.

Non aveva valutato quanto potesse risultare buia la stanza venendo dal corridoio illuminato. La finestra si apriva su uno scenario diverso, più buio della strada trafficata che si vedeva dalla finestra della sua stanza.

Pensò che si trattasse di un parco… un parco affollato di alberi che arrivavano fino alle finestre di quel piano, qualunque piano fosse. Il respiro del paziente era regolare come il lento rintocco di un orologio a pendolo.

— Walsh? — sussurrò. — Eddie?

L’uomo si rigirò nel sonno. — Sì, mamma?

Non era un inizio molto incoraggiante.

— Eddie, sei tu?

Come a un colpo di frusta, l’uomo si era svegliato ed era saltato a sedere sul letto. — Chi è là?

Gli disse il suo nome e, stupidamente, cercò di toccare la testa dell’altro.

Immediatamente si sentì afferrare il polso da una presa d’acciaio. — Cosa fai qui?

— Non lo so! — disse impaurito.

— Sì che lo sai!

— Sono caduto. Sono salito su un carro con una pattinatrice, e quando sono sceso sono scivolato sul ghiaccio.

La presa si allentò appena. — Non hai fatto l’amore con lei. — Era un’affermazione, non una domanda.

— No.

— È questa la ragione, allora. È un trucco che usano per crearti uno stato di tensione, capisci? Se cominci a farlo e poi ti metti a pensare “mio Dio, morirò”, ti tiri indietro. Allora loro dicono che sei pazzo. Anche a me è successa la stessa cosa.

Lui disse: — La mia cartella dice che sono alcolizzato.

— Sei fortunato.

— Per favore, puoi lasciarmi andare la mano?

— No. E se non tieni lontana l’altra, ti afferro anche quella.

Tentò disperatamente di trovare un modo per proseguire la conversazione; gli sembrava pericoloso lasciarla cadere. — Non credo che sia una fortuna essere alcolizzati.

— La diagnosi avrebbe potuto essere schizofrenia maniacale acuta. L’avresti preferita? Vuoi sapere cosa ti provoca quella roba che ti fanno per la schizofrenia acuta? Eh?

— No — disse lui. — No, grazie.

— Ti fa diventare pazzo. Vuoi leggere cosa dice la mia cartella?

— Sì, certo, ma devo accendere la luce.

— Te lo dirò io. Schizofrenia maniacale acuta. Chiedimi come si chiama il presidente.

— Va bene — disse. La stanza gli sembrava più fredda della sua; tremava nel leggero pigiama dell’ospedale.

Sentiva odore di fiori di mandorlo.

— Dai, chiedimelo! “Chi è il presidente degli Stati Uniti”?

Lui ripeté obbediente: — Chi è il presidente degli Stati Uniti?

— Richard Milhous Nixon!

— Ora che ne dici di lasciarmi il polso?

— Tu ammetti, concedi, che Richard Milhous Nixon è il nostro presidente?

Esitò, nel timore di una trappola. — Be’, al telegiornale continuano a chiamarlo presidente Nixon.

Seguì un lungo silenzio, un’immobilità che pulsava come il sangue nelle sue orecchie.

— Non è più il presidente? — sussurrò l’uomo. — Ma lo è stato?

— Certamente. Ha dato le dimissioni.

— Per il bene della nazione, vero? È proprio il tipo da fare una cosa del genere… ritirarsi se lo deve fare, per il bene della nazione. Era un patriota. Un vero patriota.

Lui disse diplomatico: — Immagino che lo sia ancora. È ancora vivo, credo.

Seguì un altro lungo silenzio durante il quale l’uomo digerì la notizia. Lui sentì qualcuno camminare lì accanto, trascinando i piedi lungo il corridoio, e superare la soglia senza porta; pensò se non era il caso di chiamare aiuto, ma poi non si voltò nemmeno a guardare.

L’uomo di colpo disse: — Perché non gliel’hai dato a quella pattinatrice?

— Non lo so.

— Dimmelo! — La stretta del polso si fece di nuovo forte.

— È solo che non mi sembrava giusto. Ho una… — stava cercando la parola giusta. — Qualcuno a cui tengo molto.

— Una ragazza, un ragazzo?

— La mia ragazza; non sono gay. Lara. La sto cercando. — Non riuscì a trattenersi e aggiunse: — Se n’è andata questa mattina, quando mi sono svegliato non c’era più.

L’uomo borbottò. — E tu sei veramente informato sul presidente? Dimmi un po’… cosa mi dici di ieri mattina? Lei era lì quando ti sei svegliato?

— Certamente — disse. — Abbiamo fatto colazione insieme, poi io sono andato al negozio e Lara è uscita in cerca di lavoro.

— Te la facevi.

Quell’espressione non si usava più, e questo gli fece capire che quell’uomo doveva essere più vecchio di quanto aveva immaginato, doveva avere almeno dieci anni più di lui. Disse lentamente: — Vivevamo insieme solo da pochi giorni. Senza un lavoro Lara non poteva permettersi di pagare un affitto. — Ricordò il messaggio, che gli era sfuggito di mente quando l’uomo gli aveva afferrato il polso e l’aveva imbottito con tutte quelle chiacchiere su Nixon, e disse: — Dovevo riferire a qualcuno che Gloria Brooks stanotte lo ha fatto con Al Bailey. Billy North era andato da Al per farsi dare una sigaretta, e li ha beccati mentre lo stavano facendo.

L’uomo lo schiaffeggiò sulla guancia destra con il palmo della mano, tanto forte da fargli girare la testa, e gli dette il colpo successivo col dorso della mano, colpendolo alle labbra.

— Sono io William T. North — gli disse l’uomo a bassa voce. — Rivolgiti a me come signor William T. North o come signor North. Inteso?

Lui lo colpì al viso con la mano che aveva libera, e nonostante non potesse sferrare il colpo con molta forza, sentì il naso di North cedere sotto le sue nocche in modo soddisfacente.

— Be’, è giusto. — La voce di North era calma come se stessero disquisendo del tempo. — Ti spezzerei il collo, ma mi metterebbero nella corsia dei violenti. Ci sono già stato, e non è piacevole. E poi ho qualcosa che bolle in pentola. Vuoi andartene di qui?

— Non senza i miei vestiti.

— Giusto. Assolutamente giusto. Con questi stracci d’ospedale ci individuerebbero subito, appena in tempo per salvarci dal morire assiderati. Ma se potessi prendere i tuoi vestiti?

— Maledizione, sì.

— Sai guidare?

— Certo — disse. Era tanto tempo che non guidava, non si ricordava neppure quanto.

— Ora ti lascerò il polso. Se non vuoi andar via di qui, non devi fare altro che uscire da quella porta. Ma se vuoi seguirmi… be’, hai del fegato e vieni da C-Uno. E questo per me è molto importante.

Indugiò un momento, come se la mano che gli teneva stretto il polso stesse discutendo con il suo proprietario.

Poi lo lasciò andare allentando la presa completamente, e si ritrasse.

— Grazie — disse lui.

— Punto primo: devi imparare ad aprire questi armadietti.

Puoi allenarti con il mio, usando la mia attrezzatura; ma poi devi aprire da solo anche il tuo, chiaro? Io non ti aiuterò a farlo.

— Hai detto che vengo da C-Uno — disse lui. Cosa intendi dire con questo?

— C-Uno è il posto dove stiamo cercando di ritornare… dove c’è il presidente Nixon, e tutto il resto. E ora ascolta. Questo è l’attrezzo che mi sono fatto.

Gli mise in mano un piccolo pezzo di metallo. Era lievemente ricurvo a un’estremità, e più largo dall’altra.

— Questi armadietti hanno delle serrature molto semplici. Hai mai visto le chiavi?

— No — rispose lui scuotendo la testa.

— Sono pezzi di acciaio piatti con un lato seghettato. Le tacche su quel lato vanno a incastrarsi con le seghettature della serratura, chiaro? Con questo attrezzo devi superare tutte le seghettature. Quello che conta è la punta dell’attrezzo. Non devi fare altro che inserire la punta dove andrebbe la punta della chiave, e girarla. Prova a fare così.

Era molto facile. Gli sembrò di essere diventato lui stesso il filo metallico ricurvo, d’incontrare le seghettature che opponevano resistenza, e poi, in fondo alla serratura, qualcosa come una scanalatura si arrese alla sua pressione.

— È fatto col filo di rame di una presa elettrica a muro — gli disse North. — Trovane una dove non ci sia inserito niente. Sul muro c’è una piastra sostenuta da una piccola vite; puoi svitarla con qualsiasi pezzetto di metallo sottile. Tira via la piastra. La presa è trattenuta da due lunghe viti. Estraile e togli la presa. Non toccare niente di metallico mentre fai queste cose, e lavora solo con la mano destra. Tieni la sinistra nella tasca del pigiama, così te ne ricordi e non la usi… in questo modo la scossa non ti attraverserà il cuore.

Annuì, convinto di sapere cosa sarebbe successo se non avesse seguito le indicazioni.

— Nella presa ci sono due fili… uno rosso e uno nero.

— Quello rosso è positivo: non toccarlo. Quello nero è negativo. È isolato, e devi toccarlo solo dove è isolato, quindi nella parte nera; dentro invece è di rame. Tiralo fuori più che puoi e piegalo avanti e indietro finché non si spezza. Quindi piega nello stesso modo avanti e indietro l’estremità vicina alla presa. Quando hai estratto il filo, rimetti la presa com’era e sistema di nuovo la piastra. Poi pulisci il pavimento… ci saranno dei pezzetti di intonaco. Vieni nella sala di ricreazione dopo pranzo e ti dirò il resto.

— Va bene — disse lui.

Quando tornò nella sua stanza era esausto e aveva sonno.

La guancia colpita dallo schiaffo di North gli faceva ancora male. La toccò con la punta delle dita e si accorse che aveva un taglio sul labbro inferiore. Un sottile filo di sangue gli era colato sul mento senza che se ne accorgesse. Cercò tastoni l’interruttore della luce per controllarsi allo specchio, ma non c’era nessun interruttore.

Pensò di togliere la presa dal muro, ma non aveva nessun pezzetto di metallo per togliere la piastra, e in ogni caso non sarebbe stato in grado di distinguere il filo rosso da quello nero.

Alla fine si decise e prese in mano il telefono.

Lentamente, contando i fori dell’antiquato disco combinatorio, compose il numero del suo appartamento.

Alla cornetta si sentì un ronzio e un clic. Poi un cinguettio di vocine pigolanti, le voci di bambini giapponesi o il ritornello di un carillon. Finalmente una voce profonda di uomo disse: — Herr K, fero?

— Sto cercando Lara — disse il numero del suo appartamento. — Credo di aver sbagliato numero.

L’uomo annunciò: — Qvesto Capo Dipartimento Klamm, Herr K — e riappese il ricevitore.

6. Il pugile

Si risvegliò domandandosi dove si trovava. Per un momento il letto gli sembrò il suo e la stanza il suo appartamento.

Cercando a tentoni il regolatore della coperta elettrica, toccò un telefono.

Non ricordò tutto di colpo. I frammenti gli tornarono alla mente un po’ alla volta, come ospiti a un ballo mascherato o ballerini travestiti da sogni. Il fatto di riuscire a ricordare ogni particolare dei sogni e niente del mondo reale lo mise in agitazione. Si mise a sedere sul letto e vide il corridoio semibuio.

Confusamente si domandò che ora fosse. In fondo al corridoio poteva vedere il gabbiotto delle infermiere illuminato. Scoprì che sotto il letto c’era un paio di pantofole.

— Non riesce a dormire? — gli domandò l’infermiera di turno. Il tono della sua voce non era né amichevole né ostile.

— Volevo solo sapere che ore sono.

— Gli altri accendono il televisore — disse l’infermiera lentamente. Così scoprono che ore sono guardando il programma. Prima o poi in Tv dicono sempre che ore sono.

— Il mio televisore non funziona.

L’infermiera restò un momento in silenzio; poi, lentamente, gettò un’occhiata sulla scrivania. Sul ripiano lui vide la parte posteriore di un orologio d’ottone. — Sono le undici e trentacinque — disse lei.

— Avrei detto che fosse più tardi.

— Sono le undici e trentacinque — ripeté lei. — In questo periodo dell’anno fa buio presto e vi mandiamo presto a letto.

Mentre tornava alla sua stanza, pensò che probabilmente North si era di nuovo addormentato. North aveva messo l’attrezzo sul tavolino accanto al letto.

Voltò l’angolo del corridoio il più rapidamente e il più silenziosamente possibile. Un omone biondo con un soprabito scuro camminava a grandi passi nella sua direzione. Lui entrò nella stanza di North fingendo che fosse la sua.

North era solo un mucchio indistinto di coperte e un respiro appena percettibile. In punta di piedi si avvicinò al tavolino e fece scorrere le dita sul ripiano. L’attrezzo non c’era più.

Scoprì un cassettino poco profondo. Lo aprì con cautela.

Sotto le sue dita sentì una miriade di oggetti alla rinfusa: un libretto che sembrava un’agenda d’indirizzi, una penna, dei fermagli, un dado esagonale.

“Non c’è nessun altro posto dove guardare”, pensò. Invece c’era: il davanzale della finestra. Mentre si girava per esaminarlo batté leggermente col fianco contro il cassetto aperto. Si sentì un debole tintinnio metallico e North emise un gemito come se stesse facendo un sogno penoso.

Lui s’inginocchiò, spazzando le piastrelle con la punta delle dita. Il piccolo attrezzo stava tra il comodino e il letto di North.

Quando uscì sul corridoio, notò che nella stanza accanto a quella di North la luce era accesa. Incuriosito, si fermò a guardare dentro. L’omone biondo che aveva incontrato nel corridoio stava seduto in una delle seggioline dell’ospedale, con un berretto di stoffa in mano. Walsh, seduto sul letto, aveva un’espressione allegra. — Entra, entra! — gli disse Walsh. — Voglio farti conoscere Joe. Lui entrò nella stanza esitante.

— Stanotte Joe ha avuto un incontro. L’hai visto in Tv?

È stato bellissimo, proprio bellissimo! K.O. al terzo round.

— Il mio apparecchio è guasto.

— Certo. È vero. Me lo hai già detto. Be’, credi a me. Io l’ho visto. L’ho visto tutto dal principio alla fine. Non ne ho perso nemmeno un secondo. Tifavo per lui come un matto. — Walsh scoppiò a ridere. — Non c’è da meravigliarsi se mi tengono qui.

— È un peccato che me lo sia perso.

— Ma Joe non se l’è perso, credi a me. — Con le manine chiuse a pugno, Walsh mimava i colpi di boxe: uno-due, uno-due. — Joe, fagli vedere la tua faccia. Vedi, solo un segnetto.

Sulla mascella poderosa dell’omone c’era un livido bluastro. — Una volta è riuscito a colpirmi duro — disse Joe. La voce gli somigliava, forte e lenta, ma non profonda. Anzi, tendeva a essere stridula come quella di un adolescente. — Era un buon combattente, proprio un buon pugile. Ma io ho un allungo maggiore.

— Non era all’altezza di salire sul ring con te, Joe. — Walsh aggrottò le sopracciglia. — Che guaio essere l’agente di un campione! È difficile trovargli l’avversario giusto.

Joe disse: — Adesso devo andare, Eddie. La mia donna mi sta aspettando.

— Vieni domani… mi stai a sentire? Hai un sacco di tempo, non voglio che tu corra per allenarti, capito? Fa troppo freddo. Forse è meglio che fai un po’ di lavoro al sacco leggero e salti alla corda. Ma, soprattutto, riposati. Comincerai ad allenarti domani.

— Va bene, Eddie.

— Jennifer non va mai a vederlo combattere. Ha paura che si faccia male. Lo guarda alla Tv e gli fa trovare la cena pronta quando arriva a casa.

— Capisco — disse lui. — Eddie, dovevo dirti che Billy North ha sorpreso Gloria Brooks mentre lo faceva con Al Bailey. — “Fare che cosa” si domandò, forse Walsh poteva dirglielo. — North è andato nella stanza di Al per farsi dare una sigaretta in prestito.

Walsh annuì. — Ah sì? Ci avrei scommesso che l’avrebbe fatto quell’idiota fottuto. Sai… — la sua faccia si raggrinzì, come quella di un bambino quando gli viene raccontato un fatto tragico che non riesce a capire. — Al mi piaceva. — Due grosse lacrime gli scesero sulle guance.

— Quella cagna!

Joe si alzò in piedi. — Ci vediamo domani, Eddie. Te lo prometto.

— Perfetto, Joe. Sei un caro ragazzo.

Lui si voltò per seguire Joe nel corridoio, ma Walsh lo richiamò. — Resta ancora un momento, ti dispiace? Ho bisogno di parlarti.

— Va bene — disse lui. — Se lo desideri.

Joe gli lanciò un’occhiata che gli sembrò volesse comunicargli qualcosa. Con le sue grosse scarpe che strusciavano sul pavimento non faceva più rumore di un gatto.

— Magari si potesse chiudere la porta… — gli sussurrò Walsh quando Joe se ne fu andato. — Metti fuori la testa e da’ un’occhiata.

Lui lo fece. — Non c’è nessuno.

— Perfetto. — Walsh tirò su col naso. — Ti voglio raccontare di Joe. So già che mi dirai che tu non puoi farci niente. Ma voglio levarmi questo peso.

— Certo — disse lui. Con sua grande sorpresa si rese conto che quell’ometto gli piaceva. — Certo, Eddie. Va’ avanti.

— Joe è sposato con questa Jennifer. Ci hai sentiti mentre ne parlavamo…

Lui fece cenno di sì col capo.

— Ha vent’anni, bionda, un vero spettacolo. È dolce… sai bene come sono quelle. Fanno le santarelline. Dice a Joe che aspetteranno fino a quando lei avrà trentacinque anni. Dà a Joe quindici anni. E lui è d’accordo. Tu sai come sono i ragazzi di questa età, credono che i trentacinque anni non arriveranno mai. Tu non sei sposato, vero?

— No — disse lui. — Non ancora. Forse non mi sposerò mai.

— È così che si fa, amico. — Walsh rimase zitto per un momento. — Be’, io non so se Jennifer lascerà in pace Joe. Lui dice di sì, ma come si fa a credergli? Hai visto Joe. Non si accorge di niente a meno che non lo colpisci con una legnata. Joe non è tonto — la gente lo pensa, ma si sbaglia — ma è uno che non fa caso a quello che succede. Lui ha la testa piena di pensieri, ma tiene tutto dentro. Riesci a capire quello che voglio dire?

— A volte sono anch’io così.

— Così prego Dio che Jennifer finisca sotto un camion. Ma se succede qualcosa del genere, Joe…

Lui pensò a cosa avrebbe fatto se fosse successo qualcosa di simile a Lara e completò la frase: — …Potrebbe uccidersi.

Walsh fece cenno di sì col capo. — Non prenderebbe nessun veleno e non si butterebbe dalla finestra… Joe non è il tipo. Ma finirebbe per andare a rintanarsi in qualche posto, abbandonato, lontano da tutti. In qualche posto all’ovest, per esempio. E non combatterebbe più.

Si ricordò che l’uomo dalla faccia paonazza aveva detto che Overwood si trovava ai piedi delle montagne e domandò: — Pensi che Joe se ne andrebbe sulle montagne? Dalle parti di Manea?

— Sììì — disse Walsh tetro. — È proprio questo che farebbe.

La luce si spense.

La voce rauca di Walsh gli arrivò attraverso l’oscurità della stanza. — Joe è arrivato nell’atrio. L’interruttore è lì.

Quando i suoi occhi si furono abituati al buio, lui distinse la sagoma del vano della porta. — Mi sorprende che ti permettano di ricevere visite così tardi.

— Uno dei ragazzi che lavora qui è il secondo di Joe — disse Walsh. — Sa che devo assolutamente vedere Joe dopo un incontro.

Lui indugiò ancora un momento, ma capì che non c’era niente altro da dire. Il piccolo attrezzo di rame che teneva in mano era duro e pesante. — Be’, buonanotte Eddie.

— Buonanotte.

Nel corridoio vide (ma non lo aveva già visto?) Joe che camminava silenziosamente verso di lui. Quando fece per parlare, Joe gli fece cenno di tacere e lo guidò lungo il corridoio tenendolo per il braccio con gesto gentile ma fermo. In fondo al corridoio, Joe gli disse: — Vuole un caffè? O del pop corn? Qui ce l’hanno.

Lui domandò: — Ma ce lo daranno a quest’ora?

— Ci sono le macchinette. W.F. ci farà entrare.

Joe aprì una porta che sembrava chiusa a chiave, una pesante porta di metallo con la dicitura C e una grossa serratura messa là per impedire alla gente di entrare.

Scesero lungo una stretta rampa di scalini di cemento per vari piani e, attraverso un’altra porta, arrivarono in una grande sala vuota, piena di file ordinate di vecchie sedie e di tavolini che si perdevano nell’oscurità. Una luce brillava in un angolo della stanza dove, davanti a una tazza di caffè fumante, era seduto un uomo di colore che indossava un’impeccabile divisa bianca.

Joe lo salutò con un gesto della mano, poi pescò fuori dalla tasca un vecchio borsellino di pelle. — Io prendo un cream soda — disse. — Lei cosa vuole?

— Direi un caffè. Con un po’ di panna e zucchero.

— Va bene. — Joe scelse due monete dal borsellino e lo richiuse con uno scatto. — Può andare a sedersi accanto a W.F. se vuole. Il caffè glielo porto io.

Lui annuì e fece come gli aveva detto. Avrebbe voluto vedere meglio le monete. Non somigliavano affatto a quelle a cui era abituato.

W.F. disse: — Non ti avevo detto di non alzarti dal letto, amico? Ehi! Stai fresco ora! — Aveva un sorriso contagioso.

— Dovrai riportarmi in camera, immagino.

— Immagino? Cosa vuol dire immagino? Sai bene che lo farò! Ti metteranno di servizio in cucina per un anno intero e starai con le mani a mollo fino al gomito nell’acqua dei piatti. Le donne penseranno che hai cent’anni e ti lasceranno in pace, questo è sicuro.

Lui annuì e disse: — Ma almeno riuscirò a fregarmi un po’ di budino al cioccolato.

W.F. ridacchiò. — Sei proprio un bel tipo! Sfido che Joe t’ha preso subito in simpatia. — Lui lanciò un’occhiata all’omone che si stava spostando da una macchinetta all’altra con una bottiglia rossa in mano. — Joe è veramente un pugile professionista?

— Lo sai anche tu? Io sono il suo secondo. Mi hai visto in Tv?

Lui scosse la testa.

— Ehi, amico, ti sei perso un bell’incontro… noi eravamo l’attrazione principale. Ehi, Joe, digli anche tu che eri il più importante. — Joe, che stava arrivando con la bottiglia in una mano e una tazza fumante nell’altra, scosse la testa. — No, ultimo incontro preliminare. — Lo disse in tono di scusa. — Cinque round e K.O. tecnico.

— Ma tu non avevi bisogno di traccheggiare per cinque round. Lo potevi mettere K.O. al terzo.

Joe appoggiò la tazza di caffè sul tavolo e lentamente sprofondò a sedere in una delle vecchie sedie di legno. — Era di questo che volevo parlarle. Eddie pensa che io sia il campione mondiale dei pesi massimi.

— Lo so.

— Invece non lo sono e probabilmente non lo sarò mai.

Lui annuì. — Non ho mai pensato che lo fosse, Joe.

W.F. intervenne. — Ma la prossima volta sarai l’attrazione principale, se la dolce Jenny sa davvero il fatto suo.

Joe annuì lentamente. — Forse.

— Forse!? Vuoi dire sicuramente.

— Jennifer è diventata il mio agente da quando a Eddie è successo il fatto. Ma il mio vero manager è ancora Eddie; riprenderà l’attività appena si sentirà meglio.

— Eddie faceva anche da secondo a Joe — spiegò W.F. — Poi, quando è venuto qui, Joe non aveva nessuno perché Jenny si è rifiutata di farlo. Così ho detto, lo faccio io. Non voglio essere pagato… mi vedo tutti gli incontri gratis e tutti mi vedono alla Tv perché gli incontri vengono mandati in onda in Tv. Certe volte andiamo anche nel notiziario… quando non hanno altro da trasmettere. Tutti dicono “Ehi! Guarda il vecchio W.F. come sventola l’asciugamano”. E poi Joe esce quasi sempre vincitore e io mi diverto un mondo.

Lui disse: — È bello che siate così vicini a Eddie. Siete tutti e due molto gentili.

Joe aveva portato la bottiglia alle labbra per la prima volta. La bottiglia era grande e aveva in rilievo su vetro il nome della bevanda “Poxxie”. Joe ingoiò la maggior parte del liquido rosso dall’aspetto schifoso in un solo sorso. La sua gola sembrava capace di aprirsi e restare aperta come la valvola di una conduttura. — Non potevo abbandonarlo, Eddie crede che sono un campione. Non voglio che lei gli dica che non lo sono. Ne sarebbe sconvolto…

— Non lo farò.

Joe ruttò sonoramente. — Se lei potesse aiutarlo…

Quasi commosso senza sapere nemmeno perché, lui disse: — La maniera migliore per aiutarlo sarebbe di diventare un campione. Sono sicuro che Eddie guarirebbe.

W.F. gridò esultante. — Che ti dico sempre? Sei un tipo che va forte. Dacci sotto, Joe!

Joe scosse la testa. — Non credo che riuscirei a farcela.

— Penso che nessun campione sia mai stato sicuro di farcela, prima.

La bocca di Joe si increspò in un leggerissimo sorriso, un sorriso che sarebbe passato inosservato se lui non avesse avuto quel suo grosso faccione impassibile. Come per togliere le ultime gocce di Poxxie dalle labbra, Joe sollevò la manica scura del soprabito e si strofinò le labbra atteggiate a una curva infinitesimale, ma il sorriso rimase.

Senza averne assolutamente l’intenzione, lui sbadigliò.

W.F. disse: — È meglio se ti porto a letto. Hai preso una bella botta e devi essere stanco morto.

— Mi rimetterò presto — disse lui. Bevve un sorso del suo caffè e scoprì che il sapore era più sgradevole dell’odore.

Un momento dopo W.F. gli stava rimboccando le coperte intorno alle spalle. — Ti meriti budino al cioccolato tutti i giorni — disse W.F. — Anche a colazione.

7. Lara, Tina e Marcella

Lo squillo del telefono accanto al suo letto lo fece svegliare. Rispose, ancora stordito: — Pronto?

E una voce di donna disse: — Ecco, Emma, passami quello!

— Lara? — domandò lui. — Lara, sei tu?

— Caro, sono io! (Era sicuramente la voce di Lara, Lara composta e graziosa.) — Spero tanto, davvero caro, di non averti svegliato da un sonno profondo. Ma sono appena tornata — tu mi capisci — e, tesoro, la cara Emma era ancora alzata. E non aveva da fare assolutamente niente, quindi ho detto, chiama quel dannato posto e prova a vedere se ti fanno parlare con lui, con il mio tesoro, così lei ha telefonato e loro hanno passato la comunicazione. Ma solo quando la povera cara vecchia aveva perso tutto il fiato che aveva in gola, non è vero, Emma? E intanto si faceva sempre più tardi, sempre più tardi. Che ore sono lì, tesoro?

Lui disse: — Non lo so.

— Qui è passata da poco l’una, e appena sono tornata a casa ti ho chiamato, ma prima mi sono fatta un bagno e ho bevuto. — Lara fece una risatina. — Da come l’ho detto sembra che mi sia bevuta l’acqua del bagno, vero? No, Emma mi ha preparato un ponce e lo ha fatto così forte da stendere un cavallo. Ora lo posso dire, tesoro, perché lei se n’è andata. Hai ricevuto i miei fiori? Non sono belli?

— Sì — disse lui. — Sono bellissimi. Grazie.

— Non possono non esserlo, caro… li ho pagati a peso d’oro. Mi fa un piacere immenso che ti siano piaciuti.

Decise di dirlo, una volta per tutte. — Tu sei anche Marcella.

— Intendi dire oltre a tutte quelle orribili puttane che recito? Sì, esiste anche una Marcella… una Marcella reale, anche se a volte ho molte difficoltà a entrare in contatto con lei. Del resto è così divertente fare la puttana, anche se dopo una non si piace molto. Ma caro, voglio che tu sappia che è terribilmente pericoloso che io ti parli, sapendo che sei in quell’orrendo posto, perché ho la tentazione di fare la puttanella con te. Perché non fai il bravo? Ma io verrò a trovarti appena mi sarà possibile. Magari potremmo trovare insieme una porta per farti uscire di lì.

Nessun saluto, solo l’orribile gesto definitivo della cornetta abbassata sul ricevitore. Riappese anche lui e intrecciò le mani dietro la nuca, come faceva sempre quando doveva pensare. Forse Lara avrebbe richiamato come Marcella o come un’altra ancora. Come Tina? Tina, la bambola, era stata modellata a somiglianza di qualcuno… di una donna reale che si faceva chiamare Tina ma in realtà era Lara. Ma in fondo chi era veramente la donna che lui conosceva — che aveva conosciuto — come Lara?

Uscì dal furgone e scivolò sul ghiaccio. Si svegliò di soprassalto.

Allora stava dormendo; dormendo e sognando. Forse anche la telefonata di Lara era stata un sogno. Si alzò, trovò l’attrezzo appuntito che aveva preso nella stanza di North e aprì l’armadietto. I suoi vestiti erano proprio come li ricordava. L’amuleto che Sheng gli aveva dato era appeso a un chiodo; Tina, la bambola, era nella tasca anteriore del soprabito.

La mappa mal ripiegata era in una delle altre tasche. La tirò fuori, ma era troppo buio per riuscire a leggerla.

Nel riporla incontrò qualche difficoltà. La tirò di nuovo fuori e infilò la mano nella tasca. C’era una scatoletta… come per magia, come per una stregoneria da quattro soldi. Un leggero tintinnio. Il suo dito curioso scoprì un cassettino e lo aprì. Seguì un secondo tintinnio, più rumoroso, quando tanti piccoli oggetti caddero sul pavimento. Fiammiferi, naturalmente.

Si accovacciò a terra, ne trovò uno e lo sfregò sulla scatola producendo una grande fiammata di luce solforosa. Un grosso drago si contorse con stupefacente elasticità intorno a un foglio di carta, fluttuando verso l’alto, come per baciare o forse divorare un carattere cinese di ammirevole complessità.

Nel timore che un’infermiera passando lì accanto potesse vedere la luce, spense il fiammifero.

Erano i fiammiferi di Sheng, ora se ne ricordava. Quando lui e Sheng erano andati nello scantinato del negozio, il cinese gli aveva dato quella scatola di fiammiferi dicendogli di accenderne uno. Al suo rifiuto Sheng aveva acceso il fiammifero di un’altra scatola. Lui doveva aver riposto questa in tasca.

Raccolse quanti più fiammiferi poté e li ripose nella scatola. Infilò la testa e le spalle nell’armadietto così da mascherare la luce, accese un altro fiammifero e osservò la bambola.

Era Lara, senza ombra di dubbio. Forse i capelli erano leggermente meno rossi, sebbene alla luce del fiammifero fosse difficile essere sicuri; le ragazze, le donne, spesso cambiano colore dei capelli. E gli zigomi forse erano appena meno pronunciati, ma era Lara. La fiamma gli raggiunse le dita e lui soffiò sul fiammifero per spegnerlo.

Dopo aver riposto la bambola e la scatola di fiammiferi, richiuse lo sportello dell’armadietto, conficcò i fiammiferi bruciati sotto il bordo inferiore per tenerlo chiuso. Doveva riportare l’attrezzo a North? Era in dubbio. Sicuramente North si sarebbe accorto che gli mancava, ma lui non sapeva quale fosse il nascondiglio segreto, perciò North avrebbe sicuramente notato che era fuori posto.

Inoltre ora lui non poteva andare con North.

Inclinò il vaso e infilò sotto l’attrezzo, poi tornò a letto e si coprì con il lenzuolo e la sottile coperta. Come se l’aver inclinato il vaso lo avesse liberato, il profumo delle rose riempì la stanza.

Scoprì che poteva distinguere un profumo dall’altro, senza però sapere a quale bocciolo appartenesse.

Uno sembrava di ambra scura, languido, soffocante e carico di spezie. Un altro, leggero, evocava pere e mele mature, e faceva pensare a fiori rosa. Tra questi due, a volte indefinibile, a volte selvatico, danzava un terzo profumo, insinuante e senza colore ma audace, seducente, incantevole. Per una di quelle intuizioni che vengono quando si è nel dormiveglia, capì che il terzo era Lara, il primo Marcella, il secondo Tina.

Come se l’aver indovinato il segreto avesse concluso il gioco, arrivò Lara e lo prese per mano. Il fiammifero cadde a terra e lo sportello dell’armadietto si aprì. Al di là si apriva un giardino colmo di fiori e inondato dal sole. Al centro, in una piccola radura, si ergeva un arco di pietra ornato da un profluvio di rose selvatiche: gialle, rosa e bianche, e di altri cento colori, tonalità e venature. Per qualche ragione la vista dell’arco lo raggelò di un terrore simile alla paura provocata dalla vista di un bisturi in un uomo che stia per essere operato.

Nel vederlo impaurito, Lara gli lasciò la mano ed entrò nel giardino da sola. Terrorizzato e affascinato insieme, lui rimase a guardarla attraversare il piccolo prato, oltrepassare l’arco e scomparire.

Anche se Lara se n’era andata, lui non riusciva né a entrare nel giardino né a chiudere lo sportello dell’armadietto. Una brezza giocosa solleticava il giardino, arruffando le vivaci aiuole di tulipani e facendo oscillare i lillà flessuosi. Uccelli rossi e gialli svolazzavano nell’aria cinguettando e appollaiandosi di tanto in tanto sui gambi delle rose che avviluppavano quell’arco inquietante.

Rimase a lungo immobile in attesa. Sentiva ormai le gambe e le braccia rigide e fredde, quando sotto l’arco apparve Tina; le sue forme — delicate come quelle di un bambino, come quelle di Lara — contrastavano con il seno eretto. Gli venne incontro sorridendo con la mano tesa attraverso il prato. Quando lui la toccò, divenne Marcella, bionda ed elegante, risplendente di diamanti e avvolta in una pelliccia di visone. Era così sbalordito da quella trasformazione che ritrasse la testa dall’armadietto e chiuse lo sportello.

Rimase seduto sul letto, ma lo sportello continuava a sbattere incessantemente, come se diecimila scolari stessero passando al vaglio i loro libri, eliminandone alcuni e scegliendone di nuovi, senza sosta. Una luce intensa lampeggiava attraverso la finestra oscurata dalle tende.

Tremante nel suo pigiama, rimase lì a osservare il temporale invernale. Neve e grandine riempivano l’aria, svanivano per ricomparire trionfanti. I tuoni scuotevano i rami ghiacciati degli alberi, e i lampi giocavano tra le torri della città; grazie a quell’illuminazione febbrile vide forme mai viste nella sua città né in qualunque altra di sua conoscenza: pagode, piramidi, obelischi, ziggurat.

— Torna subito a letto! — lo sgridò W.F.

— Stavo solo ammirando il temporale.

— So io cosa stavi facendo. Torna a letto all’istante e poi dimmi tutto quello che vuoi. Altrimenti — quella di W.F. sembrava una minaccia — non ti darò l’ananas con i fiocchi di granturco domani mattina a colazione. Ormai è quasi mattina. — W.F. entrò nella stanza a grandi passi. — Torna subito a letto!

Ubbidiente e perfino grato, lui si rimise a letto, e si avvolse nel calduccio della coperta.

W.F. gliela rimboccò, si chinò sulle rose, odorandone una, poi un’altra. — Sei fortunato ad avere queste rose, lo sai? A Joe piacciono tanto i fiori che ha finito col farli piacere anche a me. Quando sta a casa con quella Jennifer, praticamente non fa altro che stare intorno ai suoi fiori. Ha una piccola serra…

Se avesse potuto sarebbe tornato all’armadietto e al suo giardino stregato. Invece si ritrovò al lavoro, asopportare una signora dall’aria inferocita che gli diceva: — Vorrei comprare dei mobili. Mi mostri qualche mobile, giovanotto.

Le corsie del Reparto Arredamento erano diventate autostrade deserte illuminate dal chiarore diffuso del tramonto e si estendevano per centinaia, forse migliaia di miglia, fiancheggiate da letti di ottone, letti ribaltabili, grandi materassi ad acqua, che lui mostrò a uno a uno alla donna; tavoli con gambe pieghevoli, deliziosi angoli cucina e classiche sale da pranzo complete, in noce. Dopo aver passato in rassegna innumerevoli divani beige e comode poltrone, giunsero infine a uno scrittoio Chippendale. Lui estrasse un cassetto per mostrarle il rivestimento interno in panno di lana verde e vi trovò una lettera chiusa da un sigillo di ceralacca a forma di cuore.

Pur convinto che la donna avrebbe severamente disapprovato quello che stava per fare, lui prese la lettera e spezzò il sigillo, che si frantumò come vetro.

Quel colpo secco era il clic di un interruttore… i corridoi senza fine, pieni di mobili, si confusero e lui si ritrovò nel buio soffocante della stanza. Sulla soglia in controluce c’era una donna. Lui vide che si stava mettendo la borsetta sotto il braccio e capì che lo schiocco che aveva sentito era stato lo scatto della chiusura di quella borsa.

Si sollevò a sedere, ma la donna se n’era già andata. Per un istante il suo viso era stato illuminato dalla luce del corridoio, e lui aveva riconosciuto Marcella, la donna della fotografia (ma era Lara) che aveva ricevuto insieme alle rose, la donna che aveva visto nel giardino. Balzò giù dal letto e si precipitò nel corridoio, ma la donna era scomparsa.

Quando tornò nella sua stanza trovò North seduto nella seggiolina accanto al letto. — Salve — disse North. — Credevo che avrei dovuto svegliarti. Cos’è successo?

— Ho ricevuto un’altra visita.

— Qualcosa a che vedere con il nostro piano di domani?

— Vuoi dire di oggi. Dev’essere passata da un pezzo la mezzanotte. No, niente a che vedere.

— Il tuo armadietto è aperto. L’ho controllato. Va bene, hai superato la prova. Quello che ora dobbiamo fare…

— Io non faccio niente.

Seguì un lungo silenzio. Poi North disse: — Credi di avere un’idea migliore?

— Proprio così.

— Ho bisogno di qualcuno che guidi la macchina. E tu sei l’unico che può farlo.

Lui chiese: — Ma tu non sai guidare?

— Diamine, certo che sì. Ma non lo farò.

Ebbe un attimo d’esitazione. Marcella (che poteva essere o poteva non essere Lara, anche se lui era sicuro che lo fosse) stava cercando di farlo uscire da lì. Ma avrebbe cambiato qualcosa se lui fosse riuscito ad andarsene prima da solo? — Va bene — disse. — Ma a una condizione.

— Dilla.

— Tu vieni dal mondo reale… il mondo dove Richard Nixon era presidente. Anch’io. Ma credo che tu stia in quest’altro mondo da più tempo di me. Da quando?

North scrollò le spalle, un gesto quasi impercettibile in quella debole luce. — Ho perso il conto.

— Più di un anno?

— Certo.

— Allora vorrei che rispondessi a tre domande, con tutta franchezza e sincerità. Tre domande su questo mondo. Lo farai?

— Spara.

Lui esitava. Aveva tante domande, e alcune avrebbe dovuto rivolgerle a se stesso. Voleva tornare a casa? O trovare Lara? Gli chiese: — Chi è la donna che loro chiamano la dea?

— Fermo — disse North. — Non posso rispondere a domande insensate. Parli della dea reale?

— La prima volta che sono venuto qui, ho comprato una bambola. Il commesso mi ha detto che era la dea a sedici anni. Mi domando di quale dea parlasse.

— D’accordo, quella è la dea reale. Solo che non è reale.

È come Cristo o Budda, capisci? Rappresenta l’ideale femminino maledetto da Dio, o quel che è. A est c’è un posto immenso consacrato a lei… tremila miglia quadrate, così dicono. Nessuno può vivere là. E non ci si può nemmeno entrare.

— L’ha mai vista nessuno?

— Questa è la seconda domanda?

— Sì — disse lui.

— Certo, la gente la vede. Come vedono fantasmi e dischi volanti… ogni tipo di stronzata. Dicono che vaga alla ricerca del suo amante perduto, un tipo che ha lasciato migliaia di anni fa. — North si fermò; era praticamente impossibile distinguere la sua espressione alla debole luce che arrivava dal corridoio. — Per me è Maria Maddalena che sta cercando Cristo. Comunque, dicono di vedere anche lui… L’amante perduto.

— Questa è la mia terza domanda. Come lo chiamano?

North ebbe un evidente attimo di esitazione prima di rispondere.

— Questa non te la conto come domanda. Ci sono mucchio di nomi, e non ci ho mai badato molto. — Esitò ancora. — Uno è Attis. Ha qualcosa a che vedere con la primavera e il raccolto. O almeno era così un tempo.

— Mi resta un’ultima domanda?

— Giusto.

— Allora me la tengo per dopo. Hai intenzione di dirmi come usciremo di qui? Oppure vuoi che improvvisi?

— Certo che te lo dico. Poco prima di mezzogiorno ci porteranno tutti nella sala di ricreazione. La chiamano ricreazione di gruppo, ma in realtà è un modo per conoscersi e un momento di svago. Ci sarà tutto il personale, perciò è il momento migliore. Quello che dobbiamo fare è… — Si accese la luce.

8. Moopsball al coperto

Si era appena infilato nel letto quando W.F. arrivò col vassoio della colazione. — Ti sei comportato abbastanza bene — disse W.F. — Ti meriti l’ananas coi cereali.

Lui disse: — Mi sembra che tu abbia un bel da fare.

— Non tanto. Lavoro solo di giorno. Sai, quando ieri ci siamo visti per la prima volta il mio turno era finito, ma poi sono andato all’arena a fare da secondo a Joe. Dopo sono ritornato con lui perché abito da queste parti. Quando te ne sei andato ho chiacchierato un po’ con Joe di strategia e roba del genere. Lo faccio sempre dopo un incontro, ma lui non vuole parlarne subito. Vuole prima calmarsi un po’ e riflettere da solo. Così mi sono detto “perché intanto non vado a dare un’occhiata per vedere come vanno le cose?”

— Non devi aver dormito molto.

— Non ne ho bisogno. Mai avuto. Però stanotte mi farò una bella dormita.

— W.F.?

— Che c’è? — Già sulla porta, W.F. si voltò a guardarlo.

— Hai visto una donna bionda stanotte? Una che veniva da fuori?

— È venuta mentre stavi dormendo, eh?

Lui fece cenno di sì, poi aggiunse: — Non proprio mentre dormivo. Ero sveglio e l’ho vista proprio nel momento in cui usciva nel corridoio. — Indicò il biglietto dorato che pendeva dal mazzo di rose. — Questa donna.

— Ascolta. — W.F. tornò verso il letto e abbassò la voce. — Un sacco di ragazzi fanno sogni come questo. Non fa niente… non devi preoccuparti.

Per colazione c’erano fiocchi di granturco con banana a fette, latte e caffè. Mangiò distrattamente, cercando di ricordare cosa aveva mangiato la sera prima per cena.

L’unica cosa di cui si sentiva sicuro era che W.F. gli aveva promesso il budino al cioccolato. Aveva mangiato patate? Gli sembrò di ricordare piselli e una cucchiaiata di purè di patate con un po’ di intingolo.

Era questo che mangiavano i pazienti? Prima d’allora non aveva mai pensato a se stesso come a un “paziente”, ma come a un animale ferito, un avventuriero sperduto, esiliato per breve tempo dai campi della vita. Forse nessuno pensava a se stesso come a un paziente finché stava bene, o quasi bene. Dopotutto, lui aveva avuto un trauma… un brutto trauma. Forse era così che si sentivano i pazienti, era così che vivevano, aspettando un pasto dopo l’altro, con la vita ritmata da fiocchi di granturco mollicci e caffè tiepido.

Cercò di finire il caffè prima che si raffreddasse del tutto e scoprì che la sua mano tremava troppo per tenere la tazza. Stava in un ospedale psichiatrico. Lui aveva un trauma… o era solo quello che dicevano a tutti? Si toccò la testa bendata.

Sentì bussare. Un uomo in tuta stava lì in piedi facendo finta di avere davanti una vera porta, una porta invisibile all’occhio umano.

— Sì? — disse lui.

— Servizio riparazioni Tv. Ha un apparecchio guasto?

Se ne era completamente dimenticato. — Sì — disse ancora una volta. — O almeno era guasto ieri. — Prese il telecomando e schiacciò il pulsante ON. Non accadde nulla.

L’uomo entrò nella stanza. — Nessuna immagine. Nessun suono.

— Esatto — disse lui.

— Non si sarà messo a pasticciare con le manopole, vero? — L’uomo si diresse verso il televisore, con lo sguardo rivolto verso di lui.

— Non sono mica matto — disse lui. — Sono alcolizzato, un ubriacone. Sono caduto e ho battuto la testa. Legga la mia cartella clinica. No, non ho toccato le manopole. Qui non c’è niente su cui salire per arrivare al televisore… solo quella seggiolina laggiù, e ha le rotelle.

Con sua grande sorpresa l’uomo fece come lui gli aveva suggerito: si chinò a osservare la cartella clinica appesa in fondo al letto.

— Va bene? — domandò lui.

— Va bene. — L’uomo si raddrizzò sorridendo. — Lei sa come succede… ci sono certi tipi qui che sono proprio matti. Per lei dev’essere un’esperienza piuttosto dura restare qui.

— Non ho conosciuto molti pazienti. Sono arrivato solo ieri. — Gli venne in mente che non sapeva esattamente se quello che aveva detto corrispondesse a verità o no. — O almeno, mi sono risvegliato solo ieri.

— Una volta uno ha cercato di saltarmi addosso e un altro mi ha detto di essere Dio. — L’uomo ridacchiò. — Non gli piaceva come era fatto il mondo, così l’ha cambiato. Ma non gli piaceva nemmeno così e voleva farlo tornare come prima.

Era proprio matto.

Si sentì obbligato a sorridere.

— Poi c’era una donna che diceva di essere un pilota. Ha mai sentito parlare di una donna che può far volare un aeroplano?

— Certo — disse lui.

— Allora può darsi che fosse vero. Ma lei diceva che volava molto al di sopra delle nuvole, che non sapeva dove si trovava esattamente e che non voleva attraversarle per scendere perché non si sa mai dove si va a sbattere quando uno ci prova. Poi ha visto un buchetto minuscolo nelle nuvole e le luci a terra, allora lo ha attraversato e si è trovata in un mondo dove tutto era diverso. — L’uomo ridacchiò di nuovo. — Prima in questo ospedale, gli uomini e le donne erano ricoverati negli stessi reparti, capisce che significa? Ma poi un giornalista l’ha scoperto. — Con gesti esperti l’uomo sganciò il televisore dai sostegni inclinati.

Lui si era messo il telefono in grembo. Senza molta speranza fece il numero del suo appartamento.

— Le manopole non funzionano — disse l’uomo. — Adesso vediamo se c’è corrente. In questo posto certe prese sono difettose.

Da qualche parte (dove?) un telefono continuava a squillare.

— Sì, la corrente c’è, allora si tratta della valvola principale. La corrente c’è, lo schermo rimane buio, niente sonoro… non può trattarsi che della valvola. — L’uomo tirò fuori un grosso cacciavite e cominciò a smontare la parte posteriore dell’apparecchio.

— Pronto? — Era la voce rauca di un uomo.

— Con chi parlo? — domandò.

— È lei che ha chiamato. Chi vuole?

— Lara.

Ci fu un lungo momento di silenzio durante il quale sentì in lontananza una musica e voci di bambini, come se nell’appartamento accanto al suo ci fosse una radio accesa, come se l’appartamento fosse vicino a una scuola (non era così) e, col freddo che faceva, avesse tutte le finestre aperte attraverso cui entravano i suoni che provenivano dal campo giochi coperto di neve.

— Lara non c’è. Chi è che la vuole?

— Mi dica chi è lei e io le dirò chi sono io.

— Capisco. Va bene. Dirò a Lara che ha chiamato. Dove può trovarla?

Lui esitò. D’accordo, voleva che Lara lo rintracciasse, ma voleva anche che lo trovasse quell’uomo? Quell’uomo avrebbe veramente riferito a Lara che lui aveva chiamato?

Lei aveva portato i fiori. No, li aveva mandati, ma era venuta più tardi e gli aveva perfino parlato al telefono, perché era sicuramente lei al telefono… era Lara, costretta a usare un altro nome. — Lara sa dove mi trovo — disse, e riattaccò.

— Proprio così, la valvola principale — disse il tecnico. — Glielo riparo in un batter d’occhio.

Non avendo nient’altro da dire, lui disse: — Crede che potrò cambiarlo con uno a colori?

— A colori? Vuol dire con le immagini colorate?

Lui fece cenno di sì.

L’espressione dell’uomo cambiò all’improvviso come una porta che si chiude di colpo. Col tono di un adulto che spiega una cosa elementare a un bambino, l’uomo disse: — Non si può. Guardi qui, questi apparecchi funzionano così: c’è uno schermo concavo rivestito di particelle di fosforo. Quando gli elettroni le colpiscono, le particelle diventano brillanti. Se il raggio è debole, le particelle sono poco brillanti, se invece il raggio è potente brillano moltissimo. Così sullo schermo compaiono il bianco, il nero e le varie gradazioni di grigio. Ma se si volessero ottenere immagini colorate si dovrebbe disporre di particelle di fosforo per… be’, per ogni colore possibile: azzurro, rosso, giallo e così via. E le particelle dovrebbero essere collocate molto vicine le une alle altre senza però mischiarsi… e poi credo che ci vorrebbe ancora la particella fosforescente per il bianco. Se riuscissero a fabbricare un apparecchio del genere, costerebbe un milione di dollari.

Lui disse: — Mi sembrava di aver letto un articolo in cui si diceva che c’era.

L’uomo gettò la valvola esaurita nel cestino della carta straccia che stava in un angolo. — Forse giocano a indovinare. Oppure una società ha fabbricato un prototipo per dimostrare che si possono produrre. Credo però che si dovrebbero cambiare anche i segnali perché quelli normali non funzionerebbero.

Lui fece cenno di sì e rimase immobile a guardare l’uomo che rimetteva a posto il televisore. Sapeva di possedere un televisore a colori, un GE dai colori brillanti come le rose di Lara. Sapeva che era stata Lara a mandargli le rose. Lui aveva venduto televisori a colori e aveva visto Lara. Sentiva ancora il collo rigido per la caduta che gli faceva male se si voltava a guardare le rose. Decise di mettersi a sedere e prendere il vaso in grembo per sentire il profumo delle rose e immaginarsi come sarebbero apparse con la televisione a colori. Quando sollevò il vaso scoprì che sotto c’era un pacco di banconote.

— Tutto a posto — disse il tecnico mostrando l’immagine in bianco e nero. — Adesso lo rimetto su.

Mentre l’uomo stava voltato, lui afferrò il pacco di banconote e lo nascose sotto il lenzuolo.

— Provi il telecomando.

Lui ubbidì, cambiò i vari canali, accese e spense l’apparecchio, alzò e abbassò il volume. — Funziona a meraviglia.

— Cosa le avevo detto? Era la valvola principale, ecco cos’era. C’è stato un aumento improvviso di tensione e la valvola è saltata per proteggere il tubo catodico.

Ricordò il volto di Lara che svaniva e si distorceva sullo schermo e domandò che cosa poteva aver provocato lo sbalzo di corrente.

Il tecnico sospirò. — Probabilmente qualcuno ha inserito un apparecchio in modo scorretto. In ospedale ci sono un sacco di attrezzature per i raggi X e roba del genere. Grossi ascensori che se sono installati male possono generare loro stessi corrente e immetterla nella rete.

— Capisco — disse lui. — Grazie.

Quando l’uomo se ne fu andato, giocherellò col rotolo di banconote sotto il lenzuolo. Le contò, erano esattamente dieci. Si chiese quanto valessero e se fossero tutte dello stesso taglio. Che aspetto avevano? Il denaro in questo posto non era uguale al suo; la reazione della ragazza nel negozio di mappe ne era stata la dimostrazione e la conferma gli era venuta dal pacco di soldi (soldi da bruciare) nella bottega del cinese. Spostò un biglietto fino a che un angolino non spuntò dal lenzuolo. Gli dette un’occhiata. Cento.

Dal televisore una voce disse: — Ciao! — Lui alzò gli occhi.

Gli ci volle un po’ per riconoscere il suo appartamento, ma era proprio il suo: il vecchio letto, la poltrona in vinilpelle che aveva comprato nel negozio dove lavorava per soli trentadue dollari e cinquanta perché qualcuno aveva bruciato un bracciolo con una sigaretta, il tavolinetto del telefono che lui aveva collocato in modo che proiettasse un’ombra sul buco.

Una debole voce metallica disse: — “Chi è?”

L’uomo al telefono nel suo appartamento non era lui. Era più vecchio, più grosso, dall’aspetto tozzo, quasi grasso.

Schiacciò il pulsante per aumentare il volume.

“È lei che mi ha chiamato, amico”, disse l’uomo nel suo appartamento. “Con chi vuole parlare?” “Lara”.

Ci fu una lunga pausa. L’omone sembrò irrigidirsi.

Lentamente l’immagine svanì e lasciò il posto a una grossa scatola di cibo per cani. “È tutta carne”, diceva ora un’altra voce. “Datene al vostro cuccìolo una scatoletta e osservate come la gusta”.

Riabbassò il volume e sollevò le ginocchia in modo da nascondere le mani mentre contava le banconote: erano tutte da cento, quasi nuove, ma nessuna nuova di zecca. Lui non aveva visto spesso banconote da cento dollari, ma i motivi decorativi avevano un’aria familiare e sembravano buone. La faccia che appariva su ogni banconota era quella di una donna anziana, dall’espressione gentile e intelligente, una signora che poteva essere un’insegnante di qualche costosa scuola di perfezionamento, vicina all’età della pensione. Sentì un suono di passi nel corridoio e infilò di nuovo i biglietti sotto il lenzuolo.

Era l’infermiera, sorridente, che entrò nella stanza canticchiando fra sé. — Buongiorno! Buongiorno! Come si sente oggi? Ha gradito la colazione?

Lui fece cenno di sì.

— Allora metto il vassoio sul tavolo da notte così W.F. lo porterà via. Come va la testa?

— Non mi fa molto male.

— Bene, se vuole un’aspenina, non deve fare altro che chiederla. So che è in grado di alzarsi e andarsene in giro perché ieri è stato in piedi per un bel po’… sì, l’ho vista, birichino! Allora può partecipare al Gruppo Ricreativo. Oggi viene il dottor Pillo-Lin e vogliamo che si veda intorno un bel po’ di facce allegre. So che lei non ha mai partecipato all’attività del gruppo, così ho pensato di spiegarle di cosa si tratta.

Lui disse: — Ma che facciamo? Giochiamo a softball?

— Proprio così. Ma naturalmente con un tempo simile è impossibile. E senza una vera mazza, perché qualcuno potrebbe farsi male, ma ci divertiamo da morire lo stesso. Sa, l’idea è che noi del personale partecipiamo alle attività ricreative con i pazienti. In questo modo riusciamo a conoscervi meglio e anche voi conoscete meglio noi. Veramente il dottor Pillo-Lin non dovrebbe partecipare, ma è un uomo così alla mano! Approfitta di ogni occasione per restare con noi. Pensi che una volta si è messo a giocare a moscacieca! Ma oggi non possiamo giocare all’aperto perché c’è la neve, così giocheremo a moopsball al coperto. Vedrà com’è divertente!

— Non ci ho mai giocato. — All’improvviso e senza una ragione, ebbe paura che le banconote spuntassero fuori dal lenzuolo. Cercando di non farsi notare le cacciò sotto più che poté.

— Allora è questa l’occasione per impararlo, non crede? Su, fuori dal letto e non si preoccupi se è in pigiama. Anche gli altri, voglio dire tutti i pazienti, staranno in pigiama.

Lui ebbe la visione apocalittica di qualcuno che riassettava il suo letto mentre era fuori della stanza e infilò il rotolo di banconote sotto la cintura del pigiama.

L’infermiera sussurrò: — È per oggi. William le darà il segnale.

9. Libertà

— Allora, dividetevi in due squadre — disse la nuova infermiera ad alta voce. — Si fece largo come una nave ospedale tra le onde del mare in burrasca, scansando pazienti e colleghi a destra e a sinistra. Lui si ritrovò nel gruppo di destra con North al suo fianco.

— Ora nominerò due capitani — annunciò la nuova infermiera. — Dottor Pillo-Lin, vuol esser lei uno dei due?

Un orientale minuto dall’espressione sorridente fece cenno di sì.

— E lei, signor Walsh, sarà l’altro.

— Certo! — esclamò Walsh. — Venite qui, tigrotti! Ascoltatemi bene.

— Ora ognuno di voi deve nominare uno stregone.

— Tu — disse Walsh, e lo toccò sulla spalla. — Tu sei il mio stregone.

Lui chiese cosa doveva fare.

— Buttare il malocchio sul nemico. Io starò laggiù a guidare le truppe. Tu hai poteri magici, ragazzo, te li ho appena conferiti. — Qualcuno allungò a Walsh una mazza e un elmetto piumato di plastica rossa. — Grazie — disse Walsh.

— Ma io non ho poteri magici.

— Forse prima no, ma ora sì. Guarda l’altro stregone, è già all’opera. Tu devi vincere il suo incantesimo, quindi datti da fare. — Walsh si voltò. — Io ho ai miei ordini tre aiutanti. Tre cavalieri, intesi? Cohn, anche tu sei un cavaliere! Cavalieri, andate a prendere i cavalli!

I “cavalli” erano tricicli di plastica rossi e azzurri. Al centro della stanza, due pazienti si stavano già affrontando armati di coperchi e grossi mazzuoli di plastica. Tra loro c’era un pallone da spiaggia di plastica a colori vivaci, sicuramente la moopsball.

“Probabilmente”, pensò, “è una terapia efficace. Come può uno avercela con un’infermiera o un dottore che ha appena colpito sulla testa con un martello di gomma?” Però, non gli andava di giocare. Sbadigliò.

All’improvviso, come illuminato dal raggio di un riflettore, gli apparve il viso dello stregone azzurro che gli aveva indicato Walsh. Aveva il viso magro, quasi scheletrico, e la testa rasata. Il padrone della testa stava in piedi, immobile, in mezzo al caos, con un leggero sorriso sulle labbra, le braccia allungate e gli occhi fissi su di lui.

“Mio Dio”, pensò, “funziona!” Cominciò a danzare come aveva visto fare agli indiani nei film; batteva i piedi e alzava ritmicamente le braccia colpendosi la bocca con la mano mentre gridava: — Ooh, ooh, ooh! Tu prigioniero! lo prendere tuo scalpo, uomo bianco!” Dopo qualche istante si accorse che molti componenti della squadra azzurra avevano interrotto il gioco e lo stavano guardando.

— Tra poco quelli della squadra vincente si metteranno il capitano sulle spalle e lo porteranno in trionfo. Corri nella tua stanza più in fretta che puoi e mettiti i vestiti. Poi vieni alla porta C. La troverai aperta, e io sarò lì dentro. — Era North. Appena si voltò a guardarlo lo vide scomparire tra la folla.

Una calca di elmetti rossi si mosse intorno al grande tubo di plastica che gli azzurri stavano difendendo, la cavalleria rossa parava i colpi degli azzurri con manici di scopa avvolti negli stracci. Walsh, molto appariscente nel suo elmetto piumato, segnò un goal.

Il corridoio era deserto. Chissà se North lo precedeva o era rimasto indietro? Molto probabilmente era davanti, perché aveva visto quel gioco altre volte, e sapeva certamente meglio di lui cosa sarebbe successo e quando.

Il rotolo di banconote gli era quasi scivolato fuori alla cintura. Era stato proprio un idiota a fare quella danza indiana con il rischio che a ogni passo i soldi gli cadessero a terra. Ma non era successo, e la danza aveva funzionato. Infilò le banconote nel portafoglio, insieme ai soldi veri, tre biglietti da un dollaro, uno da cinque e uno da venti; quelli del mondo che North aveva chiamato C-Uno, la realtà rassicurante e moderata dove per due volte era stato eletto presidente Richard Milhous Nixon.

Anche se non c’era nessuna ragione di preoccuparsi della cravatta, lui decise altrimenti, e se l’annodò velocemente ma con la massima cura davanti alla sua immagine sbiadita riflessa nel vetro della finestra. Mentre stringeva il nodo, si rese conto che nel profondo del suo animo era convinto che quegli ultimi giorni non fossero stati altro che un incubo, che ogni cosa accaduta da quando aveva incontrato Lara altro non fosse che un sogno, e che presto si sarebbe svegliato per andare al lavoro. E se fosse andato a lavorare senza la cravatta, avrebbe dovuto comprarsene una nel reparto di abbigliamento maschile.

North lo stava aspettando, con indosso un semplice abito azzurro. — Ecco le chiavi. Ha detto che è una Mink color cioccolata posteggiata in mezzo al parcheggio.

Appesa al portachiavi c’era anche una zampa di coniglio. Mentre si precipitavano lungo le scale, lui s’infilò tutto in tasca. — Ma non ci sentiranno?

— Stanno ancora gridando e schiamazzando per la partita. Dobbiamo solo andarcene in fretta prima che la smettano. — Invece di entrare nella stanza in cui aveva bevuto il caffè insieme a Joe e a W.F., arrivarono in un parcheggio coperto di neve sul retro dell’ospedale. L’auto marrone era più grande di quanto si aspettava, ma la capote corta, il grosso baule portabagagli e lo spazioso vano passeggeri davano alla macchina un aspetto rincagnato.

Girò la chiave di accensione, senza risultato.

— Mi sembrava che avessi detto di saper guidare.

— Non parte, ecco tutto. Non si mette nemmeno in moto. — Colto da un vago ricordo ancestrale, guardò i pedali. Ce n’erano tre, più un pulsante di metallo lustro per l’uso, sulla sinistra della frizione. Lo premette con il piede e il motore si avviò.

— Così va meglio — disse North.

Lui annuì, pensando alla leva del cambio verticale. Era molto tempo che non guidava con il cambio a cloche. L’ultima volta aveva provato con la leva corta di un’auto sportiva, questa invece era un’asta lunga che culminava con un pomello nero di gomma ruvida. Provò a ingranare le marce.

— Maledizione, muoviti!

— Preferisci andartene di qui o avere un incidente? — L’auto scivolò dolcemente all’indietro; la prima entrò grattando leggermente, ma con la seconda e la terza filò tutto via liscio. — Ora siamo due ladri — disse mentre uscivano dal parcheggio dell’ospedale. — I casi sono due, o ci rispediscono in ospedale, o ci mettono in galera.

Appena ebbero svoltato l’angolo, North gli disse sorridendo. — Come credi che mi sia procurato le chiavi? E chi ci ha fatto trovare la porta aperta? Ho anche un po’ di denaro.

— Quanto?

— Non sono affari tuoi. E tu ne hai?

Lui disse: — Stessa risposta.

— Sai, devo dire che mi piaci. — North ridacchiò. — Ed è un guaio, perché un giorno o l’altro dovrò spaccarti quel dannato naso moccioso.

— Spero che lo farai solo quando non avrai più bisogno di me per guidare. Tu sai guidare? Mi avevi detto di sì.

— Ho frequentato il corso per autisti dell’FBI.

Lui chiese: — Allora perché mi hai portato con te?

— Perché mi dispiaceva lasciarti lì, idiota.

Lanciò un’occhiata a North e vide che non sorrideva più.

Si trovò davanti una strada che non conosceva: era ampia, a due corsie che correvano all’esterno di due paia di scintillanti rotaie del tram.

Tra la strada e il marciapiede c’era una fila di alberi spogli già carichi di neve. Lui ripensò alle strade che aveva visto irradiarsi dal crocevia davanti al Centro di Igiene Mentale. Questa era una di quelle strade, ne era certo. Ma quale? Gli era parso che fossero tutte diritte, ma che nessuna andasse in una direzione precisa, né a nord, né a sud, né a est, né a ovest. Eppure questa strada andava verso nord.

— Fermati laggiù — gli disse North — dove c’è scritto “armi”. Vedi l’insegna?

— Vuoi prenderti una pistola?

— Fermati, o ti spezzo il collo.

North sembrava proprio deciso a farlo. Lui accostò l’auto al marciapiede di fronte al negozio di armi e spense il motore. North discese e lui tirò un sospiro di sollievo quando lo vide passare davanti alla vetrina ed entrare nel negozio di abbigliamento lì accanto.

Dalla tasca interna del soprabito prese Tina, la bambola, ed esaminò a lungo, o almeno così gli parve, il suo enigmatico sorriso.

Poi tirò fuori da sotto la camicia l’amuleto che Sheng gli aveva dato. Era una radice, un oggetto secco e duro dalla forma di un ometto raggrinzito non più lungo dell’avambraccio di Tina.

Una passante gettò un’occhiata attraverso il finestrino e lui pensò che doveva averle fatto una strana impressione, con la bambola in una mano e l’amuleto nell’altra.

Probabilmente quella donna aveva pensato che era pazzo, e se avesse chiamato la polizia, avrebbe scoperto di avere ragione.

Però ai Riuniti nessuno aveva pensato che fosse pazzo, solo alcolizzato. Se lui era un alcolizzato, North cos’era? Un maniaco schizofrenico. O qualcosa del genere.

Ripose l’amuleto e la bambola e rivolse l’attenzione ai passanti. A una prima occhiata sembravano tipi abbastanza comuni, a parte i vestiti un po’ fuori moda. Gli era capitato di vedere alcuni film ambientati negli anni trenta e quaranta, e ora aveva l’impressione che queste figure scure e silenziose che si affrettavano infreddolite, fossero personaggi di quelle pellicole. Ragazze, donne e pochi uomini, tutti indossavano cappotti pesanti, lunghi quasi fino ai piedi; gli uomini con cappelli di feltro a tesa larga, le donne e le ragazze con i cappelli a cloche ben calzati.

Oppure si trovava da qualche parte nell’Europa dell’est, dove, stando a quello che dicevano i notiziari della sera, abiti simili erano ancora diffusi. Gli passarono accanto un giovane con un cappello di pelo e molte donne in pelliccia. Esisteva un posto nell’Europa dell’est dove si parlava inglese? Magari una città in cui venivano addestrate spie russe? Una città simile, tuttavia, avrebbe dovuto avere un’ambientazione ben più fedele alla realtà. Non era poi tanto difficile procurarsi automobili e abiti americani.

Passarono tre donne di mezza età, ognuna con una valigetta portadocumenti o una cartella. Si rese conto di aver visto pochi uomini anziani, e cominciò a contarli. Era arrivato a contare ventitré donne e tre uomini apparentemente di mezza età, quando North uscì dal negozio di armi.

— Tutto sistemato — gli disse North. — Possiamo andare.

— Credevo fossi nell’altro negozio.

— Infatti. Ho comprato questo cappotto. Ti piace?

Era a un solo petto, di pesante tweed marrone. — Certo — gli disse.

— Cominciavo a sentire un po’ freschino. Ora sono a posto. — North sbottonò il cappotto e la giacca. Da ogni spalla gli pendeva una fondina da cui spuntava il calcio di un’automatica. — Calibro 9. Temevo che non le avessero, e invece sì. Va bene, muoviamoci. Dobbiamo andare in molti posti e vedere molte persone.

Lui scosse la testa. — No. Almeno finché avrai addosso quelle.

— Hai paura di me? Be’, è normale. Ecco, tieni. — North gli mise una pistola sulle gambe. — Ora siamo pari. Ti darò anche la fondina appena potrò sfilarmi di dosso il cappotto. Muoviamoci.

Lui scosse la testa.

— Cosa diavolo ti succede? Ho cercato…

Non voleva toccare la pistola, ma lo fece. — Ecco. Riprendila. Riportale tutte e due al negozio. Ti restituiranno il denaro.

North lo colpì col pugno destro alla mascella, mandandolo a sbattere con la testa contro il finestrino e per qualche istante lui continuò a vedere lampi intensi di giallo pallido.

— La prossima volta non ti colpirò con la mano, ma con la pistola.

Lui cercò di aprire la portiera, ma North lo afferrò per un braccio. — Hai una pistola — disse. — Usala.

Lui scosse la testa, cercando di schiarirsi la vista.

— Usala! È carica, pronta a sparare. Prendila e cerca di uccidermi. Io userò la mia. Uno di noi avrà la meglio.

— Tu sei pazzo — disse lui. — Tu sei proprio pazzo. — Sentì l’impugnatura quadrettata dell’automatica che gli s’infilava in mano; North la teneva per la canna e cercava di fargliela afferrare. Invece lui sollevò le mani come aveva visto fare al cinema e in televisione, sperando che un poliziotto passasse lì accanto e li notasse.

North disse: — Non hai fegato. Non hai proprio fegato. Pensavo che ne avessi un po’, ma mi sbagliavo.

— Se ci vuole fegato per sparare con una pistola scarica a un uomo che ne ha una carica, allora hai ragione, non ne ho neanche un po’.

North tirò indietro l’otturatore, fece saltar fuori una cartuccia che andò a colpire il parabrezza, poi la riprese, estrasse il caricatore, inserì la cartuccia e richiuse tutto nel calcio della pistola. — Vuoi fare la prova?

Lui scosse la testa e girò la chiavetta dell’accensione.

— E ora metti in moto.

Appena si allontanarono dal marciapiede, lui chiese: — Dove stiamo andando?

— Tanto per cominciare, in un albergo. Mi servono altri vestiti, documenti, giornali, una base di lavoro. — Schioccò le dita. — Il Grand Hotel! Muoviamoci, devo trovare una sistemazione.

Lui cercò di immaginarsi per quale genere di lavoro gli servisse quella base. Ma pensò che fosse meglio non fare domande.

La strada perse le rotaie del tram per diventare un viale fiancheggiato da imponenti edifici di granito e di marmo, edifici custoditi da statue drappeggiate dalla neve e, in un caso, da una sentinella in carne e ossa che poteva essere un manne degli Stati Uniti in uniforme. Infine si ritrovarono in un piazzale dove le auto, i camioncini, gli autobus a due piani e qualche rara bicicletta ruotavano spediti intorno a un generale con una spada al fianco e un bicorno in testa. Ebbe un attimo di disorientamento prima di capire che il generale, il suo cavallo rampante, la sua spada sguainata stavano anche loro girando, che la statua stava ruotando in senso antiorario, come il traffico.

Un’automobilina verde gli tagliò la strada e North impugnò la pistola.

— Calma — disse lui, e con la mano tenne ferma quella di North finché l’auto verde non si fu allontanata.

— Per Dio, l’avrei fatto a pezzi quel bastardo — mormorò North tra i denti. — A pezzi l’avrei fatto!

— E così la polizia ci avrebbe preso. Dove devo voltare?

North non rispose, lo sguardo fisso davanti a sé. Le auto, quasi tutte nere, sfrecciavano in un senso e nell’altro. Un poliziotto e una poliziotta li sorpassarono su una volante bianca e nera. La donna li guardò incuriosita prima che la volante venisse inghiottita dal traffico.

La mascella gli faceva ancora male; la massaggiò con una mano mentre con l’altra teneva il volante. — Continua a girare — gli disse North. — Dev’essere una di queste strade.

10. La stanza d’albergo

Il terrazzo coperto da un tappeto di neve intatto testimoniava che non veniva usato nella stagione invernale. Lui aprì la portafinestra e uscì all’aperto per osservare il mare d’inverno. Le onde avevano quel colore verde grigio che gli artisti chiamano piombo, e battevano la spiaggia deserta come dotate di volontà, come operai che sapessero che presto il loro lavoro sarebbe finito, gli ultimi ciottoli, gli ultimi granelli di sabbia sarebbero stati dilavati e allora, quando tutto fosse finito, avrebbero avuto la paga.

Lì vicino, un frangiflutti di cemento spazzato dal vento e, ancora più vicino, una stretta stradina asfaltata maculata di ghiaccio. Una terrazza pavimentata e circondata da sempreverdi piantati in grandi cassoni conduceva dalla strada alla scalinata in marmo del Grand Hotel, che era chiaramente un luogo di villeggiatura estivo, ma che d’inverno era deserto.

La loro stanza (North aveva insistito che prendessero una stanza a due letti) era all’ultimo piano.

Costava solo venticinque dollari a notte, e loro erano riusciti ad averla per una settimana a centoventicinque dollari. La stanza era spaziosa, col soffitto alto e molto fredda.

Un gabbiano solitario volava in cerchio sul mare gelido, e lui pensò che se North fosse stato lì avrebbe tentato di sparargli.

Pensò anche che, se ne fosse stato capace, il gabbiano gli avrebbe potuto dire che mare era quello e se bagnava anche il suo mondo, benché lui fosse convinto del contrario.

Ma dove si trovava? Forse gli avevano somministrato qualche droga che gli aveva provocato un’alterazione permanente della percezione del mondo circostante, così che ora lui stava vagando con gli occhi spalancati, e parlava ai fantasmi nella città dove era nato; oppure, come gli aveva fatto capire Lara nel suo biglietto, si trovava dall’altra parte di una porta speciale che lui doveva individuare. E se era così, dove stava Lara? Qui o là? Ma Lara sembrava stare da tutte e due le parti, sembrava che avesse fatto entrare uno strano uomo nel suo appartamento e che apparisse nei suoi sogni e nella televisione; anche se, in questo caso, forse era Marcella.

Marcella era certamente Lara sotto un’altra identità. Cosa gli aveva detto? “Caro, è molto pericoloso che io ti parli.” Era un messaggio, l’avvertimento più chiaro che Lara avesse osato esprimergli.

“Che ore sono lì da te?” Allora Marcella era, era stata,molto lontana, in una zona con fuso orario diverso ed era arrivata da lui con un jet che aveva preso appena aveva finito di parlargli al telefono; oppure aveva voluto che lui pensasse che era lontana.

Marcella era una stella, Marcella appariva in televisione, era famosa a tutti. Come l’aveva chiamata l’infermiera? Una dea dello schermo? Ma Marcella gli aveva telefonato, l’aveva svegliato mentre dormiva… o forse tutto era stato solo un sogno?

Restò a guardare la neve danzare sulle grandi pietre nude della terrazza.

Al di là della vetrata, il telefono cominciò a squillare. Lui aprì la portafinestra e rientrò nella stanza che ora gli sembrò calda. Richiuse la portafinestra col saliscendi.

Il telefono squillò ancora.

Si guardò intorno per capire se la portafinestra lo aveva riportato nel suo mondo o lo aveva spedito in un altro luogo ancora più strano di quello di Lara. A parte il caldo, nella stanza nulla era cambiato. Capì allora che la sensazione di calore era dovuta alla differenza di temperatura con l’esterno dove soffiava un vento gelido. Sollevò il ricevitore.

— Signor Pine? — Era il nome che aveva deciso di dare, d’accordo con North.

— Sì — disse.

— È lei che divide la camera con il signor Campbell?

— Sì — disse di nuovo. — Ma è piuttosto il signor Campbell che la divide con me. È lui che paga.

— Noi abbiamo registrato solo il suo nome, signore, anche se risulta che gli occupanti sono due. L’altro signore si chiama Campbell?

— Esatto. Perché me lo chiede?

— Il signor Campbell sta facendo acquisti in uno dei nostri negozi, signore — disse l’impiegato, e riattaccò.

Riattaccò anche lui e accese il televisore. Sullo schermo non comparve Lara come lui si aspettava.

Prese la mappa e il rotolo di banconote dalle tasche del suo soprabito e li gettò sul divano.

Per quanto riusciva a giudicare, le banconote erano autentiche. La carta marrone in cui erano avvolte con l’iscrizione a caratteri cinesi e il valore dieci centesimi erano come li ricordava.

Mise via le banconote e studiò la mappa, cercando di ricordare la topografia degli Stati Uniti e capire dove potesse essere quella zona. La commessa del negozio del cartografo aveva nominato una città che si trovava da quelle parti… oppure era stato l’uomo dalla faccia paonazza con cui aveva parlato in strada? Per quanto si spremesse le meningi, non riusciva a ricordarne il nome.

Sulla mappa non si vedeva nessuna città e d’altra parte la mappa sembrava un’illustrazione. C’erano montagne incappucciate di neve e strette vallate impervie. Una barriera inaccessibile di mura e torri denominata “Castello dei Giganti”, che probabilmente era solo una formazione rocciosa. Ebbe la sensazione di averne sentito parlare, o forse aveva sentito parlare di un “Sentiero dei Giganti” o qualcosa del genere.

La ragazza aveva nominato un posto chiamato “Gola di Cristallo”, di questo era sicuro. Lo trovò sulla mappa… statue e urne risplendenti su piedistalli di cristallo. Un altro posto era chiamato “Il giardino delle delizie della dea”, al centro, un arco di pietra grigia ricoperto di fiori. Rabbrividì al ricordo di quell’arco come l’aveva visto nei suoi sogni.

La porta si spalancò e apparve North carico di scatoloni e con in mano un giornale. — Ecco qua — disse North lanciandogli una scatola.

Lui tirò fuori la mappa che era rimasta sotto la scatola.

— Che cos’è?

— Un cappello. Ho dovuto tirare a indovinare la misura, ma se non va bene puoi riportarlo indietro. Senza cappello hai un aspetto buffo. Qui lo portano tutti.

Lui ripiegò la mappa, aprì la scatola e tirò fuori un cappello di feltro con la fascia alta. Non aveva mai indossato un cappello, ma doveva ammettere che North aveva ragione.

— Ti ho comprato anche una cravatta e un paio di camicie. Se la cameriera ficca il naso qui dentro è meglio che trovi qualcosa.

— Hai visto l’uomo che dovevi incontrare?

— Te lo dico dopo. Provati il cappello.

Lui se lo mise in testa. Dapprima pensò che fosse un tantino stretto, poi decise che andava bene. La cravatta di seta rossa con motivi gialli gli fece venire in mente le uova strapazzate. Le due camicie erano grigie, una a righe gialle, l’altra azzurre.

— Seta pura… qui la seta è a buon mercato. Ho calcolato che la misura di giro collo dovrebbe essere quaranta. Se non vanno bene lascia il colletto aperto. Però sta meglio allacciato.

— Quaranta di giro collo dovrebbe andar bene.

— Adesso leggi cosa scrivono di noi — disse North allungandogli il giornale. — Siamo sulla prima pagina.

LA FUGA DI TRE PAZZI

Tre pazienti sono fuggiti ieri dal reparto maschile degli Ospedali Psichiatrici Riuniti. I loro nomi non sono stati resi noti per rispettare i sentimenti dei loro familiari, ma il dottor Jonathan Pillo-Lin, un medico dell’ospedale, ha affermato che uno di loro è un elemento pericoloso. “È un soggetto maschile di tipo ariano e di altezza media”, ha detto il dottor Pillo-Lin al cronista. “Capelli scuri e una calvizie incipiente, occhi scuri e baffi neri. Lo stavamo sottoponendo a una terapia a base di elettroshock e litio ed eravamo convinti che il paziente stesse facendo progressi. Il soggetto era stato trasferito dal Reparto Violenti a quello di Terapia Generale dieci giorni fa. Tuttavia il paziente, in assenza di terapie adeguate, può essere soggetto a ricadute”.

Il secondo è un uomo di bassa statura, di corporatura esile, di circa quarantacinque anni, quasi del tutto calvo. Ha modi accattivanti e il suo comportamento può apparire assolutamente normale anche per lunghi periodi. Non è considerato pericoloso ma, nel suo interesse, è consigliabile che sia ricoverato in ospedale.

Il terzo è giovane, di altezza inferiore alla media, capelli scuri e ricci, occhi scuri. È in rapporti amichevoli con il secondo paziente; si pensa, quindi, che possano essere insieme.

Questa è la prima volta negli ultimi dieci anni che dei pazienti riescono a fuggire dagli Ospedali Riuniti. Le misure di sicurezza sono state rafforzate.

North disse: — Di lei nemmeno una parola, hai notato? Hanno paura che li costringano a non utilizzare più infermiere nel reparto maschile.

— L’infermiera che ti ha aiutato? Forse non lo sanno nemmeno.

— Certo che lo sanno, se hanno un po’ di cervello. Di chi è la macchina che manca? Di chi… — North s’interruppe colpito da un’idea improvvisa. — L’altro è Eddie Walsh. Non c’è dubbio.

— Ma lui non è venuto via con noi.

North sorrise. — Ma noi abbiamo lasciato la porta aperta. Ti ricordi la porta C? Era sempre chiusa a chiave. Quando noi siamo usciti Walsh stava sulle spalle dei ragazzi e deve averci visto. Eddie è un furbetto bastardo.

— Ma non aveva vestiti. Mio Dio, sarà morto di freddo.

— Ha rischiato, come abbiamo fatto noi.

Se North aggiunse qualcosa, lui non lo sentì. Vide la faccia di sua madre e sentì la sua voce come l’aveva vista e sentita alla fine, quando stavano per perdere la loro casa: — Ho rischiato.

— Qui non danno molta importanza ai documenti d’identità — disse North. — A quanto mi hanno detto, una patente basta e avanza. Ecco la tua.

Un cartoncino volò attraverso la stanza e atterrò sulle sue ginocchia. Era convinto che una patente dovesse essere plastificata e avere la foto del titolare, questa invece somigliava più a un biglietto di teatro piuttosto elaborato, anche se c’era scritto il suo nome (come se lui fosse la stella dello spettacolo) e c’era lo spazio per la firma.

North disse: — Io mi faccio una doccia e mi cambio. Fa’ lo stesso anche tu, se ne hai voglia. Poi abbiamo qualcosa da fare.

Lui annuì e, mentre lo faceva, vedeva ancora il viso di sua madre, il viso che forse lei aveva quando era molto più giovane, sullo schermo della televisione. O quello di Lara. La donna si voltò ed era solo un’attrice che gli presentava la schiena mentre la macchina da ripresa occhieggiava, al disopra delle sue spalle, verso l’uomo insulso con cui lei stava parlando. Lui ebbe la sensazione che sua madre era stata Lara… Lara che svaniva quando lui cercava di afferrarla. Non la Lara che aveva vissuto con lui, anche se tutte e due…

Scosse la testa. Era mai possibile che uno diventi pazzo con la stessa facilità con cui prende la varicella? Cosa gli stava succedendo? Tutti quelli che negavano di esserlo, erano invece pazzi come il povero Eddie Walsh?

Scosse ancora la testa, prese il giornale e cercò un diversivo alla pazzia che minacciava di travolgerlo: le notizie sportive.

Il viso di Eddie Walsh lo fissava spavaldo dalle pagine dello sport.

JOE È PRONTO PER IL CAMPIONATO DEL MONDO

L’agente di Joe Joseph, Edward E. Walsh, ha annunciato oggi che il popolare pugile ha firmato l’accordo per sfidare il campione mondiale dei pesi massimi “Sailor” Sawyer. “Joe è già il campione”, ha detto Walsh. “Quello che farà sarà solo difendere il suo titolo”. La data non è stata ancora decisa ma, secondo i termini dell’accordo, l’incontro dovrà tenersi entro l’anno. Joseph ha collezionato una serie di vittorie convincenti nelle sue ultime cinque uscite e ieri notte ha messo K.O. al terzo round Ben McDonald. Quello con Sawyer rappresenta il suo primo incontro veramente importante. Walsh, che era stato ricoverato in ospedale per disturbi gastrici, è tornato al lavoro e preparerà Joseph per il grande incontro.

Lasciò cadere il giornale. Povero Eddie, adesso lo avrebbero trovato. Perfino i medici leggono le notizie sportive. Cercò di ricordare il nome del dottore orientale, ma gli venne in mente solo Sheng, il vecchio cinese che vendeva medicamenti senza prescrizione nella sua bottega. Come poteva fare per trovare Walsh e avvertirlo? Certo, a quest’ora anche lui aveva letto il giornale, ma un avvertimento poteva essergli comunque utile.

Nel ripiano sotto il tavolino da notte fra i due letti c’era un grosso elenco telefonico grigio e giallo. Non trovò nessun Walsh Edward E. Cercò di ricordare il nome della società di Walsh, la società di cui Eddie gli aveva parlato la prima volta che si erano incontrati. Walsh Promotions, ecco come si chiamava.

Scorse la colonna e, in basso, vide il nome scritto in neretto. Fece il numero.

Nessuna vocetta cinguettante questa volta. Il telefono (immaginò un ufficetto sporco al secondo piano di un edificio di mattoni vicino alla palestra) squillò due volte e una voce meravigliosamente familiare disse: — Pronto?

— Lara!

— Sì, sono Laura. Cosa posso fare per lei, signore?

— Lara, sono io.

— Temo che lei abbia sbagliato numero, signore — disse Lara in tono guardingo. — Qui parla la Walsh Promotions. Io sono Laura Nomos, il consulente legale del signor Walsh.

Lui fece un sospiro. — Credo che tu sia Lara Morgan.

Lei appese il ricevitore. Lui fece di nuovo il numero e il telefono continuò a squillare nell’ufficio immaginario della Walsh Promotions, ma nessuno rispose.

North uscì dalla doccia fresco e roseo abbottonandosi una camicia a righe azzurre. — Devi andare al gabinetto?

Lui scosse la testa.

— Allora andiamo.

— Dove?

— Diciamo che andiamo a incontrare alcuni amici per discutere sul da fare.

Lui si alzò in piedi, si rassettò il vestito e mise a posto la cravatta, prese il soprabito e si assicurò che non fosse caduto niente dalle tasche. — Fare cosa?

— Prendere il potere in questo posto di matti, cosa pensavi? Abbiamo bisogno di uomini e della garanzia che l’esercito non si metta contro di noi. — North prese le due pistole nei bei foderi di cuoio nero e se le infilò una da una parte e una dall’altra.

11. Il complotto

— Volta in quella stradina a metà dell’isolato — gli disse North.

Lui fece come gli aveva detto e si ritrovò in un vicolo stretto e tortuoso proprio come quello che aveva imboccato per sfuggire al poliziotto a cavallo. Adesso era notte, e il vicolo, a parte la luce dei fari della loro auto, era completamente buio. Gatti dagli occhi verdi splendenti balzavano via furtivi e lui dovette scendere dall’auto per spostare un bidone della spazzatura che si era rovesciato impedendogli il passaggio.

Il vicolo si biforcò, poi si biforcò di nuovo e un’altra volta ancora; alla fine di qualche diramazione si intravedevano strade più ampie, ma North continuava a dirigerlo nella direzione opposta. Presto si convinse che nemmeno North sapeva dove stessero andando; probabilmente aveva preso nota della direzione da seguire su un foglietto di carta che ora, col buio, non riusciva a consultare, e per un capriccio di orgoglio insensato non voleva accendere la luce interna né un fiammifero.

Finalmente si fermarono dietro una fila di auto parcheggiate, le superarono a piedi e salirono una rampa di gradini di cemento che portava a una porta metallica. North batté col pugno sulla porta finché un’anziana donna non venne ad aprire.

— Qui fuori c’è bisogno di una luce — disse North.

— Si è fulminata la lampadina — ribatté la donna.

Sembrava che li stesse aspettando e li precedette in una stanzetta sudicia dalle pareti di cemento, dove c’era una donna alta con un camice bianco tutto macchiato che accese un gran numero di luci, così intense che per un attimo lui dovette chiudere gli occhi. La donna esaminò le loro facce e le impiastricciò di cipria. — Mi piace il tuo sorriso — sussurrò la donna, e gli ritoccò le labbra con una pomata rossa, poi sollevò uno specchio perché potessero vedersi. Lui si morse le labbra cercando di togliersene il più possibile.

— Credevo… — fece per dire lui.

— Tu non capisci come vanno le cose qui — gli disse North. — Non ci conviene avere l’aspetto di due appena arrivati dalla strada.

— Certo che no — concordò la donna ancora indaffarata intorno alle loro facce che ritoccava qui e là con una matita.

Lui sentì delle voci provenire dall’esterno, e anche un rumore, come il rombo di un tuono lontano; uomini e donne passavano avanti e indietro, forme scure in un corridoio scuro. Quando la donna alta stava per completare la sua opera, lui intravide la sagoma dinoccolata di un orso.

— Ecco fatto — gli disse North. — Seguimi.

Il corridoio buio conduceva in una stanza fortemente illuminata dove quattro uomini sedevano intorno a un tavolo di legno laccato. Uno di loro indossava una divisa sgualcita, due erano vestiti di grigio come se dovessero andare in ufficio e l’ultimo, che sembrava il padrone di casa, indossava un pigiama giallo e un accappatoio marrone. Gli ci volle del tempo prima di rendersi conto che la stanza era di gran lunga più grande di quanto gli era sembrata perché solo una parte (poco meno della metà), era illuminata, e che c’erano degli spettatori nella zona buia dove non arrivava la luce.

L’uomo in divisa si rivolse a North, e gli spiegò brevemente quel che era stato detto prima del loro arrivo. Sembrava chiaro che voleva che fosse North a guidarli, e altrettanto chiaro che non avrebbe accettato nessun capo.

North disse: — Non solo possiamo combattere l’ingiustizia, possiamo vincerla. Ma solo se tutti voi, e tutti quelli coinvolti nel nostro movimento, saranno pronti a fare tutto quello che gli viene detto o, in caso contrario, a subirne le conseguenze. Un’impresa come la nostra attira un mucchio di dilettanti; ma i dilettanti non ci servono, ci servono uomini disciplinati che siano giudici di se stessi. C’è qualcuno tra voi che rifiuterebbe di uccidere l’uomo che gli sta accanto se io gli dicessi che quell’uomo ha fallito il compito che gli era stato affidato?

Lui fece per protestare, ma l’uomo in divisa stava già replicando: — Qui non c’è uomo che non sia pronto a uccidersi se dovesse fallire.

— Un uomo simile non potrebbe fallire — gli disse North. — Un uomo simile è forte, ed è con la forza — e solo con la forza — che possiamo vincere. Forse voi pensate che il governo sia forte e noi deboli, ma vi sbagliate. Il governo è ricco e potente, ma non è forte. Le sue membra massicce sono immobilizzate da diecimila corde, troppo sottili perché voi riusciate a vederle. Sono immobilizzate dalla religione e dalla morale, e dalla necessità di apparire religiosi e moralisti anche quando la religione vera e la morale autentica vanno in tutt’altra direzione. Sono immobilizzate dagli affari sporchi, dalle attività illegali e dai politici corrotti che si sono già accaparrati e spartiti le zone da controllare. Quando il governo comincerà, e sarà troppo tardi!, a muoversi e a intervenire contro di noi, vi renderete conto di quanto in realtà sia maldestro e inefficiente. E più forti diventiamo noi, più s’indebolirà. La forza è il nostro Dio! Dio non è forse colui che esaudisce le preghiere? Ed è la forza che esaudisce le nostre, che rende possibile a una nazione o a un uomo di ottenere quello che vuole.

Dalla zona buia della stanza arrivarono applausi sparsi.

— Chi è l’uomo che è con lei, signore? — domandò l’uomo col pigiama giallo. — Ci si può fidare di lui? — Era il più anziano del gruppo, aveva una grossa pancia, i capelli bianchi e una voce profonda e gelatinosa, come se provenisse dalle cavità più remote dei polmoni soffocati di grasso.

— No! Non ci si può fidare di nessuno. Lei lo sa meglio di chiunque, ma se veniamo meno alla fiducia, ci aspetta la morte. Per tutta la vita ci hanno insegnato — loro ci hanno insegnato — a pensare che questa fosse la nostra debolezza. Ma io vi dico che questa è invece la nostra forza! Siamo esseri soprannaturali messi alla catena da semplici esseri umani, e non dobbiamo voltare le spalle all’immagine di Dio che è dentro di noi. Siamo una sacra compagine di fratelli, e quando ognuno di noi ne sarà consapevole, diventeremo invincibili!

Un pesante sipario color porpora calò a dividere la zona buia da quella illuminata. Da dietro il sipario arrivava il rumore simile a quello di un tuono che aveva già sentito. Gli uomini seduti intorno al tavolo si alzarono, i due in abito grigio si tolsero il cappello e si asciugarono il viso. Un uomo calvo in maniche di camicia sbirciò nella stanza. — Chiamata alla ribalta! Inchinatevi, tutti insieme. Un solo inchino.

North gli prese la mano destra, il grassone la sinistra. L’uomo in divisa prese la mano destra di North, e i due in abito grigio si separarono mettendosi ognuno a un’estremità della fila. Come tanti bambini che giocano, si avvicinarono al punto in cui il sipario si apriva e fecero un inchino — North ne fece due — a un pubblico che riuscivano a malapena a intravedere.

— Sta andando bene — gli disse North quando furono usciti nel corridoio scuro. — Li hai sentiti anche tu.

— Credevo che dicessi sul serio. Credevo che stessi veramente per rovesciare il governo.

— Infatti. È così che si cominciano a trasmettere le proprie idee alla gente. Fanno la stessa cosa anche nel nostro mondo.

L’uomo in maniche di camicia ricomparve con un foglietto di carta in mano. — Se volete sedervi in platea, ci sono due posti vicini. La vostra prossima entrata in scena è alle dieci in punto. Me lo sono scritto qui.

North dette un’occhiata al foglietto e mormorò un grazie. — Andiamo, c’è un passaggio intorno alla platea dove si trovano le uscite di sicurezza. Lavoravo qui prima che mi sbattessero in ospedale.

I posti erano in terza fila. Lui voleva chiedere a North se poteva comprare il popcorn, anche se sapeva benissimo che il popcorn si trovava solo al cinema, o almeno così era nel mondo reale. Sentiva che anche Lara si trovava da qualche parte in quel teatro, e se solo fosse riuscito a trovare una scusa per alzarsi, avrebbe potuto incontrarla.

Un’esile ragazza bionda salì sul palcoscenico portando con sé un seggiolino e uno strumento che sembrava un incrocio fra una chitarra elettrica e una balalaica. Si mise a sedere sul seggiolino e cominciò a suonare, cantando una canzone sui pirati. Mentre cantava, tre pirati dalla pelle scura presero a danzare silenziosi dietro di lei. Uno aveva una benda nera su un occhio, un altro un uncino al posto della mano e il terzo una gamba di legno; quello con la gamba di legno accompagnava la cantante con una piccola fisarmonica e danzando colpiva l’aria con la gamba come se fosse il manico della scopa di una strega. Quando la nave dei pirati si fermò a cento metri dalla sua vittima, il rollio delle fiancate si propagò nel teatro e i tre danzatori sembrarono cinquanta.

— Faceva tristezza, vero? — sussurrò North. — Lei laggiù, tutta sola. Anche al pubblico non piaceva molto. Una scena come quella era più adatta a un night club.

Sul palcoscenico fu fatto scivolare un pianoforte e una donna anziana con l’aspetto di una donna delle pulizie suonò L’isle joyeuse, il titolo era stampato sul programma. Lui chiuse gli occhi per ascoltare la musica; si sentiva molto stanco, anche se quel giorno non aveva fatto altro che ciondolare per la stanza dell’albergo. I pirati si erano trasformati in arlecchini e la loro nave era diventata snella, con una lunga prora e vele dalle strane forme. Lui aveva già visto quelle figure e quella nave da qualche altra parte, forse in un quadro o su un pannello dipinto nel Reparto Arredamento.

Anche se non poteva vederla attraverso le palpebre abbassate, capì che Lara si era allontanata dal pianoforte. All’improvviso ne fu certo, aprì gli occhi e raddrizzò la schiena: Lara aveva già lasciato il palcoscenico. Si alzò in piedi. Quando North gli afferrò una manica, lui mormorò: — Non mi sento bene — e si precipitò nel corridoio deserto dietro alle uscite di sicurezza.

Sorpreso si accorse che il corridoio non era affatto deserto; davanti a ogni uscita di sicurezza stazionava un uomo alto dall’espressione impassibile. Nessuno parlò o fece qualcosa per fermarlo, ma lui capì che l’avrebbero fatto, se avesse cercato di uscire dal teatro.

Invece corse dietro al palco, sicuro che Lara dopo essere uscita da una delle quinte — è così che vengono chiamate — non era scesa tra il pubblico e si trovava ancora lì. Era buio come prima, ma a lui sembrava che la melodia suonata al pianoforte dall’anziana donna, quelle note splendenti, scintillanti, avessero illuminato l’ambiente… gli sembrava che i prismi di cristallo di qualche antico e inestimabile candeliere si fossero trasformati in uccelli, e quegli uccelli volassero. Rallegrato da questa luce, grazie alla quale riusciva quasi a vedere, spalancò una porta e vide l’orso, che si sollevò ringhiando sulle zampe posteriori. Anche se la bestia portava la museruola e la catena, lui sentì un improvviso brivido di paura.

— Eccoti qui — disse l’uomo in maniche di camicia. — Credevo che ti saresti perso l’entrata — disse. Lui chiuse la porta.

— No, no — disse. — Non posso farlo di nuovo. — Cercò di spiegargli di Lara.

— Hai fatto un sogno, amico — gli disse l’uomo in maniche di camicia. — Te lo dico io. Madame stava suonando il piano, e tu ti sei fatto un sonnellino.

Lui disse: — Anche se è solo un sogno, devo cercarla. Devo continuare a cercarla anche se ho solo una probabilità su un milione, perché è l’unica che ho.

— No, anche se non fosse un sogno, tu stasera devi andare fino in fondo. C’è Klamm, il consigliere della Presidente, uno degli uomini più importanti del paese.

— Klamm? — domandò lui. — Gli ho parlato una volta al telefono, ma era tedesco.

L’uomo in maniche di camicia lo guardò con maggior rispetto. — Infatti, Klamm è tedesco.

— Non pensavo che la Presidente avesse un consigliere tedesco.

North passò accanto a loro senza neppure guardarli.

— Klamm è un immigrato, ma ha un ruolo molto importante nel governo. Ora devi andare fino in fondo. Sta nel palco alla tua sinistra.

Lui fece per protestare, ma l’uomo in maniche di camicia lo spinse verso il palcoscenico. — Se vedo la tua Lara, te la mando su, la faccio entrare in scena. Promesso.

North stava già entrando in palcoscenico, lui lo seguì, cercando di sembrare un cospiratore, ma aveva il viso pallido per lo spavento. Aveva perso il cappello grigio da qualche parte, non si ricordava dove.

La scena era cambiata. L’uomo in divisa era disteso su una cuccetta sotto a una coperta leggera. — E così è successo.

— È già successo altre volte — disse North.

Voleva cercare Lara tra il pubblico e Klamm nel palco, ma era accecato dalle luci. Pensò che la sua prima impressione era giusta, si trovavano in un seminterrato, ed era il teatro a essere una finzione, non lo spettacolo. “Ho recitato la mia vita come un attore in uno spettacolo, senza conoscere la mia parte”, pensò. “Lo capisco solo adesso”.

North domandò al grassone: — Quando succederà?

Il grassone scrollò le spalle. — Oggi, signore. Domani, al più tardi. Il sistema immunitario sta andando, e dopo si tratta solo di vedere quale virus lo aggredirà per primo.

Uno degli uomini in abito grigio chiese: — Perché, Nick? Perché l’hai fatto?

— Mi dispiace, David — rispose l’uomo disteso sulla cuccetta. — Non sono riuscito a controllarmi.

North si voltò dall’altra parte. — E in quel momento non c’era nessuno che potesse aiutarlo.

I suoi occhi si erano abituati all’intensità delle luci del palcoscenico e ora riusciva a vedere il pubblico: linee oblique di visi pallidi e indistinti nell’oscurità, interrotte qua e là da qualche posto vuoto. In piedi (come sempre) accanto a North, facendo finta di guardare l’uomo sulla cuccetta, lui osservava quei volti nella speranza di incontrare quello di Lara. Non riuscì a vederla, e allora gli venne in mente di cercare Klamm nel palco, ma non si ricordava se l’uomo in maniche di camicia gli aveva detto a destra o a sinistra, e se l’indicazione era intesa dal punto di vista degli attori o del pubblico.

Klamm era là, unico occupante del palco, un uomo anziano dal viso duro, con i lunghi baffi lucenti e appuntiti tinti di nero e le guance flaccide appesantite dagli anni. Il grand’uomo indossava uno smoking, una camicia bianca e una cravatta bianca, e sembrava che stesse dormendo con gli occhi aperti, lo sguardo fisso davanti a sé, come se stesse aspettando, sigaro in mano, attori più importanti o temi più nobili. Ma l’attesa avrebbe potuto anche rivelarsi inutile.

— I salmoni muoiono dopo aver deposto le uova — stava dicendo il grassone. — I fuchi dopo aver fecondato la regina. In molte specie, invece, i ragni maschi vengono divorati dalle loro compagne. Per lo meno questo ci è risparmiato.

Lui si era voltato, e proprio in quel momento Lara era entrata nel palco di Klamm. Ora era in piedi accanto al vecchio e gli teneva una mano appoggiata sulla spalla. Indossava un abito luccicante che le fasciava il seno mettendolo in rilievo, un doppio arcobaleno… viola, blu, verde e oro. Eppure, lui si disse, i suoi capelli erano ancora più splendenti, erano un particolare della sua persona così mutevole che ogni volta la rendevano diversa.

Fece un passo verso le quinte, e questa fu la ragione per cui fu il primo a vedere gli uomini armati di pistole.

12. I figli del drago

Dopo avergli trapassato il soprabito all’altezza del fianco, il primo proiettile uccise il moribondo sulla cuccetta. North si era messo subito a sparare, impugnando tutte e due le pistole. Altri poliziotti — se erano veramente poliziotti — stavano arrivando dall’altro lato del palcoscenico. Sulla gamba del pigiama giallo del grassone vide comparire una macchia di sangue che diventava sempre più grande. Il grassone rimase a fissarla a bocca aperta tenendosi stretta la gamba con le mani grasse e ben curate, poi cadde a terra lentamente fino a che il tonfo del suo corpaccione fece rimbombare il palcoscenico.

— Da questa parte — urlò North indietreggiando e fracassando il muro di cemento come fosse un telone dipinto. Lui si abbassò per togliersi dalla traiettoria dei colpi di North e si trovò faccia a faccia con un prestigiatore in un impeccabile abito da sera. Con gli abituali gesti aggraziati, il prestigiatore spalancò la porta di una cabina cremisi e oro.

North si precipitò dentro e lui lo seguì. Più che udirla ebbe la sensazione che la porta si chiudesse alle sue spalle. Precipitarono nell’oscurità, scivolando lungo qualcosa troppo ripido e liscio per riuscire ad appigliarvisi. In seguito avrebbe ricordato di aver avuto paura, quando la caduta si era interrotta, che da una delle pistole di North potesse partire un colpo.

Nessuna delle due pistole sparò, ma lui sentì sopra la sua testa detonazioni, grida e passi affrettati. Poi, uno strofinio e un lampo di luce: North aveva un accendino elettrico d’argento. Si trovavano su una pila di materassi, come la principessa sul pisello della favola. Intorno a loro barili, scaffali e scatoloni ammucchiati.

North strappò con i denti il cellophane di un sigaro. — Sai dove ci troviamo?

Lui annuì. Aveva visto una lanterna di carta e riconosciuto il posto. — Nello scantinato della bottega del cinese.

North dette un morso alla punta del sigaro e la sputò via. — Abbastanza vicino. Siamo nel sotterraneo del teatro. La scena del prestigiatore doveva venire dopo la nostra, per questo lui stava preparando le attrezzature dietro il nostro fondale. Quella cabina gli serve per far scomparire gli attori che gli fanno da spalla.

Scuotendo la testa lui scese dalla pila di materassi impregnati di polvere.

— Forse è meglio se ce ne stiamo quaggiù per un po’ — gli disse North accendendo il sigaro.

Lui aveva già un piede sul primo scalino. — Su, spara pure — disse. — Loro ti sentiranno e capiranno dove siamo. Oppure puoi cercare di fermarmi. Io mi metto a gridare e loro ci sentiranno. — Tirò fuori dalla tasca i fiammiferi di Sheng e ne accese uno, come aveva fatto Sheng in quella occasione che ora sembrava sepolta sotto una spessa coltre di fogli di calendario. Nell’angolo dello scantinato polveroso apparve un drago fiammeggiante, rosso e giallo, che emetteva fumo nero. Sembrò che gli facesse l’occhiolino e un attimo dopo svanì.

— Maledizione! — disse North raccogliendo il sigaro che gli era caduto di mano e calpestando le scintille. — Come hai fatto?

— Buon divertimento — gli rispose lui salutandolo con la mano mentre saliva la scala che portava al negozio di Sheng.

Sheng e il dottor Pillo-Lin stavano seduti nel retrobottega a bere il tè. — Io felice vede te — disse Sheng. — Questo figlio di sorella. Dottore. Uomo bravo. Tu vuole tè? Tu compra qualcosa?

Il dottor Pillo-Lin tese la mano. — Ci siamo già conosciuti… più o meno. Lei in quel momento era semi-incosciente. Poi l’ho vista durante la partita di moopsball. Lei era straordinario.

— E adesso lei mi riporterà là, o cercherà di farlo. — Prese una sedia e si sedette.

— Veramente no. — Il dottor Pillo-Lin fece una pausa. — Cioè, non lo farò, a meno che lei non lo desideri.

— Può darsi. — Si accorse che si stava massaggiando le tempie con la punta delle dita. — È tutto così strano.

Sheng ridacchiò. — Uomo allegro, dei felici. No triste, contento, ride. No cattivo. Cattivo no è allegro. Poi uomo muore, beve vino con dei e ride ancora.

Il dottor Pillo-Lin disse: — Ci sono momenti in cui la tensione della vita diventa insostenibile. Capita a tutti.

Gli venne in mente che North poteva salire dalle scale e ucciderli. Ma lui non poteva fare niente per evitarlo.

— Tu dice — disse Sheng. — Nipote molto saggio. Sheng pazzo, ma pazzo vecchio e visto molto. Anche pazzo poi impara.

Lui non rispose e Sheng continuò a parlare in tono quasi carezzevole. — Dice a dottor Pillo-Lin, tuo dottore. Sheng ascolta.

— Va bene. Per cominciare, il suo nome. Che razza di mondo è questo in cui uno si sveglia in ospedale e si sente dire che è in cura dal dottor Pillo-Lin?

Il dottore sorrise, nascondendo la bocca con la mano. — Si tratta solo di questo? Vede, il nome della mia famiglia è Di. Quando mi sono iscritto alla facoltà di medicina ho pensato che non fosse adatto a un giovane medico, così l’ho cambiato. Poi mi sono pentito spesso di averlo fatto, lo ammetto; ora penso che scegliere quel nome sia stata una goliardata. Ma ormai Pillo-Lin sta su tutti i diplomi e i documenti e sarebbe troppo complicato cambiarlo di nuovo.

— Sono davvero alcolizzato?

— Non credo. Ma se lei pensa di esserlo, sarà meglio che smetta di bere.

Sheng disse: — Beve tè — e gli versò il fumante liquido marrone nella tazza.

— Se non sono un alcolizzato, perché lei ha detto che lo ero, quando mi hanno ricoverato? Era scritto sulla cartella clinica.

Il dottor Pillo-Lin era diventato serio. — La donna voleva denunciarla e mio zio mi aveva chiesto di prendermi cura di lei. L’aveva vista cadere, capisce. Mancare a una promessa è una cosa seria, dovrebbe saperlo. Se avessi detto che, a parte il trauma cranico, lei era sano, l’avrebbero portata in un altro ospedale e poi in prigione. Mentre dicendo che era alcolizzato, sono riuscito a tenerlo ai Riuniti e a evitare che le venissero somministrate droghe psicoattive.

— Capisco. — Lui annuì, la spiegazione gli sembrò troppo complicata per riuscire a capire tutto e subito. — Signor Sheng, mi trovavo in un teatro. Sono entrato nella cabina di un prestigiatore, sono caduto in una trappola e sono finito su una pila di vecchi materassi. Ma quando l’uomo con cui mi trovavo ha acceso l’accendino, eravamo nel suo scantinato.

— Casa è di teatro. Sheng affitta negozio, Sheng bravo inquilino, paga sempre. Teatro non bisogno tutto sotterraneo, permette Sheng tiene mercanzia, e dà Sheng chiave.

Il dottor Pillo-Lin disse qualcosa a Sheng parlando velocemente in cinese, poi domandò: — Chi era l’uomo che stava con lei?

— North.

— È molto pericoloso. Se ne rende conto?

— Sì, lo so.

— Se in questo momento North sta davvero nello scantinato di mio zio, devo informare le autorità. Lei avrebbe dovuto…

In quell’istante si sentì sotto i loro piedi un’esplosione seguita immediatamente da un’altra. Un demone, un essere alieno, una cosa fiammeggiante che non aveva nulla di umano (eppure sembrava carica di vita), venne su ululando dalle scale, andò a sbattere contro la parete e si scaraventò dentro la stanza dove stavano bevendo il tè.

Ci fu una terza esplosione.

Lui stava in strada, seduto a bere tè. No, caffè. Un poliziotto in un’aderente divisa azzurra teneva in mano una caraffa di porcellana bianca crepata. Dall’altra parte, chino su di lui, un infermiere in camice bianco.

— Guarda! — disse il poliziotto. — Sta rinvenendo.

Un edificio era in fiamme. I vigili del fuoco lo stavano inondando d’acqua. Lui domandò: — Il signor Sheng sta bene?

L’infermiere disse: — Lei si trovava nella bottega del cinese? Questo spiega tutto.

Il poliziotto disse: — Lo hanno già portato all’ospedale. Era piuttosto malridotto.

L’infermiere disse: — Appena arriverà un’altra ambulanza, porteremo là anche lei.

Lui scosse la testa. — Non sono ferito. Solo un po’ stordito, ecco tutto. Cos’è successo?

Il poliziotto disse: — Nel teatro vicino è scoppiato il panico. I Federali hanno tentato di far fuori alcuni attori e c’è stata una sparatoria. Qualcosa ha innescato un incendio… probabilmente un proiettile vagante che ha colpito l’impianto ad alta tensione per le luci.

L’infermiere disse: — Credevamo che tutti fossero usciti dal teatro prima che l’incendio si propagasse. Poi l’abbiamo vista.

Il poliziotto disse: — Lei sta al Grand Hotel, vero? Le abbiamo trovato in tasca la chiave della stanza.

Lui annuì.

— Abbiamo trovato anche le chiavi della macchina, ma è meglio che questa notte lei non guidi. Se non vuole andare all’ospedale, le chiamo un taxi per farla portare in albergo. Ha capito? Può riprendersi la macchina domani.

L’infermiere domandò: — Pensa di riuscire a reggersi in piedi?

Lui si alzò per dimostrare che poteva farlo. Si sentiva le ginocchia deboli, ma riusciva a camminare. — Credo che il mio soprabito sia rovinato.

— Lo credo anch’io — disse il poliziotto. — Se ne dovrà comprare uno nuovo. A proposito, controlli che non le manchi niente mentre io e Fred siamo ancora qui con lei.

Sentendosi uno sciocco, lui tirò fuori il portafoglio e contò con attenzione i soldi mentre arrivava un altro carro dei vigili del fuoco facendo stridere i freni. C’erano poco meno di mille dollari in banconote che sembravano quasi autentiche. Il fascio di biglietti avvolti nella carta con su la scritta da dieci cent era ancora nella tasca del soprabito e c’erano anche la mappa e la bambola.

Arrivati a un incrocio abbastanza lontano dall’incendio, dove il traffico procedeva senza intoppi, il poliziotto lo aiutò a salire su un taxi. Il poliziotto disse all’autista: — Portalo al Grand Hotel, capito? In nessun altro posto. Alloggia lì. Non preoccuparti, può pagare. Se si sente male o succede qualche altra cosa lungo il tragitto, dillo a quelli dell’albergo quando arrivi.

— Va bene — disse l’autista. — Va bene. — Poi, quando la portiera del taxi fu chiusa, aggiunse: — Sa, queste corse non mi piacciono. Non becco mai una mancia decente.

Lui non rispose. Stava fissando fuori dal finestrino l’incendio e pensava al dottor Pillo-Lin e a North. Si era dimenticato di domandare se il dottor Pillo-Lin stava bene e aveva avuto paura a chiedere di North. Ma probabilmente North stava ancora nello scantinato quando i fuochi artificiali erano scoppiati e doveva essere certamente morto. Quando lui aveva acceso il fiammifero “magico” che aveva fatto apparire il drago, North aveva lasciato cadere il sigaro e le scintille avevano incendiato i fuochi d’artificio. Era stato lui a uccidere North. Non sentì alcun rammarico e nessun senso di colpa per questo. Subito dopo gli venne in mente che North aveva corteggiato la morte, aveva voluto morire e nella sua folle ricerca aveva trasformato ogni incontro in una lotta all’ultimo sangue.

— In albergo non ci sarà nessuno che vuole andare in centro a quest’ora. E poi al Grand Hotel c’è poca gente, Dovrò fare il viaggio di ritorno a vuoto.

Lui disse che forse qualcuno voleva andare all’aeroporto.

— Sta scherzando? Non volano quando è buio.

Lui mise via il biglietto da cento che teneva in mano e domandò quanto distava il Grand Hotel dall’aeroporto.

— Venti, trenta miglia. Ma io devo portarla al Grand Hotel. Quel figlio di puttana ha preso nota del suo nome e del mio numero.

— Mi domandavo se era possibile passare vicino all’aeroporto, mi piacerebbe vederlo.

— Però è fuori strada — gli disse il tassista.

— Allora non importa.

Quando era andato in macchina al Grand Hotel con North non aveva fatto quella strada. O, almeno, non riconosceva niente di quello che vedeva, anche se con tutta la neve che c’era, era difficile esserne certi. Il taxi s’infilò in una stradina fiancheggiata da squallidi edifici con le finestre illuminate. Un ubriaco dormiva (o forse era morto) sulla soglia di una casa. Si domandò se l’uomo fosse morto in tutti e due i mondi.

Quando North era morto, Nixon aveva sentito una fitta, un brivido? Forse. Perché Nixon era un uomo leale, o almeno così gli avevano detto. La lealtà era stata la grande, splendida virtù del presidente, la virtù che lo aveva reso così pericoloso.

Lui disse: — È proprio ciò che fa migliore un uomo che lo rende pericoloso per gli altri.

— Ehi, parla come un libro stampato. Più un uomo è un uomo… — Il tassista schioccò le dita così forte che il suono sembrò un colpo di pistola.

— Se si ferma a un bar, le offro da bere.

— Non posso bere quando sono in servizio, amico.

Da quel momento rimasero in silenzio. Lui guardava fuori del finestrino tentando di trovare il filo che univa tutto quello che gli era successo, ma un po’ alla volta i suoi pensieri si persero dietro gli edifici minacciosi fra il mistero e la magia della città. Ricordò un’altra città, l’appartamento di sua madre e lei che lo accompagnava a scuola a piedi tutti i giorni quando faceva le elementari. «Ci sono degli uomini cattivi in città», diceva, «che rapiscono i bambini». Forse era vero.

Gli edifici correvano via, poi si arrestarono come soldati nazisti, sbattendo i tacchi ai semafori. Non c’erano superstrade, cavalcavia, solo stradine tortuose abitate da gente dall’aspetto sinistro e lunghi viali diritti con le corsie sepolte dalla neve. Anche se lui era nato proprio alla fine del mandato di Eisenhower, gli sembrò di ricordare che era stato quel presidente a far costruire le superstrade, Eisenhower aveva prodotto Nixon e Nixon aveva prodotto North. La sua mente fu invasa dalle immagini livide di North intrappolato nello scantinato in fiamme che sparava alle lingue di fuoco.

Due viali si intersecavano ad angolo acuto e lui riconobbe un albero sempreverde vicino a un lampione che aveva i rami spezzati per il peso della neve. Aveva già percorso questo viale, in una direzione o nell’altra. “Nell’altra”, mormorò fra sé. Gli sembrò che, quando aveva visto l’albero dai rami spezzati, stesse andando nella direzione opposta e stesse guardando fuori dal finestrino della macchina rincagnata che l’infermiera aveva dato a North. Per quale ragione?

Tirò fuori dalla tasca le chiavi attaccate alla zampa di coniglio e le osservò. La zampa di coniglio non aveva portato fortuna alla macchina… e nemmeno al coniglio. Forse la macchina era un coniglio. No, un coniglio sarebbe sicuramente scappato da quel vicolo, sarebbe fuggito lontano dalle fiamme, saltando sopra i bidoni della spazzatura e le bottiglie rotte, svuotate del vino di poco prezzo in cui non c’era nulla del Cristo, vino prodotto al sole della California, buono solo a essere pisciato in un angolo di strada.

Ma qui c’era la California? C’era sicuramente dove si trovava Marcella quando aveva chiamato, dove si trovava Emma che aveva preparato il bagno di Lara. Emma gli stava di fianco e, anche se non poteva vederla, lui sapeva che era un soldato nazista, un S.S. travestito. Avrebbe voluto dire: “Allora, colonnello Hogan”, ma le parole non gli uscivano di bocca. Il cassetto era aperto e dentro c’era la lettera chiusa, la lettera sigillata con la ceralacca rossa. Aveva paura della donna, dell’uomo alle sue spalle.

“Ecco, sto facendo ancora quel sogno”, pensò. “E forse, quando mi sveglierò, starò dormendo accanto a Lara”.

Sulla scrivania c’era un solo libro, fissato al ripiano con un chiodo, così nessuno avrebbe potuto rubarlo. Il titolo era stampato sulla copertina di marocchino nero in caratteri gotici oro antico: Das Schloss.

13. Il Grand Hotel

Si svegliò nel momento in cui il taxi si fermava, molto probabilmente perché l’autista aveva fatto in modo che la frenata lo svegliasse. — Fa ventisette e dieci — gli disse.

Lui gli allungò trenta dollari e scese dall’auto.

Invece di portarlo fino alla rampa d’ingresso, il tassista lo aveva lasciato nella strada sottostante. Sopra al lastricato la neve continuava a danzare una danza di fantasmi, di bianche forme roteanti che volteggiavano nel silenzio più assoluto. In lontananza un campanile batté un colpo, e il suono cupo della campana rintoccò spettrale per miglia e miglia sui campi ricoperti di neve. Un vento gelido lo sfiorò penetrandogli attraverso i vestiti.

Sentì il rumore della risacca e si lasciò alle spalle le finestre illuminate e accoglienti dell’albergo, attratto da un impulso che non riusciva a comprendere e a cui non sapeva resistere. La sabbia era cosparsa di blocchi di ghiaccio che si erano ammucchiati a formare un ammasso più alto di lui.

Si inerpicò lentamente, facendo molta attenzione, afferrandosi saldamente alle lastre con le dita irrigidite dal freddo, scivolando e cadendo spesso finché finalmente non raggiunse la cima e lì si fermò a guardare l’oscurità piena di sussurri. Allora gli sembrò di essere anch’egli una creatura del mare, una foca, un delfino, un leone marino diventato uomo per qualche magia crudele, una magia come quella che aveva dato le gambe alla sirena in un racconto che un tempo l’aveva fatto piangere al pensiero di quella sirenetta che danzava, danzava col suo principe nel grande castello di Elsinore, danzava il minuetto mentre le unghie incandescenti della terra trafiggevano i suoi poveri piedi.

E a un tratto pensò al tempo in cui la televisione non lo assorbiva completamente, quando riceveva per bocca di sua madre tutti i consigli di cui avrebbe avuto bisogno per navigare in quello strano paese dove si trovava ora. Ma non aveva dato molta importanza a quelle parole, o almeno non abbastanza, perciò ora non sapeva riconoscere come una volta tutti gli orchi e i folletti, i giganti dinoccolati e gli gnomi danzanti. North era un mostro, questo era certo; e se North fosse stato invece una salamandra, il signore delle fiamme? E se ora North lo stava aspettando all’hotel, se stava danzando impaziente proprio quel minuetto, aspettando furioso d’esplodere?

Sua madre non gli aveva forse insegnato un incantesimo contro le salamandre?

Sua madre non era morta, come una volta stupidamente aveva creduto. In qualche remota parte di sé l’aveva sempre saputo. Aveva occultato questa sua convinzione per paura di apparire strano agli occhi dei suoi datori di lavoro, delle impiegate all’Ufficio Personale, degli ispettori e dei vicedirettori che non poteva più chiamare ficcanaso (almeno non lui, né qualunque altro impiegato a ore); ficcanaso, quel che lui aveva per tanto tempo sognato di diventare, anche se non aveva frequentato il college, anche se non era considerato — e non lo era mai stato — un soggetto che poteva aspirare a far carriera.

Quella cosa di cera che avevano sepolto, non era sua madre. Si chiese dove fosse e perché non gli avesse mai telefonato o scritto, perché non avesse cercato di avvertirlo in qualche modo; ma forse l’aveva fatto, forse era proprio sua la lettera che giaceva nel cassetto foderato di verde che aveva sognato.

Tra le nuvole si aprì uno spiraglio e la luna sfiorò l’oceano. Nel vedere quel frammento d’oceano tremolare alla luce argentata della luna ne fu certo, e fu certo anche di aver navigato per decenni, in una precedente vita; e sentì che quella precedente vita stava ora ritornando. Rimase in equilibrio sul ghiaccio, ma quella consapevolezza era scomparsa. Del chiaro di luna riflesso sulle onde non restava che la luna affacciata sulle onde, e ora che si era abituato al morso salato del vento non provava più gioia per l’aria pungente, ma ne avvertiva solo il senso di freddo. Dopo un po’ di tempo distolse lo sguardo dall’oceano e cominciò a scendere lentamente, scivolando spesso e afferrando le lastre di ghiaccio scheggiate con le mani irrigidite dal freddo, attraversò l’asfalto nero e la grande terrazza con i suoi fantasmi danzanti, salì la gradinata ed entrò nel Grand Hotel.

L’entrata dell’albergo aveva una doppia vetrata con due porte. Fra la prima e la seconda vetrata stazionava solitario un fattorino, come la sentinella di un castello senza guarnigione, l’ultima sentinella lasciata da Cesare per sorvegliare le mura romane o il Reno. Il fattorino guardò il suo soprabito bruciacchiato e bucherellato e il suo viso ustionato e disse: — Posso fare qualcosa per lei, signore?

— Sì — rispose. — Sì che puoi. Almeno spero. — Voleva dire al fattorino il numero della stanza, ma non se lo ricordava, perciò disse: — C’è stato un incendio. In un teatro e nel negozio di un cinese.

Il fattorino annuì comprensivo. — Quale teatro, signore? — Aveva i capelli biondi e ricci come trucioli e portava il cappello a tamburello messo di traverso sopra un orecchio.

— Non lo so — ammise. — Davano uno strano spettacolo sulla rivoluzione.

— Ah, allora dev’essere l’Adrian, signore. Bel posto.

— Non più — disse lui. — È stato completamente distrutto dal fuoco.

— Saranno stati di certo quelli del Governo, signore. Lei sa bene come sono.

Lui annuì (anche se non lo sapeva) e gli chiese: — Non c’è nessuno al banco della reception?

— A quest’ora no, signore. Di notte me ne occupo io.

Verrò con lei in ascensore, signore. — Il fattorino scrollò le spalle. — Vede signore, per noi è bassa stagione. Sa com’è, se le stanze dell’albergo avessero i caminetti… — il fattorino si strinse di nuovo nelle spalle, un movimento impercettibile sotto la giacchetta rossa attillata.

— È stato il mio amico a fissare la stanza. Vorrei sapere fino a quando è stata pagata.

— Se vuole, signore, posso controllare.

Lui annuì, tirò fuori dalla tasca la chiave della sua stanza e l’allungò al fattorino che intanto aveva aperto la porta a vetri interna e gli faceva strada nell’atrio.

Al banco, il fattorino aprì un enorme libro e cominciò a sfogliarlo. — Ecco qui, signore. A cominciare da ieri, o meglio, vista l’ora, dall’altro ieri. Per una settimana, signore. Quindi le restano ancora sei giorni, contando stanotte.

Nell’ascensore chiese al fattorino dove poteva comprarsi un cappotto nuovo. Gli pareva proprio che North avesse comprato le camicie, le cravatte e i cappelli senza allontanarsi dall’albergo; forse North sapeva davvero guidare, eppure aveva chiesto a lui di farlo, gli aveva sempre ordinato di guidare.

Lui disse: — Mi scusi, stava dicendo?

— Dicevo che qui c’è un negozio, signore. Anzi, adesso stanno facendo dei grandi sconti, per via della bassa stagione. Al piano inferiore, signore. Troverà anche un barbiere, una sala da biliardo e un mucchio di altre cose.

— Mi scusi — disse lui. — Mi dispiace ma devo essermi perso nei miei pensieri.

— È naturale, è un po’ scosso, signore. Deve averla scampata bella.

— Non so — disse lui chiedendosi se in realtà non fosse morto davvero. Si ricordava di aver sentito parlare del purgatorio quand’era bambino; anche allora non ci aveva creduto, ma forse aveva sbagliato a non crederci, così come aveva sbagliato tante altre cose da allora, sbagliato un’intera serie di scelte che non aveva mai avuto fine… finché un giorno Lara non lo aveva scelto. C’era il fuoco nel purgatorio? No, il fuoco era all’inferno.

Gli parve che l’ascensore salisse troppo velocemente, a strattoni e scossoni. Non se ne era accorto subito, ma solo quando aveva rallentato permettendogli così di vedere ogni piano e ogni corridoio, nervi e vene dell’albergo messi a nudo da quella gabbia di ferro battuto che gli mostrava ninfee e piramidi a un piano, cavalli dorati e covoni di fieno a un altro.

E a ogni piano, vene prosciugate e nervi immobili. Era questo che vedeva un bisturi mentre incideva la carne… questi pezzi sezionati privi di vita.

Da piccolo aveva subito numerosi interventi e da allora mai più. In quel momento si rendeva conto che la sua idea di sala operatoria era ancora quella di un bambino… ti addormenti di giorno e ti svegli con la nausea. Questa era stata la realtà: l’ascensore del chirurgo che girava dentro il suo corpo per vedere com’era fatto. Il ferro battuto lo guardò con l’espressione feroce di una belva della giungla, con gli occhi roteanti di un toro dalle ali di avvoltoio e la testa barbuta di uomo.

— Ultimo piano, signore. — Il fattorino tirò fuori la chiave. — L’accompagno fino alla sua stanza, signore.

— Ho un aspetto tanto orribile?

— Mi sentirò più tranquillo se l’accompagno, signore. — Il fattorino si affrettò davanti a lui lungo il corridoio. — Eccoci arrivati, signore. Suite imperiale. — La porta si aprì con uno scatto. — Lei e il suo amico siete i soli ospiti del piano, ma se avete qualche problema o altro, chiamate la reception. Sentirò lo squillo del telefono.

Lui annuì.

La stanza, che prima era fredda, era addirittura gelida. Mentre tirava fuori il portafoglio cercò di ricordarsi se aveva bevuto qualcosa insieme al tassista; era certo di sì, altrimenti non si sarebbe addormentato lungo il tragitto. La banconota di taglio più piccolo che aveva era da dieci dollari, ma pensò che il ragazzo li meritava dopo tutto il tempo che avevano passato insieme, a consultare il grande libro, a contemplare il mare e a fare l’autopsia del suo luogo di lavoro.

— Grazie, signore. — Il fattorino tossì. — Signore, abbiamo dei piccoli bracieri…

— Sì — disse lui. — Ne vorrei uno, se è possibile.

— L’ambiente deve essere areato, ma non si preoccupi, saranno sufficienti gli spifferi di quelle portefinestre. — Il fattorino gli fece un mezzo sorriso. — Gliene porto subito uno.

— Grazie — disse.

Quando il fattorino ritornò, lui si stava già svestendo. Il braciere era molto piccolo, ma era meglio che niente. Lo mise in camera da letto, e quando spense la luce si accorse che il rame emanava un tenue bagliore, una sensazione di calore e conforto.

Quando al mattino si svegliò, Lara non c’era, e tutti i muscoli erano indolenziti. Il dorso della mano destra era bruciato come la manica del soprabito, e la scottatura era secca e gli doleva. Nel bagno c’erano ancora l’acqua di colonia e la schiuma da barba che North aveva comprato, ma nessuna delle due sembrava adatta per essere spalmata su una scottatura.

Servizio Medico, era stampato sul cartoncino di plastica bianca che spuntava da sotto il telefono. Compose il numero, e gli risposero che il dottore non c’era, che di solito arrivava più tardi e che a volte, durante la bassa stagione, non veniva nemmeno, ma che non appena fosse arrivato l’avrebbe immediatamente chiamato (oppure no). Lui non si ricordava il numero della stanza, ma disse: — Sono nella suite imperiale, all’ultimo piano — e il telefonista disincarnato sembrò aver capito.

Soltanto dopo aver riappeso il ricevitore si rese conto di essere riuscito a telefonare senza difficoltà, senza l’intromissione di voci pigolanti o di Klamm, e che qualcuno — forse la persona giusta — gli aveva realmente risposto.

Decise di chiamare di nuovo il suo appartamento, ma cercò immediatamente qualcos’altro da fare, qualcosa che allontanasse nel tempo il momento in cui avrebbe veramente composto il numero. Si accorse che il braciere era ormai spento, restava solo qualche scintilla rosso vivo fra la vaporosa cenere grigia. Aggiunse un po’ di carbonella dal contenitore di rame vicino al braciere, andò in bagno a sciacquarsi le mani, stando attento a non bagnare la scottatura.

Il soprabito era irrimediabilmente rovinato. I pantaloni migliori dovevano essere sostituiti, ma potevano ancora andare abbastanza bene in attesa di comprarne di nuovi. Si vestì lentamente, facendo attenzione alla scottatura e cercando di pensare più alla colazione che alla telefonata e al suo appartamento, convinto che sarebbe stato più saggio non pensare a niente finché non fosse l’ora di telefonare, telefonare per parlare con qualcuno che non sarebbe stata Lara, o con nessuno.

Squillò il telefono.

Rispose. Era il dottore, come avrebbe dovuto immaginare. — Mi pare di capire che si è scottato una mano.

— Sì — disse lui. — Non credo che sia grave, ma sopra si è formata una specie di crosta. — Decise di non parlargli delle scottature che aveva scoperto di avere sul viso quando si era rasato. Il medico le avrebbe viste da solo e avrebbe deciso se era il caso di curarle, oppure no.

— Ho avuto anch’io un piccolo incidente. Venga di sotto, per favore. — La voce del dottore gli suonava vagamente familiare. — Le applicherò una pomata e le metterò delle bende per proteggere la pelle finché non si cicatrizza. Mi troverà nel seminterrato… qui lo chiamano il piano inferiore.

L’ascensore impiegò molto tempo per arrivare. Suonò tre volte prima di ricordarsi che c’era un operatore per farlo funzionare e che si sarebbe senz’altro infastidito. Quel giorno l’operatore era un adolescente imbronciato pieno di foruncoli.

— Piano inferiore — disse.

I piani che si intravedevano scendendo e che la notte prima gli erano sembrati abbandonati ora gli apparivano desolati. Pensò di essere lui stesso un fantasma, su un ascensore fantasma in un albergo fantasma; pensò che quell’edificio era stato demolito tanto tempo prima, e sostituito da condomini affacciati sul mare, orribili strutture bianche e silenziose, a loro volta minacciate dalla distruzione. Condomini avvolti in sudari bianchi di sale, destinati a essere demoliti se solo si fosse trovato qualcuno che comprasse il terreno pagandolo sull’unghia e in anticipo perché fossero abbattuti.

Apparve l’atrio, ancora deserto, se si eccettuava un giovane magrolino e occhialuto seduto dietro al banco della reception. Atterrarono come elicotteri, nell’antro senza finestre delle boutique, tutte buie e serrate, tutte (a giudicare dall’apparenza) pronte a giurare che non erano aperte, e non lo erano mai state.

— Da che parte è l’ambulatorio medico? — domandò.

Il ragazzo glielo indicò.

— E può dirmi fino a che ora servono la colazione al bar?

— Fino all’ora di chiusura — rispose il ragazzo, e sbatté la porta in ferro battuto.

Passò davanti alla fila di negozi e voltò dietro un angolo. L’antro cavernoso era ancora più ampio, ravvivato da una fila di balconate. Dal soffitto pendevano bandiere impolverate come tante stalattiti; ne riconobbe solo due o tre. Di chi era l’aquila a due teste? E il grifone che artigliava l’aria?

— Da questa parte, signore!

Un grassone in maniche di camicia che si sosteneva a una stampella, si sporse da una sottile balconata per fargli cenno con la mano. Lui rispose con un altro cenno e salì una breve rampa di gradini metallici che cigolavano e rimbombavano sotto i suoi piedi, domandandosi se per caso non ci fosse un ascensore e se il dottore (che non sembrava in grado di salire scale) fosse stato costretto a passare di lì.

La porta del dottore era l’unica con la luce accesa, una porta vecchio stile coi vetri zigrinati e la cornice di quercia. Sul vetro, a chiare lettere, c’era scritto C.L. APPLEWOOD. Medico Chirurgo.

All’interno non c’erano segretarie, né infermiere. Il dottore stava seduto dietro alla scrivania in fondo alla stanza lunga e stretta. Aveva i tratti del viso marcati: la mascella pronunciata, il viso sbarbato, quel tipo di fronte alta alla Shakespeare che i capelli bianchi e la calvizie incipiente regalano a tutti gli uomini, il doppio mento che richiedeva una grande abilità nella rasatura. Su tutto, un velo di fine cipria bianca tipico degli attori.

— Bene! Bene! — Le parole risuonarono forzate. — Sono contento che ce l’abbia fatta, signore! Grandioso! Anche noi ce l’abbiamo fatta, salvo il povero Daniel. È morto! Proprio così, morto stecchito, e non ho potuto fare niente per salvarlo, signore, nessun medico avrebbe potuto salvarlo, da Ippocrate in poi. L’hanno beccato! Hanno sistemato il povero Daniel una volta per tutte. Hanno beccato anche me, come vede. Una pallottola, calibro trentotto credo, mi ha trapassato la coscia. Se mi avesse anche solo sfiorato l’arteria femorale, adesso non sarei qui! Sarei un cittadino dell’altro mondo, col povero Daniel al mio fianco. Invece sono riuscito ad allontanarmi a tentoni prima che divampasse l’incendio — come lei, signore, a quanto vedo — e il nostro coraggioso Carlos ha sparato al mascalzone che era di guardia all’uscita degli attori.

Il dottore rise con un suono cupo e gutturale, come quello soddisfatto, tra il coccodè e il chicchirichì, di un grosso gallo.

— E ora, signore, se lei mi scuserà per non essermi alzato, io la scuserò per non avermi stretto la mano. Me la mostri.

14. Il mare d’inverno

Il bar era vuoto. Un cartello bianco e nero su un sostegno di legno diceva: ACCOMODATEVI.

Lui si sedette a un tavolo vicino a una grande vetrata, simile a quella di una serra. Al di là della vetrata una bassa scogliera o un promontorio, o forse solo la parete della galleria ornata di bandiere da cui era appena uscito; ancora più oltre, una vasta distesa di sabbia sulla quale l’oceano aveva creato una cava identica a quella che lui aveva visto alcuni anni prima su un numero speciale di National Geographic: statue inespressive appoggiate o distese qua e là fra i resti e i frantumi di altre sculture, alcune ultimate, altre incomplete, altre ancora appena abbozzate, tutte ricavate da blocchi di ghiaccio marino.

Una lo stava fissando. Era una statua posta a una certa distanza sulla spiaggia, a metà strada fra la terra e l’oceano, che lo osservava insolente e silenziosa mentre lui prendeva il tovagliolo dal bicchiere e girava la tazzina di caffè.

Sembrava impossibile che la polizia avesse scelto un tale metodo per spiarlo, eppure era sicuro che fosse così. In qualche modo dovevano eliminare tutti quelli che avevano visto sul palcoscenico: lui, North, i due uomini d’affari, il dottor Applewood e l’uomo in divisa dell’esercito. (Ma quello era facile da eliminare… anche il dottor Applewood lo aveva detto.)

Anche lui era facilmente eliminabile. Il poliziotto aveva guardato nel suo portafoglio, aveva visto la chiave dell’albergo e aveva detto all’autista dove portarlo. Sapevano dove stava e sicuramente avevano mandato qualcuno a controllarlo.

— Vuole un caffè, signore?

La cameriera aveva circa vent’anni, molto petite, con i capelli neri tagliati corti che gli incorniciavano il viso come le ali di un morbido uccello nero, un uccello deciso a covare il suo volto ovale… o se l’aveva già covato, a proteggerlo dagli aspri eventi del mondo.

— Sì — lui disse. — E un succo d’arancia, se è possibile.

Lei rispose: — Vuole una spremuta, signore? — e gli strizzò l’occhio.

Lui era troppo sorpreso per riuscire a ricambiare l’occhiolino, ma rimase a osservarla mentre si allontanava trotterellando sulle sue scarpe nere lucide dai tacchi altissimi (perché era piccola di statura, si disse). Indossava una cuffietta bianca e un vestito di seta nera con un grembiulino bianco, come le cameriere in un vecchio film di Cary Grant.

Un profumo fragrante di caffè fresco gli fece capire che la ragazza aveva riempito la sua tazza, anche se lui non se n’era accorto. Il caffè era nero come il suo vestito, nero come le sue scarpe, e lui capì che non sarebbe stato più capace di vedere qualcosa di nero — un caffè o un cielo notturno — senza pensare alle scarpe o al vestito di quella ragazza. Mise un po’ di crema di latte nella tazza (cosa che faceva raramente), guardò fuori dalla vetrata e ricordò le notti con Lara.

Davanti all’albergo, a poco meno di mezzo miglio da dove lui sedeva, stava passando una grande nave bianca; procedeva lentamente come se andasse controvento con i motori al minimo. A scuola un insegnante una volta aveva detto: «Lenta come una nave dipinta su un oceano dipinto».

Era sicuro che Lara fosse sulla nave, su quella nave bianca che sarebbe sembrata molto più appropriata in Florida o in un posto simile, il Golfo del Messico, il Pacifico o il Mediterraneo. Era sicuro che Lara lo stava osservando col binocolo mentre lui sorbiva il caffè, sorbiva l’acqua ghiacciata che la ragazza dalle scarpe nere doveva avergli portato. Gli aveva portato l’acqua ghiacciata anche se lui non se n’era accorto, gli aveva portato l’acqua anche se lui era seduto davanti all’acqua e al ghiaccio che scorrevano in eterno. La ragazza portò la spremuta d’arancia e gliela posò davanti con la sua manina delicata ornata da lunghe unghie cremisi, una mano completamente priva di anelli. — Desidera altro, signore?

— In questo momento — lui disse — vorrei che lei si sedesse qui a parlare con me.

— Non posso, signore. Pensi se arrivasse il direttore.

— È un posto solitario questo — le disse lui.

— Lo so, signore. Lei è l’unico ospite… l’unico in tutto l’albergo.

— Mi meraviglia che lo tengano aperto.

— È il periodo peggiore dell’anno. In genere la stagione termina alla fine di luglio e ricomincia a marzo.

Cercò disperatamente di pensare a qualcosa da dire o a un commento da fare per trattenerla. — Viene tutti i giorni fin qui dalla città?

— Certo. Qui non c’è niente da fare. — Si guardò intorno per vedere se qualcuno poteva sentirla. — Voglio dire, per noi. Per gli ospiti è un’altra cosa.

— Sarebbe a dire?

— Oh, ci sono le terme, i campi da tennis al coperto, e così via. Ma noi non possiamo usarli. Cosa vuoi per colazione?

Lui notò con tristezza che adesso non aveva detto “signore”, anzi, gli aveva dato del tu. Non lo considerava più un cliente, ma solo un altro corteggiatore importuno. Lui domandò: — Che c’è di buono?

A bassa voce lei rispose: — Io — e poi in tono normale: — Perché non prendi una cialda? Il cuoco è un vero specialista. Ne abbiamo per tutti i gusti.

— Portami quella che preferisci.

La ragazza annuì. — Vado a prenderti altro caffè.

— Va bene, fai presto.

Lei si allontanò lentamente, annotando l’ordinazione sul taccuino. Quando scomparve dietro la parete divisoria, lui parlò all’inespressivo volto di ghiaccio sulla spiaggia. — Hai sentito quello che abbiamo detto? Riferirai tutto?

La statua non rispose.

Il dottor Applewood non si era preoccupato della presenza di spie, telecamere o microfoni nascosti. Quando lui gli aveva chiesto del teatro, il dottor Applewood si era alzato e aveva afferrato lo schienale di una delle vecchie sedie di legno: “Ricorda le nostre attrezzature di scena, signore? Questa era quella che usavo per picchiare e battere sul pavimento come fa una vecchia signora con un bastone!”

Ma perché il dottore, nonostante la gamba malandata, era venuto in un albergo che aveva un solo ospite? E — domanda altrettanto importante — perché la ragazza gli aveva detto che lui era l’unico ospite? North risultava ancora registrato all’albergo. Anzi, North poteva tornare nella stanza mentre lui mangiava la sua cialda o poteva essere già tornato mentre il dottor Applewood gli fasciava la mano. Erano riusciti a fuggire tutti, a eccezione di Daniel, così aveva detto il dottore. Daniel era stato fatto secco, ma dove si trovava North? Avrebbe telefonato? Probabilmente no… la polizia poteva aver messo il telefono sotto controllo per ascoltare tutte le telefonate in partenza o in arrivo.

Bevve un sorso di caffè. Era ottimo.

Se avesse avuto un cappotto, sarebbe potuto uscire dall’albergo. Ci doveva essere un posteggio da qualche parte. Se North aveva preso la macchina, che lui aveva lasciato accanto al teatro, lui l’avrebbe riconosciuta e… si ricordò di avere ancora le chiavi in tasca.

Ma probabilmente North non aveva usato la macchina. Probabilmente era bruciata insieme al teatro… era lui che aveva la chiave, non North. Eppure era possibile che North avesse usato la macchina. North gli aveva dato la chiave, ma non gli aveva detto che era l’unica copia; e non era da lui dare a qualcuno l’unica chiave e rinunciare alla possibilità di usarla.

I ladri sapevano mettere in moto una macchina senza usare la chiave di accensione, mettendo in contatto i fili e anche North, che si era fatto un attrezzo per aprire l’armadietto con filo elettrico, ne sarebbe sicuramente stato capace. Un uomo in doppio petto e gilet entrò nel bar e si sedette non lontano da lui. Quando la cameriera gli portò la cialda, lui le domandò chi fosse.

— Probabilmente un ospite dell’albergo. Ma non so… non l’ho mai visto prima d’ora.

— Avevi detto che ero l’unico ospite.

— Ieri… tu e il tuo amico. Quel signore probabilmente è arrivato ieri sera e io ho preso servizio solo un’ora fa.

— Devi pagare pegno per non avermi saputo dire il nome di quell’uomo: ora devi dirmi il tuo.

Lei sorrise: — Fanny.

— Davvero?

— Ti pare che mi inventerei un nome simile? Io so chi sei tu. Sei A.C. Pine e stai nella Suite Imperiale.

La ragazza se n’era andata prima che potesse risponderle. Mentre mangiava la sua cialda (la sera prima non aveva cenato ed era così affamato che avrebbe potuto mangiarne cinque), si mise a pensare alle iniziali. Che significavano A.C.? Probabilmente Fanny glielo avrebbe chiesto ed era meglio che non si trovasse a rispondere Abner Cecil. Abraham Clyde? Arthur Cooper? All’ultima sorsata di spremuta d’arancia aveva deciso di chiamarsi Adam qualcosa.

Il piano inferiore non era deserto come lo ricordava. Parecchi negozi erano illuminati e si sentivano dei passi. Il primo negozio in cui dette un’occhiata era un salone di bellezza. Una bionda laccata si stava mettendo lo smalto alle unghie in attesa di clienti. — Buongiorno — disse lui.

Lei lo guardò senza un briciolo di interesse. — Salve.

— Bella giornata.

— Fa un po’ più caldo fuori?

— Non lo so — disse lui. — Non sono ancora uscito.

La bionda sospirò guardando da un’altra parte. Poi, di nuovo verso di lui: — Io sì. Mi creda, non è una bella giornata. C’è un vento micidiale.

— Non avrà molto lavoro, allora.

Lei si strinse nelle spalle. — Comunque io rimango qui. Ho solo questo negozio.

— Se volessi cambiarmi il colore dei capelli…

Lo guardò interessata: — Lo vuole davvero?

— Non oggi. Fra qualche giorno, forse.

— Certo, posso tingerglieli di qualsiasi colore. Le costerebbe venti dollari.

— Mi sembra un po’ caro.

— E va bene… facciamo quindici. Ma è il minimo che posso farle. Se sapesse quanto mi fa pagare d’affitto l’albergo…

— Allora facciamo venti, ma lei mi deve promettere che non lo dirà a nessuno. D’accordo?

— Affare fatto. Comunque sappia che non racconto mai a nessuno dei miei clienti.

— E ora, lei… — S’interruppe. Appena un po’ sulla sinistra della testa della bionda c’era il manifesto pubblicitario di uno shampoo. La donna dell’immagine era Lara. — Può dirmi se c’è un posto dove possa comprare abiti da uomo?

— Ce ne sono tre, ma non so…

Dietro di lui la porta si aprì ed entrò Fanny, la cameriera. La ragazza sembrò altrettanto sorpresa di lui nel vederlo. — Ciao — disse lui.

— Oh, come va? — La ragazza rimase in silenzio mentre lui spostava lo sguardo da lei alla bionda. Poi Fanny disse: — Hai tempo?

— Credo di sì.

— Pensavo di farmi la permanente. Sono libera fino all’ora di pranzo.

La bionda disse: — Ma non ne hai ancora bisogno. Non è meglio che ti faccia lo shampoo e te li metta in piega?

Lui disse: — Bene, sarà meglio che vi saluti — e uscì nella galleria. Fece una cinquantina di passi e poi gli venne in mente di tornare indietro e mettersi ad ascoltare.

Esitò per qualche secondo, indeciso. L’aveva visto fare centinaia di volte agli attori, in televisione e al cinema, ma gli sembrava che non fosse possibile nella vita reale. Le ragazze lo avrebbero sentito, oppure avrebbero parlato del più e del meno. Ma questa era la vita reale?

Tornò sui suoi passi il più silenziosamente possibile, contento che non ci fosse nessuno che poteva vederlo (eppure qualcuno poteva esserci) e sentendosi piuttosto sciocco.

— …uno stupido seccatore — Era la voce della bionda. Fanny rispose risentita, ma così a bassa voce che quasi non riusciva a sentirla: — Gli ho parlato… a colazione. Dovevo farti rapporto. Sai quali sono gli ordini.

Lui si allontanò in punta di piedi.

Al banco vendita del primo negozio d’abbigliamento maschile che incontrò c’era una donna. Il fatto lo sorprese. Comprò un cappello nuovo e un cappotto pesante e, dietro suggerimento della donna, un gilet di lana da indossare sotto la giacca. Ordinò anche un paio di pantaloni di lana. Lei gli prese la misura delle gambe, segnò le cuciture col gesso e gli disse che i pantaloni sarebbero stati pronti il giorno seguente. La donna aveva intorno alle spalle un metro da sarto come la stola di un officiante e i capelli grigi raccolti in una crocchia.

— È lei che gestisce questo negozio?

— E chi se no?

— È un posto solitario, soprattutto in inverno.

— Vuole rapinarmi? Faccia pure, non c’è un soldo. Farò la denuncia all’assicurazione e forse mi daranno un po’ di denaro. Ma se fa tanto da colpirmi, l’ammazzo.

Lui esitò, sicuro che la donna stava scherzando, ma incerto su cosa dire.

Lei gli dette alcuni colpetti sui fianchi. — Sotto questa giacca non c’è posto per una pistola. Se vuole, gliene faccio una più adatta. Le costerà da cinquanta a cento dollari, dipende dalla stoffa.

— Io non porto pistole.

— Uno strangolatore, eh? — Scarabocchiò alcune cifre su un pezzo di carta. — Settantasette per il cappotto… cinquanta per cento di sconto, prima costava centosessantacinque. Venticinque per il cappello. Quindici per il gilet… ma visto che è un buon cliente le farò dieci e addio al mio guadagno. Deve anche pagarmi in anticipo i pantaloni, non voglio rischiare che non torni a ritirarli. Ventitré per i pantaloni, comprese le modifiche. In totale… facciamo centotrenta. Ecco una confezione da cinque di fazzoletti di puro lino irlandese. Se esce, il naso comincerà a colargli come una fontana. E una cravatta in omaggio.

Lui disse: — Non la voglio. Sono pieno di cravatte.

— Va bene, ecco cosa farò. Visto che lei oggi è il mio primo cliente e mi è simpatico, le darò questa sciarpa di lana a metà prezzo. — Dette un’occhiata al cartellino. — Quindici e novantacinque, cento per cento pura lana vergine. È sua per otto dollari, occasione valida solo per oggi.

— Va bene, la prendo, ma voglio anche una piccola informazione. C’è qualche posto qui nell’albergo dove una donna può farsi i capelli?

Lei scosse la testa. — Ci sarebbe un posto, da Millicent, ma Millicent non c’è… è il suo periodo di ferie, non apre fino al ventuno di questo mese.

— Mi sembra di averla già vista l’ultima volta che sono stato qui. Una donna bionda, snella, con un naso un po’ lungo…

— Nooo… — la proprietaria del negozio stava controllando la merce che gli aveva venduto. — Non era lei. Il cappotto lo indossa subito, vero? E la sciarpa e il cappello. I pantaloni saranno pronti domani pomeriggio. E il gilet? Io lo indosserei, soprattutto se ha intenzione di uscire.

— Farò così — disse lui e si tolse la giacca.

— Aspetti un momento, le tolgo il cartellino. Ehi, ha una bambola magica! Anche mio nipote ne aveva una.

Lui aveva appoggiato la giacca sul bancone e Tina spuntava dalla tasca.

Non sapendo che altro dire, lui disse: — Vuole guardarla? Faccia pure.

Lei lo fissò. — Lo sa cosa rischia dicendo una cosa del genere? Un sacco di donne non amano affatto questi oggetti.

— Vuole forse romperla?

Lei scosse la testa. — No, io non farei mai una cosa del genere.

— E allora perché non le dà un’occhiata?

Lei sfilò delicatamente la bambola dalla tasca. — Mio papà ne aveva una e mamma diceva che di notte, quando pensavano che lei dormisse, lui e la bambola parlavano. Adesso credo di capire per cosa le serviva la parrucchiera… Però dovrebbe tenerla in una scatola… è così che fanno quasi tutti. Prendo un pettine e le sistemo un po’ i capelli.

15. La terra d’inverno

Uscendo dal negozio di abbigliamento maschile passò accanto all’ambulatorio del dottor Applewood, che però era al piano superiore mentre lui si trovava su quello inferiore. Attraverso i vetri zigrinati non si vedeva nessuna luce accesa; si domandò se il dottore era andato a casa o se invece l’avevano arrestato. Era probabile che Applewood fosse una spia, che fosse stato lui a chiamare Klamm e gli agenti di Klamm, che la ferita che aveva ricevuto nel teatro fosse un incidente o un trucco, e che Applewood quella mattina fosse ritornato in albergo seguendo le istruzioni di Klamm o della polizia.

Pensò di provare ad aprire la porta, entrare nell’ambulatorio e frugare nella scrivania, ma poi decise di non farlo. Non era da escludere, anche se era poco probabile, che loro non sapessero nulla del dottor Applewood. Ma in caso contrario sarebbero senz’altro venuti a sapere che lui era entrato nell’ambulatorio del medico o anche che aveva solo sfiorato la maniglia della porta. Non era da escludere inoltre che loro non avessero saputo dove lui si trovava — cosa che invece ora sapevano bene — finché non aveva messo piede in quel bar. Quest’ultima ipotesi, però, non lo convinceva del tutto.

In ogni caso, aveva già fin troppo caldo, infagottato com’era nel panciotto, cappotto e sciarpa. Non vedeva l’ora di uscire da lì. Qualche metro oltre l’ambulatorio del medico vide una scala con la scritta PARCHEGGIO; salì i gradini e aprì una porta di ferro arrugginita.

Fu investito di colpo dal vento di cui aveva parlato la bionda; non era forte, ma insistente e molto freddo. Sentì subito che non era un vento di mare, ma di terra; non portava con sé il sapore della salsedine, sembrava invece che avesse soffiato per miglia e miglia sopra distese deserte di neve.

Da dove si trovava non riusciva nemmeno a vedere il mare. Appena fuori dalla porta arrugginita, in un piccolo parcheggio da cui avevano spalato via la neve, c’erano quattro auto tutte parcheggiate a ridosso della porta. Non vide la Mink rincagnata di cui aveva ancora le chiavi in tasca, anche se due di quelle auto le assomigliavano molto. La terza era una decappottabile rossa appena più grande della Mink, la quarta una limousine nera con i seggiolini pieghevoli nel vano posteriore, un’auto capace di trasportare otto persone in tutta comodità. Quella era senza dubbio la macchina con cui erano venuti gli agenti di Klamm, Fanny, la bionda a cui Fanny aveva fatto rapporto, il nuovo “ospite” del bar, e forse anche il dottor Applewood. Si chiese chi di loro fosse alla guida. La bionda, certo, era proprio il tipo che vuole sempre guidare, che quando può impedisce agli altri di farlo; doveva avere una guida veloce, sempre a sgommare e a impalarsi sul freno, il tipo di guida che avrebbe avuto North, se avesse guidato.

Provò ad aprire la portiera della limousine con le chiavi della Mink. Non andavano bene, anzi, non entravano nemmeno nella serratura. Con suo stupore il baule non era chiuso a chiave. Lo aprì e trovò un mucchio di fogli di carta sparpagliati; qualcuno aveva messo lì dentro un raccoglitore, ma il movimento della limousine l’aveva fatto rovesciare. Il vento prese due fogli di carta e li fece svolazzare sull’asfalto ghiacciato come polli terrorizzati.

Lui ne afferrò un terzo prima che riuscisse a fuggire e gli dette un’occhiata, poi lo lesse con attenzione sbalordita.

NOME: “Wm. T. North”, “Bill North”, “Billy North”, “Richard North”, “Ted West”. Nome attuale ignoto. Il primo nome è il più usato.

DATA DI NASCITA: Ignota.

LUOGO DI NASCITA: Ignoto, probabile Visitor.

STATURA: m 1.80 circa Peso: kg 77 Capelli: Scuri, calvizie. Spesso si lascia crescere i baffi.

OCCHI: Azzurri.

CARNAGIONE: Rosea.

SEGNI PARTICOLARI: Scottature sui palmi delle mani. Varie piccole cicatrici sugli avambracci, forse recenti. (North si automutila). Tatuaggio sotto il polso destro “RN”. Porta spesso un orologio da polso per nascondere il tatuaggio.

12/7/87 aderisce a Settembre Azzurro. 11/12/87 a capo dello Stivale di Ferro. Arrestato 6/6/88, Ospedali Psichiatrici Riuniti. Abile tiratore, porta spesso due, perfino tre pistole. Abile lanciatore di coltelli, può portarli legati al polso, al braccio o alla caviglia. Violento, temperamento impulsivo. Estremamente pericoloso.

C’era anche una foto di North (sembrava un po’ più giovane di come lo ricordava) e una serie di impronte digitali. Rimise il foglio nel raccoglitore e frugò tra le altre carte, in cerca di un rapporto dello stesso tipo sul dottor Applewood o magari su se stesso. Non trovò altro che un foglio intestato Daniel Paul Perlitz e il timbro deceduto. Il dottor Applewood aveva chiamato l’uomo in uniforme proprio Daniel.

Chiuse il baule di colpo, nel timore improvviso di essere osservato. Non sentiva più quel caldo soffocante; mentre ritornava alla porta arrugginita aveva freddo ed era ansioso di raggiungere il calduccio dell’albergo e di ripararsi dal vento. Infilò una mano in tasca per essere sicuro di avere ancora la chiave della sua stanza.

La porta di ferro era chiusa, e né la chiave della stanza né quella dell’auto rincagnata riuscirono ad aprirla. E dopo un istante pensò che quel parcheggio probabilmente era riservato agli impiegati e ai concessionari che affittavano i negozi e gli uffici della galleria. Loro sicuramente avevano anche la chiave per aprire quella porta. Avrebbe dovuto fare il giro per entrare dall’ingresso principale dell’albergo e avrebbe dovuto farlo camminando in mezzo alle raffiche di neve.

Con il bavero del cappotto alzato e la sciarpa sollevata fino a coprirgli il naso (ringraziò tra sé la donna che l’aveva convinto ad acquistarla), si guardò intorno in cerca di un passaggio tra la neve. Non c’era altro che il vialetto da cui erano arrivate le automobili che ora era sepolto dalla neve nei punti in cui batteva il vento. Il vialetto sembrava condurre ad alcune costruzioni sparse che si intravedevano in lontananza, quasi cancellate dal biancore della neve.

L’albergo si apriva in due lunghe ali laterali. Forse non proprio così lunghe se si percorrevano passeggiando per i corridoi, ma lunghissime per lui che avrebbe dovuto camminare con la neve alta fino alla vita, prima in una direzione e poi nell’altra, per aggirare l’edificio. Cominciò a fare qualche passo, poi abbandonò l’idea. Prima o poi il passaggio si sarebbe collegato alla strada che costeggiava il mare.

Attraversò il parcheggio pensando all’insufficienza del suo equipaggiamento: il cappotto, il gilet e la sciarpa erano stati degli ottimi investimenti, ma avrebbe dovuto scegliere un berretto anziché un cappello. Un berretto di pelliccia con i paraorecchie allacciati sotto il mento, o magari uno di quei cappucci di lana che la commessa aveva chiamato balaclavas, ma che lui non aveva degnato di uno sguardo.

Aveva anche bisogno di un paio di guanti. Gli sembrò assurdo non aver pensato a comprarne un paio; aveva le dita gelide, anche se aveva infilato le mani nelle tasche del cappotto. Ma aveva soprattutto bisogno di un paio di stivali invece di quelle scarpe; il breve tentativo di camminare sul vialetto era bastato a riempirgli le scarpe di neve, e nonostante si fosse mosso di continuo, sentiva che gli si stavano gelando i piedi. Come se non bastasse, continuava a scivolare, le suole lisce si rifiutavano di far presa sull’invisibile strato di ghiaccio che ricopriva l’asfalto a chiazze sparse e si rifiutavano di far presa sui mucchi di neve compatta.

Era uscito dal parcheggio e aveva imboccato il sentiero quando vide la foto di Fanny; prese in mano il foglio e si accorse che era identico a quello su North.

NOME: Frances Land, “Frannie Land”, “Faith Lord”.

DATA DI NASCITA: 9/7/64

LUOGO DI NASCITA: Manea AX

STATURA: m 1.60

PESO: kg 47

CAPELLI: Neri, ricci.

OCCHI: Castani.

CARNAGIONE: Chiara.

SEGNI PARTICOLARI: Sei dita nella mano destra. Occhiali da presbite.

Membro associato di Settembre Azzurro, gli Immortali, Stivale di Ferro. Ritenuta simpatizzante.

Scosse la testa, accartocciò il foglio e lo gettò via. Aveva sbagliato tutto su Fanny, tutto. Si corresse… su Frances. Come il dottor Applewood, anche Frances era un’alleata di North. Probabilmente era proprio perché tanti di loro lavoravano qui che North aveva deciso di venire in questo albergo abbandonato da Dio e dagli uomini d’inverno, in questo immenso vecchio albergo, lontano miglia e miglia dalla città.

Allora anche la bionda del salone di bellezza faceva parte dell’organizzazione di North, dato che Fanny aveva l’ordine (ma di chi?) di farle rapporto.

Oppure Fanny era… come si dice? Qualcuno che fa il doppio gioco. Qualcuno che dice di lavorare per uno mentre passa informazioni all’altro. Ma se Fanny non era arrivata con la limousine, con cosa era arrivata? E se la limousine non era di Klamm, perché nel baule c’erano quei documenti, documenti del Servizio Segreto, dell’FBI… della Polizia Segreta, del come diavolo si chiama?

Il passaggio era abbastanza ampio per una macchina, e la neve che si era accumulata ai lati era più alta di lui. Camminava in un mondo in bianco e nero, e dopo un po’ di tempo gli sembrò di non essere altro che il personaggio di un vecchio film, un vecchio film in bianco e nero. Non si vedeva colore da nessuna parte perché la pellicola non era ancora a colori e c’era solo la volta grigia del cielo, la striscia nera dell’asfalto sotto i suoi piedi e la neve su tutti e due i lati. Anche le scarpe erano nere, e quel nuovo cappotto grigio scuro sembrava quasi nero. Era l’inizio dell’ultimo spettacolo? O era la fine, quando lui (di nuovo nel suo appartamento, a guardare come al solito un vecchio film in Tv), si alzava sbadigliando, prendeva il bicchiere e la bottiglia dal tavolino, sapendo già che presto i due amanti si sarebbero abbracciati, la donna vestita come la statua della libertà che regge in mano la torcia.

Camminava guardandosi intorno e d’improvviso capì che sperava di trovare l’altro foglio che era volato via dal baule, perché sentiva che c’era la fotografia di Lara. Due fogli erano volati via e un altro era riuscito ad afferrarlo. Quello che aveva preso parlava di North; uno dei due che erano volati via, di Fanny… Frances. Sicuramente il terzo foglio, che non era riuscito a prendere e che non aveva ancora trovato, doveva essere quello di Lara, Lara che aveva visto per l’ultima volta mentre danzava sull’asfalto, fra la neve, nel vento.

Sentì appena in tempo il rombo alle sue spalle e si tuffò a sinistra nella neve. La grande limousine nera gli passò accanto, talmente vicino che lui sentì il risucchio che per poco non gli portò via una scarpa.

Si rialzò senza imprecare. Era troppo felice di essere vivo — sono vivo! — per farlo. Si accorse che una scheggia di ghiaccio gli aveva procurato un taglio all’indice; cominciò a succhiarlo mentre con la mano bendata spazzolava via la neve dal cappotto. Si tolse il dito di bocca per dargli un’occhiata, e dal taglio uscì un po’ di sangue che cadde sul nero dell’asfalto e sul bianco della neve.

Aveva messo il pacco di fazzoletti insieme alla mappa, nella tasca interna della giacca. Lo tirò fuori e lo aprì, ne sfilò uno e si avvolse l’indice.

Se non avesse temuto di cadere, si sarebbe messo a scivolare sulla neve ghiacciata. Ecco perché (pensava lui) Cary Grant e Rosalind Russell, William Powell e Myrna Loy irradiavano tanta felicità e tanto piacere in quelle pellicole tremolanti trasmesse a tarda notte; ecco perché risplendevano ancora, nonostante il bianco e nero, quando avrebbero invece dovuto essere morti. Come dovevano essere felici di essere ancora vivi là, sugli schermi angusti applicati agli apparecchi radiofonici dei loro tempi. Come erano felici!

Proprio come lui. In questo momento avrebbe potuto essere a casa, morto, morto e putrefatto davanti al televisore, seduto nella poltrona che aveva comprato durante i saldi; invece era lì, vivo, il rosso del suo sangue lo provava, anche se questa poteva essere la sua ultima interpretazione.

Il sentiero risaliva la collina e piegava a destra. Sentì il rumore di un camion, non solo lo sentì, ma lo vide, o almeno vide il tetto arancione e verde fare capolino da dietro i cumuli di neve. Altri cento passi, più o meno, e arrivò al punto in cui il sentiero sbucava su una strada a doppia corsia, pure di asfalto nero, che poteva o no essere quella che aveva percorso quando stava con North. Cercò d’indovinare da che parte fosse l’oceano, ma si sbagliò. Se ne accorse dopo aver percorso mezzo miglio, quando vide da che parte era l’albergo.

Stava già per ritornare sui suoi passi, quando vide un vecchio camioncino rosso con le catene che arrivava sferragliando, guidato da un uomo di mezza età. Lui gli fece cenno di fermarsi e gli spiegò in due parole che era rimasto chiuso fuori dall’albergo.

L’uomo sorrise e gli aprì la portiera. — Mi sa che non gli capiterà più di andare in giro conciato a quel modo!

Lui sghignazzò: — Diamine, no di certo! — Pensò che avrebbe dovuto prendersela, ma ne era assolutamente incapace. Il riscaldamento di quel vecchio furgoncino funzionava, e quel soffio caldo sui suoi piedi gli sembrò l’anteprima del paradiso.

— C’è poca gente d’inverno — disse l’uomo. — La mia Junie ogni tanto ci va a lavorare, ma quando arriva l’autunno, la licenziano. Io neanche sapevo che era aperto.

Lui fece cenno di sì e disse: — È quasi vuoto. Spero che non sia costretto ad andare troppo fuori strada a causa mia.

— Tanto dovevo passare di lì. Vado in città. L’albergo non è lontano, due o tre miglia da dove sto io.

Al termine della strada un segnale di stop indicava l’incrocio con una più ampia. Quando cominciarono a percorrerla, lui sentì il fruscio delle onde. Poi le vide, fredde e verdi e vive, come squame di un serpente acquatico attorcigliato intorno al mondo, pensò, e non tanto ostile quanto crudele.

— Eccoci arrivati. — Il furgoncino si fermò. — A proposito, mi chiamo Grudy.

— Green — disse lui, e si strinsero la mano. — Posso darle qualcosa per il passaggio, signor Grudy?

L’uomo bofonchiò. — Non lo dica nemmeno, signor Green. Se capitasse ancora, lo rifarei e lo stesso farebbe lei per me, ne sono certo.

Ringraziò di nuovo l’uomo e scese dal furgone, chiuse la portiera per bene e lo salutò con la mano guardandolo allontanarsi. Attraversò la terrazza in direzione della vetrata illuminata dell’albergo e guardò l’orologio. Erano le undici e trentaquattro; tra poco al bar avrebbero servito il pranzo. Avrebbe cercato di parlare con Fanny che, anche se faceva il doppio gioco, avrebbe potuto condurlo da quelli che non lo facevano. Rivedendolo, Fanny non avrebbe capito niente di più di quanto non sapesse già; ma lui avrebbe potuto imparare molte cose, perfino come pensa e agisce un cospiratore. A quel punto, questa gli sembrava la cosa più importante.

All’ingresso non c’era nessun fattorino. Tra le due vetrate un cartello diceva: CHIUSO PER TUTTA LA STAGIONE INVERNALE. Dietro al banco, un commesso occhialuto era alle prese con un mucchio di carte. Lui batté sulla porta, ma il commesso entrò in un ufficio e non ricomparve.

Dopo qualche istante le luci dell’atrio si spensero.

16. Il poliziotto

Si mise a osservare l’albergo dal piazzale antistante. Non si vedeva nessuna luce. Per un momento pensò di entrare attraverso una finestra, ce n’erano un centinaio a cui poteva facilmente arrivare… o almeno così sembrava, ma alla fine scartò l’idea. Se all’inferno non c’era nessuno, entrare non gli sarebbe servito a niente, invece, se c’era qualcuno del personale (per esempio l’impiegato che lo stava aspettando nell’ufficio in attesa che lui lasciasse l’albergo) lo avrebbero arrestato e sbattuto in prigione e in prigione non avrebbe sicuramente trovato Lara.

Decise allora di tornare sulla strada, nella convinzione che un uomo ben vestito avrebbe certamente trovato un passaggio e non avrebbe dovuto aspettare a lungo, anche se in questo caso l’uomo ben vestito aveva il viso pieno di scottature e un dito sanguinante. La statua di ghiaccio che lo aveva osservato mentre mangiava la cialda era ancora lì che lo osservava; aveva un’espressione cupa e soddisfatta… ma forse dipendeva solo dal fatto che lui la stava guardando da una prospettiva diversa. L’oceano gli parlava come una madre irata che sgrida suo figlio, e anche se sentiva la rabbia e il rimprovero nella sua voce, non riusciva a capire che cosa l’oceano gli stesse sussurrando di fare. Cosa pensavano le onde che lui avrebbe dovuto fare?

Aspettò mezz’ora prima di veder passare una macchina che comunque non si fermò. Dopo un’attesa altrettanto lunga, arrivò rombando un grosso autobus rosso. L’autista ignorò ostentatamente la sagoma che si agitava frenetica in un punto dove non c’era fermata autorizzata. Al telegiornale gli era capitato di sentire che alcuni autisti non si erano fermati nemmeno per raccogliere un moribondo, ma non aveva mai pensato che molti di loro si comportavano così perché le società per cui lavoravano gli proibivano di farlo e che questo fatto non veniva reso noto grazie a qualche accordo segreto fra le stesse società e i mezzi d’informazione.

Contò le onde che gli parlavano frangendosi sulla spiaggia serrata dal ghiaccio; quando era arrivato a centodiciassette, passò la decappottabile guidata dall’impiegato con gli occhiali. Lui si spostò in mezzo alla strada per fermare l’auto, ma l’impiegato con una sterzata lo superò senza degnarlo di uno sguardo.

Anche se lo giudicava inutile, si voltò e cominciò ad arrancare dietro la decappottabile che ben presto scomparve oltre una curva nascosta dalla neve. Era passato un autobus, pensò, e quindi da qualche parte lungo la strada ci doveva essere una fermata autorizzata, una fermata per far salire la gente che abitava da quelle parti, che non possedeva automobili o camion e che voleva raggiungere la città. Una fermata e una panca su cui sedersi.

Aveva le gambe che gli tremavano per tutto il camminare e lo stare in piedi che aveva fatto quel mattino; la testa, che gli aveva fatto sempre male da quando si era risvegliato ai Riuniti, pulsava dolorosamente.

Alle sue spalle, una macchina pigolò e tintinnò come un carillon rotto. Lui non si voltò a guardare, perché era convinto che qualunque cosa facesse la macchina non si sarebbe fermata, e perché non voleva lasciare la strada sgombra per camminare sul bordo dove era ammassata la neve.

— Vuoi un passaggio? — Era Fanny che gli parlava dal finestrino aperto di una delle utilitarie che aveva visto nel parcheggio.

Cercò di sorridere. — Ehi! Certo che lo voglio! — La ragazza poteva essere una spia di Klamm, ma se Klamm e la polizia erano contro North, la cosa non era poi tanto male. La macchina aveva le portiere che si aprivano controvento, come quella che aveva guidato quando stava con North. Girò la maniglia, aprì la portiera ed entrò.

— Non hai bagaglio? — Sembrava sincera e leggermente sorpresa.

— Non molto — le disse.

Col piede sinistro la ragazza pigiò il pedale della frizione, mentre con la mano spostava indietro la leva del cambio. — Capisco. Bene, avrei voluto che ti fermassi ancora un po’. Comunque, se dicevi che volevi andartene, ti avrebbero chiamato un taxi o qualcosa del genere.

— Ma io non volevo andarmene.

Lei allentò la pressione sul pedale della frizione, il motore esitò come se si preparasse a spegnersi, poi si riprese. La macchinetta dette uno scossone e si mosse in avanti. — Mi hanno detto il contrario.

— Mi hanno chiuso fuori.

— Non hai pagato?

— La stanza è pagata ancora per qualche giorno — disse lui.

— Ma è impossibile che abbiano fatto una cosa del genere!

Lui si strinse nelle spalle con lo sguardo rivolto alla campagna coperta di neve.

La ragazza innestò a fatica la seconda. — Comunque, addio lavoro per questa stagione. Lo scorso autunno mi hanno implorato, dico implorato di restare. “Fanny, proviamo a restare aperti tutto l’inverno…” è questo che mi hanno detto. Adesso sono senza lavoro, e ormai in questo periodo i posti stagionali sono tutti occupati.

— Forse quella donna al salone di bellezza può trovarti qualcosa. — Si voltò a guardarla. — Stavo per dire quella che ti ha fatto i capelli, ma i tuoi capelli sono come prima.

— L’hai notato? — Dopo aver innestato la terza si passò la mano sui capelli. — Voleva lavarmeli e farmi la messa in piega, ma non ne avevo bisogno. Non avevo nemmeno bisogno di una permanente… sapevo che lei mi avrebbe detto così. Il fatto è che avevo voglia di parlare con qualcuno. Dove devi andare?

— Alla stazione ferroviaria.

— Pianti tutto e lasci la città?

Lui fece cenno di sì. — Vado a Manea.

— Mi pare una buona idea. Qui le cose non stanno andando bene per te.

— Puoi portarmi alla stazione?

— Certo.

— Grazie. — Esitò. — Probabilmente non dovrei chiedertelo… ma tu sai come si chiamava l’uomo che stava con me?

— Non bado a queste cose.

— Ieri mattina abbiamo fatto colazione insieme al bar, ma tu non c’eri.

— Forse c’era Maisie o Edith. Sai, siamo in tre, facciamo turni di due giorni e poi un giorno di riposo. Maisie e Edith hanno lavorato ieri e oggi toccava a me e a Maisie.

Lui disse: — L’altro uomo che stava nella mia stanza ha detto di chiamarsi Campbell, ma il suo vero nome è William T. North.

Lei non rispose.

Lui disse: — Tu conosci la gente dello Stivale di Ferro. E sai anche chi è William T. North.

— E vuoi che ti porti al treno per Manea?

— Proprio così.

— Va bene. — Annuì. — Comunque avevo intenzione di farlo… no, hai ragione, non l’avrei fatto. Avrei provato a portarti a casa mia. Hai bisogno di denaro? Posso darti qualcosa, non ne ho molto.

— No — rispose. — Prima di andar via ho bisogno di parlare con Klamm.

Ci fu un lungo silenzio. La strada che stavano percorrendo confluiva con una superstrada a quattro corsie. Lei controllò il flusso del traffico, poi si immise nella corsia. Con l’acceleratore al massimo, la macchinetta poteva fare quasi novanta chilometri all’ora su strada. Si ricordò che la Mink marrone aveva fatto un po’ meglio: quasi cento.

Finalmente lei disse: — Allora devi venire a casa mia.

— Puoi lasciarmi in un albergo.

Lei scosse la testa. — A chi l’hai detto? A North?

— A nessuno. — Cercò di pensare a come poteva spiegarglielo. — Non ero amico di North… non credo che quello abbia amici. Potrei essere amico di Klamm se sapessi cosa state facendo.

— Tu però stavi con North all’Adrian.

— È vero. Ci hai visti? O te l’hanno detto?

—  Vi ho visti. Ero tra il pubblico. Loro… Klamm… pensava che tutte le uscite fossero chiuse, che fosse tutto bloccato. Tutto l’edificio era sorvegliato. Ma North ha sette vite come i gatti e loro volevano che io lo tenessi d’occhio nel caso riuscisse comunque a fuggire. Il che si è rivelato esatto.

— North è scappato? Lo temevo.

— Almeno così sembra. Nell’incendio sono morte molte persone, ma ormai sono state tutte identificate.

Lui rimase un attimo a pensare. — Il dottor Applewood… so che tu lo conosci. Il dottor Applewood è riuscito a fuggire senza troppe difficoltà.

— Certo. L’abbiamo lasciato andar via noi. Abbiamo lasciato andar via tutti, a eccezione di quello che è rimasto ucciso per sbaglio.

— Perché?

— Che te ne importa? — Il tono era sprezzante.

— Perché c’ero anch’io.

— È vero, c’eri anche tu. Vuoi veramente metterti contro North, ora?

— Ma io non sono mai stato dalla sua parte. Ero suo prigioniero… il suo schiavo, se vogliamo metterla così.

— E non potevi andartene?

— L’ho fatto. — Le raccontò quello che era successo nello scantinato. — Me ne sono andato, ho lasciato North. Ma quello che voglio sapere è perché voi avete lasciato andar via me, il dottor Applewood e tutti gli altri.

— Perché eravate solo dei gregari. Quando dei gregari vengono identificati non li arrestiamo mai. Preferiamo sorvegliarli come stavamo sorvegliando la rappresentazione prima che comparisse North. In questo modo sono i gregari a portarci dai capi.

Lui disse: — È così che vi siete comportati con me, vero? Avevo la chiave dell’albergo in tasca, e questa mattina prima di fare colazione sono andato dal dottor Applewood per farmi mettere una pomata e fasciare la mano. Dopo colazione, quando sono sceso per comprare i vestiti, ho visto che nel suo studio la luce era spenta. Immagino che la bionda del salone di bellezza mi abbia visto entrare dal dottore e abbia origliato.

Fanny si strinse nelle spalle: — Penso di sì.

— Vuoi dire che non lo sai?

Lei gli lanciò un’occhiata irritata: — Pensi che lei mi dica tutto quello che fa? È il mio capo, è un tenente.

— Scusami.

Lei rimase silenziosa e allora lui aggiunse: — Il fatto è che questa mattina nel bar avevo pensato di piacerti. Quando ho visto che avevano chiuso l’albergo e nessuno mi prestava attenzione fino a quando tu non mi hai fatto salire in macchina, ho capito che mi avevano fatto trovare quella scheda su di te e che tu stavi recitando una parte… — Lasciò la frase in sospeso.

— Recitare è nella natura delle donne. Quando smettiamo di recitare, finisce lo spettacolo. — Inspirò profondamente poi espirò con un rapido sbuffo. — Tu mi piacevi e mi piaci ancora. Ma io continuerò a recitare, qualche volta per brevi momenti, a volte per ore. Non posso farne a meno. C’è nient’altro che vuoi sapere?

— Sì. Ieri sera a teatro… chi era la donna che stava con Klamm?

— La sua figliastra.

— Cosa?! — Si rese conto di essere rimasto a bocca aperta e la richiuse.

— La sua figliastra. Klamm era sposato, anche se naturalmente non hanno mai… hai capito quel che intendo dire.

Non aveva capito, ma fece cenno di sì.

— Poi sua moglie ha trovato un uomo che era disposto. Lei e Klamm naturalmente hanno divorziato, ma sono rimasti amici. Si dice che lei fosse la sua studentessa preferita quando Klamm insegnava all’università… penso che il loro fosse un amore di tipo intellettuale e basta.

La superstrada era diventata un viale. Fanny svoltò per immettersi in una via affollata di negozi. — Questo è quello che ho sentito dire… non conosco personalmente né Klamm né la sua ex moglie. Comunque lui è stato come uno zio per i figli di quella donna, almeno così dicono, ma la ragazza è l’unica con cui si fa vedere in pubblico. Credo che somigli molto a sua madre quando era giovane, a volte succede. — Fanny ebbe un sorriso amaro.

— E si chiama Klamm?

— No. Si chiama Nomos. Laura Nomos.

— Laura Nomos — ripeté lui. Aveva già sentito quel nome, ne era sicuro. In teatro? In ospedale? Non riusciva a ricordarlo. Gliel’aveva nominata Joe? Quel nome, comunque, gli faceva venire in mente Joe.

— Questa mattina al bar avevo pensato di piacerti veramente — disse Fanny parodiando quello che lui le aveva detto qualche minuto prima. — Quando ho capito che era veramente la figliastra di Klamm ne sono rimasta sconvolta. Lo sono ancora. — Sospirò teatralmente. — Mi hanno detto che fa l’avvocato. Il suo nome compare nell’elenco del Collegio degli avvocati… quante cose vieni a sapere frequentando un poliziotto, eh?

L’utilitaria svoltò a destra e, nonostante la velocità ridotta, la sterzata fu così improvvisa che le ruote posteriori slittarono.

— Altre domande?

— Mi stai portando da Klamm?

Lei rise. — Ti sto portando a casa mia… forse tra una settimana riuscirai a incontrarti con Klamm. Quanti anni mi dai?

Lui esitò temendo di offenderla. — Non sono molto bravo a indovinare. Venti?

— Grazie, ma ne ho ventidue. Se fossi di grado inferiore, indosserei l’uniforme. Il mio tenente fa rapporto a un capitano che fa rapporto a una persona che fa rapporto a una donna che fa rapporto a Klamm. Dobbiamo risalire tutta la catena e quello che diremo dovrà convincere Klamm che tu vali un po’ del suo tempo. C’è nient’altro?

— Chi è il signor K?

Lei distolse gli occhi dalla strada e lo fissò con un’espressione di stupore misto a incredulità.

Lui le spiegò: — Una volta ho parlato con Klamm al telefono e lui ha pensato che fossi un certo signor K. Klamm ha sentito la mia voce e mi ha chiamato “Herr K”. Si tratta di un uomo, vero?

— Credo di sì. Ma non ho la minima idea di quale uomo si tratti. A meno che…

— Sì?

— A volte è Klamm stesso che viene chiamato “Herr K” nei documenti perché è la sua iniziale e perché è nato nell’impero tedesco. Ma non riesco a capire come hai potuto parlare al telefono con Klamm.

— Nemmeno io. Un’altra domanda. Cos’è un Visitor?

Lei serrò le labbra. — Dove hai sentito questa parola?

— Che importanza ha? Voglio sapere cos’è, perché potrei esserlo anch’io.

Fanny posteggiò la sua utilitaria accanto al marciapiede. — Dovrai aspettare fino a che non saremo dentro casa — disse. — Eccoci arrivati.

17. La stanza

— Non è certo come ti aspettavi, eh?

Infatti. La stanza di Fanny era piccola e sciatta, non più grande di tre metri per quattro. Da un filo elettrico teso da una parete all’altra pendevano alcuni capi di biancheria ìntima, un reggipetto nero e due paia di mutande, uno color pesca e uno rosa. Lui disse: — Perfino per una cameriera…

— Ti sembra un po’ troppo? È questo che volevi dire? Calma, calma; Questo posto non me l’ha assegnato il dipartimento per il mio lavoro. Non arriviamo a tanto e in genere non ce n’è bisogno. È casa mia.

E come per dimostrazione, si mise a sedere sul letto. — Se questa storia fosse andata avanti ancora un po’, avrei potuto racimolare qualche soldo di mancia con l’arrivo della bella stagione. Be’, adesso è finita. Domani parlerò di te a Bianche e mi assegneranno il prossimo incarico. Mettiti a sedere.

C’era un’unica sedia, una poltrona imbottita di chintz scolorito. Lui si mise a sedere; la sedia era troppo piccola per lui, sembrava fatta su misura per un bambino, come se un tempo avesse fatto parte dell’arredamento di una casa di bambola… come se di quei mobili sparsi qua e là, tra discariche fumanti e depositi dell’esercito della salvezza, ora non restasse altro che quella sedia e la bambola.

— Stavi per domandarmi qualcosa dei Visitor? — disse lei. — Hai persino detto che pensavi di esserlo anche tu. Perché?

— Perché qui non mi sento a mio agio. — Pensò un attimo a come tradurre in parole il suo stato d’animo, poi mormorò: — Non ho ancora capito cosa sta succedendo.

Fanny unì le mani per la punta delle dita, ricordandogli immediatamente la donna dai denti di coniglio del Centro di Igiene Mentale. — Cos’è che non capisci? Se posso, te lo spiego io. — Si chinò e cominciò a frugare nella borsetta, tirò fuori un pacchetto di Chamois tutto schiacciato e glielo allungò. — Fumi?

— No — le disse lui — e questa è un’altra cosa. Quasi tutti hanno ormai smesso di fumare, a parte forse la marijuana. Ma qui mi sembra che fumino tutti. Anche il signor Sheng fumava la pipa. Klamm fumava il sigaro proprio a teatro. E quando una volta ho telefonato al mio appartamento, mi ha risposto Klamm. Speravo che mi rispondesse Lara, ma ora penso che magari era accanto a lui, proprio come quella notte.

— Conosci Laura Nomos?

Lui scosse la testa. — Lara Morgan… vivevamo insieme. La sto cercando. — Si fermò ad assaporare l’idea. — Sono qui per questo. — Anche solo dire quelle parole lo fece sentire molto meglio.

— Pensi che Laura Nomos e Lara Morgan siano la stessa persona?

— Non lo so. Sembrano uguali… non proprio uguali ma quasi. Può darsi che questo a te non dica niente, ma nel reparto dove lavoravo io c’era un ispettore, il signor Kolecke. Non era cordiale come tanti altri, e non sempre era gentile; a volte aggrediva con violenza una persona per qualcosa di cui non aveva nessuna colpa. Ma sono convinto che sia riuscito a ottenere dal reparto più di chiunque altro.

“Un giorno l’ho incontrato per strada insieme a un ragazzino e a una bambina. Sembrava così diverso che non ero certo fosse proprio lui. Li ho seguiti per un paio di isolati cercando di convincermi. Quando sono entrati nel museo d’arte, sono entrato anch’io e l’ho visto che spiegava i dipinti ai due bambini. Non solo che cos’era un mulino a vento e roba del genere, ma chi erano gli artisti e dove erano vissuti, e perché avevano deciso di dipingere in quel modo piuttosto che in un altro”.

Fanny gli fece cenno di continuare.

— Finalmente mi sono avvicinato e gli ho detto: “Signor Kolecke?” Sai come si fa. Mi è sembrato sorpreso, poi mi ha chiamato per nome. Mi ha stretto la mano e mi ha presentato ai bambini. Allora mi è sembrato strano di non averlo riconosciuto immediatamente, ma dopo un po’ mi sono reso conto che anche lui non mi aveva riconosciuto finché non mi aveva sentito parlare. Io non mi sentivo diverso perché stavo fuori dal reparto e non indossavo gli abiti da lavoro, eppure al signor Kolecke ero parso diverso… talmente diverso che non aveva capito chi ero fino a quando non aveva sentito la mia voce… ecco, penso che mi succeda la stessa cosa con Lara.

— Ti fa male la mano? — gli chiese Fanny. Sembrò sorpreso, e lei aggiunse: — Ti stai tenendo il polso con l’altra mano.

— Sì, un po’. Il dottor Applewood me l’ha bendata questa mattina. Mi sono scottato ieri sera nell’incendio.

Fanny si chinò a guardare. — La benda è umida. Forse c’è caduta della neve che poi in macchina si è sciolta. Ti sei fatto anche un taglio sul dito. Fammi vedere, ti metto una garza asciutta e un po’ di tintura di iodio.

Lui le porse le mani. — Cosa sono i Visitor? Mi avevi detto che mi avresti parlato di loro, ma non mi hai ancora detto niente.

— Forse ti farà un po’ male.

Gli tirò via la vecchia benda, e gli fece davvero male. Ora, lui riusciva a vedere chiaramente il contorno arrossato della scottatura sotto la macchia giallognola della pomata.

— I Visitor sono persone che appaiono all’improvviso. — Fanny andò verso il lavabo nell’angolo e tirò fuori un pacchetto di cartone azzurro di garza medica dal mobiletto di legno sottostante. — C’è un posto — o almeno così sembra — che assomiglia molto al nostro mondo, ma non è proprio uguale. O forse ci sono tanti posti come quello. Comunque, ci sono persone che a volte filtrano da lì. Ti piace andare allo zoo?

— Non con un tempo simile — disse luì.

— A me sì, e in certe sezioni ci sono tante file di gabbie una accanto all’altra, separate solo da un filo metallico. Sai, ho studiato a lungo quello che dice in proposito il manuale. Aspetta un attimo, te lo leggo.

Tirò fuori da uno scaffale un opuscolo ricoperto di sottile carta arancione e cominciò a sfogliarlo. — Visitor: persone disorientate, senza un’origine accertata. I Visitor forniscono spesso immagini dettagliate di case e vite passate, ma qualche domanda basta a mettere in luce la falsità delle loro affermazioni. I Visitor non hanno diritto di cittadinanza, e sono spesso pericolosi. Quando i Visitor sono pericolosi, vanno eliminati. — Interruppe la lettura per dire: — Questo vale per North, o almeno è quello che pensiamo ora. I Visitor innocui devono essere arrestati e portati davanti a un superiore o alla corte federale del distretto, che provvederanno alla loro custodia. — La sua voce si era indurita. — Questo vale per te, se sei veramente un Visitor.

Lui disse: — Non lo sono. Stavo solo scherzando.

— È quello che pensavo. Vuoi ancora vedere Klamm?

— Non lo so. Tu che ne sai più di me, cosa ne pensi?

— Non lo so neanch’io — ammise Fanny; chiuse l’opuscolo arancione e lo ripose sullo scaffale. — Può avere tutti i difetti di questo mondo… e c’è gente che lo odia… ma certo Klamm non è uno stupido. Se volesse potrebbe aiutarti. Ma non voglio decidere subito, preferisco dormirci sopra.

Lui annuì. — Va bene.

— Tutto qui? Non vuoi che ti accompagni alla stazione?

Aveva fatto la domanda in tono noncurante, ma lui sentiva che se avesse risposto di sì, avrebbe avuto dei problemi.

Scosse la testa. — Sono stanco e poi ci sono tante altre cose che voglio sapere… cose che tu, se vuoi, puoi dirmi.

— Non sui Visitor, spero, visto che tu non sei uno di loro.

— No, non sui Visitor… anche se mi interessano ancora, mi piacerebbe soprattutto sapere da dove vengono. Ma mi interessa di più avere informazioni su Klamm. Vive qui? In questa città?

— Certo, questa è la capitale. Deve stare qui per incontrarsi con la Presidente. Naturalmente viaggia moltissimo, sai, un uomo nella sua posizione…

— Ha una casa o un appartamento qui in città?

— Una casa, credo — disse Fanny. — O almeno l’aveva. Una volta ho visto una sua foto sul giornale, scattata nel prato di casa sua. Il suo hobby è coltivare le rose. Credo sia per questo che ha tenuto la casa quando si è separato dalla moglie.

— Sai dove si trova quella casa?

Lei lo squadrò. — Se stai pensando di vedere Klamm a casa sua, scordatelo. Lui è il consigliere della Presidente per la sicurezza, il che significa che una dozzina di gruppi eversivi vogliono farlo fuori, compreso quello di North. È sorvegliato a vista.

— Ma potrebbe parlarmi, se suonassi al suo campanello. Non voglio ucciderlo, voglio solo fargli un paio di domande.

— Be’, non so dove vive. E credo proprio che puoi fare a meno di guardare sull’elenco del telefono.

— Devi avere un’idea.

Fanny si strinse nelle spalle. — Ci sono un paio di quartieri eleganti a sud della città. Una villa grande come quella della foto potrebbe essere da quelle parti, ma non ne sono del tutto sicura.

— Dov’è il suo ufficio?

— Al palazzo di giustizia. Non ci sono mai stata — voglio dire, sono stata al palazzo di giustizia, ma non sono mai entrata negli uffici di Klamm.

— Voglio tentare d’incontrarlo domani.

— Va bene, se è questo che vuoi. Ti darò un passaggio fin lì.

— Grazie — disse lui.

— Hai già pranzato? Io non ho neppure fatto colazione. Avrei dovuto farla dopo aver servito te, ma prima ho dovuto fare rapporto, e quando sono tornata indietro, l’albergo era chiuso.

— Credevo che fossi stata tu a dirgli di chiuderlo, per potermi dare un passaggio. In macchina hai detto che avevano appena deciso di chiudere, ma l’hai detto quando facevi ancora finta di essere una cameriera.

Fanny scosse la testa. — Noi gli abbiamo creduto, tutto qua. Avevano detto che avevi pagato il conto e lasciato l’albergo. Avremmo dovuto capire che cercavano di proteggerti.

— Pensavano forse di proteggermi chiudendomi fuori dall’albergo?

— Sapevano che ti stavamo tenendo d’occhio. — Si strinse nelle spalle. — Credo che il loro ragionamento sia stato questo: se lo chiudiamo fuori, se ne andrà da qualche altra parte senza il bisogno che qualcuno lo metta sull’avviso, così se lo pizzicano non può denunciare nessuno. Comunque, quando sono ritornata al bar, mi hanno detto che te n’eri andato e che stavano chiudendo. Gli ho chiesto come mai non ci avessero avvertito che ci licenziavano, e loro mi hanno risposto che non sapevano dove trovarci. Erano tutte balle, ma non c’era tempo per discutere.

— Ecco perché il custode faceva finta di non sentirmi quando ho bussato alla porta.

Fanny annuì.

— Invece non me ne sono andato. Tu mi hai dato un passaggio, ed eccomi qui.

— Grazie, sei molto gentile, ma non è andata proprio così. Sei riuscito a farmela.

Lui la guardò perplesso.

— Quando mi hai visto sull’auto hai capito subito che ero un’agente. Avresti potuto mettermi fuori gioco senza problemi. Ancora non capisco come hai fatto.

Lo stava lusingando, ma lui lo capì e fece finta di niente. Disse: — Quando scenderò dalla macchina, dirai a qualcun altro di seguirmi. Forse mi aiuteranno, come hai fatto tu dandomi un passaggio; ma io non saprò chi sono. Glielo dirai dopo avermi lasciato davanti all’ufficio di Klamm, vero?

— Te l’avevo detto… vedi quante cose impari ad andartene in giro con un poliziotto?

— Cosa vuoi dire?

— Così ci condurresti dritto dritto da North. Tu non conti nulla, come te ce ne sono milioni. — Fanny gli sorrise. — Come vedi, do per scontato che non sei un Visitor. Spero che ti faccia piacere. A ogni modo ce ne sono a migliaia come te, il dottor Applewood e tutti gli altri. North è diverso, così diverso da essere terribilmente pericoloso, il tipo di leader megalomane che s’incontra una sola volta nella vita. North potrebbe distruggere qualunque cosa. Mi rendo conto che può sembrare pazzesco, ma potrebbe mettere fine alla nostra civiltà. Potrebbe dare il via al declino della razza umana.

Lui annuì e chiese: — Cosa vuole ottenere? — Poi rispose alla sua stessa domanda. — Potere… ho visto abbastanza per saperlo. Eppure vi sbagliate se pensate che io vi conduca da lui. Voglio stare alla larga da North per quanto mi è possibile.

Sulla faccia spiritosa di Fanny apparve un sorrisetto ironico. — Gli schiavi di solito non tornano di corsa dai loro padroni… ma a volte i loro padroni vanno a cercarli, o mandano qualcuno di cui si fidano. Ne prendiamo un mucchio di questa gente.

— Quale gente?

— Schiavi che fuggono e persone che li vanno a cercare.

Non capiva, o almeno non voleva capire. — Perché, avete ancora schiavi da queste parti?

— Non qui, ogni stato ha una legislazione diversa.

— Schiavi neri?

Fanny scosse la testa. — Non è una questione di razza, è una questione di stato legale. Ma la maggioranza dei neri sono schiavi, è vero, e la maggioranza dei bianchi sono persone libere.

Lui disse lentamente: — Nel mondo di cui stiamo parlando, quello da dove vengono i Visitor, sono tutti liberi. O almeno così ho sentito.

— Anche qui è lo stesso, nella maggior parte degli stati. Ma se uno stato decide diversamente, può rendere legale la schiavitù e allora tutti quelli che posseggono schiavi possono trasferirli per non perderli. Funziona dal punto di vista economico, ma spesso crea qualche problema.

— La guerra civile… qui non c’è stata la guerra civile.

— No, la guerra civile c’è stata in Gran Bretagna.

— E qui gli uomini muoiono giovani, o almeno così sembra.

Fanny si alzò in piedi e prese la borsetta. — La natura ha giocato un brutto scherzo alla razza umana, signor Pine. Dà a voi uomini più forza che alla maggior parte delle donne, e cosa ancor più importante, più energia, più ambizione. Ma quando l’uomo soddisfa il suo destino biologico — o meglio, quando entrambi i sessi soddisfano il loro destino biologico — l’uomo muore. Questo significa sessanta o settant’anni di vita per noi donne, e a volte solo quindici per voi uomini.

— Una volta al notiziario ho sentito dire che ci sono quasi centocinquanta donne oltre i sessantacinque anni per ogni uomo.

Lei spense la sigaretta. — Chi è che l’ha detto, Ken Rather? Non è vero che le cose stanno così, un mucchio di uomini resistono e purtroppo vivono a lungo. E ora andiamo a mangiare qualcosa, prima che cominci a pensare che sei davvero un Visitor. C’è un localino italiano a un paio di isolati da qui… da Capini.

18. Un tavolo fra due mondi

Fanny aveva pronunciato il nome del locale in modo affrettato e confuso, e lui non ci aveva fatto caso.

Ma quando furono entrati si accorse che era il ristorante dove andava spesso a mangiare, il posto dove aveva portato Lara.

Con la solita espressione scontrosa, uno dei figli di Mamma Capini li guidò a un tavolo accanto alla vetrata. Lui si arrischiò a chiedere: — C’è sua madre? — ma il figlio se ne andò senza rispondere.

Fanny domandò: — Sei già stato qui?

— Credo di sì — rispose lui, e per sicurezza aggiunse: — Queste spaghetterie si somigliano tutte. Comunque si mangiava bene.

— Visto che hai detto di avere i soldi, faremo a metà, se per te va bene.

— No. Pagherò tutto io.

— Ti avverto, io mangio come un bue.

Le guardò la bocca minuscola e il collo sottile e pensò che non poteva essere vero. Quando arrivò la cameriera, Fanny ordinò una pasta fredda e del tè. Lui domandò se le fettuccine all’Alfredo quel giorno erano buone; alla risposta affermativa ne ordinò una porzione.

— E dire che pensavo di essere io quella affamata. — Fanny si accese una sigaretta con un grosso accendino di sicurezza del tipo che lui ricordava di aver visto quando era bambino. — Puoi dirmi perché continui a guardare fuori dalla vetrata?

Lui aveva cercato di leggere le targhe delle macchine rese indecifrabili dallo sporco invernale, con la speranza di riuscire a capire se appartenevano al suo mondo o a quello di lei. — Osservavo il traffico — disse.

— Hai visto qualcuno che conosci?

Lui scosse la testa.

— Quando mangi con una donna attraente, dovresti guardarla, anche se lei non è vestita in modo elegante. Dovresti anche conversare con lei, quando non hai la bocca piena.

— Il tuo vestito è molto grazioso — le disse. Indossava ancora il semplice vestito di seta nera che portava nel bar, si era tolta solo il grembiulino di pizzo e la cuffietta. Il suo pratico cappotto di tweed era drappeggiato sullo schienale della sedia.

— È il mio vestito per tutte le occasioni.

Mamma Capini uscì frettolosamente dalla cucina agitando le mani mentre si dirigeva verso di loro. — Ah, è lei! — sorrise mostrando un dente d’oro.

Esitando lui disse: — Sono venuto qui un paio di giorni fa, credo. — Un’altra versione di se stesso aveva mangiato qui?

— Ma cosa dice? Sarà forse un mese. Sì, è proprio dimagrito. — Mamma Capini si voltò sorridendo verso Fanny. — Ma lo guardi! Solo qui mangia come si deve.

— Lo so. A colazione ha mangiato una cialda — disse Fanny fingendo di rabbrividire.

— Ecco vede, niente di buono! Forse mi toccherà aprire anche di mattina, così gli do una frittatina, un po’ di buon prosciutto e pane fresco, e gli salvo la vita.

Lui le domandò: — Mamma, si ricorda di Lara? La ragazza con i capelli rossi che era con me?

— Certo che conosco Lara. — Il dente d’oro balenò di nuovo. — Bella ragazza. Troppo per lei.

Lui annuì. — Lo so, Mamma. È stata di nuovo qui dall’ultima volta che è venuta con me?

— Oh… — Mamma Capini abbassò la voce e lanciò un’occhiata ai tavoli vuoti. — Lara l’ha scaricata?

— Sto cercando di non farmi scaricare. È venuta?

— Ieri sera per cena. Ma molto tardi. — Mamma Capini spalancò le braccia grassocce con aria avvilita. — Oggi niente tortellini.

La sera prima! Lui domandò: — Ma era proprio Lara? Ne è sicura?

— Certo. L’ho riconosciuta subito.

Fanny domandò: — Era con qualcuno?

— Se lo prenda lei. Non è poi così male. Gli faccia dimenticare Lara.

— È quello che sto tentando di fare. Ma Lara stava con qualcuno?

— Una coppia. Una coppia di sposini. — Mamma Capini notò la sua espressione incredula. — Le sto dicendo la verità.

Lei aveva l’anello e si tenevano le mani sotto il tavolo.

Fanny disse: — Ce li descriva, per favore. — Con la coda dell’occhio, lui vide che la ragazza aveva tirato fuori dalla borsa un taccuino e un mozzicone di matita.

— Lui è grosso! Più grosso di Amedeo. La donna è piccola come lei, proprio carina. Hanno tutti e due i capelli gialli, l’uomo e la donna.

— Di che età?

Mamma Capini si strinse nelle spalle. — Tutti e due come lei.

— Com’erano vestiti?

— L’uomo aveva un vestito azzurro. Fatto su misura da un sarto… è troppo grande per un vestito in serie… ma tutto sciupato, avrebbe dovuto buttarlo via un anno fa. Capisce cosa voglio dire? Ho visto il vestito e mi sono detta, ci scommetto che sarà Lara a pagare il conto. Ma mi sbagliavo, ha pagato lui.

— Com’era vestita sua moglie?

Mamma Capini rimase pensierosa. — Aveva un vestito rosso di lana, un bel vestito, ma un po’ sgualcito. E un cappotto rosso con il collo di volpe. La conosce?

Fanny scosse la testa. — E Lara?

— In pelliccia, una bella pelliccia, vero visone, piuttosto scuro. Un vestito da sera, proprio così! Paillettes dappertutto, sembrava l’arcobaleno. Scollato davanti. Una collana di pietre verdi, forse erano pietre vere. — Mamma Capini si toccò i capelli grigi, poi il collo. — Avrei dovuto capire che pagava lui, non Lara. Lara sapeva che lui l’avrebbe fatto, così li ha portati dove era già venuta con lei. Un locale non troppo costoso, capisce quel che voglio dire? Brava ragazza.

Fanny disse: — Lei è una buona osservatrice.

— Lui ha portato qui Lara, poi Lara ha portato la coppia. Il ristorante è mio, e sto attenta a tutto quello che succede.

La cameriera arrivò con il minestrone e Mamma Capini si alzò. — Se c’è qualcosa che non va, ditelo a me.

Fanny sorrise. — Lo faremo, ma sono sicura che sarà tutto buonissimo.

Quando Mamma Capini se ne fu andata, lui disse: — Devo fare una telefonata.

— Davvero? Le tue fettuccine si raffredderanno.

— No — disse lui. — Torno subito. — Fece il gesto di lavarsi le mani.

Le toilettes erano in fondo a un corridoio sul retro. Fra le due porte c’era un telefono a gettone. Lui entrò nella toilette degli uomini, si liberò, si lavò le mani e si asciugò come poté. Se Fanny lo aveva seguito, probabilmente, vedendolo entrare nella toilette, era tornata al tavolo. Le monete che aveva in tasca erano quasi tutte del mondo reale… (quarti di dollaro che sembravano falsi con facce di nickel e bordi di rame e monetine di zinco rivestite di rame). Ma anche il locale dei Capini faceva parte del suo mondo e quindi doveva essere in grado di telefonare al suo appartamento senza difficoltà e senza il pericolo di mettersi in contatto con Klamm o con chiunque altro che non fosse Lara, se Lara in quel momento era lì.

Uno dei figli di Mamma Capini entrò nella toilette. — Deve fare una telefonata? Le posso dare delle monete.

— No, grazie — disse lui. — Ne ho a sufficienza.

Uscì dalla porta e infilò un quarto di dollaro nella fessura del telefono. Al ricevitore sentì il suono rassicurante della linea libera. Fu tentato di formare il numero velocemente, ma poi si costrinse a rallentare per essere sicuro di non sbagliare.

Schiacciò l’ultimo pulsante e non sentì nessun segnale. Silenzio totale. Quando riappese il ricevitore, sentì il tintinnio della moneta che gli veniva restituita. La infilò di nuovo nella fessura e formò ancora il numero di casa.

Alle sue spalle, il figlio di Mamma Capini disse: — Non riesce ad avere la linea, eh?

Lui scosse la testa. — Non squilla.

— Non avrebbero dovuto permettere a quei figli di puttana di mandare a rotoli il Sistema Bell. — Il figlio di Mamma Capini si girò per andarsene.

— Un momento. Può cambiarmi un biglietto da cinquanta?

— Nessun problema. Venga alla cassa.

Lui seguì il figlio di Mamma Capini fino alla cassa e tirò fuori una banconota dal mazzo di Sheng.

— Vuole biglietti da un dollaro?

— No — disse lui. Trattenne il respiro per un attimo. — Solo un paio di biglietti da cinque.

— Va bene. — Senza fare obiezioni il figlio di Mamma Capini prese il biglietto da cinquanta, lo appoggiò sul registratore di cassa e gli dette in cambio due biglietti da venti e due da cinque. Su quelli da cinque c’era l’immagine di Andrew Jackson, su quelli da venti quella di Lincoln. — Che ne pensa dell’incontro?

— Quale incontro? — Si era messo a studiare le banconote. All’improvviso, nel timore di averle studiate troppo a lungo, se le infilò frettolosamente in tasca.

— Quale incontro?! — Il figlio di Mamma Capini sembrò offeso. — Joe si batterà per il titolo. Non legge i giornali?

— È vero — disse lui. — L’ho letto. Speriamo che Joe gli faccia vedere i sorci verdi.

— Ci può contare, amico. Joe è un nostro cliente, sa. Era qui ieri sera con sua moglie e un’altra bellona. È grosso come una casa, ma non se ne approfitta. È gentile ed educato come lei e me.

Lui disse: — Terrò le dita incrociate — e tornò al tavolo. Si sedette con la testa fra le mani fissando la scodella vuota davanti a lui.

— Stava diventando fredda e così l’ho mangiata — disse Fanny che aveva davanti a sé una scodella piena, ancora fumante. Dopo un momento lei la prese e gliela offrì.

— Non preoccuparti — disse lui.

— Era solo uno scherzo. Prendila, è la tua. Che ti succede?

— Da quanto tempo vieni a mangiare in questo posto?

— Cosa?

— Ti ho chiesto da quanto tempo vieni qui. Nella tua stanza mi hai detto che conoscevi un buon ristorante italiano a due isolati didistanza… o qualcosa del genere. Questo vuol dire che hai già mangiato qui. Quando sei stata qui la prima volta?

Fanny contò sulle dita di una mano. — Quattro giorni fa.

Martedì.

— E hanno accettato il tuo denaro?

— Non ho pagato io. — Esitò. — Ero con un sergente amico mio, che era in uniforme. Avevamo fame, così abbiamo deciso di entrare in questo locale. Il mio amico voleva pagare, ma uno degli uomini che lavorano qui ha detto di no, che offriva la casa. Sai come si comportano a volte con i poliziotti. Però, se vuoi restare da me questa notte, devi raccontarmi che cosa ti sta succedendo.

— Ora siamo nel mio mondo… quello da dove vengono i Visitor. Oppure il locale è passato di là.

Lei lo fissava incredula.

— Negli ultimi anni ho mangiato qui due o tre volte alla settimana. Martedì sera ho portato qui Lara e lei ha perso un po’ del suo potere o aura magica o come vuoi chiamarla. Tu hai cenato qui? A che ora?

Fanny fece cenno di sì. — Circa le otto.

— Anche noi eravamo qui alla stessa ora. Il negozio dove lavoro chiude alle sei e mi ci vuole quasi un’ora per arrivare a casa in autobus. Sono arrivato a casa, mi sono fatto una doccia e mi sono cambiato. Il mio appartamento è a un isolato e mezzo da qui. — Indicò la direzione con un dito. — Penso che se me ne vado senza di te, stanotte potrò dormire nel mio letto. O magari perfino se esco di qui in tua compagnia.

— Allora mi dovrai ospitare.

— Certo.

— Perché io non ti lascio andar via. Ci servi come esca per North e se riesco a prendere quel tipo otterrò una promozione, probabilmente un avanzamento di due gradi… Tenente Lindy della Squadra Investigativa. Prendere North può anche significare la sopravvivenza della razza umana, ma questo è del tutto secondario.

— Va bene — disse lui.

— Hai intenzione di aiutarmi?

— Sì, se tu ha intenzione di aiutare me. Se torno a casa, farò la vita che facevo prima di incontrare Lara. A volte Lara viene nel mio mondo, ma è qui che vive, perciò è qui che posso trovarla, se mai ci riuscirò.

La cameriera si fermò al loro tavolo. — Non le piace quello che ha ordinato, signora?

Fanny scosse la testa. — L’ho lasciata raffreddare… La porti pure via.

Quando la cameriera si fu allontanata, lui disse: — Il mio mondo è anche questo, perché qui c’è Lara.

— Allora, visto che vuoi aiutarmi, dobbiamo scambiarci le informazioni. Quindi il futuro tenente comincerà col dirti che la tua Lara è Laura Nomos.

— Lo so.

Fanny sembrò sorpresa. — Io non ne ero certa. Almeno fino a un minuto fa, quando ti ho visto accanto alla cassa. Come potevi esserne sicuro? E cosa stavi facendo lì?

— L’ho vista a teatro, come te. Era Lara… ti ricordi quello che ti ho raccontato del signor Kolecke? A casa tua mi hai detto che era Laura Nomos, i nomi non sono solo una coincidenza.

— Be’, ho pensato che ti sbagliassi, che la figliastra di Klamm non poteva entrare e uscire dal mondo dei Visitor come se fosse la dea. Ma hai ragione, l’ho vista. E quella donna italiana ha detto di averla vista qui ieri sera, vestita come era vestita la Nomos a teatro. È stata la conferma. Tu non sei pazzo e non hai le traveggole. La tua Lara è Laura Nomos.

Lui annuì.

Fanny ebbe un brivido. — E se tu non sei pazzo, può darsi che tu abbia ragione a proposito di questo ristorante. Dovrei essere terrorizzata. Dunque, questo è il tuo mondo?

— Credo di sì. North lo chiama C-Uno. — Le mostrò il denaro e le spiegò quello che era successo. — Hai delle banconote di grosso taglio?

— Una da venti. È quella di maggior valore.

— Dovrebbe andar bene — disse lui. — Voglio che tu vada alla cassa e chieda di cambiarla con due da dieci. Prendi qualsiasi cosa l’uomo ti darà e torna qui.

19. Di nuovo a casa

Mentre Fanny era alla cassa la cameriera portò la pasta fredda, le fettuccine per lui, il tè e il caffè. Quando Fanny ritornò al tavolo, gli disse: — Ma non hai fame?

— Sto morendo di fame — disse lui — ma prima voglio vedere cosa ti hanno dato.

— Due comunissimi biglietti da dieci dollari — disse mostrandoglieli. — Comincio a credere che tu sia proprio pazzo.

Lui scosse la testa e mise in bocca una grossa forchettata di fettuccine.

— E ti ho anche chiesto se avevi fame!

— Ho bisogno di concentrarmi — le disse — e mi concentro meglio mentre mangio. — Dopo un altro boccone, le chiese: — Vuoi assaggiarle? Sono proprio buone.

— Solo per farti piacere. — Ne prese una forchettata, e poi altre due. — Quei biglietti che mi hai mostrato prima non te li ha dati quell’uomo, vero?

Lui annuì con la bocca piena.

— Vuoi dire che quell’uomo sa tutto e che ci sta manovrando a suo piacimento?

Lui inghiottì il boccone. — No, non credo. Mi ha parlato dell’incontro, l’incontro di Joe.

— E chi è Joe?

— Un pugile. Una volta l’ho conosciuto. Tutti dicono che è tanto un bravo ragazzo, ed è proprio quello che mi è sembrato l’unica volta che ho parlato con lui. Ti ricordi quello che ha detto Mamma Capini di quelle persone che sono venute qui con Lara?

Fanny annuì. — L’omone e la bionda? Certo.

— L’omone era Joe. Laura Nomos è la consulente legale di Eddie Walsh. Eddie è l’agente di Joe. Tutta questa gente appartiene al tuo mondo, tranne Mamma Capini. — Bevve un sorso d’acqua poi ritornò alle fettuccine. È stato Joe a pagare la cena, ricordi? Se l’avesse pagata Lara — Laura Nomos — non mi sarei meravigliato. Joe potrebbe aver usato una carta di credito o un assegno… ma non mi sembra nello stile di Joe. Quella volta all’ospedale, quando ha preso una tazza di caffè per me e una bibita analcolica per sé da una macchinetta automatica, ricordo che ha tirato fuori i soldi da uno di quei portamonete che in genere, alla Tv, mettono in mano ai personaggi che stanno attenti a come spendono. Scommetto che ce l’ha da quando era un ragazzino. Insomma, sono proprio sicuro che Joe pagherebbe in contanti.

— E un tipo così non credi che avrebbe controllato il resto?

— È proprio questo il punto. Joe l’avrebbe sicuramente fatto. Avrebbe perfino contato i soldi. Probabilmente è Jennifer sua moglie, la donna vestita di rosso, che si occupa della loro amministrazione, ma Joe non permetterebbe mai che sia lei a pagare il conto in un ristorante. Lo metterebbe in imbarazzo, perciò il resto doveva essere giusto, e nel giusto tipo di moneta.

— Allora pensi che quelli del ristorante sono a conoscenza di tutto? È proprio quello che ho detto io.

Lui scosse la testa. — Se fosse così, quell’uomo non mi avrebbe certo parlato di Joe. Il fatto è che all’inizio uno non si rende bene conto di cosa gli è successo. Credimi, parlo per esperienza. Quello che è successo a lui e a tutto il locale è che, in qualche modo, sono stati attirati dentro… sono passati attraverso una porta… Ma come è possibile? Un intero edificio non può passare attraverso una porta!

Fanny scoppiò a ridere. — Non capisco di cosa stai parlando. Cos’è questa storia delle porte?

— Lara me ne ha parlato in un biglietto. Quando si sta insieme a qualcuno di un altro mondo, si vedono delle porte. Qualunque cosa delimitata sui quattro lati può essere una porta. E ha un aspetto significativo… è proprio la parola che ha usato Lara. Se uno l’attraversa, si ritrova dall’altra parte. Ma poi, se si volta per tornare indietro, non ci riesce. La porta è scomparsa. Per farlo, deve camminare all’indietro senza voltarsi.

Schioccò le dita, e Fanny disse: — E adesso cosa c’è?

— Sai perché una porta è uguale sia da un lato che dall’altro?

— Non ne ho idea. Perché?

— Perché è uguale. È proprio questo che ne fa una “porta”. Chiudi gli occhi. Attenzione, facciamo una prova.

Fanny fece come gli aveva detto.

— Ora, tu hai pranzato qui altre volte, e hai deciso di venirci con me. Qual è il nome vero di questo ristorante, quello ufficiale?

Lei rimase a pensarci un momento. — Fuori c’è una targa di ottone: TRATTORIA CAPINI.

Lui sospirò e disse: — Va bene, e ora riapri gli occhi. — Le porse il pacchetto di fiammiferi che si trovava sul tavolo.

Fanny lo guardò e lesse: — “Da Capini cucina italiana”. Già, non è proprio lo stesso nome.

Lui posò la forchetta. — Questo ristorante — io lo chiamo da Mamma — si trova nel mio mondo. Vengo a mangiare qui da anni. L’altro — la Trattoria — è nel tuo mondo. Può darsi che sia un caso che abbiano lo stesso cognome. Comunque, la porta della Trattoria è una “porta”. La gente del tuo mondo che è stata con gente del mio, può entrare nel mio mondo attraversandola, come hai fatto tu quando sei entrata insieme a me, o come ha fatto Joe con sua moglie — mi pare che si chiami Jennifer — quando sono venuti qui insieme a Lara. Ma le cose dopo un po’ ritornano al loro posto. Le persone vengono attirate di nuovo dal loro mondo, è per questo che io sono tornato nel mio. I soldi non sono altro che pezzi di carta. Se sono soldi di un certo mondo, attirano quelli che provengono di lì. Le cose finiscono sempre per tornare al loro posto, ne sono sicuro.

Fanny disse: — Con questo ragionamento tu dai per scontato che un pezzo di carta abbia cervello. Non ti credo.

— No, non sto dicendo questo. Ora ti racconto una cosa che ci mostravano a scuola. Accordavano due corde di uno strumento sulla stessa tonalità. Mi segui? Non come si accorda un pianoforte, ma in modo che entrambe suonassero la stessa nota. Così, quando una veniva pizzicata, anche l’altra cominciava a vibrare. Non perché avesse cervello… lo faceva e basta.

— E allora secondo te questi due mondi sono solo tonalità… frequenze diverse, e non sono reali?

— Non mi spingerei tanto lontano — disse lui.

— Ma io sì. Non è così che funziona la televisione? Si seleziona un certo canale e si ricevono due segnali, uno per l’immagine e uno per il suono. Ma la regolazione dei segnali non è del tutto stabile, ed è questo che crea dei disturbi all’immagine e al sonoro. Quando si cambia spesso frequenza al televisore, succede che si sovrappone un altro canale e lo spettacolo che uno stava guardando scompare dallo schermo e ne appare un altro con altri personaggi.

Lui scosse la testa.

— Be’, credo di avere ragione. — Fanny fece un cenno alla cameriera. — Può portarmi altra acqua calda per il tè?

Avrebbe voluto dirle che se il mondo in cui lei viveva era solo la nota di un pianoforte, il suo invece era reale; ma si ricordò delle monete, delle facce false e dei bordi di ottone, e pensò che in fondo il suo mondo non era più reale di quello di Fanny, e forse anche meno.

Fanny puntò l’indice verso di lui. — E ora stammi a sentire. Immagina di restare davanti al televisore per tutta la vita. Immagina che sia la sola cosa che conosci, e che trasmettano spettacoli come Alba, Tramonto, Lavoro e Spesa, e che tu li segua a tal punto da non pensare mai a nient’altro. — Si fermò un momento. — Come si chiama quel piccolo schermo che abbiamo nella parte posteriore degli occhi?

Lui scosse la testa. — Non lo so.

— La retina, ecco. Be’, immagina che qualcuno cambi lo spettacolo nella retina.

— Mi stai mettendo alla prova?

Fanny sorrise. — Ma no, è solo per fare conversazione. Hai detto che se attraversiamo all’indietro quella porta, ci ritroviamo nel mio mondo. Sono sicura che tu desideri tornare là insieme a me, perché così potresti ritrovare Lara, che in realtà è Laura Nomos. E io credo che se uscissimo all’indietro da quella porta ci ritroveremmo di nuovo sul marciapiede, e tu diresti “Guarda, ha funzionato!”. Senti, può anche darsi che io sia un’allocca, ma non fino a questo punto.

— Dico sul serio — disse lui.

— Anch’io. E credo di sapere come funzionano le tue porte. Poniamo che due canali mandino in onda lo stesso programma, ma al contrario. Chiamiamo questo programma “porta” o passaggio… non ha importanza. Il primo canale, la mostrerà da un lato e, contemporaneamente il secondo la farà vedere dall’altro. Non può accadere allora che le due frequenze si avvicinino? Se immaginiamo che ci siano tanti canali, alcuni potrebbero avvicinarsi a tal punto da toccarsi. Allora, basterebbe girare appena la manopola per passare da un canale all’altro, giusto? Ma se volessimo tornare indietro, dovremmo girare la manopola in senso contrario, non potremmo girarla nella stessa direzione di prima. Allora ecco cosa dobbiamo fare se vogliamo passare da quella porta: dobbiamo girare la manopola all’indietro. Ma la cosa mi fa sentire un po’ sciocca.

— Ma lo farai, non è vero?

Fanny si strinse nelle spalle. — Non credo che t’importi molto di me. Pensi solo alla tua Lara.

— Devo scegliere fra voi due? Così, adesso?

Fanny fece una smorfia. — Già.

— Io scelgo Lara.

— Allora devi lasciare che io mi paghi il pranzo da sola.

— Senza voltarsi — disse lui. — Dico sul serio. Può anche darsi che non funzioni perché nel biglietto Lara diceva di farlo immediatamente… e non è certo il nostro caso. Ma comunque non può succedere niente di grave. Tu saresti disorientata nel mio mondo proprio come io lo ero nel tuo.

— Questo è un racconto mitico, non è vero? — disse Fanny.

— Vero cosa?

— Il viaggiatore che ha perduto la via, che incontra qualcuno o scopre una città che nessun altro troverà mai dopo di lui. Non so proprio se mi piacerebbe, anche se il dipartimento pensa che io sia passata al nemico.

— Quei programmi di solito non hanno un lieto fine — disse lui. Aveva visto Brigadoon alla Tv, e cercava di ricordarsi come finiva la storia per potergliela raccontare. Ma non gli veniva in mente altro che il titolo del film, le gonne scozzesi svolazzanti e il suono delle cornamuse.

“Non è proprio così”, si disse.

Fanny si era alzata in piedi e stava prendendo il cappotto dallo schienale della sedia. — Dai, andiamo. Non credo che funzionerà.

— Subito? Dobbiamo chiedere il conto — disse lui.

— Eccolo qui. — Glielo sventolò davanti agli occhi. — La cameriera me lo ha portato insieme all’acqua per il tè.

Lui glielo sfilò di mano (un po’ troppo facilmente, pensò) e l’aiutò a mettersi il cappotto. Si rese conto di non essere del tutto convinto che attraversare all’indietro quella porta sarebbe servito a qualcosa. Era a casa, di nuovo nel suo mondo dopo… dopo cosa? Un sabato mattina avventuroso? Una specie di sequestro mentale? Le cose ritornano sempre al loro posto. Aveva detto così.

Il suo cappotto era appeso a un attaccapanni vicino al tavolo. Naturalmente era ancora il cappotto di lana che aveva comprato all’albergo, troppo pesante forse per il tempo che faceva qui. Ma il pacco di biglietti da cinquanta che aveva comprato per dieci centesimi dal signor Sheng era moneta vera, mentre non lo era la cospicua cifra che gli era avanzata dai mille dollari che aveva trovato sotto il vaso nella sua stanza all’ospedale.

Con un’altra banconota del pacco, pagò il conto al nuovo, cassiere, uno dei tanti figli di Mamma Capini, forse un po’ più vecchio e grosso di quello che aveva incontrato nel bagno degli uomini. Per fare una prova gli chiese: — Cosa ne pensa dell’incontro?

— Quale incontro?

— Quello di Joe. Credevo che Joe fosse un vostro cliente.

Il cassiere ridacchiò e batté lo scontrino. — Lei ha parlato con Guido. Guido è un po’ matto.

Fece per tornare al tavolo, ma Fanny sussurrò: — Ho già lasciato la mancia.

— Va all’indietro — le disse. — Ricordati che dobbiamo camminare all’indietro. — Cominciò a indietreggiare con passo impacciato verso la porta.

— No — sussurrò Fanny. — Non voglio. — Lo prese per un braccio e lo fece girare su se stesso.

Lui tentò di dirle: — Tu non…

— No, non voglio, questo gioco è durato abbastanza — disse Fanny, e lo tirò per un braccio.

Lui vide Lara in mezzo alla strada che osservava l’insegna del ristorante mentre i fiocchi di neve le sfioravano il viso. Corse verso di lei e alle sue spalle sentì la voce di Mamma Capini gridare: — Arrivederci. — Con la coda dell’occhio fece in tempo a vedere Fanny guardare indietro, salutare con la mano sorridendo mentre attraversava la porta.

Si ritrovò per la strada, da solo. I fiocchi di neve brillavano alla luce del sole, sospinti giù dai tetti dal vento primaverile. Lara non c’era più, mentre lui la guardava era scomparsa dentro la porta girevole di una pellicceria.

Si precipitò in mezzo al traffico senza guardare.

Uno stridio di freni sull’asfalto. Un camioncino bianco, come un enorme frigorifero su quattro ruote, sterzò di colpo e per poco non lo investì. Esultante di gioia lui saltò sul marciapiede e si slanciò dentro la porta girevole.

C’erano i saldi di fine stagione e la pellicceria era affollata di donne, molte accompagnate da mariti impazienti. Passò di corsa in mezzo a loro, cercando di ricordare se Lara indossava il cappello o se portava i suoi splendidi capelli sciolti sulle spalle o raccolti sulla nuca in una pettinatura che gli sembrava di aver intravisto mentre Fanny sbiadiva accanto a lui come una foto scadente.

Fece due volte il giro del negozio. Donne dappertutto, con e senza cappelli, ma di Lara nessuna traccia.

Colto dalla disperazione s’impadronì di una commessa salvandola da una cliente con i capelli azzurrini e l’aria inviperita che stava criticando aspramente due pellicce. Le descrisse Lara come meglio poté.

La commessa scosse la testa. — Ha provato al piano di sopra?

Lui la fissò.

— Nel salone. — La commessa disse a bassa voce: — Là esponiamo i capi più costosi per un diverso tipo di clienti.

Un piccolo ascensore lo portò al secondo piano, ansimando come un vecchio asmatico. La moquette era bianca e le luci leggermente azzurrate. Individuò un commesso e anche a lui ripeté la descrizione di Lara, aggiungendo che era di estrema importanza che lui le parlasse.

Il commesso gli chiese con distacco: — Per caso si ricorda il nome della signora?

— Lara Morgan — disse. — Ma a volte si fa chiamare Laura Nomos.

Il commesso restò impassibile. — Se vuole seguirmi, signore, controllo il registro di oggi e poi saprò dirle se la signora è stata qui.

Andarono nel retro del negozio, dove su un tavolo c’era un grosso registro aperto. Il commesso lo sfogliò. — La signora Morgan è stata qui oggi, alle undici e trenta, signore. — Il commesso guardò l’orologio. — Ora sono quasi le undici e quaranta, perciò credo che abbia già lasciato il negozio. La signora Morgan ci ha lasciato la sua pelliccia perché la pulissimo e la tenessimo in custodia, come credo sia sua abitudine.

Sentì sbocciare dentro di lui un piccolo fiore di speranza e domandò: — Verrà a ritirarla in autunno?

— Oppure, signore, incaricherà qualcuno di farlo. — Il commesso sfogliò le pagine del registro. — Ecco, come le avevo detto… la signora era venuta a ritirarla lo scorso ottobre, ma la pelliccia era rimasta in custodia da noi per ventisei mesi.

20. Il suo appartamento

La cassetta della posta era piena. Fra le fatture e gli opuscoli pubblicitari trovò un biglietto giallo dove lo avvisavano che all’ufficio postale c’era altra corrispondenza indirizzata a lui. Sul frigorifero un orologio a forma di fragola che aveva comprato in un emporio, lampeggiava l’ora e la data: 13.38 15.4, 13.38 15.4, 13 39 15.4.

Era la metà di aprile. Cercò di ricordare quando Lara lo aveva lasciato, ma non ci riuscì. Il suo biglietto stava ancora sul tavolino, non aveva data ma era ricoperto da un sottile strato di polvere. Lo lesse di nuovo:

Caro,

ho cercato di dirti addio ieri notte, ma non mi hai sentito. Non sono una vigliacca, devi credermi.

Se non fosse per le porte, non ti direi nulla e forse sarebbe meglio. Ti può capitare di vederne una o più di una, magari per un solo istante. Sarà chiusa su tutti e quattro i lati (deve esserlo). Può essere una vera porta, oppure solo un cavo telefonico sostenuto da due pali, o un arco in un giardino. Qualunque cosa sia, avrà un aspetto significativo.

Ti prego di leggere con attenzione e di ricordare tutto quello che ti dico. Non devi attraversarla.

Se l’attraversi senza accorgertene, non voltarti. Se lo fai sarai perduto. Cammina immediatamente all’indietro.

Lara

La firma era come la ricordava, la prima A era collegata alla L maiuscola. Non lesse il postscriptum (che chiamava PS) sentendo che, se l’avesse fatto, sarebbe morto, letteralmente, che il suo cuore sarebbe scoppiato.

Sotto il tavolino c’era un giornale. 13 marzo, erano trentatré giorni che Lara era andata via. Una notte all’ospedale, o forse due. Diciamo due notti passate all’ospedale, una notte all’albergo con North, una notte all’albergo da solo. Quattro notti per trentatré giorni.

Accese il televisore e capitò su un programma che faceva vedere la ressa per la presentazione della denuncia dei redditi. Il 15 di aprile era l’ultimo giorno utile per presentarla. Come un automa andò all’ufficio postale a ritirare il resto della posta. Il modulo era lì, e il negozio in cui lavorava gli aveva già mandato la documentazione necessaria; era sul tavolo da notte accanto al letto. Il letto era ancora disfatto, ancora spiegazzato dopo la notte passata con Lara quando si era svegliato ormai solo.

Prese il modulo e lo riempì. Non doveva riportare altro che il suo stipendio; in venti minuti lo aveva completato, messo nella busta e affrancato. Quando era andato all’ufficio postale non si era messo il cappotto, ma ora si domandò se era il caso di indossarlo per andare a impostare la denuncia dei redditi. Il pacco di banconote da cinquanta era ancora nella sua tasca destra. Lo prese, domandandosi cosa avrebbe detto l’Ufficio Imposte se avesse saputo che aveva quei soldi. Qualsiasi entrata doveva essere denunciata, anche se si trattava di migliaia di dollari comprati per un centesimo. La carta marroncina che avvolgeva il pacco portava ancora la dicitura sicurpol-trasporto valori, un carattere cinese e il simbolo “dieci centesimi” scritto diligentemente dal signor Sheng con il pennello. Dov’era il signor Sheng ora? E suo nipote, il dottor Pillo-Lin? Su un canale diverso, in un altro programma.

Prese le banconote di Marcella dal portafoglio, le ripiegò e le fermò con un elastico, poi le mise in una tasca del cappotto. Prese le banconote da cinquanta del signor Sheng e le mise nel portafoglio, appallottolò la carta che le avvolgeva e la gettò nel cestino.

Si sentiva come un agente internazionale, una specie di James Bond con un’arma automatica mortale nascosta da qualche parte e diversi passaporti. Rise fra sé mentre appendeva il cappotto nell’armadio con la sciarpa drappeggiata intorno al collo e resistette, come sempre, all’impulso di prendere.Tina, esaminarla, baciarla e pettinarle i capelli come aveva fatto la donna nel negozio di abbigliamento.

— Troppo vecchio per giocare con le bambole. — Pronunciò le parole a voce alta, ma in tono indulgente.

Mentre tornava per la seconda volta dall’ufficio postale, sentì freddo, nonostante il gilet e si fermò a comprare un soprabito nuovo. Nei grandi magazzini dove lavorava, o piuttosto dove aveva lavorato, avrebbe potuto usufruire di uno sconto per i dipendenti. Ma i soprabiti erano in saldo, e lo sconto non c’era perché veniva applicato solo sul prezzo pieno, mai quando la merce era in saldo. Il nuovo soprabito era beige, come quello vecchio.

Di ritorno nel suo appartamento, disfece il letto, s’infilò sotto la doccia e si cambiò buttando via i pantaloni bruciacchiati. Sul fondo dell’armadio c’era una vecchia camicia sudicia. Fece un fagotto con le lenzuola, le federe, la camicia, i calzini e la biancheria che si era tolto. Poi si guardò intorno per vedere se Lara aveva lasciato qualcosa.

Ora che ci pensava, Lara aveva con sé molto poco. Due vestiti, ma forse, dato che erano tutti e due verdi, era uno solo che poteva essere indossato in vari modi a seconda delle occasioni, mettendo accessori diversi e così via.

Cercò di ricordare cosa dicevano al Reparto Abbigliamento… accessoriati, ecco cosa dicevano. Gli venne in mente che Lara non avrebbe mai usato una parola del genere e non le sarebbe piaciuta; si rese conto che adesso non piaceva nemmeno a lui.

Era così poco quel che gli rimaneva di Lara. Non c’era niente, non un pezzo di stoffa, nemmeno un rossetto per labbra usato o un pettine. Lara fumava? No, era Fanny che fumava molto, fumava una sigaretta dietro l’altra, pensò. Nell’appartamento i portacenere erano vuoti, pieni solo di polvere.

Prese i panni sporchi, li portò nel seminterrato e li infilò in una delle lavatrici insieme al detersivo granulare che si era procurato da un distributore a gettone. Mentre la lavatrice era in funzione si mise a leggere un giornale che qualcuno aveva dimenticato. Gente innocente moriva in Africa. Nella pagina dei fumetti non c’era più Lolly, sostituita da un nuovo orribile personaggio.

La lavatrice si era fermata. Prese il mucchio di panni bagnati fradici e li mise nell’asciugatrice, la regolò sul programma delicati e inserì le monete.

Una giornalista di un’agenzia stampa, famosa per il suo spirito, pubblicava un’intervista immaginaria al presidente dopo un olocausto nucleare. Il cruciverba chiedeva una parola di sette lettere che significava orso. Nel suo reparto ai grandi magazzini era in corso una grande vendita scontata di registratori. “Comprate un registratore col dieci per cento di sconto, scegliete qualsiasi cassetta per un dollaro”. Immaginò che avessero avuto molto da fare e si domandò come se l’erano cavata senza di lui. Erano in vendita anche personal computer di vecchio tipo, ormai fuori produzione, col quaranta per cento di sconto sul prezzo di listino.

Infilò la biancheria asciutta in una federa e tornò nel suo appartamento. Scoprì che mancavano una camicia e i calzini. Tornò nel seminterrato e controllò tutte e due le macchine, nessuna traccia né della camicia né dei calzini. In qualche modo erano tornati nel loro mondo, pensò. North li aveva comprati all’albergo.

Il gilet era ancora appeso nell’armadio. E così il cappotto, pigiato fra gli altri indumenti nel vano dietro la porta dell’armadio. Non riuscì a trovare il cappello. Lo indossava mentre era in macchina con Fanny fino all’arrivo da Mamma Capini, poi ricordava di averlo appeso al gancio dell’attaccapanni. Ma non riusciva a ricordare se lo aveva ripreso quando erano venuti via. Lo indossava quando era corso dentro la pellicceria? Non lo sapeva, non riusciva a ricordarlo.

L’orologio gli disse che erano le cinque precise. Nell’appartamento c’era da mangiare, ma la roba che stava dentro il frigorifero era sicuramente andata a male, il latte era inacidito e le carote erano diventate molli. La margarina era ancora buona.

Concluse che non se la sentiva di pulire il frigorifero (e il portapane, ora che ci pensava), almeno per quel giorno. Sarebbe andato a mangiare da Mamma Capini e forse…

Forse sarebbe successo qualcosa.

La cravatta era drappeggiata sul paralume. Abbottonò il colletto e annodò con cura la cravatta. Si era imposto la regola di non uscire mai senza cravatta… c’era la possibilità di incontrare uno dei capireparto. Indossò la giacca e il soprabito nuovo.

Dopo aver percorso un isolato vide un calzino nero da uomo nella cunetta e si fermò a raccoglierlo. Non era il suo, ma si ricordò che gli era capitato spesso di vedere indumenti persi o abbandonati in una strada coperta di neve nella città di Lara, una città che era tanto simile eppure così diversa dalla sua. I due calzini erano separati, pensò, a chilometri di distanza l’uno dall’altro. Non sarebbero stati utili a nessuno, a meno che un ragazzino non ne avesse raccolto uno per farci un pupazzo e un vagabondo avesse preso l’altro, incurante del fatto che non si accordava con quello che indossava. La camicia era di buona qualità, una camicia di seta pura. Si augurò che qualcuno la trovasse prima che fosse troppo rovinata, prima che diventasse uno straccio come quelli che aveva visto per strada senza domandarsi da dove arrivavano.

Alla cassa c’era uno dei figli di Mamma Capini. Cercò di capire se era Guido, il figlio con cui aveva parlato nella toilette, ma non ne era sicuro. Tutti i fratelli gli erano sempre sembrati quasi uguali, uomini baffuti che guardavano in cagnesco e che andavano e venivano come fossero clienti; un momento stavano lì sporchi di sugo e un momento dopo erano scomparsi.

— Si sieda dove vuole — gli disse il figlio. — È ancora presto.

Si mise a sedere al tavolo vicino alla vetrata dove aveva pranzato con Fanny. Il suo cappello, se veramente l’aveva lasciato sull’attaccapanni di Mamma Capini, adesso non c’era più. Rivolto alla cameriera, disse: — Verso mezzogiorno ero qui a mangiare con una signora. Lei ha preso una pasta fredda. Non so cosa fosse di preciso, ma sembrava molto buona. Si ricorda di noi?

La cameriera scosse la testa. — Non credo di essere stata io a servirvi, signore.

— Aveva… — cercò di ricordare quanti anni aveva detto di avere Fanny — …circa ventitré anni. Piccola, capelli neri e ricci.

— Forse vi ha serviti Gina, signore. Gina mi somiglia molto.

— Vuole dirle di venire qui, per favore?

— Abbiamo tre tipi di pasta fredda, signore. — La cameriera glieli descrisse. — Sono tutte molto buone.

— Mi trovi Gina — le disse lui.

Se ne andò imbronciata e lui si mise a osservare le targhe delle automobili che passavano. Si stava facendo buio, ma riuscì a decifrarne qualcuna e gli sembrarono perfettamente normali.

Si frugò nelle tasche della giacca con la sensazione di aver dimenticato qualcosa. Tutte e due le tasche erano vuote e nel taschino c’era solo il fazzoletto, quello rosso che aveva lì da mesi. Il libretto degli assegni stava nella tasca interna. Lo tirò fuori per esaminarlo. L’ultimo assegno portava la data dell’11 marzo. Gli venne in mente che aveva pagato la bambola con un assegno e che la somma era piuttosto alta, ma non riusciva a ricordare quanto e non era sicuro che il suo assegno potesse essere presentato all’incasso da un negozio di un altro mondo, un negozio dei sogni.

— …non c’è — annunciò la cameriera al suo fianco.

Lui alzò gli occhi. — Prego?

— Ho detto che Gina non c’è. Ho guardato dappertutto. — La cameriera si scostò una ciocca di capelli dalla fronte nel tentativo di sembrare stanca e accaldata senza essere né l’uno né l’altro. — Ed è pure ora di cena.

— Ma può farlo? Voglio dire, andarsene così?

La cameriera si chinò verso di lui. — Gina scopa Guido, e può fare il cavolo che vuole.

— E Guido c’è? — Lanciò un’occhiata verso la cassa, ma non vide nessuno.

— No, Guido se n’è andato. Non c’è quasi mai all’ora di cena. Cosa vuole ordinare?

Ordinò una delle paste fredde e la cameriera si allontanò. Dopo un minuto o due, riprese il libretto degli assegni dalla tasca interna della giacca, chiedendosi cosa poteva fare mentre aspettava che gli portassero da mangiare. Era venuto qui per anni, quasi sempre da solo come adesso e sicuramente aveva sempre fatto qualcosa. Quando Lara viveva con lui aveva sempre qualcosa da fare, qualcuno con cui parlare.

Mamma Capini spostò la sedia vuota e si mise a sedere. — Ehi, che succede? Non ha mangiato abbastanza a pranzo? Se me lo diceva, le preparavo il pane all’aglio.

Lui domandò: — Si ricorda la ragazza che era con me a pranzo, Mamma?

Mamma Capini si baciò la punta delle dita. — Certo. State per sposarvi?

— Se viene, mi avverte?

— Certo!

— E si ricorda di Lara? Mi avverta se viene Lara. Specialmente se viene lei.

— Certo. Ma è in cerca di una ragazza?

— Sto solo cercando queste persone. E mi avverta anche se vede quell’uomo grande e grosso e sua moglie, la signora col vestito rosso.

Si gingillò con la sua pasta fredda per un’ora e mezzo, bevve un espresso e due amari. Non vide nessuno che conosceva e non accadde nulla.

Alla fine pagò il conto. Controllò il resto, erano soldi reali e non aveva visto nessuna banconota con strane immagini neppure nella cassa. L’uomo a cui pagò il conto era quello che gli aveva detto che Guido era pazzo, quello più grosso e più vecchio di Guido. Mentre si trascinava verso il suo appartamento si domandò distrattamente dove fosse andato Guido. Era stato attirato nell’altro mondo? E se era così, c’era già stato? Forse anche Gina veniva da lì; se i clienti potevano attraversare la porta provenendo da un altro mondo, come avevano fatto Joe e Jennifer, era abbastanza probabile che una cameriera in cerca di lavoro potesse fare la stessa cosa.

Di ritorno al suo appartamento, mise uno dei suoi pezzi preferiti sul giradischi, ma scoprì che la musica che una volta lo aveva affascinato, ora gli sembrava brutta e sgradevole. Accese il televisore. Dopo circa un’ora, si rese conto che non aveva idea di che spettacolo si trattasse e perché lo stesse guardando.

21. I grandi magazzini

Aveva completamente dimenticato che il negozio era così nuovo e lustro. L’esterno era rivestito di pietra calcarea e la società lo faceva sabbiare ogni due anni. Le grandi vetrine bombate erano profilate d’ottone e venivano lavate ogni mattina dal personale della manutenzione che lucidava anche le cornici fino a farle brillare come se fossero d’oro.

— Non hanno ancora aperto — gli disse una donna grassa, ferma a guardare un prendisole esposto in una delle vetrine.

— Io lavoro qui — disse lui sperando che fosse ancora vero. Il negozio avrebbe aperto alle nove e mezzo in punto, ma gli impiegati del primo turno dovevano timbrare il cartellino alle otto e mezzo. Adesso erano le otto e tre minuti. Girò sul retro e salì i gradini di cemento dell’entrata del personale, dove c’era di guardia Whitey incaricato di controllare che nessuno timbrasse il cartellino per un altro collega.

— Salve — disse Whitey. — Ha fatto una bella vacanza?

Lui annuì. — Mi sembra di essere stato via solo un paio di giorni.

Veramente gli sembrava e non gli sembrava. Non era cambiato niente, solo lui era cambiato.

Resistette alla tentazione di dare un’occhiata al suo reparto e prese l’ascensore fino agli uffici amministrativi. Mentire o dire la verità? Decise di dire la verità, era un pessimo bugiardo e non sarebbe riuscito a inventare una storia che spiegasse la sua lunga assenza.

L’altro problema era: doveva andare dal signor Capper o all’Ufficio Personale? Capper era (o era stato) il suo caporeparto e se l’avesse sostenuto, l’Ufficio Personale non avrebbe potuto toccarlo. D’altra parte, se Capper fosse stato infuriato — il che era molto probabile — il direttore del personale se la sarebbe presa a male perché non si era rivolto prima a lui e si sarebbe opposto a un suo trasferimento.

All’Ufficio Personale inoltre c’erano maggiori possibilità di trovare qualcuno perché Capper poteva essere nel suo ufficio, ma anche in giro per il reparto a controllare il rifornimento della merce. Anzi, poteva addirittura non essere ancora arrivato.

Seduta alla scrivania, Ella si stava mettendo lo smalto alle unghie. Disse: — Ehi, ciao!

Nella stanza c’erano delle sedie pieghevoli per gli aspiranti impiegati. Lui si mise a sedere in quella più vicina alla scrivania. — Sono tornato — le disse.

— Già… — esitò. — Il signor Drummond non è ancora arrivato.

— Lo aspetterò.

— Ti ho segnato in malattia per una settimana. — Anche se erano soli, Ella aveva abbassato la voce. — Poi Drummond mi ha detto di telefonarti. Una volta è perfino venuto nel tuo appartamento di notte e ha suonato il campanello, ma ha detto che non ha risposto nessuno.

— Ero via. Sono tornato ieri e mi sono reso conto di essere stato via a lungo. L’appartamento era pieno di polvere, ci crederesti?

— Hai avuto un’amnesia?

— Non credo. Mi ricordo due notti: una passata in un ospedale e una, anzi due, in una stanza d’albergo. — Non sapendo cos’altro aggiungere disse: — La stessa stanza.

Ella si chinò in avanti e allungò una mano verso di lui. Lui notò quanto somigliasse a Fanny, ma forse non si ricordava più che aspetto aveva Fanny. Ella disse: — Sei stato via più d’un mese.

Lui annuì. — Penso di sì.

Senza rendersene conto anche lui aveva allungato la mano e quando Ella gliela toccò si accorse della fasciatura. — Ma che cosa ti è successo? Anche in faccia… hai una scottatura sulla guancia e una sulla fronte.

— Sono quasi guarito — disse lui. — Non erano molto profonde.

— Hai avuto un incidente? Che ti è successo?

Lui annuì di nuovo. — Stavo in un negozio cinese… quello del signor Sheng. Nello scantinato c’erano dei fuochi d’artificio che hanno preso fuoco. Credo che sia stato un tipo di nome Bill North, perché in quel momento North stava lì sotto e poi fuma sigari. — Anche se si rendeva conto che non avrebbe dovuto, sorrise. — Stavo bevendo il tè col signor Sheng e suo nipote, quando all’improvviso su dalle scale è arrivato un razzo che ha colpito la parete di fronte ed è entrato nella stanza dove ci trovavamo. Eravamo terrorizzati. Poi credo che abbiano preso fuoco altri razzi, perché l’unica cosa che ricordo è che stavo seduto in mezzo alla strada con le orecchie che mi pulsavano e un poliziotto e un infermiere curvi sopra di me. Mi hanno detto che avevano portato il signor Sheng all’ospedale su un’autoambulanza, ma…

Drummond entrò nella stanza, fece un cenno a Ella poi, vedendolo, sollevò un sopracciglio e sorrise.

Ella disse: — Buongiorno, signore.

Drummond entrò nel piccolo ufficio dietro la scrivania di Ella e chiuse la porta.

Ella sussurrò: — Adesso vado da lui e gli parlo. Tu aspetta qui, d’accordo?

Lui annuì e rimase a osservarla mentre entrava nell’ufficio di Drummond. Era più in carne di Fanny, pensò.

Meglio così, se non altro. Aveva i capelli castani, Fanny invece li aveva neri, ne era sicuro. Naturalmente nessuna donna era o poteva essere come Lara, e lui non avrebbe mai scambiato nessuna per lei. Si era accorto subito che Marcella era Lara, anche se Marcella era bionda, o almeno così sembrava. Infatti, non si può mai essere sicuri quando si tratta di immagini in bianco e nero o di ritratti fatti da un artista di seconda categoria.

Dette un’occhiata al suo orologio. Erano le otto e ventotto minuti. Non si ricordava quando era arrivato nell’Ufficio Personale, ma gli sembrava che Ella fosse entrata da Drummond da un bel po’ di tempo.

Nel corridoio c’era una fontanella. Dette una sorsata e si riempì varie volte la bocca di acqua ghiacciata obbligandosi a inghiottirla. Aveva sempre la sensazione di non aver mai bevuto abbastanza acqua e doveva berne sempre un po’ appena gli si presentava l’occasione.

Quando rientrò, Ella stava ancora nell’altra stanza con Drummond. Tra le riviste appoggiate sul tavolo trovò Time e cominciò a sfogliarlo. Il presidente aveva riaffermato il suo impegno verso “la gente comune” e approvato un taglio ai fondi della Previdenza Sociale; il Medio Oriente stava per esplodere. Si domandò se poteva essere una buona soluzione spedire il presidente in Medio Oriente, poi cercò di ricordare se aveva mai visto Time o comunque un qualsiasi giornale. “Là” era la parola che usava per indicare l’altro mondo, il posto dove stava Lara. Non riusciva a ricordarsi di averne mai visto uno, però non poteva esserne sicuro.

Ma sì, certo, aveva visto la foto di Walsh sul giornale. Questo posto era Qui e quello era Là. Non riusciva a ricordare se sui giornali le strisce a fumetti erano le stesse oppure se non ci fossero affatto.

La porta dell’ufficio di Drummond si spalancò e ne uscì Ella. Disse: — Il signor Drummond vuole vederti subito. — Lui mise giù Time ed entrò nella stanza.

Drummond sorrise e disse: — Si sieda. Per prima cosa desidero dirle che è stata tutta colpa mia. Mi piace sapere tutto dei nostri impiegati e avrei dovuto interessarmi di più a lei.

Lui si mise a sedere. Di fronte a lui, oltre a Drummond, c’era una grande targa di bronzo che diceva:

A. DICKSON DRUMMOND

DIRETTORE DEL PERSONALE

Lui disse: — È molto gentile da parte sua, signor Drummond. Ma non è stata colpa sua. — Contò silenziosamente fino a tre e poi aggiunse: — Veramente credo che non sia stata nemmeno colpa mia. È successo.

Drummond scosse la testa. — No, non riesco a perdonarmelo. A proposito, un momento fa parlavo al telefono con il suo medico. Ha detto che è molto tempo che lei non si fa vedere.

Cercò di ricordare se fosse mai andato da un medico. Certamente sì, ma non si ricordava in che occasione. Il dottor Pillo-Lin era stato il suo medico all’ospedale; gli sembrava di capire, però, che Drummond non si riferisse a questo. Rispose: — Immagino che sia così.

— Vogliamo che lei vada dal suo medico immediatamente. Sia ben chiaro: non la settimana prossima, o domani, o questo pomeriggio. Questa mattina, appena esce da questo ufficio.

— Speravo di poter tornare nel mio reparto, signore. È periodo di saldi e hanno bisogno di me.

— Certo che può — gli rispose Drummond — ma prima deve andare dal suo medico. Appena torna venga su da me, mi faccia vedere un biglietto dove si dice che lei è stato dal medico e poi può riprendere subito il suo lavoro.

Si sentì enormemente sollevato.

— Il suo medico la riceverà appena lei arriva allo studio… la dottoressa non dà appuntamenti. Vedrà che sarà di ritorno prima di colazione.

Lui annuì.

— Il suo medico mi ha detto di chiederle se per caso ha ricevuto un colpo alla testa.

Lui annuì. — Sono scivolato sul ghiaccio e ho battuto la testa sul selciato.

Drummond sorrise di nuovo. — Poteva accadere a chiunque, no? Per ora è tutto. Vada pure dal medico e non si dimentichi del biglietto.

Lui si alzò. — Non me ne dimenticherò, signore.

— Un’ultima cosa — Drummond alzò un dito. — Mentre lei era assente ho chiesto a Ella di chiamarla al telefono. Non è mai riuscita a mettersi in contatto con lei, ma una volta ha risposto uno che ha detto di chiamarsi Perlman o qualcosa del genere. Lei sa che ci faceva nel suo appartamento?

Lui si strinse nelle spalle. — Forse era qualcuno dell’amministrazione, signore.

Quando fu di nuovo nella sala d’aspetto cercò di ricordare le telefonate che aveva fatto dai Riuniti.

Quella voce maschile, rauca, era di Perlman?

Ella gli domandò: — Va tutto bene?

— Benissimo — disse lui distrattamente evitando di dirle che sarebbe dovuto andare da un medico di cui non si ricordava nulla. Aveva trovato la fattura di un medico nella cassetta della posta? O in mezzo a tutta quella corrispondenza che aveva ritirato all’ufficio postale? Non l’aveva esaminata con attenzione e non se lo ricordava.

— Ella, hai detto di aver telefonato al mio appartamento?

Lei annuì.

— Anche il signor Drummond me lo ha detto. Mi ha detto anche che una volta hai parlato con un certo Perlman.

Ella scosse la testa. — Non mi ha mai risposto nessuno. — Esitò. — Se ritorni prima di mezzogiorno, perché non ti fai offrire la colazione dall’Ufficio Personale? Festeggiamo il tuo rientro.

— Non hai mai parlato con qualcuno che si chiamava Perlman?

— Non ho mai parlato con nessuno — disse Ella. Sembrò di colpo depressa senza alcuna ragione apparente. — Sono rimasta a casa per la mia schiena e hanno assunto una sostituta. Dopo, Drummond ha continuato a rimproverarmi per errori che aveva fatto quella ragazza. Probabilmente è stata lei a parlare a Perlman. Ma se vuoi sapere la mia opinione, doveva aver sbagliato numero.

Al piano di sotto c’era la sala di soggiorno per il personale, un salone squallido e quasi sempre sporco dove mangiavano gli impiegati che si portavano la colazione da casa. Infilò alcune monete nella macchina del caffè (gli venne in mente Joe nello scantinato dell’ospedale), trovò una sedia pulita e si mise a sedere.

I medici devono essere pagati. Tirò fuori il libretto degli assegni e scorse le matrici. Non aveva firmato nessun assegno per nessun medico. Assolutamente nessuno. Eppure qualcuno doveva pur averlo pagato. Probabilmente il Servizio Assistenza della società, gestito dall’Ufficio Personale.

Ma se avesse chiesto a Ella di dargli il numero telefonico del suo medico, lei l’avrebbe riferito a Drummond. D’altra parte non poteva mettersi a telefonare a tutti i medici. Quanti medici c’erano in città? Migliaia, probabilmente. Cercò di ricordarsi cosa aveva detto Drummond del suo medico. “Il suo medico la riceverà appena arriva allo studio. Il dottore non ha l’abitudine di dare appuntamenti. Vedrà che sarà di ritorno al lavoro prima di colazione”.

No, sbagliava. Non aveva detto “il dottore”, aveva detto “la dottoressa”. “La dottoressa non ha l’abitudine di dare appuntamenti”. Il suo medico era una donna. Forse c’erano migliaia di medici, ma quanti di loro erano donne?

Forse cinquanta. E il suo medico non doveva essere in periferia.

In un angolo della stanza, accanto al telefono, c’era un vecchio elenco consunto. Aprì alle pagine dove erano elencati i medici e tirò fuori la penna.

Decise di considerare uomini i medici che erano registrati con la sola iniziale del nome. Almeno metà delle donne erano ginecologhe e pediatre e potevano essere eliminate. Trascurò anche quei nominativi il cui indirizzo era troppo lontano dal negozio o dal suo appartamento. Rimanevano solo tre nominativi. Infilò le monete nella fessura, tirò fuori il portafoglio e controllò il nome che lui e North avevano scelto all’albergo. A.C. Pine, ecco qual era. Mise la patente sul ripiano.

— Studio della dottoressa Nilson.

Chissà se questa dottoressa dava appuntamenti? Disse: — Mi chiamo Adam Pine. Vorrei un appuntamento con la dottoressa Nilson al più presto… questa mattina, se è possibile.

— La dottoressa Nilson… — In lontananza qualcuno chiamò: — Lara! Lara! — Non riuscì a distinguere se fosse una voce maschile o femminile. Era debole e stridula.

— Può restare in linea un momento, signor Green?

La donna non aspettò che lui rispondesse. Dopo un momento un pianoforte cominciò a suonare il “Chiaro di luna”.

Lui restò in attesa, ripetendosi che avrebbe aspettato tutto il giorno se fosse stato necessario. Il “Chiaro di luna” finì e cominciò un altro pezzo che non riconobbe. Finalmente un’altra voce disse: — Parla la dottoressa Nilson.

— Vorrei parlare con Lara.

— Con Lora? Se n’è appena andata.

— Allora voglio un appuntamento con lei il più presto possibile.

— Io non do appuntamenti. Prima si arriva, prima si viene ricevuti. Venga nel mio studio, al Centro di Igiene Mentale, e la riceverò appena posso.

Al secondo tentativo riuscì a dire: — Credo di essere venuto da lei altre volte. Dovrebbe avere la mia scheda. — Disse il suo nome.

Il tono di voce della dottoressa Nilson divenne cordiale.

— Oh, naturalmente, signor Green. Mi creda o no, stavo esaminando il suo caso l’altra sera e speravo che lei si facesse vivo. Ormai è più di un mese…

Lui cominciò a dire: — Se avesse provato a telefonare…

— Non lo faccio mai, se non in casi di emergenza. È meglio che siano i pazienti a mettersi in contatto con me di loro volontà. Venga pure subito, vedrò di riceverla immediatamente.

— Va bene.

— E ora, se vuole scusarmi…

Lora è andata via e c’è qualcuno sull’altra linea.

22. Il suo medico

Il sole aveva già addolcito l’aria pungente del mattino. Lui camminava a grandi passi con il soprabito ripiegato sul braccio lanciando occhiate alle vetrine. Era raro che al suo reparto toccasse una vetrina — le vetrine erano di solito riservate a quelli dell’Abbigliamento — ma quando succedeva, in genere affidavano a lui l’incarico di allestirla. Era un lavoro che lo interessava o almeno era questo che diceva a se stesso.

Mentre osservava le vetrine si domandava che cosa avrebbe fatto con i soldi del signor Sheng. Prudence (il fantasma di sua madre) gli consigliò di metterli in banca per i giorni di magra. Prudenza gli sussurrò che il Fisco poteva controllare i suoi depositi bancari.

Che spiegazione poteva dare? Non poteva spiegare in nessun modo il fatto di non aver denunciato l’entrata quando aveva consegnato la dichiarazione dei redditi. Invece aveva chiesto un rimborso perché pagava più tasse di quanto guadagnava. No, pensò, perfino l’Ufficio Imposte non l’avrebbe potuto biasimare per non aver denunciato quell’entrata; il modulo si riferiva all’anno passato e lui aveva comprato il denaro nell’anno in corso.

O no? Ora che ci pensava, c’era qualcosa stranamente fuori moda “Là”. La maggior parte degli edifici sembravano vecchi, e perfino quelli che apparivano nuovi avevano uno stile antiquato, erano costruiti con i mattoni tradizionali, avevano i vetri delle finestre che scorrevano su e giù come quelli delle finestre di una casa.

Le piccole automobili scomode gli erano apparse abbastanza moderne; quelle di vecchio tipo erano molto più grandi, con le code allungate e le portiere robuste come quelle del caveau di una banca. “Là” c’erano automobili moderne, anche se avevano il cambio a cloche, ma la Tv era solo in bianco e nero.

Cercò di ricordare la data del giornale su cui aveva letto la notizia della loro fuga e quella dell’incontro di Joe con un altro pugile di cui non ricordava il nome. Ma la data era scomparsa dalla sua mente, si era scolorita fino a diventare invisibile.

Con tutti quei soldi forse poteva fare una crociera ai Caraibi, come quelle di Love Boat. No, perché durante queste crociere si presupponeva che uno si dovesse innamorare di qualcuno, e lui non poteva innamorarsi di nessuno se non di Lara, e ne era già innamorato. Poteva pensare, come aveva fatto nel caso di Fanny, di andare a letto con qualcuno per due o tremila dollari.

Rise di sé. C’era stato un tempo in cui aveva frequentato bar per cuori solitari una o due sere alla settimana, ma tutto era finito quando si era reso conto che le donne non cercavano l’amore ma un marito. No, mai l’amore. Se voleva andare a letto con qualcuno poteva farlo più a buon mercato.

Alcuni uomini in tuta e caschi di sicurezza azzurri lavoravano poco distante dall’edificio. Cavi neri disegnavano morbide curve sul selciato. Fermò un operaio e timidamente gli chiese che cosa stessero facendo. L’uomo gli spiegò che stavano togliendo le linee aeree e le sostituivano con cavi sotterranei.

Lui annuì, lo ringraziò e rimase a guardare la strada, ricordando la porta significativa che non si sarebbe più aperta per lui. Un vigile gli toccò il braccio e indicò il Centro di Igiene Mentale. — È laggiù, signore. Vuole che l’accompagni?

— No. — Lui scosse la testa e si rese conto con un sussulto che per la prima volta da quando era un bambino si era messo a urlare e a strepitare in pubblico. Tirò fuori dal taschino il fazzoletto rosso, si asciugò gli occhi bagnati di lacrime e si soffiò il naso. Quando si sentì presentabile, entrò nell’edificio.

Di fianco agli ascensori una targa diceva che lo studio della dottoressa Nilson era al quarto piano. Si rese conto di saperlo già; sicuramente era scritto sull’elenco che aveva consultato. Chiamò l’ascensore e salì al quarto piano.

Nella sala d’aspetto c’erano tre pazienti: una donna esile dall’espressione malinconica, un ragazzo grasso di circa sedici anni che sorrideva al nulla, e lui. Fu costretto a mettersi a sedere fra i due domandandosi che cosa potevano pensare di lui, come lo avrebbero descritto: probabilmente un piccolo commesso dall’aspetto ordinato… anche se quel giorno non si sentiva molto ordinato.

Alla scrivania non c’era nessuno. Mentre erano lì, il telefono squillò sei volte, ma nessuno rispose.

Quando smise di squillare, lui si alzò ed esaminò la scrivania. Sul ripiano c’erano un vaso con una pianta, un tampone verde e una penna a sfera argentata tra le braccia di un koala rosa. Il cassetto conteneva matite, una penna a sfera, una scatola di fermagli e qualche elastico. A sinistra una finta fila di cassetti nascondeva un vano dentro al quale c’era una macchina per scrivere elettrica fissata a un sostegno retrattile. Sollevò la macchina per scrivere per vedere se c’era niente nascosto lì sotto.

La donna dall’espressione malinconica gli lanciò uno sguardo di disapprovazione.

Non c’era da meravigliarsi se era così giù di morale, pensò. Non vuole che qualcuno si diverta.

I finti cassetti a destra nascondevano un vano dove c’erano dei contenitori con fogli di carta bianca e gialla, carta da lettere con l’intestazione del Centro di Igiene Mentale, buste assortite, carta carbone e carta velina.

Era tutto. Se la persona che aveva usato quella scrivania vi aveva mai conservato oggetti personali, doveva averli portati via. Pensò che anche un dizionario da ufficio avrebbe potuto rivelare il nome della proprietaria, scritto sulla copertina. Ma il dizionario, se mai c’era stato, non c’era più.

Sotto il tampone non c’era nulla e non c’erano etichette sul telefono. Il koala era grazioso e silenzioso. Lui tirò fuori la carta da lettere, la carta uso bollo bianca, la carta gialla e le scompigliò con la vaga idea che potessero nascondere qualcosa. Non c’era nulla. Anche la carta carbone, ancora intatta, e la carta velina non rivelarono nulla. La penna nel cassetto era di plastica, del tipo che i rivenditori di articoli per ufficio distribuiscono per pubblicità. Su un lato della penna c’era scritto SOC. LA TIGRE con l’indirizzo e il numero telefonico. Dall’altra parte: CENTRO DI IGIENE MENTALE — LORA MASTERMAN. Si infilò la penna in tasca e si rimise a sedere.

Una donna ossuta con un ciuffetto di barba uscì a passo di marcia dallo studio del dottore, attraversò la sala d’aspetto come se loro fossero invisibili, e se ne andò. La donna dai denti di coniglio, con cui aveva parlato il giorno in cui aveva scoperto che Lara se n’era andata, guardò attraverso la porta, lo vide e disse: — Prego, signor Green, entri pure.

Il ragazzo grasso si alzò in piedi. — Ma insomma, un momento!

La donna dai denti di coniglio gli disse in tono calmo: — Il caso del signor Green è urgente, signor Bodin. Mi riservo il diritto di vedere i miei pazienti nell’ordine che ritengo opportuno.

Lui disse: — Fra un momento, dottoressa, le dirà che ho preso questa penna dalla scrivania della sua segretaria. — Sollevò la penna in modo che lei potesse vederla. — Ho pensato che forse avrei avuto voglia di prendere nota di quello che dicevamo e mi sono accorto di aver dimenticato la mia penna a casa.

— Non si deve preoccupare, signor Green. Vuole entrare?

Lo studio era più piccolo di quello di Drummond e arredato con più semplicità. Aspettò che la donna si sedesse, si accomodò su una sedia e poi disse: — Che mi sta succedendo dottoressa?

— Non lo so, signor Green. È quello che stiamo cercando di scoprire.

— Sono già venuto da lei altre volte?

Lei annuì.

— Spesso?

— Ha importanza?

— Per me sì. Molta. Spesso?

La dottoressa sfogliò i documenti dentro la cartelletta davanti a lei. — Questa è l’ottava volta. Perché è così importante?

— Perché io mi ricordo di essere venuto una sola volta.

Lei corrugò la fronte. — Interessante. E quando? — Il 14 marzo. Si ricorda cosa le ho domandato quella volta?

— Durante le visite prendo sempre appunti. Lei stava cercando una donna di nome Lara Morgan. L’ha trovata?

— No. Ha una foto di Lora Masterman?

— Se l’avessi, signor Green, non gliela mostrerei. La signora Masterman non lavora più qui e non voglio che sia importunata dai miei pazienti.

— Se n’è andata piuttosto all’improvviso — disse lui. — Le ho parlato quando ho telefonato dal negozio. Mi ha tenuto in linea per circa dieci minuti, prima di farmi parlare con lei. Quando sono arrivato qui, se n’era andata.

La dottoressa annuì ancora. — È vero, se n’è andata senza preavviso, signor Green. Comunque le sue dimissioni sono un problema mio, non suo.

— Mi dica una cosa e non le farò più alcuna domanda su di lei. Lora corrisponde alla descrizione che le ho fatto di Lara quando sono venuto da lei in marzo?

— Deve farmi una promessa solenne, signor Green.

— Va bene, le do la mia parola d’onore che se risponde a questa domanda non le chiederò più nulla su di lei.

La dottoressa annuì. — D’accordo, allora. Mi faccia rileggere quello che aveva detto. — Esaminò il foglio che aveva davanti. — Lei ha detto che Lara Morgan aveva i capelli rossi ed era alta un metro e settantacinque. Ha detto anche che aveva le lentiggini. Indossava un vestito verde, di seta o di nailon e gioielli d’oro. No, signor Green, questa descrizione non corrisponde affatto a Lora.

Lui si piegò in avanti sulla dura sedia di legno. — Si tratta solo del colore dei capelli? Perché…

— Signor Green, lei mi ha dato la sua parola che non mi avrebbe fatto più domande qualora le avessi detto se l’aspetto di Lora corrispondeva o meno alla sua descrizione. Io le ho detto che non corrisponde. Il mio tempo è limitato, e ci sono pazienti che stanno aspettando di vedermi… pazienti che stavano aspettando ancor prima che lei venisse qui.

Lui annuì e le porse la penna di Lora Masterman. — Deve farmi un biglietto dove dichiara che sono venuto da lei, altrimenti non mi riprendono al lavoro. Se me lo fa, me ne vado.

— Non glielo farò, almeno non subito. Lei, come mi ha promesso, non ha più domande da farmi, almeno per quanto riguarda Lora, ma io ne ho molte da fare a lei. La prima è: perché è venuto da me oggi? Ma a questa mi ha appena risposto. La seconda è: perché devo farle questo biglietto? Non è andato a lavorare durante gli ultimi tempi?

Lui scosse la testa. — No. L’ultima volta è stato il 13 marzo, il giorno prima di venire qui.

— E in tutto questo tempo lei è stato alla ricerca, mi pare infruttuosa, di questa Lara Morgan?

— Sì.

— Capisco. — La dottoressa Nilson annotò qualcosa sul suo taccuino. — Mi dia la prova che Lara Morgan esiste, signor Green.

— Va bene, gliela darò se prima lei mi dà la prova che esisteva Lora Masterman.

La dottoressa Nilson lo fissò per qualche secondo poi un leggero sorriso le piegò le labbra. — Lei è molto migliorato o molto peggiorato, signor Green, e le giuro che non so nemmeno io quale delle due ipotesi sia quella giusta. Lei è un’indovinello nascosto in un enigma. Mi sembra di ricordare che Winston Churchill si espresse così a proposito della Russia.

— Può darmi questa prova?

— Sì, certo. E si dà il caso che possa farlo con una certa facilità. C’è un avvocato che lavora qui da poco a tempo pieno. Circa due settimane fa, ha comprato una nuova macchina fotografica e per provarla si è messo a scattare fotografie. Quella che ha fatto a Lora e a me è venuta così bene, almeno secondo lui, che ce ne ha fatta una copia ciascuna. — La dottoressa Nilson aprì un cassetto della scrivania. — La mia copia è ancora qui.

Gli porse una busta marrone dodici per diciotto con la scritta CANDID CAMERA SHOPS.

— No!

— No, che cosa, signor Green?

Lui non rispose.

— Non vuole vedere la foto?

— Non c’è nessuna foto lì dentro — disse lui. — O se c’è non è di Lara. Lora. — Non si rendeva conto di come facesse a saperlo, ma lo sapeva.

— Lei ha ragione quando dice che non è la foto di Lara Morgan, ma è quella di Lora Masterman. Anzi, la stavo guardando solo qualche minuto fa, dopo che Lora se n’è andata così all’improvviso. Era la migliore segretaria che avessi mai avuto.

Tirò fuori dalla busta una fotografia e gliela mostrò. Si vedeva la dottoressa nella sala d’aspetto con un braccio intorno alle spalle di una ragazza bruna e sorridente seduta alla scrivania. Su una semplice targhetta di plastica, appena visibile sul lato destro della foto, si leggeva LORA MASTERMAN.

— Ecco qui, signor Green. Niente lentiggini, pochi gioielli, nessun vestito verde di seta… o almeno io non gliel’ho mai visto… e nessuna pelliccia. Capelli castani, e non rossi. Occhi castani, non verdi.

Lui annuì lentamente. — È Tina.

— Tina?

— Tina è uno dei nomi che lei usa. Quando ha questo aspetto, si fa chiamare Tina.

— Capisco. — La dottoressa Nilson pronunciò le parole in tono indifferente. — Può spiegarmi perché cambia nome?

— No — disse lui. Poi aggiunse: — Qualcosa posso spiegare, ma poco. Ho pensato molto a lei.

— L’avevo capito.

Lui disse lentamente: — Ha mai guardato il cielo di notte, dottoressa?

— Sì, spesso. Ma non tanto quanto avrei voluto. La città è così illuminata che le stelle si vedono raramente. Ma lo scorso inverno c’è stato un oscuramento improvviso… forse se lo ricorda… e io sono rimasta sulla terrazza fino a quando ero quasi congelata.

— E lei sa quanto sono lontane.

— Vagamente. Non sono un’astronoma.

— Una volta alla televisione ho visto Carl Sagan che diceva che molte stelle sono così lontane che ci vogliono milioni di anni perché un raggio di luce arrivi fino a noi, e la luce è la cosa più veloce che ci sia. Si è mai domandata perché Dio le ha messe così lontano?

— Credo che tutti se lo siano domandato, signor Green.

— Eppure qualche volta arrivano qui dei Visitor e ci sono cose del nostro mondo che semplicemente scompaiono.

La dottoressa Nilson annuì. — Come i cartelli all’aeroporto. ARRIVI e PARTENZE.

— Credo di sì. Non sono mai salito su un jet o su un altro aeroplano. Ma so che ci sono persone e cose che all’improvviso svaniscono e certe volte altre persone e altre cose compaiono qui. — Cercò di ricordare che cosa gli aveva detto Fanny dei canali televisivi, ma pensò che non sarebbe stato capace di spiegarlo bene. Disse: — C’è un altro mondo, dietro la porta, se attraversiamo la porta giusta.

La dottoressa Nilson fece qualcosa sotto il ripiano della scrivania. — Vada avanti, la prego, signor Green.

23. Spiegazioni

— Immagini che in quel mondo ci sia una donna, anzi, una dea che voglia far l’amore con un uomo del nostro mondo.

La dottoressa Nilson sorrise. — Perché dovrebbe volere una cosa del genere, signor Green?

— Perché nel suo mondo, dopo aver fatto l’amore, gli uomini muoiono.

— Come i fuchi… è questo che intende dire? Sarebbe una bella rivincita, qui molte di noi muoiono dopo essere state stuprate, o anche prima.

Lui disse: — Non capisco cosa intende dire quando parla di fuchi.

— I maschi delle api. La maggior parte delle api sono femmine sterili, le operaie. Le femmine fertili sono poche e mi sembra che le chiamino principesse. Poi ci sono pochi maschi fertili, chiamati fuchi. Durante il volo nuziale, i fuchi più forti si accoppiano con le principesse che diventano regine. Subito dopo i fuchi muoiono.

Lui scosse la testa. — Là le cose non vanno esattamente così. Gli uomini svolgono una gran mole di lavoro. Il poliziotto che ha parlato con me dopo l’incendio era un uomo e anche l’infermiere. Era un uomo anche l’impiegato che non mi ha fatto entrare nell’albergo, ma quando fanno l’amore, muoiono. Il loro sistema immunitario crolla. Me lo ha spiegato un medico… il dottor Applewood.

La dottoressa Nilson sorrise di nuovo. — Intende dire che ci sono medici, come da noi? Anche poliziotti? Immagino che parlino inglese.

— Sì, almeno nella zona dove sono stato io. Ma probabilmente in altri posti parlano lingue diverse. So che c’è un uomo che parla con accento… — d’improvviso si zittì.

— Che c’è, signor Green?

— Mi sono reso conto di chi era la voce che ho sentito chiamare Lara quando ero al telefono con lei… con la sua Lora. Era lui, era Klamm.

La dottoressa Nilson si chinò verso di lui con le mani intrecciate sotto il mento. — Non si rende conto, signor Green, che se ci fosse un mondo come quello che mi ha descritto, un mondo dove gli uomini muoiono dopo un rapporto sessuale, ci sarebbero usi e costumi, un’intera cultura, completamente diversa dalla nostra?

— Non è così — disse lui. — È tutto molto simile a come è qui da noi. — Rimase un momento in silenzio pensieroso. — Non ci avevo ancora pensato bene, ma è così, perché i due mondi sono così vicini che è molto facile passare da uno all’altro. Immagini che là qualcuno inventi una nuova parola. Immagini che uno di noi, senza nemmeno rendersene conto, vada di là, senta questa parola e l’impari. Oppure che uno di loro venga qui e la usi parlando. Probabilmente tante cose che noi crediamo nostre, vengono invece dal loro mondo. Come lo sposo che indossa l’abito nero il giorno delle nozze.

Si sentì bussare leggermente alla porta. La dottoressa Nilson disse: — Avanti.

Entrarono due robusti uomini di colore vestiti nell’uniforme da infermieri. Avevano pressappoco la sua età e gli sembrò che le loro facce scure e serie facessero uno strano contrasto con le uniformi bianche. Uno portava una borsa di tela.

— Non credo che il signor Green vi procurerà dei fastidi — disse la dottoressa Nilson. — Sotto molti aspetti sembra assolutamente ragionevole e forse ha solo bisogno di un po’ di riposo.

Quando si alzò in piedi i due gli afferrarono un braccio ciascuno. Qualcosa nel suo cuore che aveva a che fare con Lara esplose dentro di lui. Cominciò a lottare come non aveva più fatto da quand’era bambino, urlando e tirando calci.

Lo gettarono a terra; mentre uno lo teneva fermo l’altro aprì la chiusura lampo della sacca e lo infilò dentro una camicia di forza di cuoio e tela.

In tono gentile la dottoressa Nilson disse: — Signor Green, ora telefono al signor Drummond al negozio. Se vuole causare scompiglio, per esempio gridare aiuto, può farlo. Ma sappia che questo farà una pessima impressione al signor Drummond. Lo capisce, vero?

Parlando sollevò il ricevitore e schiacciò i pulsanti, poi restò in attesa al telefono. La stanza piombò nel silenzio.

— Sono la dottoressa Nilson, il medico del signor Green. Posso parlare con il signor Drummond, per favore? È importante.

“Signor Drummond? Sono la dottoressa Nilson. Il signor Green mi ha detto che lei vuole una mia lettera in cui dichiari che è venuto da me. Spero che questa telefonata possa servire ugualmente allo scopo.

“Bene. Signor Drummond, desidero informarla che intendo ricoverare il signor Green in ospedale. No, non credo che abbia problemi gravi, ma dopo questa lunga assenza ritengo che sia consigliabile un ricovero.

“Non posso darle una risposta precisa, signor Drummond. Forse alla fine del mese o forse più tardi.

“Non lo so. Se vuole il mio parere professionale, quando lo dimetteremo, il signor Green sarà in grado di tornare al lavoro. Ma è solo una previsione.

“Naturalmente. La saluto.”

La dottoressa Nilson riappese il ricevitore e per la prima volta lui sentì il suo profumo, una fragranza delicata di fiori, più adatta a una fanciulla. — Il signor Drummond mi ha chiesto di farle i suoi auguri e di dirle che spera in una sua pronta guarigione. Lei lavora per una società molto comprensiva e illuminata, signor Green.

Una società che non si disinteressa, come spesso accade, delle esigenze dell’umanità. Spero che lei se ne renda conto. Mi avrà sentito dirgli che il suo ricovero non durerà a lungo e che prevedo che lei possa tornare al lavoro non appena verrà dimesso. Ho detto questo perché lei ha saggiamente scelto di restare in silenzio. Lo ritengo un sintomo molto promettente.

Lui disse: — La ringrazio.

— Non potrò venire da lei in ospedale tutti i giorni, ho troppi impegni, ma cercherò di farlo tre o quattro volte alla settimana e spero di vederla migliorare, anzi ne sono certa. — Fece un cenno ai due uomini che lo aiutarono a rimettersi in piedi.

Lui disse: — Non credo che sia necessario un ricovero.

— Ma io sì, e lei deve rimettersi al mio giudizio.

Nonostante cercasse di trattenerle, le parole gli proruppero dalle labbra: — Questo mi impedirà di trovare Lara.

— Di sicuro le impedirà di cercarla, signor Green. Spero che presto riusciremo a dimostrarle l’inutilità della sua ricerca. È come cercare Cenerentola.

Uno degli uomini in uniforme bianca disse: — Su, avanti — in tono tranquillo, quasi gentile, ma contemporaneamente lui sentì uno strattone al braccio.

Disse: — Va bene — e mentre parlava squillò il telefono.

La dottoressa Nilson sollevò il ricevitore. — Ah, ciao Lora… No, non sono arrabbiata. So quanto può essere faticoso questo lavoro.

Lo spinsero fuori dallo studio e chiusero di colpo la porta alle sue spalle. — Adesso cammina.

Lui ubbidì, scesero le scale e uscirono sul retro dell’edificio. Una piccola autoambulanza bianca (in realtà era un furgone che sfoggiava lampeggianti rossi di emergenza) era ferma accanto al marciapiede. Uno degli uomini aprì la porta laterale, lo spinse dentro e si mise a sedere accanto a lui. L’altro infermiere si sedette al posto guida.

Appena seduti, il primo uomo, gli dette un pugno sull’orecchio sinistro, che gli fece esplodere la testa. — Questo per il calcio al ginocchio — disse l’uomo. — Mi hai sentito?

Lui riusciva a malapena a capire le parole perché la testa gli scoppiava, ma fece cenno di sì.

— Quando uno scalcia e urla ne siamo felici — gli disse l’uomo. — perché sono quelli che strillano e imprecano che riescono ad andarsene via di qui, te lo ha detto nessuno? La gente come te ha ancora un po’ di pepe, non se ne sta buona buona senza protestare. Dice “ehi, io me ne andrò da questo posto!”. Solo che, se ci prendi a calci e a pugni, noi te li diamo indietro.

Lui fece di nuovo cenno di sì e disse: — Ho capito.

— Hai capito perché ti ho dato un pugno, non perché te l’ho spiegato.

— Va bene.

— Non darmi più calci e io non ti prenderò a pugni.

Lui domandò: — Conosci Lora?

— La segretaria della dottoressa Nilson? Certo.

— Che aspetto ha?

Lui si strinse nelle spalle. — È bianca, non ci ho fatto molto caso. Non ha le tette grosse, o roba del genere. A qualche ragazza bianca piacciono i neri, ma non succede spesso. Qualche volta abbiamo scherzato… non si dava arie.

— Era bella?

— Ma non se n’è mica andata via.

— Sì. Se n’è andata all’improvviso e ha portato via tutte le sue cose.

L’uomo sembrava scettico. — Ma quando ce ne siamo andati la dottoressa Nilson stava parlando con lei al telefono. È probabile che ritorni.

Lui annuì e domandò di nuovo: — Era bella? Lo è?

— Desideri che sia bella, amico?

— Credo di sì.

— Allora era bella. Tipo… grandi occhi azzurri e una di quelle facce di porcellana cinese, capisci che voglio dire?

L’uomo al volante disse: — Verdi.

L’altro gli domandò: — Che vuoi dire?

— Che quella Lora ha gli occhi verdi, scemo.

— Non dargli retta, amico — disse l’altro. — È matto. Allora, vuoi che ti tolga la camicia?

Era convinto che l’ospedale fosse in centro, invece era in periferia, in mezzo a prati ondulati coperti di giunchiglie in fiore. Soffiava un venticello fresco e limpido così diverso dai venti invernali. Vide che non c’erano sbarre alle finestre e disse: — Non sembra un ospedale psichiatrico.

— Infatti non lo è, amico. È un ospedale dove fanno nascere i bambini, inseriscono valvole cardiache e roba del genere. Così, se la gente ti chiede dove sei stato, tu glielo puoi dire e giurare anche in tribunale. Hai capito?

Lui annuì. Quando furono nell’atrio uno dei due parlò brevemente con la persona che stava all’accettazione. L’impiegata indicò l’ascensore. Al nono piano (era stato attento a notare quale pulsante avevano schiacciato) lo stesso uomo parlò a lungo con un’infermiera seduta dietro a una scrivania. Quando finalmente smisero di parlare, l’uomo disse: — Ora ti portiamo nella sala di soggiorno. Le ho detto che te ne starai tranquillo e non combinerai guai, hai capito? Adesso ti lasciamo qui e ce ne torniamo indietro.

Lui annuì ancora. Aveva annuito così tante volte che aveva perso il conto.

Il soggiorno era in ordine e pulito, ma lui sentiva la mancanza del vento primaverile. Cercò di aprire tutte e due le finestre senza riuscirci. Esaminò gli infissi e si accorse che i vetri erano molto spessi, nella stanza c’erano sette sedie laccate e un tavolino basso, laccato, con sopra una pila di vecchie riviste. Dopo un po’ gli venne in mente che forse in qualche rivista c’era la foto di Lara. Ne prese una e cominciò a sfogliarla pagina per pagina.

Stava scorrendo la terza rivista, quando un uomo calvo dall’aspetto esausto si sedette accanto a lui. — Le piace leggere? — domandò.

Lui scosse la testa.

— A me sì. Starei tutto il giorno a leggere, se non fosse per gli occhi che non ce la fanno. Così devo smettere e occuparmi dei miei pazienti, — L’uomo calvo ridacchiò.

— Cosa legge?

— Soprattutto libri di storia. Qualche romanzo. Devo leggere le pubblicazioni mediche. Siamo abbonati a Netsweek. The New Yorker, Psicologia oggi e Smithsonian. Mia moglie li legge sempre tutti, io solo qualche volta.

Lui disse: — Mi piacerebbe guardare qualche rivista di cinema. Non credo che questo le farà una grande impressione.

— Più di quanto lei pensi — gli disse l’uomo calvo. — La maggior parte delle persone non legge affatto.

— Ho sempre considerato i libri uno spreco di denaro.

— Lei sta molto attento al denaro?

— Ci provo.

— Ma adesso sta in ospedale. E gli ospedali sono molto costosi.

— La società per cui lavoro paga tutte le spese — spiegò lui.

Sentì all’improvviso un brivido di paura, e se non fosse stato vero?

L’uomo calvo tirò fuori un taccuino e una penna. — Che giorno è oggi?

Lui cercò di ricordare, ma non ci riuscì. — Mercoledì?

— Non ne sono sicuro nemmeno io. Sa che data è?

— Sedici aprile.

— Sa perché la sua società paga le spese per la sua degenza?

— Fa parte della politica aziendale.

— E perché pensano che lei debba essere curato?

— Perché sono stato via molto tempo, credo. Quasi un mese… anzi, no, più di un mese.

La penna danzava sul taccuino e la luce del sole entrando dalla finestra si rifletteva sulla penna d’oro. Sembrava che fosse la penna a parlare, non l’uomo calvo. — Voglio che con la mente torni indietro di una settimana. Non risponda subito. Chiuda gli occhi e torni indietro. Allora, dove si trovava una settimana fa?

Era il giorno in cui aveva incontrato Lara. — Camminavo lungo il fiume.

— Nel parco?

— Sì.

— Perché si trovava là?

— Mi ero portato il pranzo e l’ho mangiato seduto su una panchina. Avevo ancora quindici minuti prima di tornare al lavoro. — E poi spiegò: — Il negozio è vicino al parco.

— Quella mattina aveva lavorato?

— Sì.

Lo portarono in un’altra stanza, lo fecero svestire e gli fecero indossare gli abiti da ospedale.

Un uomo in uniforme bianca mise i suoi indumenti in una cesta di metallo.

Dopo un po’ arrivò un’infermiera che gli dette una medicina.

24. Il paziente

All’apparenza nella stanza di soggiorno c’erano molte cose da fare, ma giochi e passatempi erano solo un’illusione. In un armadietto sulla parete c’erano una mezza dozzina di rompicapo, ma tutti incompleti (occasione per prevedibili battute ogni volta che qualcuno ne tirava fuori uno). Il pianoforte aveva bisogno di essere accordato e tuttavia, anche se nel reparto nessuno sapeva suonare qualcosa di meglio delle “Tagliatelle”, ogni tanto qualcuno ci provava. Al mazzo di carte da gioco — tutte con le orecchie — che stava dentro il cassetto, mancavano l’asso, il due e il quattro di cuori. Il contenitore di palline da ping-pong era affidato alle cure delle infermiere che di norma dicevano di averle esaurite per evitare complicazioni.

O forse, pensò, erano veramente esaurite. Forse il contenitore era vuoto, magari da anni, e pieno di polvere all’interno come lo era all’esterno.

— Vuoi fare una partita a scacchi?

Lui alzò gli occhi. L’uomo con la scacchiera e la scatola dei pezzi in mano, era di mezz’età e aveva i capelli arruffati.

— Mancano i pezzi — disse lui.

— Possiamo usare qualche altro oggetto.

Lui fece cenno che andava bene e si avvicinò al tavolo. Utilizzarono due pedine, due pedine nere al posto dei pedoni neri e un re rosso al posto della regina bianca.

— Bianchi o neri?

Lui ci pensò su. Chissà perché la decisione gli sembrava molto importante. Studiò la regina bianca e quella nera, cercando di decidere quale fosse Lara. Quella bianca, naturalmente. Bianco per la sua carnagione, rosso per i suoi capelli. — Bianchi.

Il suo avversario girò la scacchiera. — A te la prima mossa.

Lui annuì e mosse un pedone a caso. Il pedone della regina nera avanzò di due caselle. Lui mosse il suo alfiere. — Ma noi ci conosciamo? — domandò.

— Non credo.

— Forse ci siamo conosciuti un po’ di tempo fa — disse, e aggiunse: — Fuori di qui — anche se non ne era proprio sicuro.

— Forse — disse il suo avversario. — Mi hanno fatto l’elettroshock, capisci di cosa parlo? Ti fa dimenticare un sacco di cose. — Sollevò tutte e due le mani per mostrargli i segni rossi sulle tempie. — E a te?

— Non ancora.

— Ma te lo faranno, eh?

— Credo di sì.

— Non fa male. Molti pensano che faccia male, ma non è vero. Di’ un po’, ma tu mi pare di vedere che i segni ce li hai già.

Quando finirono di giocare, il suo avversario si mise al piano e suonò una vecchia canzone. “Il vero amore”, cantando la melodia stonata con una voce rauca e gradevole. Fu solo la sera, sdraiato nel suo stretto lettino da ospedale con le mani dietro la nuca, che identificò nel suo avversario il paziente che lo aveva mandato da Walsh a raccontargli di un tipo e di una tipa che avevano fatto una certa cosa. Ma non riuscì a ricordare i nomi.

C’era una donna con i capelli tinti e una faccia lunga che era molto interessata a sapere cosa lui pensava del sesso. Poi c’era un indiano che gli spiegava perché fosse tanto più facile guarire per le persone che credevano negli spiriti. C’era uno stanco dottore di mezza età, di cui qualche volta riusciva a ricordare il nome, e c’era la dottoressa Nilson, che a volte dimenticava come si chiamava.

Poi c’era l’erba da tagliare e il giardino da ripulire dalle erbacce, i prati da rastrellare, le foglie color ruggine, marrone e dorate da bruciare e c’era la neve da spalare. Per fare tutti questi lavori gli avevano dato una giacca calda e un paio di guanti, dono di una persona gentile che aveva lasciato un bossolo calibro 22 nelle tasche della giacca.

A volte, di notte, si domandava che cosa era successo all’ospedale dove lo avevano portato con il furgone e certe volte era sicuro di trovarsi di nuovi ai Riuniti. Una volta domandò a un coreano glabro notizie dei Riuniti e del dottor Pillo-Lin; il coreano glabro, cioè il dottor Kim, si limitò a ridacchiare.

C’era un inserviente che era gentile con lui, ma un giorno che si trovavano dietro la caldaia nel locale dell’impianto di riscaldamento, voleva fargli fare qualcosa che lui non voleva fare. Fu quel giorno che, mentre tornava da solo verso l’edificio principale, gli venne in mente che si trovava lì per un ricordo che, forse, dopotutto, era solo un sogno.

Durante il colloquio seguente, domandò al dottore indiano se avevano scoperto che cosa gli era successo mentre era fuori.

— Ma non lo sa? — gli chiese l’indiano. — Perché non ce lo racconta lei?

Lui scosse la testa e disse che vedeva solo il vuoto. Osservò soddisfatto il dottore indiano annotare qualcosa sul suo taccuino con espressione altrettanto soddisfatta.

Aveva perso il suo appartamento, ma il negozio gliene aveva procurato un altro migliore. Il suo vestiario e i suoi mobili erano stati messi in un magazzino e fu piacevole vedere le sue vecchie cose sorridergli mentre le tirava fuori dagli scatoloni e le disponeva nei nuovi locali e, poiché era estate, lasciò alcuni indumenti invernali negli scatoloni. L’affitto dell’appartamento comprendeva anche la possibilità di usare un locale seminterrato: mise le etichette sugli scatoloni secondo le istruzioni dell’amministratore della casa che lo aiutò a portarli nel seminterrato e a chiudere la porta a chiave.

Alcune delle persone che lavoravano al negozio erano andate via, altre c’erano ancora. Sollecitati dal signor Capper — come venne a sapere in seguito — alcuni colleghi organizzarono una cena di benvenuto in suo onore, un martedì sera dopo l’orario di lavoro. Lui era l’ospite d’onore, gli altri pagarono la loro quota e parte della sua. Non erano in molti, oltre a lui circa dodici persone, ma lui era contento ugualmente, anche perché scoprì che riusciva a ricordare i nomi della maggior parte di loro.

A un certo punto della cena, quando quasi tutti avevano terminato la pietanza e i camerieri aspettavano che anche gli altri finissero per servire il dolce, una donna, che poteva essere Lara, apparve nell’atrio uscendo da una saletta privata. Fu tentato di dire qualcosa o di chiamarla, ma non lo fece. Più tardi, si scusò e andò in bagno. Tenne gli occhi aperti, ma non osò guardare dentro le altre salette private e non vide nulla.

Il giorno seguente fece il suo rientro effettivo al lavoro. Era stato trasferito dal Reparto Personal Computer — dove le vendite in quel periodo erano diminuite — al Reparto Arredamento ed Elettrodomestici dove aveva già lavorato. Continuò a sentirsi un po’ insicuro fino a quando la sua prima cliente comprò un divano e un tavolo da tè. Da quel momento si sentì completamente a suo agio.

Il capo del Reparto Arredamento ed Elettrodomestici, che era quindi anche il suo capo, si chiamava Bud van Tilburg. Lui lo chiamava “signor van Tilburg” e gli rivolgeva sempre la parola con un sorriso. Solo alcune settimane dopo collegò il suo trasferimento al fatto che il signor van Tilburg era amico del signor Drummond. Allora entrò nell’ufficio del signor van Tilburg e gli chiese da uomo a uomo di dirgli se considerava il suo rendimento sul lavoro soddisfacente. Il signor van Tilburg richiamò al computer le cifre che riguardavano le vendite effettuate da ciascun commesso del reparto e gli dimostrò che lui aveva superato tutti e aveva distanziato il secondo in classifica di più di mille dollari. — Anche lei qui è stato il colpo migliore che abbia fatto negli ultimi due anni — disse il signor van Tilburg.

Da quel giorno cercò di fare ancora meglio. Quando aveva lavorato in quel reparto per la prima volta, non si era reso conto che nel campo dell’arredamento si potevano imparare un mucchio di cose come nel campo dei computer e dei videogames.

Eppure era proprio così. C’erano tanti tipi diversi di tappezzerie, di imbottiture, di rifiniture e di metodi di fabbricazione. Per non parlare degli stili: Chippendale, Regina Anna, Vecchia America, Classico, Giacobita, Rinascimento Italiano, Ottocento Italiano, Enrico IV, Luigi XIII, Rinascimento Francese e così via. Li imparò tutti, consultò i libri della biblioteca, osservò con attenzione le immagini e memorizzò quello che dicevano gli esperti. Imparò a distinguere il rovere rosso da quello bianco, il rovere bianco dall’acero, l’acero dal noce, il noce dal noce americano, il noce americano dal teck e perfino il legno di rosa falso dal vero legno di rosa del Brasile.

Venne il giorno in cui, mentre tornava a casa a piedi, si rese conto di essere riuscito a vendere qualcosa a ogni cliente che si era rivolto a lui. Questa scoperta gli dette una sensazione di felicità che durò fino al momento di andare a letto e di cui c’era ancora traccia il mattino dopo mentre si preparava il caffè e mangiava la brioche.

Per raggiungere il suo nuovo appartamento doveva attraversare il parco, ma per quanto lo riguardava esistevano solo due stagioni: la primavera, quando il reparto esponeva l’arredamento per giardini e terrazze, e naturalmente il periodo natalizio. A volte nel parco c’erano le giunchiglie, a volte i crisantemi. A volte c’era la neve (nessuno spalava i sentieri) e lui indossava gli alti stivali imbottiti che aveva comprato con lo sconto al Reparto Calzature Uomo e Donna e portava le scarpe da lavoro in una borsa di carta.

Passarono così tre periodi natalizi che cominciavano in ottobre e finivano ai primi di dicembre. Un giorno di febbraio parlò per quasi un’ora con un uomo grasso di circa sessant’anni che sembrava interessato a uno scaffale per libreria. L’uomo grasso se ne andò senza aver comprato nulla, e appena fu uscito arrivò trafelata Bridget Boyd del Reparto Piccoli Elettrodomestici. — Sai chi era quello?

Lui scosse la testa.

— Era H. Harris Henry in persona! — Quando si rese conto della sua mancanza di interesse soggiunse: — Il nostro presidente, il capataz della società. Vedrai che ti hanno inserito nel piano di partecipazione azionaria.

Lui annuì.

— Così riceverai la relazione annuale di bilancio. Ma tu non dai mai un’occhiata alle foto? Sarà meglio che cominci a farlo.

Lui decise che non l’avrebbe fatto, non gli era mai venuta voglia di leggere quel coso e ora, chiaramente, era troppo tardi. — Potevi dirmelo prima — le disse.

— E come facevo? Stavi parlando con lui! — Si mordicchiò il labbro inferiore. — Se andassimo a fare colazione insieme, potrei aggiornarti sulla Struttura Aziendale.

Pronunciò le parole così, con le iniziali maiuscole. Lui si voltò e andò via.

Una settimana più tardi arrivò l’ordine di trasferirlo al Reparto Antiquariato, nella sede dei quartieri alti. Il nuovo incarico rappresentava una sostanziosa promozione, ma significava anche che due volte al giorno era costretto a passare venti minuti su un autobus, a cui si aggiungevano un’altra ventina di minuti di attesa alla fermata. Fino ad aprile moriva di freddo fermo in strada e da giugno fino a settembre sugli autobus faceva un caldo insopportabile.

Il lavoro gli piaceva, anche se aveva individuato subito che alcuni pezzi esposti erano solo volgari contraffazioni. Se qualche cliente gli chiedeva informazioni su questi oggetti, lui leggeva la descrizione sul cartellino, premettendo “Allora, il cartellino dice che…”. Se il cliente gli era simpatico, arrivava anche a fare un impercettibile segno di diniego con la testa. Ma, poiché gli articoli in questione erano di grosse dimensioni, piuttosto vistosi, generalmente andavano a ruba, nonostante il suo parere negativo.

C’era però un pezzo particolare che avrebbe voluto per sé: un piccolo scrittoio di indiscutibile valore che circa duecento anni prima era appartenuto a un capitano di marina inglese. Da quanto poteva giudicare, era stato costruito in India in legno di sandalo e i cassetti avevano pomelli di opaline tolti a qualche oggetto ancora più antico. Tre cassetti avevano ancora il rivestimento originale di panno verde. Quando non aveva niente da fare, gli piaceva aprirli ed esaminarli con la sensazione che una volta o l’altra vi avrebbe trovato qualcosa che non aveva mai trovato prima. A volte si chinava per annusare il panno ormai sbiadito. Il capitano, pensò, teneva il tabacco nel primo cassetto a sinistra. Gli altri cassetti emanavano odori così impercettibili e indecifrabili che si domandava se non fosse la sua immaginazione a farglieli sentire.

Una notte sognò di stare seduto allo scrittoio. Il pavimento sotto di lui si muoveva, ondeggiava leggermente, si sollevava e ricadeva con un movimento che lui vedeva riprodotto in modo ancora più impercettibile nel calamaio di inchiostro nero in cui intingeva la penna d’oca. “Cuor mio” scriveva. “Il mio caro amico, il capitano Clough, del China Doll mi ha promesso di impostare questa lettera in Inghilterra. La sua nave è un clipper, quindi…”

Sul ponte sopra la sua testa si sentì un tramestio e un rumore di passi affrettati. Si alzò a sedere e dopo un secondo rideva di sé, benché qualcosa dentro di lui — qualcosa che faceva parte del vecchio capitano — non ridesse affatto.

Il giorno seguente un’orribile donna di mezz’età gli chiese di mostrarle lo scrittoio. — Manca la sedia — disse lui. — Senza la sedia non è completo.

— Va bene lo stesso — gli disse la donna. — Ne farò fare una. È abbastanza semplice.

Le disse il prezzo, tentando di farle capire che lui lo trovava troppo alto.

— Accettabile — disse la donna mentre toccava e curiosava.

Lui abbassò il tono della voce. — In gennaio, con lo sconto, potrà guadagnare trecento dollari.

La donna sorrise, il sorriso di un gatto che sente il canarino fra i suoi artigli. — Benissimo, dica di mandarmi un assegno.

Rinunciò a insistere e scrisse l’ordine, poi dette uno sguardo all’orologio. La donna aveva usato una carta di credito e per un momento sperò che l’ordine non venisse accettato.

Erano le sei meno dieci, mancavano dieci minuti alla chiusura. Dalla settimana seguente — solo dalla settimana seguente — il negozio sarebbe rimasto aperto fino alle dieci di sera, e a settimane alterne lui sarebbe dovuto venire al lavoro alle due e restare fino alle dieci. Sarebbero arrivati commessi stagionali che non potevano effettuare cambi e altri che venivano a lavorare per rubare. Grazie a Dio, però, in quel reparto ce ne sarebbero stati pochi.

Sentì suonare il primo campanello che annunciava l’ora di chiusura del negozio.

Al secondo, entrò nella sala di soggiorno per il personale per prendere un po’ di caffè. Le finestre erano buie. Si avvicinò ai vetri sorpreso che si fosse fatto scuro così presto. Ma certo, era finita l’ora legale, se n’era dimenticato.

Erano settimane che la gente parlava di quel bellissimo autunno; estate indiana, la chiamavano. Guardò attraverso i vetri bui le sagome che correvano frettolosamente lungo i marciapiedi. L’inverno era arrivato e prometteva di essere duro.

Aveva un cappotto pesante, un cappotto lungo di lana di un grigio così scuro da sembrare nero. Doveva essere da qualche parte e bisognava che si ricordasse di tirarlo fuori.

25. La bambola

Nell’autobus l’aria era calda e soffocante come sempre e la camminata a piedi dalla fermata al suo appartamento gli procurò un po’ di refrigerio. Quando arrivò a casa aveva completamente dimenticato la sua decisione. Il giorno seguente il vento si era calmato e il tempo era, o almeno sembrava, più caldo. La città era a sud e quindi gli inverni rigidi erano piuttosto eccezionali.

Quella settimana era proprio una di queste eccezioni. Prima che terminasse, non solo si era ricordato quello che voleva fare, ma aveva chiamato il custode e gli aveva detto che voleva riprendere lo scatolone che aveva lasciato in deposito nello scantinato.

— Ci tiene i vestiti pesanti, eh? — ridacchiò il custode. — Speriamo che non se li siano mangiati le tarme.

— Proprio così. L’ho sigillato con il nastro adesivo.

Il custode annuì. — Io ci avrei messo anche un po’ di naftalina. — Stava scegliendo tra una ventina di chiavi che teneva attaccate in un mazzo alla cintura. — Eccola qui.

La chiave non entrava nella serratura. Ne scelse un’altra. Solo al terzo tentativo trovò la chiave giusta che aprì la serratura con un clic di protesta.

— Quando la gente cambia casa io mi preoccupo di ricordargli questo posto — disse il custode. — Ma anche se hanno qualcosa qui dentro, se lo dimenticano regolarmente. Un sacco di gente ha messo della roba qui, ma lei è il primo che mi chiede di riprenderla. No… — Fece una pausa con una mano sulla maniglia e sollevando l’altra con un dito alzato. — La signorina Durkin una volta ha ripreso il vestito di sua sorella perché voleva regalarlo a un’amica, ma a quell’amica non piaceva e così l’ha rimesso qui.

Entrarono nel locale e il custode girò l’interruttore della luce. La stanza era ingombra di oggetti. — Capisce che voglio dire? Fra un po’ di tempo dovrò buttare via un po’ di roba. Solo che non vorrei… capisce? che la gente dica che rubo. Naturalmente non butto via niente di proprietà di quelli che abitano ancora qui.

Lui annuì, mentre cercava di ricordare che aspetto avesse lo scatolone. Era uno scatolone del droghiere?

— Non lo trova, eh?

— No — disse lui. — Ancora non l’ho visto.

— Forse sta dietro a questa, o sotto. L’ho messa qui circa un mese fa. — Il custode spinse a fatica una grossa valigia e dopo un momento lui, mosso a pietà, cercò di aiutarlo. Mentre spostavano la valigia, lo colpì l’idea che era passato molto tempo dall’ultima volta che aveva provato pietà per qualcuno, eccetto forse per se stesso.

Lo scatolone era davvero sotto la valigia. Lo prese, ringraziò il custode e lo trascinò fino all’ascensore. Mentre aspettava, gli venne in mente che il custode poteva a ragione essere considerato un oggetto d’antiquariato, come lo scrittoio che aveva perso. Lo scrittoio infatti era più vecchio rispetto alla maggioranza degli scrittoi e il custode lo era rispetto alla maggioranza degli uomini. Eppure, nessuno se ne curava, nessuno si sarebbe preso la briga di salvarlo dalle fiamme del crematorio. Forse in futuro i vecchi verranno conservati come si fa con i mobili antichi, pensò. I collezionisti si strapperanno i capelli al pensiero di quanti ne abbiamo buttati via.

Le porte si aprirono e lui gettò il pensiero in fondo al vano dell’ascensore, mise lo scatolone nella cabina e schiacciò il pulsante. Ora che aveva lo scatolone — naturalmente era dell’impresa di traslochi — non si sentiva più sicuro che contenesse i vestiti invernali, ma non aveva idea di che cosa potesse contenere. Cercò di ricordarsi il giorno in cui aveva lasciato l’YMCA. Allora non possedeva un cappotto, ne era sicuro; quell’inverno per andare a lavorare si metteva la giacca a vento e lasciava la giacca del vestito nell’armadio.

Aprì con una spalla la porta del suo appartamento. Niente lì dentro gli sembrò familiare, come se qualcuno avesse spostato i mobili mentre lui era al lavoro. Il soggiorno era molto più ampio ed era a forma di L, la cucina, il lavello d’acciaio e il ripiano di formica sembravano aver lievitato, tanto erano ingranditi.

Appoggiò lo scatolone in terra. Il caminetto non c’era più e non si rendeva conto come potesse essere successo. Si ricordava di se stesso, sdraiato davanti al fuoco, che beveva un brandy insieme a qualcuno, forse una ragazza o una donna. Il caminetto apparteneva alla donna? No, non era una donna… così aveva detto. Aveva portato via con sé il caminetto quando se ne era andata? Impossibile.

Quello era un altro appartamento, ma certo! Un appartamento dove aveva abitato prima di venire qui e dopo essere stato all’YMCA. Strano, poteva ricordare benissimo che dall’YMCA si era trasferito nel primo appartamento, ma non riusciva a rammentare quando aveva traslocato qui.

Era stato ammalato. Se ne era dimenticato o, per essere sincero, aveva rimosso il ricordo. Sicuramente la società per cui lavorava l’aveva trasferito nel nuovo negozio per farlo stare in mezzo a persone che non erano a conoscenza del suo esaurimento nervoso.

Comunque se ne erano accorti subito. Si ricordava della ragazza del Reparto Abbigliamento che gli faceva delle domande quando sedevano vicini durante il picnic. Era stato uno sbaglio uscire con lei perché era come tutte le altre, una donna sola alla ricerca disperata di un tipo di uomo che, se l’avesse trovato, non l’avrebbe degnata di uno sguardo: uno studente, bello, ricco, atletico, sensibile, intelligente, colto e completamente incapace di vederla così come lei era in realtà.

Rise fra sé.

E lui era forse migliore? Sì, pensò. Sì, sono migliore perché io sono disposto ad ammettere come sono.

Ma come sono? Certamente non sono Dio ed è Dio che disse: Io sono. Questo se lo ricordava, ma non ricordava dove l’aveva imparato. Forse in uno di quei filmoni biblici dove Charlton Heston attraversa il Mar Rosso.

Si tolse il soprabito, la giacca e la cravatta e mise a scaldare l’acqua per il caffè. Come gli succedeva alla fine di ogni giornata, gli dolevano i piedi. Mentre si toglieva le scarpe si domandò se c’era rimasto un po’ di brandy. Non da allora, non da quella notte. Non si ricordava quanto tempo era passato, ma era stato tanto tempo fa.

Nell’armadio a muro del soggiorno c’era una mezza bottiglia di rum. Non si ricordava di averla comprata e pensò che forse l’aveva lasciata lì il precedente inquilino, ma gli ricordò il capitano che era stato per una notte e il suo scrittoio. Versò un dito di rum nel caffè solubile sopra il latte e lo zucchero.

Lo scatolone era legato con un grosso spago. Portò il caffè in cucina, prese il coltello che talvolta usava per affettare le cipolle e lo affilò.

Rimase un momento soprappensiero, passando le dita sulla lama, sorseggiando il caffè con un leggero sorriso. Il fatto di non sapere cosa contenesse, addirittura il dubbio che lo scatolone non fosse suo, gli dava una piacevole sensazione. Il custode era vecchio, si disse, e poteva aver attaccato l’etichetta con il suo nome sullo scatolone sbagliato. Cercò una cassetta da mettere nello stereo e alla fine scelse Canti Natalizi. Presto al negozio i canti natalizi si sarebbero sentiti fino alla nausea e anche lui come i suoi colleghi, se ne sarebbe lamentato. Ma in quel momento provava il desiderio del Natale prima che al negozio glielo distruggessero insieme a tutto quello che significava.

Adeste fideles,
Laeti triumphantes;
Venite, venite in Bethlehem.

Tagliò lo spago e aprì i lembi dello scatolone. Il primo indumento era un panciotto pesante. Lo prese in mano e lo osservò ammirato. Era di un bellissimo marrone chiaro, quello che chiamano “color cammello”, di tessuto pesante e morbido, con lo scollo a V e una fila di bottoni. Era proprio adatto a tenere al caldo il torace mentre aspettava l’autobus, pensò. Cercò le etichette, congratulandosi con se stesso perché si ricordava questi dettagli…

Il panciotto era di taglia media e doveva andargli bene.

Un’altra etichetta diceva “100% pura lana vergine”, “lavare a secco” e “fabbricato a Toronto”. Toronto era in Canada, pensò. Portò il panciotto in camera e lo appese accanto al soprabito e alla giacca.

Quando aveva tirato fuori il gilet dallo scatolone era stato attento a non guardare quello che c’era sotto. Ora si fregò le mani pregustando la nuova scoperta.

Erano un paio di guanti di morbida pelle marrone scuro, imbottiti di pelliccia. Non erano mai stati indossati, il cartellino del prezzo era ancora attaccato al cordoncino di plastica che li teneva insieme. Lo tagliò, si infilò i guanti e prese a colpire l’aria, anche se non aveva mai boxato. I guanti gli andavano a pennello e s’immaginò di suonare il pianoforte con quelli indosso, anche se in verità non sapeva affatto suonare. Dallo stereo arrivavano le note di Silent Night. Accompagnò il canto con quel meraviglioso strumento magico che gli metteva sempre i tasti giusti sotto le dita.

Era inutile riporre i guanti nelle tasche del soprabito visto che sperava di trovare nello scatolone un cappotto più pesante. Dopo attenta riflessione li appoggiò sulla barra trasversale dell’appendiabiti dove stava la giacca.

L’oggetto seguente era una lunga sciarpa di maglia color marrone bruciato e, ancora più sotto, c’era il cappotto di cui si ricordava. Li tirò fuori dallo scatolone, infilò le braccia nelle ampie maniche del cappotto e si arrotolò la sciarpa intorno al collo. Da tutti e due gli indumenti emanava un calore palpabile. Andò in camera da letto e rimase in piedi davanti allo specchio mentre si abbottonava il cappotto che era abbastanza ampio da permettergli di indossare anche la giacca. Mentre lisciava con le mani la stoffa pelosa, sentì che in una delle tasche laterali c’era qualcosa.

Era una mappa. Aveva già troppo caldo, si tolse il cappotto e lo appoggiò sul letto, si sedette lì accanto e aprì la mappa sulle ginocchia.

Rappresentava una zona molto boscosa e quasi priva di strade, attraversata da piccoli corsi d’acqua caratterizzati da numerose rapide. Il picco più alto era il Monte Hieros; a giudicare dal puntino centrale bianco, il Monte Hieros doveva essere incappucciato di neve. Non c’era nessuna indicazione di dove si trovassero la zona o la montagna. Una serie di lettere sparse da un angolo all’altro della mappa diceva OVERWOOD.

Scosse la testa, ripiegò la mappa e la gettò sul cassettone ripromettendosi di esaminarla meglio dopo cena. Era molto tempo che non andava a mangiare nel ristorante italiano. Il locale era vicino al suo vecchio appartamento (i dintorni del suo vecchio appartamento gli erano tornati chiarissimi alla mente), ma era piuttosto lontano da dove abitava ora, circa dieci isolati, e a lui non piaceva camminare a piedi. Scoprì non solo di essere affamato, ma di avere anche voglia di collaudare gli indumenti ritrovati. Si cambiò le scarpe, indossò il panciotto, la giacca e i guanti, arrotolò la sciarpa intorno al collo e per finire si avvolse nel lungo cappotto scuro.

Fuori il vento rifiutò di collaborare. Era svanito insieme alla luce del giorno e nella notte fredda e chiara l’aria sembrava ristagnare sui ripiani di vetro come un calice di cristallo nel Reparto Chincaglierie. Si affrettò lungo la strada estasiato per la piuma evanescente del suo respiro, il calore del suo corpo, le guance gelate.

Mamma Capini c’era ancora e si ricordava di lui, era lui che a malapena si ricordava di lei. Gli dette il ben tornato e gli portò un fiasco di Chianti, omaggio della ditta. Lui ordinò un piatto di lasagne, bevve parecchi bicchieri di vino, e uscendo andò a sbattere contro un altro cliente.

L’incidente non era stato niente di grave. Lui si scusò, l’altro, un uomo di mezza età, gli disse di non preoccuparsi, e tutto finì lì. Ma nello scontro lui si era accorto che c’era qualcosa nella tasca interna del cappotto, qualcosa dalla forma allungata e irregolare. Dapprima pensò che fosse una bottiglia, poi una pistola, ma la forma era diversa. Si tolse un guanto e toccò l’oggetto con le dita. Sentì qualcosa di peloso, come se dentro la tasca ci fosse un animaletto dritto sulle zampe posteriori. L’euforia del buon cibo e del buon vino non gli fecero dare importanza alla cosa.

Quando arrivò a casa l’euforia era svanita e si scoprì curioso come un bambino di conoscere il contenuto delle sue tasche come lo era stato di conoscere quello dello scatolone. Sistemò con cura il cappotto sul divano e ripose quel che rimaneva del Chianti sul ripiano più basso del frigorifero. Poi tirò fuori dalla tasca quell’oggetto dalla forma strana che non gli era riuscito di cacciare dalla mente durante tutto il tragitto verso casa.

Era una bambola. La portò alla luce per esaminarla meglio; quello che aveva creduto pelo era invece una soffice capigliatura castana, all’apparenza veri capelli umani. Sotto la capigliatura un viso spiritoso, insieme bello e impertinente: una donna, una ragazza, dalle lunghe gambe, la vita sottile, i seni diritti, i fianchi rotondi e gli occhi nocciola che lo fissavano. Indossava una tutina verde senza maniche dai riflessi metallici con una cintura; scoprì con imbarazzo che era il suo unico indumento.

Perché aveva quell’oggetto? O forse non era suo? Anche se il cappotto e i guanti gli andavano alla perfezione, era più che probabile che non fossero suoi. Dopotutto, lui era di taglia media. Non aveva mai avuto una figlia, di questo era sicuro. E non era mai stato sposato, se lo sarebbe ricordato.

Ma era così semplice! Forse aveva avuto una relazione con una donna divorziata. Forse aveva comprato la bambola nel Reparto Giocattoli con lo sconto per i dipendenti, per regalarla alla bambina di lei; forse quando lo aveva fatto era Natale, come ora. Poi con quella donna doveva aver rotto e aveva messo via il cappotto senza vuotare le tasche.

Portò la bambola in camera da letto e la appoggiò sulla mappa. Ci avrebbe pensato più tardi.

Con sua grande sorpresa, ci pensò davvero. Non riusciva a seguire con attenzione il film di mezzanotte e allora andò a prendere la bambola, la portò in soggiorno e la tenne fra le mani come se fosse una bambina, ossessionato dalla sensazione che anche lui stava recitando in Tv, che dovesse la sua esistenza a qualche spettacolo senza spettatori, che lui e la bambola si erano persi, erano i bambini persi nel bosco della favola che sua madre gli aveva fatto vedere tanto tempo prima quando era molto piccolo.

Tirò su col naso e si vergognò, ridendo col cuore spezzato. Senza che se ne rendesse conto, i suoi occhi si riempirono di lacrime. Tirò fuori il fazzoletto, si soffiò il naso e si asciugò gli occhi. Ma una lacrima cadde sulla tutina verde, un’altra sulle piccole gambe ben fatte e un’altra ancora proprio sul viso spiritoso della bambola.

Nella sua mano la bambola si mosse come se fosse viva.

26. Un tè da matti

Stava quasi per lasciarla cadere in terra.

— Ciao! — La bambola si mise a sedere, o piuttosto lo fece come meglio poté, sul palmo della sua mano. — Ciao, io sono Tina. — Socchiuse i grandi occhi marroni e poi li fissò su di lui. Un’altra lacrima bagnò i capelli di Tina.

— Ti appartengo — disse Tina. — Sono la tua bambola e so parlare. — Il tono della sua voce era così acuto che quasi non riusciva a sentirla. Penetrante come il cri-cri di un grillo, pensò, o come lo squittio dei pipistrelli. — Se vuoi prendere il tè, posso aiutarti a prepararlo.

Lui annuì, più a se stesso che a lei, e disse: — Tu lo gradiresti?

— Sì, grazie — rispose compita la bambola. — Gradirei moltissimo un po’ di tè.

Lui annuì ancora. — Sai camminare?

— Sì, ma è meglio se mi porti tu. Se vuoi puoi tenermi in braccio come un bambino. — Nel vedere la sua espressione sgomenta, aggiunse comprensiva: — Oppure puoi tenermi sulla spalla… forse è meglio. Sai, cammino molto lentamente perché sono piccola. E se mi calpestassi, potresti rompermi.

Lui annuì compunto e si mise sulla spalla destra la bambola che si aggrappò con la manina minuscola al suo colletto. — Non camminare troppo velocemente e tutto andrà benissimo.

Lui disse: — Ci proverò. — Si soffiò di nuovo il naso attento a non muovere la testa e si asciugò le guance.

— Perché piangevi?

— Mi ricordi qualcuno, qualcuno che avevo dimenticato. — Esitò, temendo che quello che aveva appena detto potesse far torto a Lara. — O almeno che avevo rimosso dalla mia mente. — Si alzò in piedi e cercò di muoversi adagio e senza gesti bruschi. Poi disse: — Qui le bambole non parlano, almeno non così bene come te.

Tina non rispose.

Lui andò in cucina. Nel bollitore c’era ancora un po’ dell’acqua che aveva usato per il caffè, ma ormai era fredda e torbida. La gettò via, ne prese dell’altra e la mise a scaldare. In un barattolo c’erano delle bustine di tè, le ultime della confezione di tè esotico che aveva comperato con lo sconto nel Reparto Gastronomia. Aveva avuto l’intenzione di regalarlo alla vice direttrice del Reparto Biancheria Intima, ma non l’aveva mai fatto.

— Non so se ho una tazza adatta a te — disse.

Alla fine ne scelse una piuttosto piccola, ci mise una bustina e ci versò sopra l’acqua bollente.

Tina disse: — Posso parlare?

— Certo, perché no?

— Hai detto che le bambole non dovrebbero farlo. Vorrei un pizzichino di sale nel tè.

Lui l’accontentò. — Va bene così? Vuoi anche lo zucchero?

— No, grazie — cinguettò Tina. — Nemmeno latte. — Saltò giù dalla sua spalla come una pallina da tennis e restò in piedi sul tavolo con le gambe divaricate per bere dalla tazza che per lei era grande come lo sarebbe stato per lui il cestino della carta straccia.

Quando rimise la tazzina sul ripiano gli sembrò che fosse piena come prima, ma lei si batté la mano sul pancino e si pulì la bocca col braccio nudo. — Se lasci qui la tazza, posso berne ancora quando me ne viene voglia.

La proposta non gli sembrò più folle del fatto di stare parlando con una bambola. — Va bene — disse.

— Non voglio darti fastidio, ma non sono capace di fare le cose da sola. Non sarei stata nemmeno capace di aprire il rubinetto dell’acqua come hai fatto tu.

Lui annuì.

— Be’, sono capace di fare solo qualche cosa.

Lui le domandò: — Puoi dirmi come fa una bambola a parlare?

— Mi hanno costruito così. Ho qualcosa dentro. — Si batté di nuovo la mano sulla pancia. — Ma non so fare le addizioni e le sottrazioni o sillabare o cose del genere. Non sono mai andata a scuola.

Lui annuì ancora.

— Mi piacerebbe avere qualche bel vestito. Ne hai qualcuno?

— Nessuno che possa andarti bene — le rispose.

— Mi piacerebbe un vestito da sera… e un beauty case per aggiustarmi i capelli.

— Adesso è troppo tardi — disse lui. — Domani ti comprerò qualcosa. — Era sicuro che l’indomani la bambola non ci sarebbe stata più o che sarebbe stata inanimata e muta.

— E vorrei anche un reggiseno e delle mutandine. Anzi, due reggiseni e due mutandine, così posso cambiarmi.

— Vedrò cosa posso fare.

— Un paio di mutandine e un reggiseno li vorrei di colore beige e un paio color albicocca. Così potremo distinguere quelli che ho indossato per ultimi. E una camicia da notte.

Posso dormire con te?

— Solo se non russi — disse lui.

— No, non mi sentirai nemmeno respirare. — Tirò indietro il petto come a dimostrargli che respirava: minuscoli seni conici premevano impazienti contro il tessuto metallizzato della sua tutina. — Se mi compri i bigodini, domani mi metterò in piega i capelli. È meglio se mi porti tu, ricordi?

Lui domandò: — E se poi ti viene voglia di bere un po’ di tè durante la notte?

— No, sono sicura di no — trillò lei. — Ma se succede, posso scendere dal letto e prenderlo da sola, senza svegliarti. Non ci sarà pericolo che tu possa calpestarmi. E poi ora riesco a muovermi più velocemente.

Lui la sollevò e se la mise in spalla. — È così che funzioni? Col tè?

— A volte certi bambini un po’ pazzerelli ci vogliono dare più tè di quanto ne possiamo bere.

— Io non lo farò — promise lui. Si ricordò quello che una volta gli aveva detto un barista e aggiunse: — Se non ti va, non bere.

— Mi sei simpatico. Insieme ci divertiremo un sacco.

— Ma non ora, però — disse lui. — Adesso faccio una doccia e poi vado a letto.

— Mentre tu fai la doccia, posso fare il bagno nel lavandino?

— Va bene.

— Però mi devi aprire il rubinetto dell’acqua. Il getto non deve essere troppo forte o troppo caldo.

— Va bene — ripeté lui. Mise il tappo al lavandino e regolò i rubinetti dell’acqua calda e fredda per ottenere un getto leggero di acqua tiepida.

Tina saltò giù dalla sua spalla. — Posso usare il tuo sapone?

— Certo. — Si tolse la camicia e la gettò nella cesta come faceva sempre. Tina si era tolta la tutina verde metallizzata; non aveva peli pubici ma i suoi seni avevano minuscoli capezzoli rosa. Lui si voltò per togliersi i pantaloni e quando entrò in camera per appenderli si fermò, indeciso se mettersi quelli del pigiama prima di tornare in bagno. Decise che era inutile, visto che avrebbe dovuto toglierseli di nuovo subito dopo.

Tina era riuscita a fare una bella schiuma nel lavandino. Lui le chiese se l’acqua era troppo calda.

— No, va benissimo. Puoi darmi una goccia di shampoo?

Lui l’accontentò, inclinando appena la bottiglia per far cadere una sola goccia di smeraldo nelle manine a coppa.

Appena chiuse la tenda della doccia ebbe la certezza che quando l’avrebbe riaperta lei non ci sarebbe stata più e il lavandino sarebbe stato pieno d’acqua, o forse no. S’infilò sotto il getto d’acqua fredda grugnendo per evitare di urlare.

— Adopero uno di questi asciugamani, va bene?

— Certo. — Il suo prossimo appuntamento con la dottoressa Nilson era fissato per martedì. Cinque giorni ancora. Si domandò se doveva telefonarle subito; gli aveva dato il suo numero privato, ma lui non l’aveva mai usato. Mentre pensava a queste cose gli tornò con forza in mente il ricordo di un uomo sciatto con indosso un pigiama da ospedale che suonava un pianoforte scordato. Il ricordo era così vivido che gli sembrava di vederlo e di sentirlo, gli sembrava perfino di essere ancora seduto su quella panca dura.

Quando troverai il vero amore,
quando vedrai i suoi occhi,
quando avrai lasciato il nuovo amore
dopo tante bugie…

Mentre si asciugava Tina cantava con voce dolce e così acuta che a volte superava la soglia di udibilità. Cantava la vecchia melodia del vecchio pianoforte scordato che qualcuno aveva donato all’ospedale. No, non poteva telefonare alla dottoressa Nilson. Non poteva raccontarle di Tina nemmeno quando sarebbe andato da lei il martedì seguente.

Allungò il braccio per prendere l’asciugamano. A letto Tina disse: — Potrei anche dormire sopra le coperte, ma è meglio se mi metto sotto, così starò più calda.

Lui sollevò le coperte e lei gli si rannicchiò accanto.

Dopo qualche momento lui disse: — Quanti anni hai, Tina? — Nella debole luce che filtrava dalla serranda riusciva appena a vederla.

La bambola si voltò e sbadigliò con ostentazione, una manina da elfo davanti alla bocca e un braccino allungato sopra la testa. — E tu quanti anni hai?

Glielo disse, poi aggiunse un anno. — Il mio compleanno è stato il mese scorso, me n’ero dimenticato.

— Allora sei vecchio.

— Lo so.

— Non credo che tu sia così vecchio. Io non lo sono.

— Non pensavo che tu lo fossi.

— Cosa ti hanno regalato per il tuo compleanno?

— Niente. Non ci faccio mai molto caso.

— Tuo papà e tua mamma non ti hanno regalato nulla?

Lui scosse la testa. — Mia madre è morta da tanto tempo e non vedo mio padre da dieci o dodici anni.

— Ma lui ti vuole ancora bene.

— No, non me ne ha mai voluto.

— Ti dico di sì.

— Ma Tina, tu non l’hai mai conosciuto.

— Però io so tutto sui papà e tu no.

— Va bene — disse lui sentendosi stranamente confortato.

— E tu cosa gli hai regalato per il suo compleanno?

La domanda lo sorprese, ci pensò su un momento. — Niente. Non gli ho mai regalato niente.

— Potresti dargli un bel bacione.

— Non credo che gli farebbe piacere.

— Ma certo! Ho ragione io e tu hai torto.

— Forse.

— Per il prossimo compleanno cosa ti piacerebbe ricevere?

Lui le raccontò dello scrittoio.

— Credo che dovrebbero regalartelo. Lo dirò al tuo papà.

— È stato già venduto.

— Forse quella signora vuole rivenderlo.

Lui annuì. — Forse. Vuoi ancora un po’ di tè?

— Sì!

Lui scansò le coperte, si alzò e accese la luce. Non riuscì a rendersi conto di come avesse fatto, ma Tina era già saltata dal letto sul cassettone. — Tieni qui il servizio da tè?

— Non ho un servizio da tè — le disse. — Non ancora, almeno. Stavo cercando il libretto degli assegni.

— Io non so leggere… non sono mai andata a scuola.

— Te lo leggo io. Ho tremiladuecento dollari. Molto più di quanto costava lo scrittoio.

— Allora, avresti dovuto comprarlo.

— Hai ragione. Forse hai ragione. Adesso prendiamo il tè e ne parliamo tranquillamente. Pensi che quella signora lo venderà per guadagnarci su? Dove pensi che dovrei metterlo?

— Sicuramente non davanti alla Tv. — Tina gli saltò sulla spalla. — Così potrai stare tranquillo quando fai i compiti.

— Comunque non voglio metterlo in un angolo della stanza. — le disse lui. — Non mi piacciono i mobili messi d’angolo.

— Forse davanti alla finestra.

— Va bene.

Accese il gas sotto il bollitore, sciacquò la tazzina di Tina e prese una tazza, un piattino e un cucchiaino per sé.

Nella scatola erano rimaste solo tre bustine. — Domani devo comprare altro tè.

— Sicuro.

— Tina, conosci una ragazza di nome Lara?

— L’unica persona che conosco sei tu.

— Tu me la ricordi. Ero innamorato di Lara, per questo ti ho comprato. Lara era la donna davanti al caminetto.

— Non mi sembra che tu me ne abbia mai parlato.

— Ma l’ho perduta, non so perché. L’ho perduta mentre camminavo nella neve.

— Ti devi coprire bene perché fa molto freddo.

Lui fece di sì con un cenno della testa. — Mi sono comprato un cappotto e altre cose. Ho trovato dei soldi e li ho messi in banca, ecco perché ho tremiladuecento dollari.

— Forse te li ha dati Lara — azzardò Tina.

— No. — Poi aggiunse: — Sì, forse me li ha dati lei.

27. Lo scrittoio

— Vorrei parlarle — disse lui. — Ecco tutto.

Sentì la voce di quella donna orribile che gracchiava nel ricevitore: — Lo sta già facendo.

— Preferirei parlarle di persona. Potrei venire a casa sua di sera, quando lei è disposta a ricevermi.

La donna domandò in tono sospettoso: — Non è autentico?

Lui inspirò profondamente. Voleva mentire, ma scoprì di non esserne capace. — È assolutamente autentico, ne sono certo. Ma è indiano, anche se è stato costruito in stile inglese, e in genere gli oggetti indiani non hanno prezzi molto alti.

— Bene. Qualsiasi cosa lei voglia dirmi, deve farlo ora al telefono. Poi, se sarà il caso, ci incontreremo di persona.

— Signora Foster — questa volta invece di inspirare, inghiottì aria. — Sono disposto a ricomprarglielo facendole guadagnare cinquecento dollari.

La donna rimase a lungo in silenzio. — Se è autentico, perché lo rivolete indietro?

— Non sto parlando a nome del negozio — le disse lui. — Voglio comprarlo io.

— Ha forse scoperto che vale più di quanto era stato valutato?

— No — disse lui. — Affatto. — Aspettò che la donna dicesse qualcosa, ma lei non lo fece, e lui fu costretto a parlare di nuovo per colmare il silenzio. — Quando lei lo ha comprato mi sembra di averle detto che giudicavo il prezzo troppo alto. Ne sono ancora convinto perché mi tengo aggiornato sui cataloghi e sull’andamento delle aste. Fa parte del mio lavoro.

— Vada avanti.

— Due anni fa a New York, un pezzo molto simile al suo è stato venduto a poco più della metà del prezzo che lei ha pagato.

— Ma lei dice di essere disposto a darmi cinquecento dollari in più.

Il suo cuore si riempì di speranza. — Sì — disse.

— Significa allora che è disposto a pagarlo più del doppio del suo valore reale.

— Sì — disse ancora lui.

— Perché?

Tentò di rispondere, ma le parole gli restarono in gola. Alla fine disse in un soffio: — Non so se riesco a spiegarglielo.

— Sto aspettando.

— Io vendo questi oggetti…

— Ha trovato uno che lo vuole comprare?

— No, no. Non intendo dire che sono un commerciante in proprio… non potrei farlo e nello stesso tempo mantere l’impiego che ho. Quello che voglio dire è che vendere questi oggetti è quello che faccio qui al negozio.

— Questo lo so. È lei che me lo ha venduto. Si dà il caso che in questo momento io sia seduta proprio davanti allo scrittoio. È qui che tengo il telefono.

— Non ho mai desiderato comprare qualcosa per me. — Aveva la sensazione di parlare al nulla, di implorare un oggetto inanimato di plastica al cui confronto Tina era molto più umana. — Poi ho notato un pezzo particolare, cioè…

— Non dica “cioè”. È una cosa che non sopporto.

— Mi dispiace.

— Anche a me. Vada avanti, signor Green.

— Le stavo dicendo che avevo visto un certo pezzo e pensavo che fosse bello… o meglio, non proprio bello… un pezzo come il suo scrittoio e pensavo che fosse un bell’oggetto, ma che il prezzo fosse troppo alto. Ho visto centinaia di pezzi come quello, eppure il suo scrittoio è stato l’unico oggetto che ho veramente desiderato possedere.

Ancora una volta lei non disse una parola.

— Ero convinto che dopo natale avrebbero abbassato il prezzo, e allora avrei potuto comperarlo.

Lei esclamò in tono irritato: — Lei mi ha detto che a gennaio avrebbero ribassato il prezzo e mi ha suggerito di ritornare in quel periodo. Invece, progettava di comprarlo lei e se le avessi dato retta non l’avrei trovato più.

In preda alla disperazione lui continuò: — Ma allora non avevo ancora deciso di comprarlo. Mi deve credere. Non ne ero del tutto convinto. Solo quando gliel’ho venduto…

— Si è accorto di quanto ci tenesse.

— Sì — disse lui. — È così.

— Sa, signor Green, anch’io ho provato la stessa cosa un paio di volte nella mia vita. Posso chiederle cosa ne pensa sua moglie del fatto che intende spendere tanto denaro?

— Non sono sposato.

— È divorziato?

— Non mi sono mai sposato, signora Foster.

— Non è detto che tutti si debbano sposare. Be’, conosco molti uomini, gli uomini più simpatici e gentili…

— Non sono gay, signora Foster, se è quel che intende dire. — Capì che aveva perduto la sua battaglia e voleva riattaccare il ricevitore. — Una volta una ragazza è vissuta con me per qualche giorno, ma non mi sono mai sposato. — Fece un ultimo sforzo e continuò: — Ho tremiladuecento dollari. È tutto quello che possiedo, per questo le ho detto che le avrei fatto guadagnare cinquecento dollari. Posso arrivare a mille, se lei accetterà gli altri cinquecento a rate.

Di nuovo il silenzio si prolungò all’infinito; questa volta lui non parlò, e alla fine la donna disse: — Sono la presidente del Club dei Collezionisti. Lo sapeva, signor Green?

— No. No, non lo sapevo, signora Foster. Però conosco il Club dei Collezionisti.

— Noi siamo collezionisti seri, signor Green. Non le venderò lo scrittoio.

Si sentì il suono metallico del ricevitore che veniva riattaccato. Riattaccò anche lui. Lo scrittoio era perduto. Provò a indovinare quanti anni avesse quella donna: cinquanta o cinquantacinque. Forse tra vent’anni le sue proprietà sarebbero state messe in vendita. No, quello era il tipo di donna che sarebbe vissuta in eterno. Avrebbe potuto farsi dare il suo indirizzo dall’Ufficio Contabilità, come si era fatto dare il suo numero telefonico. Avrebbe potuto scriverle per dirle di mettersi in contatto con lui se mai avesse deciso di vendere lo scrittoio. No, non sarebbe servito a niente.

— Si ferma fino a tardi, signor Green? — Era il signor Cohen, il supervisore della galleria d’arte.

— Dovevo fare una telefonata, signore. Temo che sia stata piuttosto lunga. E lei, signore?

— Ultimi preparativi per il natale, sa bene come vanno queste cose, caminetto, candele, la neve…

Mentre si dirigeva verso là fermata dell’autobus, quelle immagini gli danzavano nella mente: neve… candele… caminetto… bambini… regali sotto l’albero. Il titolo del giornale nel distributore diceva: aumenta il numero dei suicidi.

“Se fossi stato io a creare il mondo”, pensò, “il natale sarebbe stato bello per tutti”.

All’improvviso si ricordò di aver promesso a Tina un servizio da tè, vestiti nuovi e altre cose. Si allontanò dalla fermata dell’autobus e s’incamminò verso quella galleria antiquata che l’aveva sempre incuriosito, ma dove non era mai entrato.

Antiquati o no, i negozi sotto la galleria avevano già prolungato l’apertura per il periodo natalizio. Più della metà erano illuminati e i clienti, infagottati per il freddo, camminavano su e giù lungo il passaggio pavimentato di lastre di ferro. Superò un’agenzia di viaggi, un istituto di bellezza e uno studio di chiropatia con le vetrine buie. Un negozio di giocattoli (non più grande di quei negozi-giocattolo che si regalano ai bambini) metteva in mostra vestitini che gli sembrarono adatti a Tina e un servizio da tè in miniatura di vera porcellana.

— Avete anche del tè?

La commessa scosse la testa. — Qui vicino c’è un negozio di specialità gastronomiche, però non so se sia ancora aperto. Può darsi di sì.

Lui annuì e chiese: — Dove?

— Nell’altra galleria qui accanto. Da quella parte, in fondo a sinistra. È un edificio a un solo piano.

Lui la ringraziò e uscì. L’arco di marmo corroso era buio e sinistro, come se i negozi là dentro fossero chiusi e dietro alle spalle di chiunque osasse entrare, calassero sbarre d’acciaio.

Decise di entrare comunque. Anche qui alcuni negozi erano aperti. Una donna piccola, scura, uscì di corsa da un negozio di abbigliamento e lo afferrò per la manica. — Eccola finalmente! Che le è successo? Non vuole più i suoi pantaloni?

Lui la fissò. La donna aveva circa sessant’anni e portava i capelli grigi annodati in una crocchia bassa. — Penso…

— Lei pensa che stia cercando di venderle qualcosa. Mi ascolti, lei ha già pagato i pantaloni. Ha pagato perché facessimo le modifiche, si ricorda? Perché non li riprende? Ho bisogno di far spazio, sia gentile.

— Va bene — disse. La seguì pensando che avrebbe dovuto ricordarsi di lei e del negozio.

— Insieme ai suoi pantaloni le do un bell’appendiabiti di legno laccato. Le durerà tutta la vita. — Dette un’occhiata al cartellino giallo attaccato alla custodia antipolvere. — Sono già passati quattro mesi da quando li ha comperati.

— Mi dispiace — disse lui.

— Oh, non fa nulla. — Lei gli stava osservando il giro di vita. — Forse non le vanno ancora bene. Se fosse così, li riporti pure che glieli allarghiamo un po’.

— Questo è l’albergo, vero? Il Grand Hotel?

Lei lo guardò perplessa. — Sì, noi siamo in affitto.

— Nel bar qui vicino lavorava Fanny. E c’è lo studio del dottor Applewood, vero?

La donna disse: — È morto.

Lui annuì e uscì nella galleria sotterranea. Come aveva fatto a non riconoscere subito quelle bandiere polverose, il grifone con gli artigli e l’aquila a due teste? La donna del negozio di giocattoli gli aveva detto che la galleria aveva un solo piano. Invece c’era una balconata. Il dottor Applewood si era affacciato da una di quelle ringhiere per chiamarlo.

Vide le porte dell’ascensore, l’ascensore che l’avrebbe portato nel Grand Hotel, l’albergo così vicino a Lara. Si avviò in quella direzione, poi rallentò preso dalla paura. Lì non aveva né soldi, né amici, nemmeno Tina. Se avesse trovato Lara, lei avrebbe visto soltanto uno strano tipo di mezza età. Sì, ormai era un uomo di mezza età, era meglio affrontare le cose come stavano. Lara avrebbe visto uno strano tipo con dei vestitini da bambola, un servizio da tè in miniatura e un paio di pantaloni troppo stretti.

Schiacciò il bottone.

L’ascensore non arrivò immediatamente, anzi, si fece aspettare a lungo. Rimase in attesa, raddrizzando le spalle e passandosi da una mano all’altra il sacchetto del negozio di giocattoli e i pantaloni nella custodia di plastica.

Finalmente le porte dell’ascensore si aprirono.

— Pianoterra, per favore.

Sillabando le parole l’operatore disse: — È questo il pianoterra, signore.

Lui ricordava di essere uscito dall’albergo e di essersi trovato in un parcheggio coperto di neve. — Il piano dell’atrio.

— Ma lì non c’è nessuno.

— Mi ci porti comunque.

Mentre l’ascensore saliva dolcemente, si rese conto che la cabina non somigliava a quella del Grand Hotel. Quando le porte si aprirono gli apparve l’atrio deserto di un edificio per uffici, un atrio al piano rialzato. Uscì dall’ascensore e disse: — Grazie. — Guardò le porte richiudersi. Il mondo che vedeva dalle vetrate dell’atrio era il suo, ne era certo. I Riuniti e North non erano qui e se Lara ci veniva, era solo per breve tempo. Veniva qui per vivere con qualche uomo fortunato o per lasciare la sua pelliccia in deposito.

Sarebbe dovuto andare prima dal pellicciaio.

Probabilmente il freddo — come a lui aveva fatto ricordare il cappotto di lana pesante — aveva ricordato a Lara (se Lara era lì) di ritirare la sua pelliccia. Non ci aveva pensato, e ormai era troppo tardi.

Tornò verso l’ascensore e schiacciò il bottone di chiamata. L’ascensore era la sua ultima speranza, ma sentiva che era una speranza vana.

— Ho capito — disse l’operatore. — Lei sta cercando un gabinetto. Ce n’è uno al piano di sotto. Se me lo avesse chiesto, gliel’avrei indicato.

Lui annuì senza parlare, in attesa che le porte si aprissero di nuovo.

— Certe volte i ragazzini vogliono salire al piano superiore, ma io non li lascio andare. Però ho capito subito che lei era un tipo a posto.

Le porte si aprirono e lui si ritrovò in un ampio salone sotterraneo senza bandiere. La maggior parte dei negozi erano chiusi. Si diresse verso la galleria, stringendosi la sciarpa intorno al collo e abbottonandosi il cappotto.

La strada era buia, piena solo di vento. Da un’auto di pattuglia che passò veloce, i poliziotti lanciarono occhiate sospettose agli androni bui. Il vento gli gelava le dita per ricordargli che aveva dimenticato di mettersi i guanti. Appoggiò i pacchi sul marciapiede ghiacciato, prese i guanti dalle tasche del cappotto, se li infilò con cura e li abbottonò ai polsi. Per quella sera il tè sarebbe bastato, ne avrebbe comprato altro il giorno dopo, se Tina esisteva davvero. Se Tina era davvero lì.

Si avviò verso la fermata dell’autobus distante dal suo appartamento più o meno quanto quella che usava abitualmente. Mentre andava in quella direzione, si rese conto di essere felice. Gli ci volle un po’ prima di scoprire che la ragione di quella felicità era la consapevolezza che Lara era davvero reale, anche se Tina non lo era.

Lara poteva ridere di lui, e forse l’avrebbe fatto. Anche lui qualche volta rideva di se stesso. Ma preferiva di gran lunga sentire lei ridere che ascoltare chiunque altro dire qualsiasi cosa. Alla televisione, una donna aveva detto che i cani selvatici non abbaiano, lo fanno solo quelli domestici per imitare la voce umana. E che cos’era la voce di chiunque, di Bridget Boyd o di H. Harris Henry se non l’imitazione della voce di Lara, della risata della dea? Anche se lei l’avesse respinto come amante, lo avrebbe rifiutato come servo? Se l’avesse fatto, lui sarebbe diventato suo schiavo.

Gettò un’occhiata alle sue spalle e vide arrivare un autobus. Si mise a correre e arrivò alla fermata giusto in tempo.

Quando si alzò per scendere, gli venne in mente che avrebbe dovuto dirlo a Tina. La bambola sarebbe stata là ad aspettarlo in soggiorno, nascosta fra i cuscini del divano che lei chiamava la sua fortezza segreta. Sarebbe sgusciata fuori al rumore della chiave nella serratura. Avrebbe dovuto confessarle che non era riuscito a comprare lo scrittoio.

Sentì di nuovo in bocca l’amaro sapore della sconfitta.

28. Il racconto

— Io sono proprio brava a cercare le cose nascoste — disse Tina. Quando vide la sua espressione scettica aggiunse: — Sì, è vero! E non mi piace per niente guardare la Tv.

— Nemmeno a me — le disse lui dolcemente. — Ma di notte non c’è molto altro da fare.

— Posso mettermi a cercare e mentre io cerco tu potresti leggermi una storia.

— Perché mentre cerchi non ascolti la Tv, in fondo è la stessa cosa. — Quando finì di parlare si rese conto che forse si era convinto troppo in fretta che Tina avesse la capacità di cercare qualcosa.

— Non è affatto lo stesso.

Aveva già abbassato il volume dell’audio e ora spense del tutto il televisore. — Perché no?

— Leggere ti sarebbe utile per la scuola.

— Ma io non vado più a scuola.

Tina batté i piedi, spazientita per la sua stupidità. Il rumore era simile al ticchettio delle unghie sul tavolo. — Ma dovrai tornarci l’anno prossimo, e allora ti sarà utile!

— Va bene — disse lui.

— E poi tu mi leggeresti una vera storia. Quelle della Tv invece, sono solo chiacchiere che vanno bene per far passare il tempo.

Lui annuì. Era proprio quello che aveva sempre pensato, anche se non l’aveva mai detto.

— Che aspetto hanno i soldi?

Lui tirò fuori il portafoglio e le mostrò un biglietto da un dollaro e uno da cinque. — Sono come questi, solo che le immagini stampate sopra sono diverse. Su quelli ci sono visi di donne, non di uomini. — Rimase in silenzio. Donne e uomini davano importanza a cose diverse. Grazie al suo lavoro lo aveva capito da molto tempo. Ora però gli sembrava un fatto importante in sé: le donne non si interessano alle automobili, si interessano di più ai bambini, alla loro solitudine e alla loro educazione. Se le donne fossero al potere forse si preoccuperebbero dell’esistenza di bambole come Tina.

— Immagini di signore? — lo sollecitò Tina.

— Veramente non ha importanza. Sono pezzi di carta uguali a questi. — Scoprì che collegava i soldi al profumo delle rose, anche se non sapeva spiegarsene la ragione. Non era sicuro che ce ne fossero rimasti ancora, ma se li avesse ritrovati, anche solo pochi dollari gli sarebbero stati utili nel mondo di Lara.

— Comincerò a guardare sotto i mobili. Sarà facilissimo, vedrai. Ma quando avrò finito, dovrò farmi un bagno. Poi tu aprirai i cassetti così potrò infilarmici dentro.

Lui protestò che nei cassetti poteva guardare altrettanto bene di lei.

— No, non puoi. Io posso entrarci e frugare. Non è affatto la stessa cosa. Mentre guardo sotto il cassettone, tu comincia a raccontarmi una storia.

Lui aveva una decina di libri, tutti ereditati da sua madre e non sapeva nemmeno di cosa parlassero. Prese a caso dallo scaffale un volume con la copertina rossa scolorita e lo sfogliò fino a quando non trovò quello che gli sembrò l’inizio di un racconto per ragazzi.

— C’era una volta — cominciò a leggere — una casetta nel folto della Foresta Nera dove vivevano due fratelli di nome Joseph e Jacob. Jacob era cieco.

Tina emerse tossendo esageratamente da sotto il cassettone insieme a un mucchietto di polvere grande quasi quanto lei. — Là sotto non pulisci abbastanza — disse. — Anzi, credo che tu non lo faccia mai.

— Joseph si prendeva cura di suo fratello e Jacob faceva quel che poteva per rendersi utile. Poiché si volevano molto bene, erano molto felici.

— Adesso guarderò sotto il letto — annunciò Tina. — Poi andiamo in soggiorno così posso cercare anche lì.

— Ma avevano pochi soldi e la loro situazione si faceva ogni anno più difficile.

— Anche qui è pieno di polvere. — La voce di Tina gli giunse debole e ovattata.

— Durante l’inverno cade molta neve sulla Foresta Nera che per lunghi mesi si trasforma in una foresta bianca e in autunno i due fratelli dovevano comprare molte provviste perché durassero fino alla primavera. Trascorsero molti anni e arrivò un autunno in cui capirono che non ce l’avrebbero fatta.

Tina gridò: — C’è un bottone. Come brilla!

Si rese conto che Tina doveva aver lanciato il bottone come un’atleta avrebbe lanciato un disco, perché arrivò alla velocità di un proiettile.

— Un giorno Jacob disse: “Joseph, ti ricordi come sapevo scrivere bene?” e quando Joseph rispose: “Certo che mi ricordo!” Jacob gli mostrò un telaio di legno che aveva costruito per tenere fermo un foglio di carta. Il telaio era attraversato da numerose corde di violino parallele, così fitte che tra l’una e l’altra ci poteva a malapena passare un pollice.

— Ecco una monetina! — La moneta schizzò fuori come aveva fatto il bottone e rotolò andando a sbattere contro la parete.

— “Grazie a questo telaio”, spiegò Jacob, “e a te, fratello caro, che mi affilerai la penna quando ne avrò bisogno, potrò tornare a scrivere come prima. Forse la Gazzetta della Foresta Nera comprerà uno dei miei racconti, così potremo comperare le provviste per l’inverno.

— Qui sotto non c’è più niente — gli disse Tina. — A parte altra polvere. Non sembro uno spazzacamino?

Infatti sembrava un giocattolo dimenticato da lungo tempo in qualche angolo che ora, appena ritrovato, sarebbe stato gettato via perché troppo sporco per tornare pulito. Ma lui annuì sorridendo e la seguì docilmente verso il soggiorno.

— Così Joseph affilò una penna d’oca grigia col coltellino di Jacob, sistemò la carta nel telaio e si assicurò che nel calamaio ci fosse l’inchiostro. Fatto questo, tornò al suo lavoro, lasciando il fratello da solo a scrivere.

— Sotto il divano e sotto la poltrona non c’è niente, solo un mucchio di polvere — riferì Tina. — Ora portami in bagno e fa scorrere un po’ d’acqua nel lavandino. Forse sarà meglio che lasci aperto il rubinetto.

Lui abbassò la mano in modo che Tina potesse salire sul palmo e fece come gli aveva detto. Quando si sedette sul coperchio del gabinetto col libro rosso sulle ginocchia, notò che ci si vedeva molto meglio nel bagno che in camera da letto o in soggiorno.

“Nessuno legge più”, pensò, “ma gli uomini si fanno ancora la barba”.

— Ma quando Joseph ritornò vide che sul foglio c’erano scritte solo poche parole e che Jacob stava tamburellando con le dita sul tavolo. “Non posso scrivere”, disse. “Avevo l’abitudine di guardare fuori della finestra per cercare l’ispirazione. A quel tempo potevo farlo, ma ora…” e Jacob si strinse nelle spalle.

Per non interrompere la lettura, Tina indicò con la mano i suoi capelli e lui le versò una goccia di shampoo.

— “Forse posso guardare fuori dalla finestra al posto tuo, fratello caro”, suggerì Joseph. Jacob annuì. “Proviamo. Guarda fuori e dimmi cosa vedi”. Così Joseph guardò fuori, ma vide solo gli alberi che agitavano le loro braccia al vento. “Mmmm…”, disse. Jacob sorrise. “Anch’io provavo la stessa sensazione”.

— Quale sensazione? — domandò Tina.

Lui si strofinò il mento e si grattò un orecchio. — Come se non succedesse nulla, immagino, e allo stesso tempo ci fossero così tante cose che era difficile scegliere.

— Ah, dev’essere proprio così. Va’ avanti.

— Joseph vide ombre blu che lentamente s’insinuavano tra gli alberi coperti di brina. “Vedo un lupo nero”, disse. La penna di Jacob volò più veloce del vento e Joseph si allontanò silenziosamente in punta di piedi.

Lui rimase in silenzio e osservò Tina sciacquarsi i capelli nell’acqua che gocciolava dal rubinetto. — Ti sto ascoltando — gli disse. — Non fermarti.

— Quando Joseph ritornò, Jacob lo stava aspettando. “Devi guardare ancora fuori dalla finestra”, gli disse Jacob. Così Joseph guardò fuori. Un uccello lucente si era posato sopra i cespugli di rovo. “Vedo una principessa incantata che sta cogliendo le more”, disse a Jacob. “Una principessa incantata con le ali”, aggiunse dopo un momento e la penna di Jacob si mosse più veloce delle ali dell’uccello.

Tina si stava asciugando con un fazzolettino di carta. — Pensi che la Gazzetta della Foresta Nera comprerà il racconto di Jacob?

Lui fece cenno di sì. — Sono sicuro che lo compreranno. È un racconto bellissimo.

— Anch’io ne sono sicura — disse Tina. — Adesso va’ avanti a leggere.

— Ben presto Jacob finì il suo racconto. Scrisse l’indirizzo su una busta e quella notte Joseph andò a piedi al villaggio per impostarla. Poi Jacob scrisse un altro racconto e poi un altro ancora, ma dalla Gazzetta della Foresta Nera non arrivò nessuna lettera di risposta. Quando le ultime foglie erano ormai cadute, Joseph comprò quante più provviste poté. Arrivò l’inverno e la neve era alta fino alle ginocchia. Allora Joseph si fece delle racchette da neve e ogni giorno si copriva meglio che poteva e andava a caccia. Uccise così molti daini e il giorno di natale i due fratelli fecero festa con una pernice.

Tina si infilò i jeans che lui le aveva comprato nel negozio di giocattoli. — Adesso sono pulita — annunciò. — Possiamo cominciare con i cassetti, ma tu devi aprirli e mi devi tirare su.

Lui la portò in camera da letto e decise di procedere con ordine, così aprì il primo cassetto a sinistra del cassettone. — Puoi cominciare da qui — le disse. — Ma non credo che troverai altro che fazzoletti.

Lei saltò giù dal palmo della sua mano. — Mi piacciono i tuoi fazzoletti, sono così puliti. Adesso va avanti a leggere.

Lui si mise a sedere sul letto e cercò una posizione comoda. — Ma c’erano giorni in cui Joseph non riusciva a cacciare niente e i due fratelli cenavano con zuppa di piselli e acqua, perché i piselli secchi, l’acqua e la legna da ardere erano le uniche provviste che rimanevano. In quei giorni Joseph riempiva fino all’orlo la scodella di Jacob e per lui prendeva solo qualche cucchiaiata. Ma un giorno, vedendo quanti pochi piselli secchi erano rimasti, decise di darli tutti a Jacob e di non prendere nulla per sé, perché si rimproverava di essere tornato con il carniere vuoto. Prese la scodella di Jacob e un cucchiaio, riempì due tegami di neve e versò tutti i piselli secchi in uno solo, poi li mise sul fuoco. In quel momento Jacob disse “Fratello, sto lavorando sodo a un nuovo racconto, guarda fuori dalla finestra per me”. Joseph guardò fuori e con sua grande sorpresa vide una bella slitta tirata da quattro…

Tina gridò: — Guarda! — Aveva in mano un oggetto sottile, scuro e informe, attaccato a un cordoncino rosso.

— Che cos’è? — domandò lui.

— Non lo sai? L’ho trovato nel tuo cassetto.

Lui prese l’oggetto e l’avvicinò alla luce. — È una radice — disse. Immediatamente davanti ai suoi occhi si materializzò il negozio del signor Sheng, con tutte le sue strane scatole d’incenso, i cavalli di carta, gli anelli di gas azzurrino e le teiere fumanti.

— È un amuleto magico — disse a Tina.

— Veramente magico?

— L’uomo che me l’ha dato ha detto proprio così.

— Può farti diventare piccolo come me?

— Temo di no.

Tina si mise a sedere sul bordo del cassetto dondolando le gambe snelle nel vuoto che per lei rappresentava un abisso. — Non ci speravo veramente, ma possiamo far finta. Ti potrebbe far diventare invisibile?

Lui scosse la testa. — Doveva servire per farmi arrivare posta.

— Funziona?

— Non lo so. Quando sono tornato c’era un sacco di posta, ma ero stato via un mese.

— Potrebbe fare arrivare una slitta con le renne come quella del racconto?

— Non credo che fossero renne. — Dette un’occhiata al libro. — No, erano cavalli da tiro.

— Non capisco, che significa?

Lui ci pensò su un momento. — Sono come i pony — Tina sicuramente conosceva i pony. — Ma sono molto più grossi. No, non credo che l’amuleto riuscirebbe a far apparire una slitta.

— Non te lo metti al collo?

— Veramente non ne avevo proprio l’intenzione.

— È la prima cosa che sono riuscita a trovare… o almeno, la prima cosa vera perché tu non hai nemmeno raccolto la moneta e il bottone. E poi, se non lo indossi, come fai a sapere se funziona?

— Oggi il postino è già venuto — le fece presente lui.

— Allora, se ti arriveranno altre lettere o qualche altra cosa, capirai che è veramente un amuleto magico.

Non gli capitava spesso di avere intuizioni improvvise, ma in quel momento ne ebbe una, e cioè che stava discutendo di una radice magica con una bambola. Si arrese con un cenno di assenso e si legò l’amuleto intorno al collo.

— Joseph guardò fuori dalla finestra e con sua grande sorpresa vide una slitta trainata da quattro pony bianchi. “Cosa vedi?”, gli chiese Jacqb. “Vedo una magnifica slitta”, rispose Joseph. “È tutta scintillante di oro ed è ornata di campanelli tintinnanti”. “Ah, continua ti prego!”, disse Jacob. “Raccontami ancora, fratello caro”. “Un cocchiere imponente con un cappello di pelo e una pelliccia marrone, fa schioccare una lunga frusta nera sulla groppa dei pony. Accanto a lui siede un valletto con una giacca scarlatta… sembrano l’orso e la scimmia di un circo. Sulla slitta c’è una donna con una pelliccia bianca”. “Splendido!”, esclamò Jacob, e la sua penna danzò sulla carta così in fretta che lui non sembrò sentire il tintinnio dei campanelli della slitta che si fermava davanti alla loro casetta.

— Apri quest’altro cassetto — gli ordinò Tina. — E quando io salto giù, puoi richiudere il primo. Secondo me è la redattrice della Gazzetta della Foresta Nera.

Lui aprì il cassetto dove stavano i suoi calzini. — Forse. — disse.

— Joseph capì che la donna era una principessa e s’inchinò fino a terra “Sei tu Jacob?”, domandò lei. “L’editore del nostro giornale mi ha mandato tutti i tuoi racconti perché sa che sono proprio il genere di storie che mi piacciono. Io gli ho ordinato di non dirti nulla fino a quando non ti avessi ricompensato”. “No, altezza”, rispose l’onesto Joseph. “È mio fratello che scrive i racconti. Se aspettate un momento, lo porterò fuori perché vi presenti i suoi rispetti”. “Non è necessario”, disse la principessa. “Sarò io a presentare i miei rispetti a lui”. Ma quando Joseph si affrettò ad aprire la porta, si accorse che Jacob era già sulla soglia. “Altezza”, disse Jacob, “quello che vi ha detto mio fratello non è del tutto vero. È lui che inventa le mie storie. Io, come potete vedere, sono cieco e non faccio altro che metterle sulla carta”.

— È una storia triste — disse Tina. — Certe volte le favole somigliano troppo alla vita reale. Però mi è piaciuta molto.

Lui annuì e chiuse il libro. — Anche a me.

Si sentì bussare alla porta.

29. Magia!

Si sentì bussare di nuovo e una voce, attutita dallo spessore della porta, annunciò: — Servizio postale.

— Subito! — disse lui e aprì.

Il fattorino era un uomo basso e scuro e sembrava irritato. — Questo è l’interno 7C?

Lui fece cenno di sì.

— Ecco. Vuole che gliela lasci qui fuori o che gliela porti dentro? — Parlava di un’enorme cassa su un carrello a mano.

— È per me? — domandò lui.

— Questo è l’interno 7C? La cassa è per l’interno 7C.

— Ma io non aspettavo…

Il fattorino ringhiò: — Si chiama Green?

— Sì, ma…

— Vuole che la scarichi dal mio carrettino e gliela lasci nel corridoio?

Lui scosse la testa. — Penso che sia meglio se la porta dentro.

Il fattorino afferrò i manici del carrello e con visibile sforzo li piegò all’indietro, in modo che il centro di gravità della cassa fosse perpendicolare all’assale. — Doveva vedermi caricare questo maledetto coso sull’ascensore. Sarebbe morto dal ridere. In genere per roba come questa ci vuole un montacarichi.

Lui chiese: — Chi la manda?

— Accidenti, non lo so. C’è scritto da qualche parte sulla cassa.

Lui si chinò a guardare. — C’è solo un indirizzo.

— Lo legga e saprà tutto quello che so io. Ecco, la metto lì, così non le copre la Tv.

— La lasci pure davanti al televisore — disse lui. — Se la mette laggiù non riesco a entrare nel cucinino. — Tirò fuori una banconota dal portafoglio e la dette al fattorino che la prese senza dire una parola.

— Dovresti dire grazie — disse Tina in piedi sulla porta della camera da letto. Doveva essere riuscita a scendere da sola dal cassetto dei calzini.

Il fattorino girò intorno lo sguardo allarmato. — È lei che ha parlato?

— No.

— Allora forse era la Tv. — Fissò lo schermo spento. — Nell’appartamento accanto, probabilmente.

Lui stava guardando le assi spesse e ruvide della cassa e le testine dei chiodi lucenti come monetine. — Come faccio…

Le sue parole furono interrotte dal rumore della porta che sbatteva. Il fattorino se n’era andato.

Tina si avvicinò a osservare la cassa. — Avresti dovuto dire grazie — ripeté.

— Credevo che l’avessi detto al fattorino.

— Invece l’ho detto a te. Sono stata io a trovare l’amuleto e a fartelo indossare. Dovresti ringraziarmi.

Lui prese in mano l’amuleto che gli pendeva dal collo; non aveva cambiato né colore né dimensioni. — Forse è meglio che prima guardiamo cosa c’è dentro — disse.

— Ci sarà qualcosa di bello — gli disse Tina — natale è vicino e i regali di natale sono sempre belli.

Lui le fece un debole sorriso. — Non credo che saresti contenta se mi avessero regalato un cucciolo.

— O un’altra bambola… no, sarei gelosa. Mettimi sul divano, se ti va di chiacchierare. Io sono nata a natale… te l’avevo già detto?

La prese con due dita per la vita sottile e l’appoggiò sul cuscino accanto a lui. — No, non mi hai raccontato molto del tuo passato.

— Adesso sei tu a essere geloso.

— Non è vero.

— Sì, sei geloso. Si capisce benissimo. Sei un dio geloso, come quello di cui ho sentito parlare.

— Io non sono geloso e non sono un dio — le disse lui distratto. Stava pensando a come fare per aprire la cassa. Probabilmente il custode stava nel suo appartamento pieno di muffa nel seminterrato (era la sistemazione a cui aveva diritto per il suo lavoro). Ma il custode non avrebbe gradito di essere disturbato a un’ora così tarda e forse era già andato a dormire.

Tina disse: — Per te no, non lo sei, e nemmeno per le altre persone grandi. Ma per me sì.

— Ho capito.

— Io una volta avevo una dea.

Lui si fece attento. — Come si chiamava?

Tina scosse la testa. — Questo non me lo ricordo. Mi ricordo di un albero delizioso e di un gattino. La dea aveva anche un gattino. Non mi piaceva e quando hai parlato di un cucciolo me lo hai fatto venire in mente.

— Scommetto che la tua dea andava a scuola.

— Sì, sì. Dopo le vacanze di natale.

— Ti ricordi che classe frequentava? — Cercò d’indovinare l’età di Lara, forse ventotto anni. No, adesso ne aveva di più.

Tina scosse di nuovo la testa. — Sapeva camminare da sola, questo me lo ricordo. E mi faceva vedere delle cose che costruiva con la carta. Una volta ha fatto una corona e quando è tornata a casa ne ha fatta una piccola per me.

— E poi? — la sollecitò lui.

— Poi è successo qualcosa. Non so che cosa… qualcosa di brutto. E poi mi ricordo che mi tenevi in mano e piangevi.

Lui annuì. — Mi ricordo anch’io. Sai quanto tempo sei rimasta nell’ospedale delle bambole?

— Sono stata in un ospedale? Non me lo ricordo.

— Sì — disse lui. — Io so cosa significa. — Si alzò e girò intorno alla cassa. Pensava di trovare istruzioni tipo: TIRARE QUI. Invece c’erano solo il suo nome, il suo indirizzo e l’indirizzo del mittente in un quartiere della zona nord della città.

— È lì che mi hai trovato? In un ospedale?

— Sì.

Squillò il telefono. Lui rimase a fissarlo. Squillò di nuovo.

— Vorrei rispondere… davvero. Ma non sono abbastanza forte per sollevare quel coso dove si parla.

Il telefono squillò per la terza volta. Lui le disse: — Certo, non ci pensare. — Sollevò il ricevitore. — Pronto?

— È lei, fantastico! Ha cambiato casa?

Era Lara, lo aveva capito dallo squillo del telefono. Lo aveva capito subito. — Sì — disse. Avrebbe voluto aggiungere qualcosa, ma le parole gli rimasero in gola.

— Come sta? Va tutto bene?

— Sto benissimo. Dove sei, Lara?

— Sono Lora. Sto a casa, signor Green. Sono lusingata che riconosca la mia voce. Sarà sorpreso di sentire che la chiamo da casa, ma so che lavora tutto il giorno e non volevo telefonarle al negozio. Comunque ho provato a fare il numero prima di lasciare l’ufficio, ma non c’era nessuno. Ha informato la dottoressa Nilson di aver cambiato casa?

— Sì, gliel’ho detto.

— Ero sicura che l’avesse fatto, ma la dottoressa è una frana per queste cose. Voglio dire, se uno le racconta di aver sognato un pesce che balla il valzer come sua zia, lei ne prende nota. Ma quando si tratta di indirizzi e numeri del telefono… be’, li considera dettagli banali.

Lui disse: — Ti amo ancora.

Ci fu un momento di silenzio che durò un’eternità.

Alla fine Lara disse: — Stavo per dirle che quando ho lasciato lo studio, sono andata a cena… con una persona. Una persona mi ha portato fuori a cena.

— Va bene.

— Il suo solito appuntamento con la dottoressa Nilson è fissato per martedì, vero?

— Sì.

— La dottoressa è stata interpellata per un consulto… lei sa che al Centro non guadagna molto…

— Sì — disse ancora lui.

— Pensa di poter saltare il suo appuntamento questa settimana? Può fare questo favore alla dottoressa Nilson?

— No.

— L’altra possibilità sarebbe che lei venga domani. Succede spesso che alcuni clienti annullino il loro appuntamento. Ma anche in caso contrario forse riuscirò a fare in modo che la riceva ugualmente.

— Ci sarai anche tu? — Si accorse che mentre parlava con Lara stava guardando Tina. Era questa la ragione per cui aveva comprato Tina, naturalmente. Gli ricordava Lara, ma non era lei. Lora era Lara.

— Forse lei si meraviglia perché sono tornata a lavorare per la dottoressa Nilson dopo essere stata via tanto tempo. Mi sono sposata e ho divorziato. Adesso ricevo gli alimenti e un mensile per la bambina, ma ho bisogno di lavorare. Ho ripensato a questo lavoro… anche se il guadagno è poco, questo posto è stato il migliore che ho avuto, l’unico che mi sia veramente piaciuto. Inoltre sapevo che se avessi dovuto portare Missy dal medico, la dottoressa Nilson mi avrebbe dato il permesso senza difficoltà.

Lui esitava, incapace di scegliere tra le migliaia di cose che voleva dirle e le centinaia di domande che doveva farle. Per qualche strana ragione in quel momento lui si trovava in posizione di vantaggio, ed era della massima importanza che non sprecasse l’occasione. Sillabando le parole, disse: — Se vengo domani, pretendo che sia tu a farmi entrare dalla dottoressa. Voglio che mi dia la tua parola che ci sarai.

— Ci sarò sicuramente. Può venire dopo pranzo? All’una?

Si accorse di stringere in pugno il fazzoletto fradicio di sudore. Disse: — Se vuoi essere sicura che io venga all’una, permettimi di portarti fuori a pranzo. Mi faresti felice.

Ancora un momento di silenzio, più breve questa volta, ma sempre lunghissimo. — Se le dicessi che devo andare a trovare Missy all’asilo nido?

— Verrei con te. Mi piacerebbe conoscere Missy. — Lanciò un’occhiata a Tina. — Potrei portarle un regalo.

— Non è vero che devo andare. — Una breve pausa, poi aggiunse: — Andrò a prenderla quando esco dal lavoro stasera.

— A che ora esci per il pranzo?

— A mezzogiorno.

— Sarò lì a mezzogiorno meno un quarto.

— Bene. Grazie, signor Green. Arrivederci.

Un leggero clic mise fine alla conversazione. “Avrei dovuto chiederle dove abita”, pensò. A che sarebbe servito?

Lei non gli avrebbe certo detto la verità.

Tina domandò: — Hai intenzione di regalarmi a una bambina? Non ha già un’altra bambola?

— Non lo so — le disse lui. — Ma non ti preoccupare, non credo che questa bambina esista davvero. Comunque, se ha già una bambola, sicuramente non è una bambola come te.

Riattaccò il telefono, si avvicinò alla cassa e afferrò con tutte e due le mani un’estremità dell’assicella centrale. Gli sembrò che il legno gli ferisse i palmi, poi che la camicia… no, i muscoli della schiena si strappassero e si lacerassero in brandelli per lo sforzo e per il dolore. I chiodi cominciarono a cedere squittendo, come topi tirati fuori dalle loro tane. L’ultimo si arrese all’improvviso, mandandolo quasi a gambe all’aria.

Tina emise un fischio simile a quello di un bollitore in miniatura. — Non immaginavo che tu fossi così forte!

— Nemmeno io — ammise lui. Sbirciò attraverso l’apertura che si era creata. L’oggetto che s’intravedeva all’interno era ruvido, quasi nero.

— Pensi di tirar via tutte le assicelle così?

Lui scosse la testa. — No. Con quella ce l’ho fatta, ma non credo che ci riuscirei ancora.

— Non lasciarla lì — lo avvertì Tina. — Potresti camminare sopra a un chiodo. Appoggia l’assicella contro il muro.

— Hai ragione.

— Dove stai andando?

— In cucina, a prendere un cacciavite.

— Prima voglio farti vedere una cosa. Vieni qui, per favore.

Lui si sedette sul divano accanto a lei.

— Adesso faccio una magia. Metti la mano qui dentro. — Qui era la tasca del cappotto. — Cosa senti?

— Niente — disse lui. — È vuota.

Lei alzò il braccìno in gesto drammatico. — Ora guarda cosa è capace di fare la Meravigliosa Tina! — Si infilò a testa in giù nella tasca, come avrebbe fatto una ragazza normale sotto le coperte del letto. Un attimo dopo uscì di nuovo. — Adesso, metti di nuovo la mano qui dentro.

Lui ubbidì e tirò fuori un sottile pacchetto di banconote. Tina scoppiò a ridere battendo le mani.

— Come hai fatto?

— Be’, tu te ne stavi lì a parlare col fattorino e non potevi mettermi in un altro cassetto, poi mi sono detta che sicuramente avresti avuto voglia di vedere cosa conteneva la posta magica… e anch’io sono curiosa di scoprirlo.

— La posta magica?

— Sì — disse Tina in tono deciso. — La posta magica.

Insomma, non sapevo cosa fare e poi ho visto il tuo cappotto appoggiato sul divano.

Impaziente, lui le chiese: — Ma perché quando ho infilato la mano per la prima volta, la tasca era vuota?

— Guardala bene alla luce e te ne accorgerai.

Lui si spostò all’estremità del divano, vicino alla lampada da tavolo, si mise il cappotto sulle ginocchia e alzò al massimo l’intensità della luce. Osservò l’interno della tasca e si accorse che era doppia.

— È una tasca a doppiofondo — gli disse Tina tutta contenta. — Solo che l’aletta era scivolata all’interno e nascondeva l’apertura posteriore. Quando mi sono infilata dentro, ho sentito che dall’altra parte c’era qualcosa, così ho guardato per vedere di che si trattava.

Lui annuì lentamente. — Me ne sarei dovuto accorgere da solo.

— Tu cercavi qualcosa sul fondo della tasca, non dall’altra parte.

Lui annuì di nuovo. — Grazie, Tina.

— Sono proprio questi i soldi che cercavi?

— Credo di sì. — Il fascio di banconote era tenuto fermo da un elastico ormai indurito. Lui lo tolse e lo gettò in direzione del cestino della carta straccia, con gli occhi fissi sulle banconote. Erano cinque biglietti da cento, tre da cinquanta, uno da dieci e due da uno, del tutto simili a quelli a cui era abituato, ma i volti raffigurati erano di donne. Nel portafoglio aveva una banconota da cinquanta, la tirò fuori e la confrontò con quelle appena ritrovate. I disegni ornamentali e lo stile dei caratteri erano leggermente diversi. Sul biglietto da cinquanta con l’immagine del generale Grant si leggeva: BANCONOTA DELLA RISERVA FEDERALE. Invece sugli altri c’era scritto: CERTIFICATO AUREO — VALORE NOMINALE CONVERTIBILE A VISTA E AL PORTATORE.

Mise giù i soldi, colpito da un’idea improvvisa. — Riusciresti a infilarti in quella cassa come hai fatto nella tasca del cappotto?

Lei guardò dubbiosa la cassa. — Penso di sì.

— Ma certo che ce la farai. Prima forse no, ma adesso che ho tolto un’assicella, lo spazio per entrare c’è.

— Va bene — disse Tina in tono deciso. — Tirami su.

Lui rimise la banconota da cinquanta con l’immagine di Grant nel portafoglio e appoggiò le altre sul tavolo, poi sollevò Tina fin sul bordo della cassa vicina all’apertura. Lei disse: — Com’è buio lì dentro! Non hai una torcia elettrica o qualcosa del genere?

— No, ma posso avvicinare la lampada da tavolo in modo che illumini l’interno.

Lei fece un cenno con la testa: — Penso che sarebbe meglio.

Mentre Tina si calava dentro la fessura lui notò che la sua pelle era di plastica, liscia e lucida. “È solo una bambola meccanica”, pensò. “Sto giocando con una bambola programmata”.

Eppure, appena Tina scomparve dalla vista, lui sentì la sua mancanza.

30. La fortezza segreta di Tina

Tina poteva dirgli cosa c’era dentro la cassa, ma lui doveva comunque aprirla da solo, a meno che non decidesse di aspettare la sera seguente per farlo fare dal custode. Senza dubbio questa era la decisione più ragionevole.

Scoprì, però, che non aveva nessuna intenzione di essere ragionevole e non gli ci volle più di un minuto per capirne il motivo. Avrebbe visto Lara il giorno dopo e voleva poterle raccontare tutto sulla cassa e sul suo contenuto, di qualunque cosa si trattasse e comunque non voleva essere obbligato a raccontarle che non era stato capace di aprirla da solo. Che cosa avrebbe pensato Lara di un uomo che non sapeva aprire una semplice cassa di legno?

Andò in cucina e si munì del cacciavite di cui aveva appena parlato a Tina e di un grosso coltello da cucina. Osservò la terribile lama ricurva e cercò di ricordare se l’avesse mai usato prima. Probabilmente no; sembrava più adatto a dare il colpo di grazia a grossi animali pelosi. Non poteva certo cominciare a menare fendenti sulla cassa, con Tina lì dentro.

— Tina! — gridò. — Va tutto bene?

Non ci fu nessuna risposta. Appoggiò un orecchio su una fessura, sicuro che, se Tina si fosse mossa, lui l’avrebbe sentita. Dopo qualche secondo, riuscì a distinguere il ronzio della sveglia elettrica e il rumore di qualcuno che si preparava ad andare a letto nell’appartamento accanto, ma non sentì nessun suono provenire dalla fessura. Silenzio di tomba.

— Tina, vuoi farmi uno scherzo?

Afferrò un’altra assicella e cercò di tirarla via, ma quella non si mosse di un centimetro. Forse era inchiodata troppo saldamente o forse lui si era stancato troppo a tirar via la prima.

Eppure si vedeva una leggera crepa. Infilò la lama nella sottile fessura e la mosse avanti e indietro. La fessura si allargò fino a raggiungere il bordo dell’assicella e ad allentare la presa di un chiodo. Inserì la lama sotto l’estremità dell’assicella e fece leva. Aveva sentito dire che era una cosa da non fare, ma scoprì che non gliene importava niente. Anche se la lama si fosse spezzata, avrebbe continuato con quello che ne restava.

Fu invece il chiodo a cedere con uno scricchiolio. Gettò il coltello, afferrò l’assicella e la strappò via.

Adesso l’apertura era raddoppiata e la luce della lampada, che aveva sistemato per Tina, riusciva a illuminare meglio l’interno. La superficie scura e ruvida, che aveva creduto essere quella dell’oggetto imballato, scoprì invece che era un involucro di cartone. Lo toccò con una mano facendo pressione, l’oggetto lì sotto sembrava liscio e resistente. Di Tina nessuna traccia.

Impugnò il coltello e cominciò a lavorare sulla terza assicella, poi si rese conto che stava trascurando di usare lo strumento più efficace. Inserì l’estremità più stretta dell’assicella che aveva appena tirato via sotto la terza e fece forza sull’altra estremità, utilizzando come fulcro il bordo della cassa. I chiodi opposero un po’ di resistenza lamentandosi, ma l’assicella venne via piuttosto facilmente. La stessa cosa accadde con quella seguente, rimaneva così solo l’assicella su cui era appoggiata la lampada.

Cercò di afferrare il cartone da imballaggio e di tirarlo via, ma era troppo resistente e troppo teso per permettergli una buona presa. Avrebbe potuto tagliarlo col coltello, se non avesse temuto di danneggiare l’oggetto all’interno o di fare male a Tina. La chiamò di nuovo, dolcemente, e cercò di dirle quanto fosse preoccupato per lei. Non ricevette alcuna risposta.

Rimise la lampada sul tavolo e cercò di fare ancora leva sotto l’ultima assicella, ma non aveva più un bordo su cui appoggiarsi.

Non c’era nessuna fessura dove potesse vantaggiosamente inserire il coltello. Cercò di fare forza sotto l’estremità dell’ultima assicella e infilò la punta del cacciavite nel sottile varco che era riuscito a praticare; appena tentò di fare leva, il cacciavite si piegò come se fosse di filo di ferro.

Non voleva più usare il coltello perché temeva che si spezzasse. Fino a quel momento non gli sarebbe importato affatto se fosse successo e, anzi, lo avrebbe buttato via senza problemi, se avesse avuto bisogno di fare spazio nella cassetta degli attrezzi. Adesso, invece, lo sentiva suo, come sentiva suoi i blocchetti degli ordini e la penna d’argento a cui aveva sostituito tante volte il ricambio.

Inserì la lama sotto l’altra estremità dell’assicella e mosse lentamente il manico su e giù, dapprima con delicatezza e poi, sentendo che il chiodo faceva resistenza, con sempre maggior forza. Dopo che ebbe allargato di qualche millimetro il varco tra l’assicella e il bordo della cassa, ritirò la lama e afferrò l’estremità del pezzo di legno cercando di schiodarlo. Ripeté il tentativo più volte e con tanta energia che arrivò a sollevare la cassa da terra. Finalmente, quando anche l’ultima assicella saltò via, lui riuscì a vedere l’interno della cassa meglio di quando c’era la lampada appoggiata sopra. Quando avevano preparato la cassa, prima d’inchiodare le assi che facevano da coperchio, avevano appoggiato un cartone da imballaggio ruvido e scuro sopra l’oggetto rettangolare, con i lembi che pendevano sui quatro lati. Tutt’intorno avevano infilato trucioli di legno per assicurare una protezione migliore. Lui tolse tutti i trucioli e tirò via il cartone.

La superficie rettangolare che aveva sentito era il ripiano di uno scrittoio, un pannello scuro di legno tropicale. Lo riconobbe subito, riconobbe ogni graffio e ogni segno del tempo. La ribalta era chiusa, chiusi i cassetti, ma era lo scrittoio, il suo scrittoio.

Adesso le quattro pareti della cassa sarebbero crollate a terra, pensò. Ma si sbagliava. Fu costretto a toglierle a una a una e ad accatastarle in un angolo della stanza. Finito il lavoro, si fermò bagnato di sudore a cercare Tina fra il mucchio di materiali da imballaggio e ad ammirare lo scrittoio. Solo allora notò che il nastro adesivo, che avrebbe dovuto tener ferma la ribalta, era semistaccato. Per un attimo si domandò se fosse stata Tina, se la bambola potesse aver avuto la forza necessaria per staccarlo. Forse sì, concluse. Con le sue dita minuscole poteva aver facilmente sollevato un lembo del nastro adesivo e poi averlo tirato via completamente. Toccò il nastro e notò che non aderiva bene al legno; lo scrittoio probabilmente era stato lucidato a cera di recente.

Rifece mentalmente il probabile percorso di Tina. Forse, trovandosi davanti lo spesso cartone, la bambola aveva tentato di infilarsi sotto. I trucioli potevano averla bloccata e lei forse si era lasciata scivolare giù lungo uno spigolo. In origine, il cartone doveva essere un foglio piatto che era stato ripiegato per aderire allo scrittoio. Tina non poteva essersi arrampicata su per le gambe cerate del mobile, ma gli spigoli di cartone ondulato le avevano offerto un facile appiglio.

Tolse il pezzo di nastro adesivo. Lo scrittoio aveva una serratura di ottone, ma la chiave doveva essersi perduta cento anni prima, o forse anche di più.

— Eccoti qui, Tina, ti ho trovato! — disse aprendo la ribalta.

Ma Tina non c’era. C’era una fila di otto caselle e sotto un’altra di sei, più grandi (le aveva contate spesso nel negozio). Erano tutte vuote, a eccezione di una dove c’era una busta color avorio di piccole dimensioni. Con l’idea che Tina potesse essersi nascosta lì dietro, prese la busta. Tina non c’era e appena ebbe la busta in mano, capì che non avrebbe potuto nascondersi lì dietro. Le quattordici caselle vuote lo fissavano senza espressione e gli sembrò di sentire la risata divertita di Tina.

Si mise a sedere nella vecchia poltrona marrone con la bruciatura di sigaretta sul bracciolo e aprì la busta.

Caro signor Green,

quando avevo dodici anni, mia madre mi regalò una vecchia bambola e da quel momento sono diventata una collezionista di oggetti antichi. Da allora sono passati più di cinquant’anni. Conosce questa poesia di Kipling?

Nessuna armonìa nello stile,
nessun estro nel progetto…
le vestigia in rovina
giacevano sparse sul terreno.
Opere murarie rozze, malfatte.
Ma su ogni pietra portavano inciso:
“Al Costruttore che verrà,
testimoniate che anch’io sapevo”.

Era una delle poesie preferite del mio povero marito.

Buon Natale. Spero che perdonerà a una vecchia donna di essere una sentimentale.

Martha Foster

Posta. Lesse di nuovo la lettera, come se dovesse nascondere qualche indizio. Alla televisione c’era sempre qualcuno che si arrampicava su una montagna per chiedere a qualche strano uomo barbuto vestito di un saio di spiegargli il significato della vita. Non ne avrebbe più riso. Nessuno avrebbe potuto farlo. “Nessuna armonia nello stile, / nessun estro nel progetto… / le vestigia in rovina / giacevano sparse sul terreno”.

Prese i soldi che aveva trovato Tina, li contò e se li mise in tasca.

Tina giocava a nascondersi. Solo di questo si trattava. Stava rintanata dentro lo scrittoio o in mezzo al materiale da imballaggio ammucchiato alla parete, oppure — ma era improbabile — era sgattaiolata fuori dalla cassa e ora si nascondeva da qualche parte nell’appartamento. Forse, se fosse andato a letto, lei…

No. Per fargli uno scherzo, Tina si sarebbe nascosta per qualche minuto, non per tanto tempo. Sicuramente non avrebbe voluto che lui si preoccupasse, doveva esserle successo qualcosa.

Tina non poteva essere in uno dei cassetti perché erano ancora chiusi con il nastro adesivo. Strappò ugualmente tutte le strisce e guardò in ogni cassetto. Se avesse potuto, li avrebbe estratti completamente; ma erano trattenuti da fermi applicati prima che fosse fissato il pannello posteriore.

Tina, comunque, non era nascosta in nessun cassetto. Lui si stava comportando come l’uomo della barzelletta che cerca la chiave del portone, non dove l’ha persa, ma sotto il lampione, perché lì c’è più luce. Tina probabilmente aveva sollevato il nastro adesivo che teneva chiusa la ribalta e si era infilata lì dietro. Era possibile che una delle caselle avesse un doppiofondo? Avevano tutte la stessa profondità, le controllò a una a una con la riga. Si accorse però che la loro profondità era minore di circa due centimetri di quella del ripiano superiore dello scrittoio. Tra la base della fila inferiore di caselle e il ripiano della ribalta dello scrittoio, non c’era nulla. O meglio, c’era solo una fascia di legno quasi nero, alta circa otto centimetri.

Cercò di afferrarla, di estrarla, ma non c’era nessuna sporgenza, perché il bordo superiore era a filo delle caselle, gli spigoli laterali erano coperti dalle paretine verticali dello scrittoio e il bordo inferiore aderiva al ripiano.

Prese la lampada da tavolo, l’appoggiò sullo scrittoio e si mise a osservare la fascia di legno uniforme. Era possibile che Tina fosse riuscita a vedere, sotto lo stesso strato di cartone, qualcosa che lui non riusciva a vedere nemmeno alla luce della lampada? Tina poteva solo aver toccato il pannello, ma nel buio pesto in cui si trovava, non poteva aver visto nulla.

Rimise la lampada al suo posto, chiuse gli occhi e passò le dita sul pannello. Non sentì nulla.

Le dita di Tina erano più piccole delle sue, erano quasi sottili come spilli. Prese il coltello e passò leggermente la punta sulla superficie del legno, facendo attenzione a non graffiarlo, o almeno a non graffiarlo più di quanto non lo fosse già dopo due secoli. Per qualche strana ragione i graffi erano più numerosi sul lato sinistro.

Quando la punta del coltello arrivò da quella parte, andò a infilarsi nell’angolo, tra lo spigolo del pannello e la parete verticale dello scrittoio. Lui spinse delicatamente la punta e, più che udire, sentì un clic, mentre il pannello si spostava di mezzo centimetro verso di lui.

31. Pranzo con Lora

Quando la cameriera si allontanò, lui prese Tina dalla tasca e l’appoggiò sulla tovaglia a quadri.

— Una bambola? — Lora Masterman smise di dondolarsi sulla sedia e prese dalla borsa un paio di occhiali cerchiati d’oro per osservarla.

— L’ho comprata perché mi ricordava te — disse lui.

— È molto gentile da parte sua.

— Può camminare, parlare e perfino pensare un po’… quando è in funzione. Ma non sa leggere e non mastica niente di aritmetica. Non è programmata per queste cose e non credo che possa esserlo. Se le domandi quanto fa uno più uno, risponde “due o tre”. Se le domandi quattro più quattro, risponde “un sacco”. — Poi si affrettò ad aggiungere: — Con questo non voglio dire che anche tu sei così.

Lora sorrise. — Sono sicura che la dottoressa Nilson qualche volta lo pensa.

— Ti voglio raccontare di Tina e del mio scrittoio, vuoi? Ti piacciono gli oggetti antichi?

— Sì, ma non ne so molto.

— Io sì — disse lui. — Anche le persone più ottuse possono essere esperte in qualche cosa. Ci hai mai fatto caso? Io lo sono in oggetti antichi e in personal computer. So tutto su questi argomenti. Quando abbiamo vissuto insieme, conoscevo solo i personal computer, ma adesso sono esperto anche in oggetti antichi. I computer sono interessanti, ma gli oggetti antichi lo sono di più, perché ci sono molte più cose da conoscere su questo argomento.

Lora disse dolcemente: — È stato solo per due giorni…

— Lo so, ma io avrei voluto che durasse per sempre. Non ero abbastanza intelligente o abbastanza bello e non guadagnavo un granché. Ti capisco, non ce l’ho con te.

— Ma non è stato per nessuna di queste ragioni. — Lora si tolse gli occhiali e li rimise nella borsa. — Ero io a non essere adatta a te. Tu eri un paziente della dottoressa Nilson e io lavoravo nel suo studio e mi sono resa conto che ti facevo del male. Dopo qualche giorno non ce l’ho fatta più.

La cameriera portò una caraffa d’acqua ghiacciata, un piattino con il burro, una piccola forma di pane italiano appena sfornato e del vino.

— Perché dici che mi facevi del male?

— Cominciavi a peggiorare. Ti eri dimenticato, voglio dire avevi rimosso, di essere in terapia, e questo non andava bene. Ti eri perfino dimenticato che ci eravamo conosciuti nello studio della dottoressa Nilson. Hai cominciato a dire che ci eravamo incontrati nel parco, solo perché quella volta avevamo fatto una passeggiata. E ora… — La voce di Lora si era fatta incerta, sembrava che stesse per scoppiare in lacrime. — Ho paura che stai ricominciando da capo. Ti stai creando un sistema allucinatorio che ruota intorno a me.

— No, non è vero. Sei troppo grande per farti stare dentro la mia mente.

— L’hai già fatto una volta.

Lui scosse la testa. — Allora eri irreale come lo sei adesso. Avevi cambiato il tuo aspetto, solo un po’; dicevi di chiamarti Lara Morgan e hai fatto in modo che ti incontrassi nel parco. Ma su una cosa hai ragione: io non volevo ammettere di essere in cura da uno psichiatra, non volevo ammetterlo nemmeno con me stesso. Ero convinto che un tipo simile non fosse adatto a te.

“Anche il posto in cui mi sono trovato quando ho attraversato la porta era reale. Ho incontrato persone reali, ho mangiato del vero cibo e ho comprato questa bambola. Ho perfino conosciuto un uomo che veniva dal nostro mondo e che un tempo aveva lavorato per Nixon.

Lora cercò di prendere Tina, ma lui la tirò indietro. — Pensi che voglia romperla — disse Lora. Era un’affermazione, non una domanda.

Lui annuì.

— Se uscissi di qui e seguissi la strada fino a un negozio di giocattoli, potresti comprarne una…

Mamma Capini si fermò tutta sorridente al loro tavolo. — Ehi, voi due! Siete tornati insieme? Bene, bene.

— Io sì, sono tornato — le disse lui. — Adesso sto cercando di far tornare Lara insieme a me.

— Avete già ordinato?

Lui scosse la testa.

— Prendete i frutti di mare. Oggi sono proprio buoni.

— Va bene — disse lui.

— Lo dico io alla cameriera. — Mamma Capini si allontanò impettita.

Lora disse: — Si ricorda ancora di me. Sono passati anni.

— Tu non sei cambiata molto. E poi chi ti può dimenticare? Io non ho comprato Tina perché temevo di dimenticarti. Sapevo che ti avrei ricordato sempre. L’ho comprata perché volevo possedere una piccola parte di te. Se non si può avere una persona, si desidera avere almeno la sua immagine, e tu sei stata la modella a cui si sono ispirati per fabbricare Tina. Ne sono sicuro.

Lei cominciò a protestare, ma lui la zittì con un gesto. — Va bene, è solo un caso se Tina ti somiglia come una goccia d’acqua. Non litighiamo per questo. Comunque… una persona che io consideravo un’arpia, mi ha mandato lo scrittoio perché aveva capito quanto ci tenessi. Così ho scoperto che in fondo è una santa.

— Qualche volta succede il contrario — gli disse Lora.

Lui annuì ancora. — Vuoi dire che io penso che tu sia un angelo, ma che in realtà sei un demonio, un angelo caduto? Va bene, ti seguirò all’inferno se è lì che stai andando.

Rimase in silenzio, pensieroso, ma Lora non disse una parola.

— C’è un arazzo vittoriano… la scena mostra un cavaliere e una dama. Lo sfondo dietro il cavaliere è il solito, un mucchio d’erba e alcuni alberi; ma dietro alla dama, il paesaggio è davvero isolito. È la rappresentazione di un poema, La belle dame sans merci, di John Keats. Quella dama sei tu, vero? Mi è venuto in mente solo ora, perché quella dama non ti somiglia molto. Non credo che Keats ti abbia veramente visto. Forse si è ispirato a qualche antica leggenda, o forse no.

Lora sorrise. — Questo mi piace di più della bambola parlante. Ho sempre desiderato apparire su un arazzo.

— Vieni al negozio e te lo faccio vedere. Comunque… lo scrittoio era imballato in una cassa di legno. Penso che la signora abbia incaricato una società di spedizioni, perché sembrava un lavoro da professionisti.

Lora annuì.

— Non sapevo cosa contenesse e ho avuto un po’ di difficoltà ad aprirla. Quando sono riuscito a togliere la prima assicella, ho mandato dentro Tina per vedere cosa ci fosse.

— Tu ne sei proprio convinto, vero? — Con un gesto impaziente della testa, Lora buttò indietro i suoi lucenti capelli castani. — Sei davvero convinto che quella bambola sappia camminare e parlare?

— Non è poi una cosa così strana — disse lui. — Da principio pensavo addirittura di essere io, come per magia. La Meravigliosa Tina, così si è chiamata una volta. Nel Reparto Fai Da Te vendono un piccolo robot che ci si può costruire da soli e mi hanno detto che l’aviazione ha certi aeroplani che possono volare, combattere, tornare alla base e atterrare anche in caso di morte del pilota. Io non saprei costruire una bambola del genere e non conosco nessuno che saprebbe farlo, ma può esserci qualcuno che ne è capace… se ci si mette.

Tina stava a faccia in giù sul tavolo, accanto al suo gomito. Mentre parlava, lui aveva preso la saliera e ci giocherellava passandosela da una mano all’altra. La cameriera portò i frutti di mare.

— Tina non veniva più fuori. Ho spaccato la cassa e ho guardato dappertutto, ma non sono riuscito a trovarla. Finalmente ho scoperto che c’era uno scomparto segreto nello scrittoio… non credo che la signora che me lo ha regalato lo sapesse… l’ho aperto, e Tina era là dentro, ma non parlava e non camminava più. Era così. — La indicò con una mano.

Lora, che stava mangiando la sua pasta con i frutti di mare, annuì con aria scettica.

— Forse non ti ho detto che Tina era così anche quando l’ho comprata. Il commesso mi ha detto cosa dovevo fare per farla funzionare, ma io non gli ho prestato molta attenzione. — Rimase un attimo in silenzio. — Ma avrei dovuto starlo a sentire, perché anche a me succedeva molto spesso, quando vendevo personal computer e periferiche, di spiegare qualcosa al cliente e vedere puntualmente che il giorno dopo quello tornava al negozio per chiedermi la stessa cosa. Comunque… mi domandavo che cosa le fosse successo e poi ho capito. Un giocattolo, meccanico non è sempre in funzione. Quando un bambino non ci gioca, viene spento. Se è un giocattolo a molla, non c’è nemmeno bisogno di spegnerlo, si scarica da solo. Non ti starò a raccontare come l’ho fatta funzionare la prima volta, ma è stato per caso.

Lora si asciugò la bocca col tovagliolo. — E così, non puoi più farla funzionare!

Lui scosse la testa. — Già. Sono troppo felice di averti ritrovato e so che mi porterai con te.

— Non capisco cosa intendi dire. Può darsi che ci vedremo ancora e può darsi di no.

Lui annuì. — Tina mi aveva detto che le piaceva il tè e così io gliel’ho preparato. Me l’ha detto solo quella volta e dopo me ne sono dimenticato. Quando l’ho vista lì, immobile nello scomparto, ho capito. Lei lo dice al bambino una volta sola e il bambino la fa funzionare fino a quando ha voglia di giocare con lei. Se lui non vuole più giocare, la bambola si mette da parte, così la mamma del bambino non deve preoccuparsi di rimetterla a posto. In breve tempo la bambola si scarica, o meglio, si riposa; in questo modo non si rompe mai e non si consuma. Anch’io in quel momento non avevo più tanto interesse per Tina, perché ogni mio pensiero era rivolto a te e alla cassa.

Bevve un sorso di vino. Lora disse: — E tu ti aspetti che io ci creda.

— Sono sicuro di sì, tu sai tutto su questi giocattoli, anzi, sono convinto che tu sappia più di me. Quello che mi aspetto veramente è che tu lo ammetta. Lo farai quando ti renderai conto che è inutile continuare a comportarti come stai facendo adesso. — Appoggiò il bicchiere sul tavolo e prese la saliera. — Insomma, Tina si comporta così. Tutte le volte che io non mi interesso a lei, si mette da parte. Se c’è un posto che le piace, lo chiama la sua fortezza segreta. Ieri si è nascosta in quello scomparto segreto.

Svitò il tappo della saliera, versò il sale nell’acqua ghiacciata e lo mescolò con un cucchiaio. Quando vide che il sale si era quasi del tutto sciolto, bagnò le dita nell’acqua e spruzzò Tina. — Quando è già in funzione può bere da sola — disse a Lora. — tè o acqua con un po’ di sale. Se invece è a riposo, bisogna fare così. È un elettrolito. Non fare finta di essere sorpresa.

Una goccia d’acqua cadde sul viso di Tina che si mise a sedere sul tavolo. — Ciao, sono Tina. — Batté varie volte i suoi grandi occhi nocciola prima di metterli a fuoco su Lora.

— Ciao, Tina — disse Lora con voce tesa.

— Io ti appartengo — dichiarò Tina. — Sono la tua bambola e so parlare.

Lora scosse la testa. — Temo che non sia vero, Tina. Hai sbagliato persona. Tu appartieni all’uomo dietro di te.

Lui disse: — Ciao, Tina. Ti ricordi di me?

— Pochino.

— Abbiamo giocato insieme nel mio appartamento. Tu mi hai aiutato a cercare delle cose che avevo perso e io intanto ti stavo leggendo una storia. Poi ti ho comprato dei bei vestitini e un servizio da tè.

Tina fece cenno di sì. — Se vuoi bere il tè, posso aiutarti a preparare la tavola.

— Sì, appena torniamo a casa. — Poi, rivolto a Lora, disse: — Sei sicura di non voler dare Tina a Missy?

Lora scosse la testa. — So che vuoi essere gentile e devo ammettere che sulla bambola tu avevi ragione e io torto. Dicevi la verità, ma questa cosa sembra troppo una stregoneria per i miei gusti e per quelli di Missy.

— Va bene, non pensiamo a Tina per ora. Quando te ne sei andata mi hai lasciato un biglietto, ricordi? Se sei davvero quello che dici di essere, una divorziata con una bambina, perché mi hai scritto di quelle porte?

Lora lo guardò con aria interrogativa. — Quali porte?

Lui prese il biglietto dal portafoglio, lo aprì e lo lisciò sul tavolo. Una goccia d’acqua salata cadde su un angolo del biglietto, come una lacrima. Mentre lui alzava lo sguardo su Lora, Tina fece una risatina.

Lora domandò: — Che avete da ridere, voi due? — Quando lui l’aveva aperto, Lora aveva dato un’occhiata al biglietto e aveva distolto immediatamente lo sguardo.

— È per la tua faccia — le disse lui. — Fino a ora eri riuscita a controllarti.

Lora si alzò in piedi, pulendosi le labbra con il tovagliolo. — Se non ti piace la mia faccia…

— Immagina che io chiami Canale 9 — disse lui. — Immagina che io gli mostri questo biglietto e poi gli faccia vedere Tina. Sono sicuro che quelli della Tv sarebbero molto interessati a Tina e tu non potresti tornare qui chissà per quanto tempo.

Tina esclamò: — Non andartene! — Un cliente grasso, seduto al tavolo vicino, guardò la bambola e distolse immediatamente gli occhi, con l’espressione stupita ma determinata di un ateo che abbia visto un fantasma.

— Questa è pura follia — disse Lora. — Sapevo che sarebbe andata così, quindi è colpa mia. Grazie per il pranzo.

— Ho anche il tuo ritratto — le disse lui. Lora non rispose e lui continuò: — Siediti.

Con le braccine tese, implorando di essere presa in mano, Tina trillò con voce acuta: — Sei così graziosa!

Lora si rimise a sedere. Non si dondolava più con la sedia e stava sulla difensiva. — Ma io non ti ho mai dato il mio ritratto.

— Infatti. — Fece una pausa per pensare bene a quello che stava per dire. — Le cose tornano al loro posto da sole, vero? Le cose del tuo mondo e del mio. Quando ero piccolo mia madre a colazione mi dava i fiocchi di granturco con il latte e io non sono mai riuscito a spiegarmi perché un fiocco che io mettevo in mezzo alla tazza si spostava sempre da una parte. Ancora adesso non me lo so spiegare, ma non credo che sia per magia. E sono convinto che anche questo non sia magia. Probabilmente si tratta di una legge di natura, come la gravità. Che succede quando qualcosa appartiene a tutti e due i mondi? — Restò in attesa di una risposta.

— Immagina che il mio mondo sia come il mare — disse Lara. La sua voce era improvvisamente diversa; il cambiamento era minimo ma molto significativo. Aveva rinunciato all’inutile gioco che ormai non la divertiva più. — E che il tuo sia come la terra.

Sotto il trucco s’intravedevano le lentiggini e i suoi occhi mandavano bagliori verdi.

32. Pranzo con Lara

Lui sospirò emettendo più aria di quanto immaginasse di avere dentro di sé. — Va bene.

— Le cose pesanti appartengono al mare. Uno può riuscire a tirarle fuori. — Lara lanciò un’occhiata a Tina. — Ma se si avvicinano di nuovo al mare, prima o poi ricadono dentro, e in questo caso, affondano.

Lui annuì per dimostrarle di aver capito.

— Le cose leggere, invece, appartengono alla terra. Se cadono in mare, galleggiano e prima o poi vengono spinte a riva. Ma tu volevi sapere di quelle cose che appartengono a tutti e due i mondi.

— Sì.

— Pensa al relitto di un naufragio. È di legno, quindi galleggia, ma ci sono infissi molti chiodi. I chiodi sono di ferro e il ferro affonda, quindi se il relitto riesce a galleggiare, galleggerà semisommerso. Se il legno si impregna d’acqua, anche solo un po’, il relitto si inabissa, ma passerà molto tempo prima che si adagi sul fondo. E ci vorranno anni prima che venga seppellito dalla sabbia, perché ogni marea lo farà spostare e lo libererà dalla sabbia che lo ricopre. Se scoppia una tempesta, le correnti spazzano il fondo del mare e allora è possibile che il relitto sia sospinto di nuovo verso la riva.

Dopo un attimo di silenzio Tina chiese: — Ci sono davvero tempeste così forti?

Lara annuì. — Io sono la tempesta. — E rivolta a lui aggiunse: — Adesso mostrami il mio ritratto e dimmi come l’hai avuto.

— Va bene. — Prese dalla tasca sinistra un medaglione d’oro brunito e lo aprì. Lara si chinò in avanti per guardarlo, ma lui glielo impedì perché voleva osservarlo un momento da solo. Col tempo i colori si erano attenuati, ma non sbiaditi, l’antica miniatura mostrava il profilo di lei, con le labbra atteggiate in un leggero sorriso, il collo ornato da una trina e i lobi da orecchini di giada verde.

— Se dico di amarti — gli domandò Lara — me lo darai?

— Io ti amo — le disse lui. — Non lo lasceresti a me?

Con le sue dita sottili e calde, Lara gli fece girare la mano per riuscire a vedere la miniatura, poi annuì.

— All’interno c’è scritto il tuo nome, o meglio, uno dei tuoi nomi. Leucothea Fitzhugh Hurst.

Lara annuì ancora. — Dove l’hai trovato?

— Nello scomparto segreto dove c’era anche Tina. Il capitano probabilmente si era fatto costruire quello scomparto per nascondere i suoi oggetti di valore, anche questo medaglione. Credo che fosse lì quando lui è morto e non lo sapeva nessun altro.

— Tu vuoi tenerlo perché pensi che sia il mio ritratto.

— Io so che è il tuo ritratto.

Lara lanciò un’occhiata alla bambola: una dea che guarda un giocattolo. — Tina sono io.

Tina esclamò: — No, non sono te!

— Sei anche Marcella, la stella del cinema. Sei tu che me lo hai detto, quella volta al telefono quando stavo in ospedale. A te piace chiamarti con nomi che cominciano con la L, ma non sempre.

— Lara è un nome recente — ammise lei.

— Allora non sapevo che quando sei venuta qui avevi depositato la pelliccia sotto questo nome… Lara Morgan. L’ho scoperto dopo, al mio ritorno.

Lei sorrise: — Sei stato bravo.

— Grazie. Ho cercato di trovare un lavoro là, ma non ci sono riuscito.

— Tu non accettavi che io fossi Lora Masterman, perché Lora Masterman era la segretaria della psichiatra da cui eri in cura, così per te sono diventata Lara Morgan.

— Ho capito. Forse mi puoi spiegare qualcosa a cui ho pensato spesso.

— Qual è il mio vero nome? No, non posso dirtelo.

Lui scosse la testa. — No, voglio sapere cosa avevo che non andava quando sono stato per la prima volta dalla dottoressa Nilson. Adesso la causa sei tu, ma allora cos’era?

Tina gli chiese: — Non stai bene?

— Sì, sto bene, Tina — rispose. — Sto benissimo.

— Una depressione. Ci sono uomini soli che respingono l’amore perché sono convinti che chiunque glielo offra non sia una persona che valga la pena di amare. Tu eri così, anche se non volevi ammetterlo.

— “Non mi iscriverei a nessun club che avesse come socio uno come me”, l’ha detto Groucho Marx. Mi piace vedere i vecchi film — disse stringendosi nelle spalle con espressione di scusa.

— Ha centrato perfettamente il problema. Tu eri figlio unico e i tuoi genitori si sono separati quando eri ancora piccolo. Tua madre è stata la tua migliore amica, anzi, la tua sola amica. Dopo la morte di tua madre, hai cercato di farcela da solo per circa un anno. Ma a volte non rivolgevi la parola ai clienti e bevevi troppo. Allora il negozio per cui lavori ti ha mandato dalla dottoressa Nilson.

— Ti dispiaceva per me.

— Mi dispiaceva per tutti — disse lei. — Mi dispiace ancora. Tu eri… mi sei sembrato quello più adatto.

— Ma non mi amavi.

— Sì, ti amavo. — Rimase per un momento in silenzio perché voleva che lui capisse bene le parole che stava per dire. — E amavo anche il capitano Hurst.

Lui si era dimenticato del medaglione. Adesso lo vide, lì, fra i piatti sporchi, come se lo vedesse per la prima volta. — Lo vuoi veramente?

— No, lo volevo perché mi ricordasse il capitano, ma era sciocco ed egoista da parte mia. Non può essere un mio ritratto a mantenere vivo il ricordo di Billy e credo che tu ne abbia molto più bisogno di me.

— Si chiamava Billy? — Era meravigliato.

Lei sorrise. — Veramente si chiamava William, ma tutti lo chiamavano Billy… naturalmente non in sua presenza. Lo chiamavano Billy ’Raffica’ Hurst. — Armeggiò con la borsa che teneva in grembo, poi le sue mani spuntarono dal bordo del tavolo con un fazzoletto orlato di nero. — Avrei tanto desiderato essere capace di piangere per lui — disse. — Lo meritava. Era coraggioso e gentile, perfino quando non era sobrio. Ma io non so piangere, non so piangere veramente. Erano anni che non pensavo a Billy.

Lui chiuse il medaglione con uno scatto e se lo rimise in tasca.

Lei gli toccò la mano con la sua, poi la ritrasse. — Puoi farmi un grande favore?

— Qualunque cosa — disse lui.

— Adesso tu hai il vecchio scrittoio di Billy, vero? È proprio tuo?

Lui annuì. — Sì, credo che sia il suo.

— Allora ci terrai le tue cose… i tuoi documenti e cose del genere. Voglio che tu tenga questo medaglione dove lo teneva lui. Farai questo per me?

— Lo farò se mi racconterai come lui è riuscito a convincerti a sposarlo.

— Non c’è molto da raccontare. Ci siamo incontrati a bordo della nave, lui era il capitano e io una passeggera. Se ci fossimo comportati come abbiamo fatto io e te, saremmo stati sulla bocca di tutti entro un’ora. Billy l’avrebbe fatto, era pazzo di me. Ma dopo avremmo avuto tutti e due molte difficoltà. A bordo c’era un pastore, così gli abbiamo chiesto di sposarci. Il matrimonio è stato un vero avvenimento, come lo sono sempre quelli celebrati a bordo. Il primo ufficiale ha fatto da testimone a Billy e più della metà delle donne sono state le mie damigelle. È stata una grande festa perché negli stessi giorni abbiamo doppiato Capo Horn.

— Capisco — disse lui. — È stato uno dei passeggeri a dipingere questo medaglione?

Lara scosse la testa. — No, l’ha dipinto la moglie del governatore britannico a Bombay quando siamo sbarcati. Era solo una dilettante, ma molto brava.

— Quanto tempo sei rimasta con lui?

— Fino a quando è dovuto ripartire. Io nel frattempo mi ero ammalata e sono dovuta restare a terra.

— Non credo che tu fossi ancora lì quando è tornato. Tina, sarà meglio che torni al tuo posto. C’è troppa gente che ti sta osservando. — La prese e la rimise nella tasca interna della giacca.

— No — disse Lara. — Cos’è che vuoi da me? Che ti ami? Ma io ti amo, ti amo come so amare io. Se non ti avessi amato, sarei rimasta con te più a lungo. Vuoi che resti con te per tutta la vita? Non posso farlo.

Lui le disse: — Mi sono domandato spesso perché hai scelto il capitano e me. Adesso ho capito: perché non saremmo stati mai creduti. Se avessimo attraversato una porta e poi fossimo tornati indietro, nessuno ci avrebbe creduto. Nessuno crede alle fandonie di un marinaio e, da quanto mi hai detto, Hurst era anche un ubriacone e un attaccabrighe. Io sono un malato di mente ed è questa la ragione per cui hai scelto di fare questo lavoro e ora sei tornata. Cos’è che vuoi da noi?

— Il vostro amore. Voglio essere amata da un uomo che non debba morire per aver fatto l’amore con me. Ti sembra tanto terribile?

Lui scosse la testa. Dopo un momento disse: — Credo che a te piaccia Billy… il nome Billy. Comunque un altro Billy una volta mi ha detto che tu avevi un amante che si chiamava Attis. Dopo il mio ritorno ho visto un programma alla Tv dove dicevano che in biblioteca ci sono persone a cui si possono chiedere informazioni. Sono andato là e ho parlato con una donna che mi ha raccontato di Attis. Poi le ho chiesto dei libri sugli oggetti antichi. Adesso li ho letti tutti, anzi, qualcuno l’ho letto tre o quattro volte, perciò ti sono debitore.

Lara fece un gesto come per dire “figurati!”.

— Attis si è ucciso… si è ucciso per te, perché era questo che volevi.

— No — disse lei.

— Va bene, si è ucciso perché pensava che fosse quello che volevi.

— Io non volevo che lui morisse!

— Certo — disse lui dolcemente.

— Ma tu cosa vuoi da me? Ti ho già detto cosa non posso darti, e ti ho anche detto che hai il mio amore. Ti amo quanto sono capace di amare. Ti amo quanto quella vecchia signora seduta al tavolo laggiù forse ama il suo cagnolino. Che vuoi di più?

Lui capì che Lara cercava di offenderlo, ma lui non si sentiva offeso, anzi, era felice come non lo era mai stato. — Voglio quello che vogliono i cani — disse. — Voglio seguirti tutte le volte che mi è possibile. Voglio aiutarti, tutte le volte che posso esserti di aiuto e voglio sentire la tua voce.

Lara tamburellava con le dita sul tavolo.

Lui restò in silenzio, paziente. Infine lei disse: — Faremo una prova, come facevano anticamente. — Prese il suo bicchiere di vino e glielo porse tenendolo per il bordo, fra l’indice e il pollice. — Prendilo per lo stelo con la mano sinistra.

Lui obbedì.

— Adesso prendi un pezzo di quel pane, non troppo piccolo, e non schiacciarlo. — Prese un pezzetto del panino soffice che stava nel cestino accanto al portacenere. — Adesso fallo cadere nel vino. Se affonda, sarai libero di seguirmi tutte le volte che vorrai. Ma se galleggia…

— Se galleggia… — disse lui — …morirò.

Lei annuì. — Morirai comunque.

Per un momento sembrò che il pezzo di pane restasse a galla. Lara mormorò qualcosa… una preghiera forse, o una maledizione che lui non riuscì ad afferrare. Il vino, rosso come il sangue, impregnò i bordi candidi del pane che affondò come un sasso.

— E così sia — sussurrò Lara lasciando andare il bicchiere che per poco non si rovesciò.

Lui non capì, e mai avrebbe capito come lei riuscì a prendere la pelliccia senza nemmeno avvicinarsi all’appendiabiti. Afferrò il suo cappotto e le corse dietro senza badare a uno dei figli di Mamma Capini che gli urlava dietro infuriato.

33. Il momento si avvicina

Gli sembrò che lei fosse svanita tra la folla di impiegati che sciamavano fuori dagli uffici; poi intravide i suoi capelli splendenti che, alla luce del tramonto, erano tornati color rame come se li ricordava. Si affrettò per raggiungerla, la perse di vista, la ritrovò e la perse di nuovo. Continuò a correre. Nelle strade un po’ alla volta cominciavano ad accendersi i lampioni.

I lampioni… ma non era appena passata l’ora di pranzo? Superò una chiesa in cui stavano celebrando una funzione religiosa. Si sentiva il rombo dell’organo e i canti dei fedeli; le luci all’interno della chiesa facevano risplendere come gemme le vetrate colorate. Una rappresentava Lara, con una lancia in mano e uno specchio nell’altra. Si fermò un attimo a osservarla, poi riprese a correre.

Qualcuno lo afferrò per una manica. — Dove diavolo sei stato?

Fece per voltarsi e un pugno lo colpì con violenza al rene destro. Era North. Si piegò in due con un gemito. La folla sul marciapiede era così fitta e vociante mentre si accalcava davanti agli sportelli di una biglietteria, che nessuno notò quello che era successo, o se lo notò fece finta di non vedere.

— Questo è per avermi piantato in asso — disse North. Lo afferrò per la cravatta come se fosse un guinzaglio e lo trascinò fuori dalla calca dentro un vicoletto. Lui si divincolò e tentò di colpire North accecato dall’ira. Ma North lo anticipò… un lampo rosso di dolore e si ritrovò seduto sui mattoni sudici a vomitare con le mani strette sul ventre.

Sentì la voce acuta di Tina attutita dalla stoffa della giacca domandare: — Stai male?

Lui sorrise e disse: — Sì. — Felice che il colpo fosse stato troppo basso per far male alla bambola.

— Perché diavolo sorridi?

— Perché sono ancora vivo — rispose barcollando. — Non ti sembra abbastanza?

— Per te forse — gli disse North. Si aprì una porta e un raggio di luce gialla illuminò il vicoletto buio. — Su, vieni. — North lo guidò giù per una rampa di gradini in cemento.

— Dove mi porti? — domandò lui. Faceva fatica a parlare, ma farlo lo distraeva dal dolore.

— A dare spettacolo. — North ridacchiò e aggiunse: — Come l’altra volta.

I gradini portavano a un ampio corridoio in cemento che puzzava di sudore. Un uomo di mezza età, con indosso una maglietta consunta e un paio di pantaloni cachi, li superò correndo con una pila di asciugamani puliti e un secchio d’acqua.

North disse: — Abbiamo un mucchio di tempo. Non sono ancora cominciati gli incontri preliminari. Credo che lui stia in una delle stanze accanto agli ascensori.

Il corridoio piegava ad angolo retto una, due volte, sempre più ampio e illuminato. In fondo, un gruppo di giovani donne compunte armate di taccuino e di uomini che imbracciavano macchine da ripresa, erano in attesa di qualcosa. North si fece largo in mezzo a loro ignorando proteste e minacce. — Seguimi! — lo sollecitò North.

Lui cercò di stargli dietro il più possibile fino a che si fermarono davanti a una grande porta di metallo verde scuro. Sulla porta, ad altezza d’uomo, c’era una targa di cartone con su scritto in bei caratteri: JOE JOSEPH.

North bussò con una violenza tale da far pensare che avrebbe scardinato la porta. E invece venne ad aprirla imprecando un uomo calvo. North entrò a grandi passi lasciando l’ometto da solo a tenere indietro gli uomini con le macchine da ripresa e le solerti ragazze con i taccuini. Prima che l’uomo calvo riuscisse a chiudere di nuovo la porta, un flash illuminò la stanza nuda come il lampo di un fulmine silenzioso. Solo quando si ritrovò al centro della stanza, lui si rese conto che l’ometto calvo era Eddie Walsh. Il campione di Eddie, Joe, grosso come un armadio, stava seduto sul lettino del massaggiatore con indosso un paio di calzoncini da pugile bianchi e azzurri, una vestaglia azzurra di satin e scarpe da ginnastica.

W.F. alzò gli occhi dalla mano di Joe che stava bendando e gli sorrise. Lui cercò di ricambiare il sorriso, poi si morse le labbra tentando di ricordare il nome della bionda dall’espressione seria vestita di rosso. Era Jennifer, senza dubbio. Non l’aveva mai incontrata, ma doveva essere Jennifer.

North stava parlando a Joe a voce bassa e con tono deciso. Sembrava volesse dire che in quella stanza loro erano le uniche persone importanti e gli altri non valevano un’acca. — Sono il tuo nuovo secondo. Stasera starò nel tuo angolo insieme a Walsh. Ti porterò fortuna, credi a me. Sarà l’incontro più importante della tua carriera. Sai chi sono?

Joe non rispose e restò impassibile. Anche la manona tesa verso W.F. non si mosse e non tremò; i suoi occhi azzurri assenti fissavano il vuoto senza vedere. Se il pugile stava pensando a qualcosa, sicuramente non riguardava quello che succedeva in quella stanza. Un santo in contemplazione di Dio o un buongustaio in contemplazione del Cibo, avrebbero avuto la stessa espressione assorta.

— Lassù ci sono una ventina dei miei uomini — gli disse North. — Non ce ne sarebbe bisogno, ma voglio che ti vedano di persona. Ti osserveranno prima che sali sul ring. Ti osserveranno mentre combatti e ti staranno ancora a osservare quando uscirai, imprimendosi nella mente il tuo aspetto e il tuo modo di muoverti. Quattro uomini su due macchine stanno “sorvegliando la tua auto nel caso che tu sia così così stupido da tentare di usarla per scappare. Certo, se hai una fortuna fottuta, puoi arrivare a casa… forse. Ma i casi sono due: o fai quello che dico io o entro domani sera a quest’ora sarai morto. E anche lei. — North fece un cenno con la testa in direzione di Jennifer. — E, se tenteranno di darci fastidio, anche questi due signor nessuno che ti porti dietro. Quanto a te, è sicuro. Tu e tua moglie, puoi metterci la firma.

La voce di Joe era come se la ricordava, lenta e forte. — Tu vuoi che perda l’incontro.

— Per la miseria, no — disse North. — Se vuoi. A me non interessa se vinci o perdi. Voglio solo essere uno dei tuoi secondi.

— Stronzate — gli disse Walsh.

Qualcuno bussò alla porta, un solo colpo delicato. Walsh si affrettò ad aprire e Lara entrò nella stanza.

34. Gli incontri preliminari

Walsh si schiarì la gola, leggermente imbarazzato. — Laura, questo è North, te ne ho già parlato. Il mio avvocato, Laura Nomos. L’altro è…

Laura annuì freddamente. — Io e il signor Green ci siamo già conosciuti.

Anche North annuì. — Questa non è una faccenda per avvocati. Non sapevo che le piacessero gli incontri di boxe, signorina Nomos.

— Ci sono molte cose che lei non sa, signor North.

North si girò di scatto verso di lui. — E così la conosci. Lavori per lei?

Lui annuì. — Farei qualunque cosa per lei.

North ritrasse la mano, poi la portò di nuovo avanti lentamente. Gli sembrava che tutto il mondo si muovesse al rallentatore. Strinse il pugno, convinto di poter colpire North una dozzina di volte, se fosse stato necessario, prima che gli arrivasse lo schiaffo.

Lara lo fermò con uno sguardo. I suoi occhi brillavano verdi-azzurri, simili ad acquemarine incastonate nel suo bel viso, molto più luminosi delle vetrate colorate della chiesa. Gli dicevano che non era il momento di opporre resistenza.

Il palmo aperto di North lo colpì sul mento, facendogli girare il viso verso destra. Sentì una fitta di dolore, ma non era che una semplice fitta… milioni di persone soffrivano ogni giorno molto di più. Al secondo malrovescio, le nocche di North lo colpirono alla bocca spaccandogli il labbro superiore.

Walsh si mise fra di loro. — Ora basta!

Lui tirò fuori il fazzoletto e se lo portò alla bocca macchiandolo di rosso. Sopra le loro teste si sentiva il clamore della folla attutito da mezzo metro di cemento e acciaio.

Lara disse: — Cosa vuole esattamente, signor North?

North stava fissando l’ometto calvo. — Walsh glielo ha già detto.

— Preferisco che me lo dica lei.

North si voltò verso Lara. — Semplice. Questa sera voglio essere in prima fila dove tutti possano vedermi. Voglio essere associato a un personaggio maschile molto popolare, un simbolo veramente mascolino. Voglio il posto migliore per assistere all’incontro per il titolo.

— E quale sarebbe?

— Joe ha diritto a due secondi. Io voglio essere uno dei due.

Lara scosse la testa. — Sarebbe contrario alle regole. La Commissione per la Boxe…

— Al diavolo la Commissione per la Boxe! Le ho detto quello che voglio e lei sa benissimo che cosa succederà se non verrò accontentato.

Inaspettatamente Jennifer disse: — Se sarà accontentato farà ugualmente del male a Joe?

North scosse la testa. — No, se otterrò quello che voglio.

Lara disse: — Mi dica quello che ha intenzione di fare se non lo otterrà, signor North. Anche questo preferisco che sia lei a dirmelo.

— Tanto per cominciare, dirò alla polizia chi è Walsh. È un paziente fuggito dall’ospedale psichiatrico, lei lo sa meglio di me. Non l’hanno ancora preso, perché lei è il suo avvocato e in giro si dice che il Consigliere per la Sicurezza Klamm sia il suo patrigno. — North fece un sorrisetto ironico. — Lei pensa davvero che qualcuno ci creda?

Lara disse: — Io e lui ci crediamo, perché si dà il caso che sia la verità.

— Allora non vorrà che gli sia fatto del male o che sia fatto del male alla Presidente perché, se viene fatto del male a Klamm, le conseguenze politiche negative ricadranno su di lei. I giornali non hanno ancora collegato il tipo calvo fuggito dai Riuniti con l’agente di Joe, ma non c’è dubbio che collegheranno Walsh con lei e con Klamm. Forse con un po’ di fortuna riusciranno anche a collegare Walsh con il qui presente Green… e Green è matto come un cavallo.

Lui pensò a quanto doveva essere stanca Lara di sentirsi minacciata con l’arma dei mass media. Prima lo aveva fatto lui, adesso lo stava facendo North.

Lara disse: — Eddie, lei si è comportato correttamente chiedendomi di venire. Il mio compito è quello di proteggerla, ma quest’uomo, invece, mi sta usando per danneggiarla.

— Non si tratta di questo — disse Walsh. — Io speravo che lei trovasse una via d’uscita.

Lara si voltò verso North. — Tutto quello che lei vuole è essere uno dei secondi di Joe?

North annuì.

— Ma come facciamo a essere sicuri che lei in futuro non ripeterà le sue minacce?

— Vi darò ogni garanzia — rispose North, e tirò fuori dalla tasca un foglio ripiegato. — Questa è una dichiarazione in cui confesso di aver assassinato un uomo e che sono disposto a firmare.

Sembrava che niente dovesse sorprendere Lara, invece le parole di North ebbero proprio questo effetto: per un attimo rimase con gli occhi spalancati. — Posso chiederle chi ha ucciso?

North annuì. — Un medico di nome Applewood. La polizia stava per arrestarlo e lui avrebbe parlato. Era solo un gregario ma, essendo un medico, era a conoscenza di cose che normalmente un gregario non sa. — North aveva tirato fuori una penna da un taschino. — È successo circa quattro mesi fa, forse l’avrà letto sui giornali.

Rivolta verso di lui, Lara disse: — Tu hai conosciuto il dottor Applewood.

Lui annuì. — Anni fa.

Walsh teneva gli occhi fissi su North. — E tu vuoi veramente firmare quel documento?

— Certo, e te lo consegnerò — disse North. — O piuttosto lo consegnerò alla signorina Nomos perché lo conservi per te, se mi permetterai di apparire come uno dei secondi di Joe. L’altro sarai tu e sarai tu a dare le direttive.

Walsh scuoteva lentamente la testa.

Lara disse: — Questo vuol dire che lei ha fiducia in noi.

W.F. aveva finito di bendare le mani di Joe e disse: — Ma siamo noi a non aver fiducia in lui. Per niente!

North si strinse nelle spalle. — Ovviamente no. È questa la ragione per cui ho scritto la confessione. Dovete promettermi che non ne farete alcun uso e non ne parlerete a meno che io non minacci di nuovo Walsh. Io so che manterrete la promessa, ma se non lo faceste io mi considererei libero di informare i giornali di ciò che vi ho detto. Posso aggiungere che alcuni amici miei si occuperebbero di Joe e Jennifer.

Sopra le loro teste il vocio della folla era diventato così incessante che quasi lui non lo sentiva più. All’improvviso le migliaia di voci tacquero e la voce di Lara sembrò innaturalmente alta. — Credo che dovremo permetterglielo — disse.

Walsh la guardò incredulo. — Fargli fare da secondo a Joe?

North disse: — Farò tutto quello che mi dirai. Hai la mia parola d’onore.

Walsh scosse la testa. — Non ci sarò io lì con te. Ci sarà W.F.

W.F. protestò. — Ehi, aspetta un momento!

Walsh disse: — W.F., non permetterò che tu perda l’occasione di fare da secondo a Joe per colpa mia.

— Un momento… Joe ha bisogno di te. Sei tu che hai studiato la strategia e tutto il resto.

Il grosso pugile che fino ad allora sembrava che fosse stato ad ascoltare senza dimostrare alcun interesse, annuì vigorosamente.

Lara domandò: — Ti piacerebbe vedere l’incontro da un posto di ring, Eddie? Un posto proprio vicino all’angolo di Joe? Se vuoi, posso procurartene uno.

— Certo! — le disse Walsh pieno di gratitudine. — Certo che mi piacerebbe. — Il sudore che imperlava la fronte dell’ometto scomparve assorbito da un fazzoletto giallo.

— Forse, quando il pubblico avrà visto a sufficienza il signor North, tu e lui potrete scambiarvi il posto.

North annuì. — È possibile, ma sarò io a deciderlo, non Walsh. — Nella sua voce c’era una nota di trionfo.

— Siamo d’accordo. Firmi quel documento, allora, e tutto sarà sistemato. — Lara si voltò verso di lui. — Non mi sembri del tutto convinto.

Lui domandò: — Ma non leggi prima il documento?

— Che differenza…

Qualcuno bussò alla porta e una voce disse: — È ora, Joe! Sei pronto?

Joe si alzò con un balzo dal lettino del massaggiatore e si diresse verso la porta. W.F. lo seguì con la valigetta bianca e rossa. — Allora adesso l’altro secondo sei tu? — domandò a North. — Va bene, allora prendi il secchio e tutti quegli asciugamani.

— Subito. — North firmò il documento e lo dette a Lara.

Lei lo aprì e gli dette un’occhiata. — Jennifer? Se vuoi un posto anche tu, non c’è nessun problema.

La bionda scosse la testa. — Io non vengo mai a vedere. Preferisco rimanere qui ad aspettare.

Lara fece un cenno verso di lui. — Vieni con me. — Lui avrebbe voluto ricordarle che non gli aveva detto “Vieni con me” quando se n’era andata via da Mamma Capini.

Appena W.F. aprì la porta per far passare Joe, ci fu una raffica di domande da parte dei giornalisti e un lampeggiare incessante di flash dei fotografi. Walsh camminava in punta di piedi e parlava fitto fitto con Joe cercando di tenere le labbra attaccate al suo orecchio mentre Joe batteva i guantoni uno contro l’altro.

Lui stava per seguirli, ma Lara lo trattenne. — Eddie, Joe e W.F. saliranno insieme sullo stesso ascensore — gli disse. — È un loro privilegio. Questa volta ci sarà anche North, mi dispiace, ma non si può evitare. Quando raggiungeranno il ring, purtroppo Eddie li dovrà lasciare è per lui sarà dura. — Aspettarono qualche secondo prima di uscire sul corridoio che ora era deserto. Lara chiuse la porta verde dietro le loro spalle.

— Dove stiamo andando? — le domandò lui.

— Raggiungiamo il mio patrigno. Due guardie del corpo dovranno cedere i loro posti a te e a Eddie. Non saranno molto contenti, ma possono restare in piedi.

— Posso farti qualche domanda?

— Certo. — Lara sembrava preoccupata e lui sembrò sorpreso e felice quando sentì la mano di lei che s’insinuava nella sua.

— Quando siamo usciti da Mamma Capini era l’ora di pranzo… quasi l’una.

— Per noi era ora di pranzo — disse lei. — Ma altre persone stavano cenando, non te ne sei accorto? — Sul mio orologio — disse guardandolo — sono le due e qualche minuto. Che ore sono qui?

— Sono le dieci passate. Perché ti aspetti che sia la stessa ora in posti diversi? Se tu chiamassi al telefono Londra dopo pranzo, saresti sorpreso di sentire che lì è l’ora del tè?

— Per me sono passati degli anni. — Provò a contarli, ma non ci riuscì. — Quanto tempo è passato per Eddie, Joe e W.F.?

— Che importanza ha? — Nel frattempo erano arrivati agli ascensori; Lara schiacciò il bottone con la mano con cui teneva la borsa.

— Quanto tempo? — insisté lui.

— Circa quattro mesi, almeno così ha detto North.

— Tu sei una dea. — Dovette fare uno sforzo per fare arrivare le parole alle labbra, ma alla fine ci riuscì. — Tu vivi per sempre?

Quando furono entrati nell’ascensore, Lara si voltò a guardarlo, ma nei suoi occhi non c’era uno sguardo di derisione. — Ci sono molti “per sempre” — disse. L’ascensore cominciò a salire.

Lui la prese fra le braccia, non all’improvviso o con violenza, ma avvolgendola come farebbe un fiore con un’ape, come se l’ape fosse la sua amante e non semplicemente un’intermediaria. Il bacio di lei, morbido e caldo, gli punse le labbra.

Schiacciata fra i loro corpi, Tina gridò: — Ehi! — Ma loro la ignorarono.

Le porte dell’ascensore si aprirono. — Sono Laura Nomos — gli disse Lara. — Sono un avvocato e sono la figliastra di un funzionario di stato. Noi due siamo semplici conoscenti. — A voce bassa aggiunse: — Non c’è bisogno che tu ti pulisca la bocca… le donne se la dipingono per somigliare a me.

Non c’era nemmeno bisogno di sussurrare, pensò lui: Sailor Sawyer aveva fatto un volteggio sopra le corde ed era saltato sul ring e metà del pubblico si era alzato in piedi e lo stava acclamando.

— Adesso lo applaudono — mormorò Lara — ma fra qualche anno sarà morto, come loro. Lasciamo che lottino con la Morte, un avversario degno di essere combattuto con tutte le forze.

— Credevo che Joe ti piacesse — disse mentre si avviavano verso i loro posti.

— E infatti mi piace. È come un bambino, un grosso bambino serio, ansioso di compiacere e di comportarsi bene. E mi piace Eddie, perché è disposto a morire per riuscire a trasformare il mondo in modo che si adatti ai suoi sogni. E W.F., perché vuol bene a tutti e due.

Quando arrivarono, Klamm aveva già preso posto nella prima fila e accanto a lui c’era un posto vuoto. Lara fece un gesto all’uomo seduto una sedia più in là e l’uomo si alzò allontanandosi. Lara si mise a sedere accanto a Klamm e batté una mano sul posto vuoto accanto a lei.

Lui si sedette e lei disse: — Patrigno, questo è il mio amico Adam K. Green… Adam, questo è Adalwolf Wilhelm Klamm.

Il vecchio si chinò verso di lui per stringergli la mano e lui notò che aveva gli occhi assenti come se dormisse. — Qvesto è crande piacere, Herr K. — Parlava con un forte accento tedesco.

Lui disse: — È un vero onore per me, signore.

— Allora — osservò Klamm rivolto a Lara e indicando Sawyer. — Tu credi ke il tuo Joe lo patterà?

Con finto tono deciso Lara dichiarò: — Io non lo credo, lo so.

— Allora scommettiamo. Piglietti per teatro, qvalunqve spettacolo tu fuoi, o qvalunqve foglio io. E fincerò sicuramente io.

Lara disse: — Non da mai una possibilità a un figlio di puttana. — Si strinsero solennemente la mano.

Ogni parte visibile del corpo di Sawyer, dal collo in giù, era ricoperta di tatuaggi. Le immagini e le scritte si raggrinzivano e si tendevano a ogni movimento dei muscoli.

Tina disse: — Quel drago è vivo!

Lui abbassò gli occhi e vide che la bambola si era arrampicata fuori dalla tasca interna e spuntava fuori dal risvolto del cappotto. — È solo un disegno che si è fatto fare sulla pelle — le disse lui.

— Anch’io sono una bambola, ma non sono solo una bambola.

Joe si era tolto l’accappatoio e Eddie Walsh, che era seduto al posto dell’altra guardia del corpo, lo teneva sulle ginocchia. Quando l’arbitro si avvicinò al microfono che era stato abbassato dal soffitto, W.F. aprì la valigetta bianca e rossa che aveva appoggiato sul ring appena oltre le corde. North stava in piedi da una parte e sembrava del tutto fuori luogo col suo vestito a doppiopetto.

Lara gli sussurrò: — Vuoi leggerla? — E gli porse la confessione di North.

Io sottoscritto, William T. North, dichiaro di avere ucciso il dottor Cecil L. Applewood la mattina del 21 gennaio nel suo ufficio nella galleria del Grand Hotel. Ho agito per autodifesa in quanto temevo che Applewood potesse fare delle rivelazioni alla polizia. Avevo tenuto d’occhio uno del nostro movimento e mi ero accorto che era pedinato da un agente. Questa persona era andata a trovare Applewood che sapeva essere dei nostri, e l’agente aveva ascoltato la loro conversazione. Quando i due si sono allontanati, sono entrato nello studio di Applewood e gli ho sparato due volte al petto poiché sapevo che non sarebbe stato in grado di sostenere un interrogatorio. Poi mi sono recato nella stanza d’albergo con l’intenzione di uccidere anche l’altra persona quando fosse rientrata, ma lui non è rientrato.

William T. North

— Quella persona ero io — sussurrò a Lara.

Lei annuì. — L’avevo immaginato.

Suonò la campana. Joe e Sawyer lasciarono i loro angoli, saltellarono in cerchio e cominciarono a colpirsi. Un suono indescrivibile riempiva l’arena, sembrava il lamento di una belva affamata.

35. L’attrazione principale

Alla fine del primo round lui capì che Joe aveva avuto la peggio, anche se aveva messo a segno dei buoni colpi. Joe era stato sempre sulla difensiva, proteggendosi il viso, schivando i colpi e tenendo Sawyer a distanza. Gli venne in mente quella notte nella stanza di Walsh quando Joe aveva detto che il suo avversario era un pugile esperto, ma che lui aveva un allungo maggiore, o qualcosa del genere. Anche questa volta Joe aveva un allungo maggiore, due o tre centimetri di superiorità sull’avversario, ma a cosa gli servivano quei due o tre centimetri? Come la morte di un genitore o un lavoro estivo fanno di un ragazzo un adulto, o come l’accidentale sollevarsi del sipario rivela i movimenti frenetici degli aiutanti di scena e il sudore dell’attore che sta per interpretare Re Lear o Willy Loman, allo stesso modo le sue riflessioni confuse gli avevano permesso di capire meglio quello che stava succedendo. Fino ad allora aveva sempre pensato che la boxe non fosse altro che uno scontro in cui un tipo forte e coraggioso pesta un altro che lo è meno di lui. Così ricordava, o così almeno le aveva considerate allora, le sue sconfitte nel cortile della scuola.

Ma si sbagliava. Il gioco di Joe e Sawyer era altrettanto complesso di quello degli scacchi e lo affrontavano disponendo di pezzi diversi, forniti a ciascuno di loro dalla natura e dall’esperienza.

Al suono della campana i due sfidanti si alzarono. Per qualche secondo continuarono di nuovo a fare finte e a girare in cerchio. Poi il drago attaccò, avvolgendo Joe nelle sue spire dorate. I due erano così vicini che lui riusciva a percepire il tunf-tunf dei pugni nonostante il ruggito della folla, ma non riusciva a vedere… non vide quello che era successo. Quando i due si separarono e ricominciarono a girare in cerchio, lui vide che sul torace di Joe c’erano delle macchie fiammeggianti e che Sawyer scuoteva la testa come se volesse schiarirsi le idee.

Lara fece un profondo sospiro. — Pensavo che sarebbe andata così — disse. Lui le domandò cosa volesse dire, ma Lara si limitò a scuotere la testa come stava facendo Sawyer.

I due combattenti erano di nuovo avvinghiati l’uno all’altro, questa volta riusciva a vederli meglio. Sawyer, con la testa bassa, muoveva i pugni avanti e indietro come pistoni e Joe lo teneva lontano con la testa e con le spalle mentre assorbiva i colpi con gli avambracci muscolosi. Quando si separarono Joe fece scattare in avanti un braccio e un guantone marrone colpì al mento Sawyer.

Adesso era il campione a indietreggiare e a vibrare colpi a vuoto mentre Joe avanzava saltellando e cambiando direzione tutte le volte che Sawyer tentava di girare in cerchio.

— Guardalo come lavora bene di gambe! — gridò Walsh a Lara. — Mamma mia, com’è bello!

Suonò la campana e Joe tornò all’angolo dove lo aspettava W.F. In quel momento successero tre cose: Walsh balzò in piedi e corse verso l’angolo di Joe; W.F urlò “acqua!”, rivolto a North; e North sollevò tutte e due le mani come un prestigiatore o come una bambina meticolosa che si pulisca le dita sporche sul grembiulino. A quel gesto in ciascuna mano di North apparve un’automatica nera.

Per un momento North rimase in posa, con le due pistole in pugno, come un attore sul palcoscenico, mentre Klamm si gettava a terra e Lara lanciava un urlo. Lui pensò che nessuno dei due avrebbe dovuto aver paura perché North stava puntando le pistole nella sua direzione. I colpi partirono nello stesso momento, assordandolo. Lui si afferrò alle corde, come aveva visto fare a Sawyer qualche minuto prima, fece un balzo maldestro riuscendo comunque a centrare con un piede l’inguine di North.

North barcollò all’indietro mentre da una delle sue pistole partiva un colpo verso l’alto. Joe e Sawyer si erano alzati in piedi nei loro angoli. L’arbitro suonava la campana. Per far riprendere l’incontro, pensò lui, nonostante sul ring ci fosse North.

No, North se la stava squagliando attraverso le corde, impugnando ancora una pistola. Dalla platea gli uomini di Klamm cominciarono a sparare. La pistola di North latrò contro di lui, sputando fiamme e sussultando come un grosso cane rabbioso. Lui vide W.F. scagliare la valigetta bianca e rossa che colpì North a un braccio.

Adesso anche lui aveva in pugno una pistola. La sollevò e fece fuoco. Il lampo quasi lo accecò e il rumore gli fece dolere le orecchie. Con la mascella sanguinante North continuò a colpirlo fino a che lui sentì il naso rompersi con un rumore orribile. Qualcosa gli invase la testa distruggendo quello che c’era dentro. Cercò di respirare, ma sentì in gola il sapore del sangue e sputò. Altro sangue gli scorreva sul viso.

Il pugno guantato di Joe colpì l’orecchio di North e da quel momento North non tentò più di strappargli l’arma di mano. Lui aveva la pistola in pugno ma non sapeva cosa fare… e all’improvviso tutto era finito. Il cadavere di North era disteso sul tappeto, quasi al centro del ring, in mezzo a una pozza rossa che si andava allargando.

— Adesso calmati — gli disse W.F. — ti facciamo un impacco di ghiaccio per fermare l’emorragia.

Scoprì che dietro a lui c’era uno sgabello e si sedette. Voleva dire qualcosa di buffo a proposito di banane e pomodori per scherzare con W.F., ma non riusciva a parlare. Non riusciva a imprigionare dentro sillabe e parole i pensieri che gli saltavano nella mente. Aveva perso i denti e con la lingua esplorava gli spazi vuoti.

Klamm era salito sul ring, faceva segni in direzione della folla e contemporaneamente sussurrava qualcosa ai due pugili che avvicinava a sé con le mani sulle loro spalle. Tutti e due erano più alti di Klamm di una testa.

Poi Joe gli si accovacciò davanti. — Stai bene?

Nonostante l’impacco di ghiaccio lui tentò di annuire.

— Hai avuto fegato. — Le parole gli arrivarono indistinte perché Joe portava ancora il salvadenti.

La campana rintoccò una sola volta; Klamm l’aveva colpita con la cassa del suo vecchio orologio da taschino.

— Adesso devo proprio andare — borbottò Joe. — Ma sei tu il vero campione.

— Stai tranquillo — gli disse W.F.

Klamm disse: — L’incontro… defe continuare così loro dimenticano qvello ke è successo. Qvesto round sarà piuttosto lungo, ja? È possibile ke alla fine pubblico diventa ancora nervoso. — Klamm non si stava rivolgendo a lui, ma all’arbitro.

Un tipo con la faccia da duro che riconobbe come una delle guardie del corpo di Klamm domandò: — Dove è andata a finire l’altra pistola?

Walsh gliela porse timidamente dalla parte del calcio. — Sono riuscito a sparargli una volta sola — confessò Walsh.

— Fra me e lui c’era sempre qualcuno.

— Meno male che non hai provato una seconda volta.

Walsh annuì. — Non si può mai sapere.

— Lo portiamo all’ospedale — stava dicendo Klamm a W.F. — Lo facciamo federe da un medico. Tu defi occuparti di Joe, ja?

W.F. gli tolse il ghiaccio e gli cambiò il cotone emostatico nelle narici. La guardia del corpo di Klamm lo aiutò a passare tra le porte. Lui cercò con lo sguardo Lara, ma lei se n’era andata.

— Non è più qvi, Herr K — gli disse Klamm come se lui avesse parlato. Ma non l’aveva fatto perché faceva troppa fatica a parlare. Klamm però aveva capito, Klamm gli aveva letto nel pensiero, o almeno aveva letto nell’espressione del suo viso e notato la direzione del suo sguardo. Per la prima volta lo colpì l’idea che uno non diventa ministro per caso, che quel vecchio dall’aria sonnolenta con i baffi tinti, probabilmente era una persona di grande capacità.

La guardia del corpo gli domandò se riusciva a camminare. — Lui cammina — dichiarò Klamm — è un turo, un Raufbold, ja?

Il dolore che gli dava il naso fratturato era insopportabile. Si domandò se aveva qualcos’altro di rotto.

Ah, sì! i denti. Ma al confronto non gli facevano poi così male.

Intorno all’arena c’era una marea ondeggiante di parecchie centinaia di uomini. “North è morto!”, “North è morto!”, “Là dentro hanno appena ammazzato Bill North!”, gridavano da ogni parte. Lui non riusciva a distinguere chi pronunciava quelle parole, perché erano tutti a gridare. Un uomo, all’incirca della sua età, piangeva senza ritegno, le guance olivastre bagnate di lacrime. Le guardie di Klamm tenevano le armi in pugno, uno aveva una strana pistola con un caricatore lungo e ricurvo, forse era una mitraglietta.

Tre automobili nere, una era un’enorme limousine, erano ferme accanto al marciapiede. — Lui fiene con me — disse Klamm a qualcuno. — Non è bisogno ke tu fenga.

Un autista in uniforme, armato di pistola, aprì la portiera posteriore. Klamm entrò per primo e scivolò sull’ampio sedile di pelle per fargli posto. La portiera si richiuse alle sue spalle con un leggero clic.

— Fatti privati, Rudy — disse Klamm, e una spessa lastra di cristallo si alzò dallo schienale del sedile anteriore fino a raggiungere il tetto dell’auto. Un attimo dopo la limousine si staccò dolcemente dal marciapiede. Un’auto nera li precedeva e lui sospettò che l’altra li seguisse, ma non si disturbò a girare la testa per controllare.

— Ha salfato mia fita — disse Klamm. — Se posso, foglio dare premio. Ho soldi e sono importante in qvesto paese.

— No — disse lui cercando di scuotere piano la testa.

Dall’interno della tasca sentì Tina che diceva: — Ha bisogno del tuo aiuto, papà.

— Allora lo afrà. Qvalsiasi cosa.

Lui disse: — Voglio ritrovare Laura.

Il vecchio sospirò: — È qvello ke vogliamo tutti, Herr K.

— Lara è sua figlia… la sua figliastra.

— È una donna adulta la mia figliastra. Fa qvello ke fuole. Qvalche folta mi dice, perché mi fuole bene, ma qvasi sempre no. Se posso io l’aiuto, ma non posso dire il suo appartamento è qvi o il suo albergo.

— No — disse lui. — Non è giusto.

— Ke fuol dire, Herr K? — Klamm si appoggiò in un angolo del sedile fissandolo con occhi sempre più assonnati.

— Laura dice di essere la sua figlistra e anche lei dice che lo è. Ma non può essere vero, e lei lo sa. Lei è la dea.

Klamm spalancò un occhio. — Lei ha detto qvesto?

Lui cercò di ricordare. — Lo avevo immaginato e lei lo ha ammesso. Lei sa che io so.

— Sì, Herr K, è la dea.

Lui capì e non si rendeva conto del perché non avesse capito prima. — Allora lei è il suo amante… uno dei suoi amanti. O lo è stato.

— Sì, Herr K. — Klamm aveva richiuso il suo occhio.

Adesso li spalancò tutti e due. — Tanto tempo fa, qvando ero più giofane di lei. Ma fuole ancora bene, nicht wahr? Io tengo sua mano, lei tiene mia. Qvalche folta ci baciamo, qvando nessuno fede. Qvesto è tutto. Celoso di un fecchio come me, Herr K?

— No — disse lui.

— Io aiuto lei qvando possibile. Faccio qvalche piccolo favore. Lei non ha bisogno ma sa ke per qvesto io sono felice. Anche lei aiuta me, come qvesta sera. È stata lei a portarla qvi, Herr K, e per qvesto non sono morto.

Lui fece un gesto come per dire “non è nulla”, poi disse: — Voglio farle delle domande su di lei, ma non so quali.

— Lei è sempre molto pella e pensa ke può nascondere sua pellezza se fuole, ma sbaglia. A folte qvesta bellezza è lì, la pellezza di ki sa ke è pella, ja? Altre folte è pellezza nascosta di ki non sa e allora siamo noi ke dobbiamo scoprire. Se uno dice “perché qvesta donna non è pella?” non scopre mai. Ma se cerca… lei capisce, credo.

— Sì… Lora Masterman. Signor Klamm, una volta, quando ero all’ospedale, ho telefonato al mio appartamento e mi ha risposto lei.

Klamm annuì con gli occhi semi chiusi. — Ho risposto e lei ha riattaccato. Fuole sapere come accade qvesta cosa?

— Sì.

— Semplice. Lei aspettava sua telefonata. Capita ke uno possa telefonare da qvi a là o al contrario. Così fatto in modo ke qveste chiamate suonano in mio ufficio. Apparecchio speziale, ja? Mi ha detto di lei e pregato di dare aiuto se lei chiedeva. Ma lei non ha chiesto.

— In un’altra occasione mi ha risposto una persona diversa.

— Uno dei miei acenti — spiegò Klamm. — Io sto qvasi sempre in mio ufficio, ma non sempre. Qvando io non sono lì, c’è un altro. Capita ke necessario decidere subito, allora lui fa al mio posto.

— Quell’uomo voleva sapere dove mi trovavo, ma Lara ne era a conoscenza perché mi ha mandato dei fiori.

— Ma noi no, nemmeno ke Laura sapeva. Laura non sa tutto, anche se sa molto. E non racconta tutto qvello ke sa. Forse ha mandato fiori per tentativo. Se fioraio dice “Non c’è nessuno con qvel nome” capiva ke lei non era lì. Anche noi facciamo uguale. Qvella dei Riuniti è stata buona idea, ja? Spesso portano là Fisitor.

Era la stessa parola che aveva usato Fanny. Lui domandò: — Io sono un Visitor pericoloso o innocuo, signor Klamm?

Klamm fece una risatina. — Innocuo, proprio innocuo. Proprio come me. Ma Herr North è Fisitor pericoloso, per qvesto costretti a controllare tutti. Lei sarà affidato a un mio acente ke afrà compito di tenere lei lontano da guai. Forse un giorno Laura tornerà qvi per lei.

— Un’altra cosa, signore. Le ho parlato dell’altro uomo che ha risposto dal mio appartamento.

— Ja.

— Una volta l’ho visto alla Tv. Avevo appena acceso il televisore e lui è apparso sullo schermo mentre rispondeva dal mio appartamento.

Klamm annuì. — Nessun altro guardava? Altro forse fedefa uguale di lei, Herr K. Forse no. Più facile ke no. Allora Laura era ficina a lei e Laura fa fare qvesti sogni. Non so spiegare perché.

La conversazione si interruppe e lui ebbe l’impressione che nel momento in cui Klamm diceva non so dirle il perché, la limousine si fermasse davanti a un ospedale. In realtà non fu così. L’auto proseguì la strada dietro la macchina nera per almeno un altro miglio. Nel frattempo lui rifletté su quanto aveva detto Klamm che ora stava rannicchiato in un angolo come se dormisse. Quando arrivarono veramente davanti all’ospedale (S. Anchise, diceva l’insegna illuminata dal lampione), la limousine non si fermò davanti all’ingresso principale ma si diresse sul retro, verso l’entrata del pronto soccorso.

— Addio, Herr K — disse Klamm tendendogli la mano. — No, ormai lei ha diritto a suo fero nome. Addio, Herr Green, amico mio, ke la fortuna l’assista! Io chiamo lei Herr K perché qvesto nome ricorda me un fecchio amico. Un amico ke era io.

Lui strinse la mano di Klamm. — Addio, signor Klamm. Lei può chiamarmi come preferisce.

Una delle guardie del corpo aprì la portiera.

— Lei sa come parlare con me in mio ufficio, ja? O con altra persona ke decide in mio posto.

Con l’apertura della portiera si erano accese le luci all’interno della macchina e lui vide con stupore che gli occhi di Klamm erano pieni di lacrime. Disse: — Sì, signore, lo so.

— Prenditi cura di lui, Ernest. Guarda ke abbia buon dottore.

La guardia del corpo rispose: — Stia tranquillo signor ministro. — Lui scese dall’auto, la portiera si richiuse e la limousine scivolò via silenziosa.

Tina disse: — Che vecchietto delizioso.

La guardia del corpo le dette un’occhiata e sorrise. — Ha una bambola? Anch’io una volta ne avevo una.

Tina gli disse: — Dovresti prendertene un’altra.

Lui seguì la guardia del corpo in una stanza illuminata dove un orientale stava bevendo da una tazza di porcellana sbocconcellata. Quando li vide, si alzò per prendersi cura di lui. — Felice di rivederla — disse l’orientale. — Si metta pure a sedere.

Lui obbedì. — È bello vederla di nuovo, dottor Pillo-Lin. — Dopo un attimo aggiunse: — Pensavo che lavorasse in quell’altro posto.

— Sì, quando hanno bisogno di me. È qui vicino. Quella volta lei aveva un trauma cranico, ricorda?

— Certo — disse. — Ahi!

— Ha il naso rotto — gli disse il dottor Pillo-Lin. — Dobbiamo rimetterglielo a posto. Adesso le do un anestetico, ma le farà lo stesso un po’ male. Se lo è rotto facendo a botte?

Al suo posto rispose un’infermiera. — Sì, con un assassino. L’hanno fatto vedere alla Tv. — Senza smettere di esaminargli il naso il dottor Pillo-Lin disse: — Davvero?

La guardia del corpo domandò: — Può tenerlo qui per la notte, dottore? Domani mattina verrà qualcuno a prenderlo.

— Certo. — Il dottor Pillo-Lin si alzò e cominciò a riempire una siringa ipodermica.

36. La decisione

Un’infermiera lo svegliò per chiedergli cosa voleva a colazione. — Ha perso un paio di denti — gli disse. — Perciò niente toast o roba del genere. Pensa che ce la farà a mangiare un uovo strapazzato?

Lui fece cenno di sì e si mise a sedere sul letto. — Ho fame. Ieri sera non ho cenato.

Lei sorrise: — Questo spiega tutto.

Quando se ne fu andata, lui si guardò intorno. La stanza era più grande di quella che aveva occupato ai Riuniti e molto più piccola della corsia che aveva diviso con altri nove pazienti nell’ospedale psichiatrico di cui non riusciva a ricordare il nome. C’era un armadietto, come nella stanza ai Riuniti, ma non era chiuso a chiave. La sua giacca, i pantaloni e il cappotto erano appesi lì dentro. In basso c’erano le scarpe. Si ricordò che quando stava in macchina con Klamm non indossava il cappotto, quindi qualcuno lo aveva portato lì.

Frugò nella tasca interna della giacca e Tina disse: — Ciao, buongiorno. — E si stirò.

— Buongiorno. — Allungò la mano e lei si arrampicò sul palmo. — Di nuovo in ospedale — disse lui.

— Sei già stato in ospedale altre volte?

— Sì, ma tu dormivi. Ci sono stato spesso.

L’infermiera rientrò portando un vassoio. — Tenere quegli oggetti è contrario al regolamento.

— Mi dispiace, non lo sapevo.

— Dovrei portargliela via e chiuderla da qualche parte. Lei, comunque, sarà dimesso oggi, perciò non ne vale la pena. Ma non la faccia vedere a nessun altro.

— Me ne starò nascosta — disse Tina.

— Cosa vuole da bere? Abbiamo caffè, tè e latte.

Le domandò se poteva avere sia tè che latte e l’infermiera disse di sì. Ritornò con una tazza, un bricco di acqua bollente e un bicchiere di latte e poggiò tutto sul vassoio.

— Il tè è per te — disse a Tina quando l’infermiera se ne fu andata. Mise la bustina di tè nel bricco e un pizzichino di sale nella tazza.

— Buono, buono!

Lui le tenne la tazza mentre lei beveva. — Non vuoi mangiare qualcosa? Vuoi solo il tè?

— Va bene così — disse Tina. — Era tanto! Adesso mangia l’uovo così crescerai e diventerai forte.

Prese il tovagliolo per proteggersi le dita e tolse il coperchio al piatto di porcellana bianca.

— Non devi andare a scuola oggi?

— Non credo — disse lui. Sul vassoio c’era anche un panino soffice. Lo spezzettò e mise i pezzetti di pane nell’uovo, poi aggiunse un po’ di pepe e burro. — Aspetto qualcuno, ma non so se mi porterà a scuola.

— E dove ti porteranno?

— Non lo so — disse lui. Dopo un momento aggiunse: — Non so nemmeno se andrò con loro.

Dopo circa un’ora che aveva portato via il vassoio, l’infermiera ritornò con una sedia a rotelle. — Temo che dovrà sedersi qui — disse. — È il regolamento.

Lui si guardò intorno cercando Tina.

— Sta sotto il lenzuolo. La riporterò qui entro un’ora o giù di lì.

Lui esitò, poi disse: — Va bene. Dove stiamo andando?

— Dal dentista.

Mentre lo spingeva verso l’ascensore, lui si guardò intorno. L’ospedale sembrava uguale a tutti gli altri; meno moderno, forse, di quelli che ricordava di aver visto alla Tv, ma forse erano tutti così.

Il dentista era un donnone che guardò di traverso sia lui che l’infermiera. — Spalanchi la bocca — gli disse e quando lui lo fece, si chinò su di lui così vicino che sembrò volergli infilare la testa in bocca. — Un dente è venuto via di netto, l’altro si è spezzato ed è rimasta una parte della radice. — Si voltò verso l’infermiera. — Ci sarà bisogno di un’anestesia locale. Se vuole, lei può andare.

L’infermiera scosse la testa.

La dentista gli iniettò qualcosa nelle gengive, dopo di che lui e l’infermiera passarono un quarto d’ora nella sala d’aspetto in attesa che l’anestesia facesse effetto. — Se me ne andavo — disse l’infermiera — l’avrebbe messa fuori combattimento. — Lui annuì, avrebbe preferito che l’avesse fatto. Non gli era mai piaciuto farsi curare i denti e non gli sarebbe dispiaciuto addormentarsi.

Sul tavolo c’era una pila di riviste. Si mise a sfogliarne una e gli venne in mente che da quando era lì non aveva quasi mai letto nulla. Se l’avesse saputo, Tina l’avrebbe rimproverato; a quel pensiero si sentì in colpa e si mise a esaminare la rivista con più attenzione. Gli sembrava uguale a quelle del suo mondo fino a quando non arrivò a pagina quaranta, dove c’era Lara che sedeva in un giardino tropicale con una bevanda rosata in mano. I suoi capelli erano color dell’oro e la pelle di bronzo. “Marcella Masters si rilassa nella sua casa prima di iniziare la lavorazione di Atlantide”, diceva la didascalia.

Strappò la pagina, la ripiegò e se la mise nella tasca del pigiama. L’infermiera sembrò scandalizzata, ma non protestò. Lui continuò a sfogliare la rivista velocemente fino a quando la dentista non lo richiamò, ma non trovò nient’altro di interessante.

Quando tornarono nella stanza, Fanny li stava aspettando. Mostrò il distintivo e una lettera che all’infermiera fecero molto effetto. — È tutto suo, sergente, se lo vuole.

Fanny gli sorrise: — Lo voglio.

L’infermiera aprì l’armadietto e dette un’occhiata all’interno. — Gli riporto la sua biancheria. Non ci vorrà molto.

— Va bene — le disse Fanny. E rivolta a lui: — Hai un aspetto terribile con tutti quei cerotti sulla faccia.

Lui le disse che si sentiva bene.

L’infermiera disse: — Ha perso anche un paio di denti, sergente. Fra due settimane dovrebbe tornare da un dentista per rimetterseli e fra due o tre giorni dovrebbe farsi controllare il naso. Può portarlo nello studio del dottor Pillo-Lin o portarlo qui. Il dottor Pillo-Lin glielo ha rimesso a posto ieri sera.

Fanny disse: — Va bene.

Quando l’infermiera se ne fu andata, Fanny disse: — Sei ritornato da dove eri venuto, vero? Voglio dire quella volta, in quel ristorante.

Lui annuì. — Non volevo farlo, ma l’ho fatto e non sono riuscito a tornare indietro. Be’, una volta sì, ma è durato solo pochi minuti. Poi ho ritrovato Lara e l’ho seguita — penso che lei me lo abbia permesso — ed eccomi qui.

— Spero che resterai qui — gli disse Fanny. — Adesso io sono responsabile della tua persona e se ti perdo per me saranno guai. Devi restare seduto su quella sedia?

— No — le disse lui. Si alzò in piedi per dimostrarglielo, poi sedette sul letto accanto a lei.

Questo gli fece ricordare Tina, infilò la mano sotto il lenzuolo e la tirò fuori.

Lei disse: — Ehi, nessuno deve vedermi qui!

— Non importa. Presto ce ne andiamo.

Fanny sospirò. — Quando sarai stato con me per una settimana o due, la butterai via.

Voleva fare cenno di no con la testa, ma si trattenne.

— Tu non muori, vero? — sussurrò Fanny. — Nel tuo mondo non morite. Possiamo continuare a farlo quanto vogliamo.

I suoi occhi lo mettevano in imbarazzo, perciò questa volta fece davvero cenno di no, pensando a Lara.

L’infermiera ritornò con un pacco di carta marrone legato con lo spago. Glielo dette e insieme a Fanny uscirono dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle. Lui ruppe lo spago e aprì il pacco, poi spiegò la camicia sul letto. La lavanderia aveva fatto scomparire le macchie di sangue e la camicia era tornata bianca, come nuova. Prese la foto di Lara dalla tasca del pigiama e la mise nella tasca della camicia.

Tina gli chiese: — Te ne vai con quella signora?

— Per un po’ di tempo — le disse lui.

— Non mi piace — disse Tina.

— A me piace — disse lui — ma non abbastanza. — Si tolse la giacca del pigiama e la buttò sul letto. — Ora voltati e chiudi gli occhi.

Lei ubbidì e lui sciolse il laccio dei pantaloni del pigiama e li lasciò cadere a terra. Dopo che si fu abbottonato la camicia pulita, le permise di voltarsi di nuovo.

— Avresti dovuto metterti prima i pantaloni — gli disse Tina in tono di ramanzina. — Adesso farai rientrare quelle signore?

— Ho indosso i boxer — le spiegò lui. — E poi la camicia è lunga. — Prese i pantaloni e si avvicinò alla finestra perché c’era più luce. Erano macchiati di sangue rappreso, ruvidi e rigidi. — Sarebbe stato meglio se avessero lavato anche questi — disse.

Nel portafoglio dentro la tasca posteriore dei pantaloni c’erano i soldi che ora qui non gli sarebbero serviti a niente. Le banconote con cui poteva fare acquisti stavano nella tasca col doppiofondo del cappotto, ma i guanti non c’erano più e la mappa era nell’altra tasca. Si passò il cordoncino rosso con attaccato l’amuleto del signor Sheng intorno al collo e infilò la radice sotto la canottiera, poi si annodò la cravatta macchiata di sangue come meglio poté, come se dovesse andare al lavoro. Quando finì di vestirsi, infilò Tina nella tasca interna della giacca e le disse di starsene tranquilla. Poi aprì la porta.

— Temo che dovrà mettersi di nuovo sulla sedia a rotelle — gli disse l’infermiera. — Non può camminare fino a che non lo dice il dottore.

Lui si sedette obbediente e lei lo spinse come aveva fatto prima, ma questa volta accanto a loro camminava Fanny che firmò il registro all’uscita. — Non c’è bisogno che lo indossi — le disse. — È una bella giornata. — Lui si mise il cappotto sul braccio.

Fanny aveva ragione. Appena lasciarono dietro di loro gli odori dell’ospedale, una leggera brezza primaverile gli accarezzò le guance. Nei grandi vasi di pietra ai due lati del passaggio che portava alla strada, le giunchiglie ondeggiavano salutandoli.

— Non ti senti molto sicuro sui trampoli, vero?

Scendeva i gradini reggendosi al corrimano. — Mi sento benissimo.

— Possiamo prendere un taxi. Ho il rimborso spese.

— Posso camminare. — Guardò su e giù per la strada che gli sembrò stranamente familiare. — Comunque credo che dovremo farlo. Vedi qualche taxi?

Fanny scosse la testa.

— Non sei venuta in macchina?

— No — disse lei. Si erano incamminati lungo la strada. — Stai pensando a quella volta al Grand Hotel. Ma non era veramente la mia macchina.

— Come hai fatto ad arrivare all’ospedale?

— Col tram — disse Fanny.

— Allora possiamo prenderlo anche adesso. C’è una fermata da queste parti?

— Una fermata?!

— Dove i tram si fermano e uno ci può salire sopra.

Fanny scosse ancora la testa e i suoi fitti riccioli scuri ondeggiarono alla luce del sole. — È così che fate nel tuo mondo? Qui per fermarli basta fare un cenno. Cosa stai guardando?

Era una vetrina, la vetrina di un negozietto che vendeva spartiti musicali. La canzone esposta sopra un leggio dorato era “Il vero amore”. Stava esposta lì da così tanto tempo che la carta polverosa era tutta ingiallita.

— Ecco un taxi — disse Fanny e chiamò: — Taxi!

Lui cercò con lo sguardo l’ospedale delle bambole. Vide l’insegna con l’immagine di una bambola vestita da infermiera.

— Il taxi si sta fermando. — Fanny lo tirò per una manica. — Andiamo.

Lui annuì e si voltò per seguirla sentendosi sperduto come quando si era ritrovato a correre nel vicolo del signor Sheng. Fanny aprì la portiera per farlo salire e lui disse: — Grazie.

— Dove andiamo, signore? — Il tassista era un po’ più giovane di lui e di bell’aspetto. Lui vide che Fanny stava girando intorno all’auto. Si mise a riflettere.

— Dove vi porto, signore?

Lui allungò la mano oltre il sedile e schiacciò la sicura della portiera. — Alla stazione ferroviaria — disse tirando su il finestrino. — Ma la signora non viene.

— Ah, ho capito! — L’autista sorrise ingranando la marcia.

— Sì — disse lui. — Ha capito bene. — Si voltò a guardare Fanny, sola in mezzo alla strada. Pensava che avrebbe tirato fuori la pistola o agitato il pugno verso di lui. Ma non fu così, c’era qualcosa di dolorosamente sconsolato nella sua figuretta nera.

— Siamo usciti dall’ospedale, vero? — Era Tina che aveva cacciato fuori la testa dal risvolto della giacca.

— Sì — disse lui.

— Dove stiamo andando?

— A Manea. — Parlò a bassa voce per non farsi sentire dal tassista. La polizia avrebbe potuto interrogarlo.

— Mi hanno detto che è un bel posto — osservò il tassista. — Sta vicino a Overwood.

— Non credevo che lei mi avesse sentito — disse lui. — Sì, credo che lo sia.

Oltrepassarono una fontana e il rumore dell’acqua gli fece tornare alla mente Klamm… le lacrime negli occhi di Klamm. Klamm aveva obbedito alla legge e all’improvviso si rese conto che nessuno avrebbe interrogato il tassista o li avrebbe inseguiti. Forse Fanny sarebbe stata ammonita, ma nessuno avrebbe fatto indagini e non sarebbero stati diramati comunicati di ricerca.

Il fischio di una locomotiva a vapore risuonò poco lontano e l’eco si moltiplicò fra gli edifici circostanti. Lui sorrise. Il fischio risuonò ancora, diceva di incontri d’amore in luoghi lontani.

Tina spuntò da dietro la sua cravatta. — Iuhuuuh! — esclamò. Iuhuuuh! Iuhuuuh!

FINE