Sul cielo di una borgata romana una mattina d'aprile appare un'enorme oggetto circolare. "I marziani! I marziani" gridano gli abitanti uscendo dalle case e dai negozi, e accalcandosi in piazza. Arrivano due professori, i vigili, la polizia, autoblinde e soldati. Ma sono due ragazzi, Paolo e Rita, a svelare il segreto del disco volante: che non è un vero disco volante, ma qualcosa di molto più dolce...

Gianni Rodari

La torta in cielo

Sul cielo di una borgata romana, una mattina d'aprile appare un enorme oggetto circolare. I marziani! I marziani! Gridano gli abitanti uscendo dalle case e dai negozi, e accalcandosi in piazza. Arrivano due professori, i vigili, la polizia, autoblinde e soldati. Ma sono due ragazzi, Paolo e Rita, a svelare il segreto del disco volante: che non è un vero disco volante, ma qualcosa di molto più dolce...

Con La torta in cielo, Gianni Rodari rinnova con i suoi giovani lettori un festoso appuntamento, fatto di estrose invenzioni e di garbato umorismo.

Questa storia...

Questa storia è nata nelle Scuole elementari Collodi, Borgata del Trullo, Roma, tra gli scolari della signorina Maria Luisa Bigiaretti che hanno finito la quinta nel '64; è stata pubblicata a puntate dal "Corriere dei Piccoli" nel medesimo anno 1964; è dedicata a tutti i suoi lettori: a ciascun lettore ogni pagina, dalla prima all'ultima.

Quella mattina al Trullo

Una mattina d'aprile verso le sei, al Trullo, i passanti che attendevano il primo autobus per il centro, alzando gli occhi a studiare il tempo, videro il cielo della loro borgata quasi interamente occupato da un enorme oggetto circolare di colore oscuro, che se ne stava al posto delle nuvole, immobile, a un migliaio di metri sopra il livello dei tetti. Ci fu qualche: - Oh, - qualche: - Ah, - poi si udì un grido: - Li marziani!

Fu come un segnale e una parola d'ordine. La gente cominciò a gridare e a correre da tutte le parti. Finestre si aprirono, altra gente si affacciò a curiosare, immaginando il solito incidente d'auto, poi guardò in su, e allora ci fu un gran chiamare e sbattere di imposte e rotolare di avvolgibili e ciabattare per scale e cortili.

- Li marziani!

- Er disco volante!

- Andiamo, sarà un'eclisse.

"La cosa", effettivamente, pareva un gran buco nero nel cielo, e aveva intorno una corona limpida e azzurra.

- Quale eclisse? Questa è la fine del mondo.

- Esagerato. Che, la fine del mondo può venire così, dalla sera alla mattina?

- Già, prima dovranno avvertire lei con una bella raccomandata: "Guardi che il tal giorno alla tal ora il mondo va a gambe all'aria".

Dal bar Italia uscì un cameriere, stropicciandosi le mani nel grembiule sudicio. Diede un'occhiata al cielo e si piegò in due come se gli avessero calato una botta in testa.

Una donna in camicia da notte gli gridò dal balcone:

- Telefona ai pompieri, Augusto.

- E che gli dico?

- Digli che ci stanno i marziani, digli, stupido. Non li vedi?

- Ma che c'entrano i pompieri? Mica gli possono fare "bum" per spaventarli.

- Telefona, telefona, vedrai che loro sapranno.

Augusto rientrò nel bar, infilò un gettone nell'apparecchio e fece il numero dei pompieri.

- Pronto, correte al Trullo, sono arrivati i marziani!

- Chi è che parla?

- Sono Augusto.

- Bravo, e io sono Giulio Cesare. Non ti vergogni, essere già ubriaco a quest'ora?

Il centralinista dei pompieri troncò la comunicazione. Ma nei due minuti seguenti dovette rispondere a una ventina di chiamate dal Trullo, tutte dello stesso tono, e si decise a dare l'allarme, spiegando al tenente di turno:

- Dev'essere un caso di pazzia collettiva. Per me, bisognerebbe avvertire il manicomio.

Al Trullo, chi non stava fuori col naso per aria stava attaccato a un telefono. Chi chiamava la polizia, chi i vigili urbani, chi i carabinieri.

Intanto, dal retrobottega del vapoforno, uscì il cascherino che tutte le mattine, a quell'ora, faceva il giro dei bar con il rifornimento dei maritozzi e dei cornetti. Appoggiò la cesta traboccante e profumata al manubrio della bicicletta, alzò la gamba destra per montare in sella, alzò meccanicamente anche gli occhi: patapumfete, giù per terra lui, la bicicletta e la cesta. Maritozzi e cornetti rotolarono nella polvere in ordine sparso.

I cascherini romani sono famosi perché non cascano mai: ma succede in un minuto quel che non è successo in mille anni. Il garzone del fornaio si rialzò e si rifugiò in bottega, gridando:

- Aiuto! E' caduta la luna!

Per giustificare la sua caduta non ci voleva meno di una catastrofe cosmica.

I dolci giacevano fino a mezza strada. Un cane balzò di chissà dove, ne afferrò uno coi denti e galoppò via di traverso, per schivare una legnata che però non venne.

- E' il cane del sor Meletti, - disse il macellaio alla moglie. - Il cane più ladro di tutta la borgata appartiene a un vigile urbano. E poi protestano perché in Italia le cose vanno storte.

Il vigile Meletti, una volta, per appioppare di sorpresa la multa a un automobilista, si era appostato dietro il cavallo di un vetturino. Da quel giorno certi ragazzi istruiti l'avevano ribattezzato "l'astuto Ulisse". Il suo cane, di conseguenza, lo chiamavano Argo, sebbene il suo nome ufficiale fosse Zorro. Era un cane intelligente, e rispondeva a entrambi i nomi.

Quella mattina però, non avrebbe risposto neanche se l'avessero chiamato Eccellenza. Col maritozzo ben stretto in bocca infilò le scale del Lotto Quinto e volò, di pianerottolo in pianerottolo, fino alla porta di casa Meletti. Paolo, che si era alzato presto per fare il compito, lo udì raspare e gli aperse.

- Da dove vieni, vagabondo?

Zorro, troppo affannato per rispondere, attraversò di corsa la cucina, si gettò sul terrazzino e qui finalmente si accucciò per mangiarsi in pace la sua colazione.

- Cosa? Un maritozzo? Dammene un pezzo o lo dico a papà quando torna.

Il sor Meletti era uscito prestissimo per ragioni del suo ufficio; sua moglie, la sora Cecilia, era stata chiamata a fare un'iniezione d'urgenza. In casa erano rimasti Paolo e Rita, che dormiva ancora. Toccava a Paolo, come maggiore, svegliarla in tempo e far bollire il latte.

- Da' qua!

Ma Zorro, per paura di dover dividere quella sciccheria, la mandò giù in un boccone.

Paolo lo seguì sul balcone, ben deciso a fargli pagare la mancanza di rispetto, ma quello che vide gli fece dimenticare sia il cane che il maritozzo.

- Rita, - gridò, - vieni, presto! Rita!

- Che c'è? - rispose una vocina assonnata.

- Vieni a vedere, muoviti.

- E' già ora di andare a scuola?

- Mi sa tanto che oggi a scuola non si va.

La bambina, a quell'annuncio, fu subito sveglia e corse sul balcone, accompagnata dall'ululare di una sirena: i pompieri facevano in quel momento il loro ingresso sulla piazza del Trullo.

- O mamma, il fuoco.

- Ma quale fuoco! Guarda lassù.

- Già, che brutta nuvola. Verrà certo un gran temporale.

- Sei proprio stupida. Secondo me è una stazione spaziale.

- Stazione di che?

- Sei proprio ignorante. Chissà cosa t'insegnano, in seconda.

- Proprio quello che insegnano a te in quinta. E i pompieri debbono salire fin lassù con la scala?

- Sì, i pompieri, a spegnere la luna... Lassù ci vanno gli astronauti.

- Ah, ho capito. Chiamami quando cominciano. Intanto vado a lavarmi i denti.

E Rita si allontanò virtuosamente in direzione del bagno. Le era venuto in mente che avrebbe potuto approfittare dell'assenza della mamma per lavare i capelli alla sua bambola.

Paolo non la trattenne, giudicando inutile proseguire la conversazione "con quella là". Cose nuove, del resto, accadevano sulla piazza di minuto in minuto. Dopo i pompieri piombavano sulla borgata le camionette della Questura. E che cosa spuntava già dalla strada di Roma? Un'autoblindo, due, tre. Un carro armato, un altro. Forse dei cannoni? Sì, anche dei cannoni. Accidenti, perfino i missili!

"Pare la grande parata", si disse Paolo, eccitatissimo.

Ma lo spettacolo più interessante era sempre quello che forniva dal cielo il gigantesco oggetto misterioso. A occhio e croce doveva avere il diametro di un chilometro. L'ombra che proiettava sulle grosse e brutte case popolari, sugli stenditoi di cemento, sulle strade rombanti di mezzi corazzati era livida e piena di minaccia.

- Non sarà scoppiata la guerra?

Giungeva ronzando da est un elicottero, come una zanzara di metallo. Si accostò fino a cento metri dalla circonferenza del disco e lentamente, lentamente, cominciò a farne il giro: pareva che cercasse il punto adatto per pungerlo.

"Vedrai come ti concia", pensò Paolo, prendendo le parti del più forte.

Zorro, ora, guaiolava e mugolava penosamente.

- Hai fifa, eh? - fece Paolo, e si chinò a grattargli la schiena.

- Attenzione, attenzione, - tuonò la voce di un altoparlante issato su una camionetta della polizia, - la popolazione è invitata a mantenere la calma. Il comando militare controlla perfettamente la situazione. E' decretato lo stato d'allarme. Nessuno può entrare o uscire dalla borgata fino a nuovo ordine. Rientrate nelle vostre case, scendete nelle cantine e attendete con fiducia nuove istruzioni.

- Attenzione, attenzione, - ricominciò.

- Cosa dicono? - strillò Rita, dal bagno.

- Niente.

- Come, niente? Con tutto il chiasso che fanno. Io credo che sia una pubblicità. Sta' attento se regalano qualcosa. L'altra volta che distribuivano i palloncini non mi hai fatto arrivare in tempo.

Rita comparve sul balcone, strofinandosi vigorosamente gli occhi asciuttissimi in un asciugamano, per dimostrare al fratello che si era lavata a dovere.

Paolo si voltava per dirle qualcosa, quando un'ombra attraversò rapida il cielo. Un uccello? No, troppo grosso.

- A terra! - gridò, gettandosi egli stesso sul pavimento e cingendo con un braccio le spalle di Rita che gli si era buttata accanto, spaventata.

- Ma cosa succede?

L'oggetto cadde nell'angolo destro del balcone, a un metro dalla mano di Paolo, a trenta centimetri dalla zampa di Zorro, che si ritrasse con un brontolio. Cadde ma non scoppiò. Emise soltanto un morbido "plaff", e rimase lì, tra due vasi di gerani. Era dello stesso colore della cosa in cielo, come Paolo poté constatare lanciandogli un'occhiata tra le dita stese davanti alla faccia. Una bomba non era. Forse un messaggio?

- Ho paura, - bisbigliò Rita, - scendiamo in cantina anche noi.

- Così non vedremo niente di niente.

- Ma io ho paura. E poi, senti l'altoparlante cosa dice...

La voce dell'altoparlante ripeteva monotona le istruzioni, cortile per cortile.

Paolo sentiva che sarebbe stato suo dovere avvicinarsi al proiettile caduto sul balcone, per osservarlo in modo scientifico.

"Se Cristoforo Colombo avesse avuto la mia paura, - pensava per farsi coraggio, - l'America a quest'ora sarebbe ancora da scoprire".

- Che facciamo? - piagnucolò Rita. - A stare sdraiata mi sporco il pigiama, poi senti, la mamma.

- Sta' zitta, devo pensare.

Ma qualcun altro pensò per lui. Zorro allungò cautamente una zampa in direzione dell'oggetto, battendo la coda per l'eccitazione, e gli diede un colpetto, per prova.

- Pussa via, Zorro!

- Non toccare!

Il cane si voltò, quasi per tranquillizzarli. I suoi occhi umidi dicevano: "Calma, calma, lasciate fare a me. Ho buon fiuto, io".

Cacciò un palmo di lingua e strisciò sul ventre in avanti. Meno 5... meno 4... meno 3... meno 2... meno uno... Contatto!

La lingua di Zorro fu sul bersaglio e leccava furiosamente. La coda, adesso, pareva la pala di un elicottero.

Allora Paolo si decise: saltò su, allontanò il cane con un calcio e prese il suo posto accanto alla "cosa".

- Che è? - domandò Rita, sollevando la testa spettinata.

- Ora vedrò. Ci potrebbe essere un messaggio, dentro.

- Ma non senti un profumino?

- Un profumo? Tu stai ancora sognando.

Anche Rita si avvicinò alla "cosa", respingendo il cane che tentava di riconquistare la posizione perduta.

- Vuoi che lo tocchi io? - domandò al fratello.

- Stupida, credi che abbia paura? E' che prima voglio studiarci sopra un momento.

- Ma l'odore non lo senti proprio?

- Si vede che ho il raffreddore.

Rita passò ai fatti. Toccò la "cosa", e una macchia scura le rimase sul dito. La bambina considerò la macchia con attenzione, poi si ficcò decisamente il dito in bocca. Lo succhiò, se lo mise davanti agli occhi, roseo e umido di saliva. Infine lanciò un grido di trionfo: - Cioccolato! Avevo ragione io. Prova, prova se non è vero.

Paolo provò. Rita riprovò. Paolo tornò a provare. Nessun dubbio: il misterioso oggetto caduto dal cielo non era altro che un grosso pezzo di cioccolato. Roba di marca, a giudicare dal profumo, dal sapore, dalla lunga delizia che lasciava in bocca.

- Uhm, che buono! - disse Rita.

- Una meraviglia, - ammise Paolo, riempiendosi la bocca. - Chissà, forse ci hanno visti, ci hanno buttato il cioccolato per fare amicizia.

- Chi?

- I marziani, insomma, quelli lassù. Chi siano non lo so.

- Secondo me, - sentenziò Rita, indicando la gran macchia rotonda in cielo, - quella è una pizza.

Secondo voi, probabilmente, Rita avrebbe dovuto dire "una torta". Ma al Trullo esiste una parola sola per indicare la pizza al pomodoro e la torta al cioccolato, e questa parola è "pizza". Qualche volta si può dire "pizza dolce", per distinguere le due "pizze". E se le torte, nobili figlie della pasticceria, si offendono a esser chiamate "pizze", come le loro più umili sorelle, peggio per loro.

Dedalo chiama Diomede

- Qui Dedalo chiama Diomede, qui Dedalo chiama Diomede. Passo.

- Qui Diomede. Vi ascoltiamo. Passo.

- Ho completato il giro dell'oggetto misterioso. Secondo i miei calcoli la sua circonferenza misura metri tremilacentoquaranta. Per trovare il diametro, basta dividere per tre e quattordici.

- Lo sappiamo, lo sappiamo. Tirate avanti.

- Chiedo scusa. La superficie laterale appare dipinta a fasce di differenti colori. Dal basso in alto, eccone la disposizione: bruno, rosa, verde, bruno di nuovo, giallo, violetto, bianco. Mi accingo a salire più in alto. Passo.

- Qui Diomede. Attendete. Non avete notato sui fianchi dell'oggetto qualche apertura? Niente finestrini, oblò, sportelli? Passo.

- Qui Dedalo. Notato niente del genere. La superficie laterale è dovunque compatta. Passo.

- Qui Diomede. Prendete quota, misurate l'altezza e osservate la superficie superiore. Mantenete distanza di sicurezza. Passo.

- Ricevuto. Passo e chiudo.

La conversazione qui trascritta si svolgeva, verso le otto di quella famosa mattina, tra un ufficiale pilota alla guida di un elicottero, chiamato col nome convenzionale di Dedalo, e il comando generale dell'Operazione E.S., situato nell'ufficio del direttore delle scuole del Trullo. E.S. non vuol dire, in questo caso, Esterna Destra: non si sta parlando di linee tranviarie. Vuol dire invece Emergenza Spaziale. Con questo nome eccitante le autorità avevano battezzato le misure militari messe in atto in seguito all'apparizione del misterioso piatto volante. Il comando era indicato col nome convenzionale di Diomede. Avendo inventato tre bellissimi nomi, le autorità potevano già dirsi a buon punto.

Nella stanza di Diomede si trovavano, in quel momento, numerosi alti personaggi, tra cui un generale, due famosi scienziati - il professor Rossi e il professor Terenzio - e il sor Meletti, detto "l'astuto Ulisse", vigile urbano e padre di Paolo e Rita, a disposizione per le commissioni urgenti. (Per esempio, era già corso un paio di volte a ordinare caffè forte per tutti).

- Qui Dedalo chiama comando, - risuonò di nuovo la voce dell'aviatore.

Il generale in persona si curvò sul microfono a rispondere:

- Qui Diomede. Riferite.

- L'altezza laterale dell'oggetto misterioso è di circa venticinque metri. Per calcolare il volume...

- Conosciamo la geometria. Contentatevi di riferire.

- Signorsì. La superficie superiore presenta un meraviglioso panorama di color bianco panna. Uno spettacolo superbo!

- Lasciate perdere i punti esclamativi, - tuonò Diomede. - Non siete mica un venditore di frigoriferi. Dite quel che vedete e basta. Passo.

- Ricevuto, sissignore. Vedo delle sfere rosse inserite a regolare distanza nella superficie bianca. Sono diverse centinaia. Somigliano a grosse ciliege candite, se m'è permesso il paragone.

- Non vi è permesso! - s'infuriò il generale. - Risparmiateci i paragoni. Contate le sfere, invece.

Il professor Rossi, mentre Dedalo taceva, contando le sfere, crollò pensosamente il capo e mormorò:

- Ingegnoso, veramente ingegnoso.

- Trovate? - ridacchiò il professor Terenzio.

- Non pensate anche voi quello che penso io?

- Per niente, egregio collega: io penso esattamente l'opposto.

- Signori, per favore, - sospirò il generale, - fate capire anche a noi quello che pensate.

- Qui Dedalo, - riprese l'altoparlante, interrompendo la conversazione. - Mi sentite? Passo.

- Vi sentiamo, purtroppo, - rispose Diomede. - Sentiamo tutte le sciocchezze che ci state snocciolando.

- Segnalo la presenza di un aquilone.

- Cosa? Siete diventato cretino del tutto?

- Un aquilone, signore, lo confermo. Sta salendo da uno dei tetti della borgata. Debbo intercettarlo? Passo.

- Qui Diomede. Non fate nulla. Restate dove siete, mentre svolgiamo rapide indagini. Passo e chiudo.

Le indagini ebbero inizio immediatamente: tutti, infatti, corsero alla finestra per vedere l'aquilone che saliva incontro all'oggetto misterioso, sbattendo le sue tre code di carta, variopinte.

- Segnalazioni da terra, - commentò una voce sospettosa, - messaggi della "quinta colonna". Evidentemente gli invasori spaziali hanno degli appoggi tra la popolazione.

- Non è possibile! - esclamò sgomento il vigile Meletti. - Io conosco tutti, al Trullo: brava gente, casa e bottega. Nessun contatto con i marziani, per carità.

- E allora quello?

"Che mi caschi il naso se non è l'aquilone di Paolo", esclamò mentalmente l'astuto Ulisse, preso a sua volta da un terribile sospetto.

Senza dir nulla a nessuno e senza attendere ordini si precipitò fuori, inforcò la bicicletta e in poche pedalate fu nel cortile deserto del Lotto Quinto, a naso per aria. Individuò in un attimo il balcone di cucina del suo appartamento e chiamò a gran voce: - Paolo! Rita! Cosa fate lì? Perché non siete in cantina come gli altri? Non avete sentito l'allarme?

- Papà, papà, - gridò Rita per tutta risposta battendo le mani, - vieni ad aiutarci.

- Ritirate immediatamente quell'aquilone, invece. Volete farmi andare in galera per spionaggio?

- Ma noi non spiamo nessuno: vogliamo solo prendere un pezzo di pizza.

- Ve la do io, la pizza, se non sparite da quel balcone.

- Ma papà...

- Volete che salga? Presto, via, marsch!

Ai suoi desolati figlioli non rimase che obbedire, almeno per la prima parte dell'ordine, concernente il ritiro dell'aquilone. Quanto a scendere in cantina, essi se ne guardarono bene. Abbandonarono il balcone, questo sì, ma non abbandonarono, seduti sulle piastrelle della cucina, l'osservazione del cielo.

- Peccato, - disse Rita, - l'idea dell'aquilone era proprio buona.

- Però non hanno risposto, - disse Paolo.

- Ma chi vuoi che ti rispondesse? Quella è una pizza, come te lo devo dire?

- E' un'astronave, stupidina.

- Allora perché hai accettato la mia idea di lanciare l'aquilone?

- Non certo per tirar giù un altro pezzo di cioccolato: l'ho lanciato per fare dei segnali ai marziani.

- Tu hai le pigne in testa. Tutti avete le pigne in testa. Quelli laggiù voglion prendere a cannonate una pizza, tu vorresti che ci scrivesse dei bigliettini.

- Non è una pizza.

- Te lo dirò in lingua: è una torta.

- Va bene, piantala. Restiamo qui e pensiamo. Con l'aquilone non è andata bene. Ci verrà in mente qualcos'altro.

Qualche ora più tardi...

- Qui Dedalo chiama Diomede. Passo.

- Qui Diomede. Riferite. Passo.

- Sono le dodici e quarantasette. Raggiungo nuovamente la superficie superiore dell'oggetto in osservazione. Sono a quota 654.

- Come avete detto?

- Sono a quota 654. Perché?

- Perché dovete essere ubriaco. Stamattina, quando avete esplorato l'oggetto per la prima volta, ci avete comunicato che vi trovavate a quota 918. Come spiegate la differenza?

- Non la spiego. Posso solo misurarla: 918 meno 654 uguale...

- Basta così. Passo e chiudo.

E il generale sottolineò quella voce del verbo chiudere con un robusto pugno sul tavolo.

- Signori, ci siamo, - disse poi, rivolto agli astanti, - l'astronave sconosciuta sta atterrando.

L'attesa durò fino al tramonto. L'oggetto misterioso perdeva quota insensibilmente, un centimetro per volta. Verso le quindici, con lente ondulazioni, cominciò anche a spostarsi in direzione nord-est. Diomede poté tirare un respiro di sollievo: il nemico non intendeva, per lo meno, scendere sui tetti e sui terrazzi, schiacciando l'intera borgata.

A occhio e croce, l'atterraggio sarebbe avvenuto sul Monte Cucco, una collinetta pelata e sassosa che sorgeva alle spalle della scuola. Ci andavano, di tutte le stagioni, i ragazzi a giocare. Ci tenevano un capanno certi pastori abruzzesi, che scendevano a svernare con il loro gregge nella campagna romana: un capanno di paglia, sulla testa piatta della collina, e un semplice recinto di filo spinato, a mezza costa, per ricoverarvi le pecore la notte.

Il generale, per conto suo, avrebbe preferito abbreviare l'attesa a cannonate. Ma gli ordini del governo - che da diverse ore si teneva in contatto con le maggiori potenze mondiali - erano categorici: ricorrere alle armi solo se i misteriosi visitatori provenienti dallo spazio avessero attaccato per primi; astenersi da qualsiasi iniziativa ostile, per non provocare crudeli rappresaglie e per non far fallire tragicamente il primo incontro tra l'umanità terrestre ed esseri di un altro mondo; vigilare, pronti a tutto.

Ragion per cui Diomede, quando le intenzioni del disco furono chiare, schierò le sue forze tutt'intorno alla collina, su un fronte di parecchi chilometri. Cannoni, lanciafiamme, carri armati, razzi terra-terra cingevano d'assedio il Monte Cucco quando la "cosa" vi si posò, senza il minimo rumore, quasi con dolcezza, lasciando del tutto sgombro il cielo che il tramonto tingeva dei suoi colori.

Il misterioso signor Geppetto

- Addio torta, - sospirò Rita, osservando la manovra d'assedio e inghiottendo acquolina.

- Sei proprio fissata, - borbottò Paolo, - ti ho detto che è un'astronave.

- Ma dove hai gli occhi? Guarda, di sotto è tutta di cioccolato. E di sopra è rosa, gialla, verde: una torta millegusti.

- Quelli debbono essere i colori della bandiera marziana.

- Scommettiamo, allora. Io dico che è una torta, tu dici che è un'astronave. Chi vince, prende la paga della settimana di tutti e due.

- Per un mese, - aggiunse Paolo.

- Anche per un anno, se vuoi, - rilanciò Rita.

- Un anno è lungo...

- Vedi che hai paura? Io invece sono pronta a scommettere.

- Accettato, per un anno, - ribatté Paolo, arrossendo. - E adesso andiamo a vedere che cos'è.

Toccò a Rita esitare, stavolta.

- Credi che ci lasceranno passare?

Paolo non rispose. Da qualche momento guardava dalla parte della Magliana, sulla strada deserta, dove un gregge di pecore avanzava passo passo, guidato da due pastori. Era stato al pascolo, sulle gialle colline dell'Agro, tra le cave di sabbia abbandonate. Al tramonto, come ogni sera, tornava verso il Monte Cucco, attraversando la borgata in tutta la sua lunghezza.

"Voglio vedere se cacceranno in cantina anche le pecore, - rise tra sé Paolo. - E il cane".

Ma le forze armate avevano ben altro da pensare. Avevano voltato le spalle al Trullo, e non avevano occhi che per il Monte Cucco e per la "cosa" che lo copriva da un capo all'altro, come un enorme cappello. Le pecore venivano avanti belando, spalla a spalla, muso a muso. Se qualcuna si staccava dalle compagne per brucare un ciuffo d'erba ai bordi della strada, il cane si affrettava a farla rientrare nel gregge, con una piccola corsa. Zorro, che per tutta la giornata se n'era rimasto a sonnecchiare sul balcone, abbaiò per salutare il suo simile, il quale, tutto preso dal lavoro, nemmeno gli rispose.

- Prendi le tue palette, - disse Paolo con un'improvvisa decisione, - quelle che adoperavi l'anno scorso al mare. Io prenderò la pila.

- Che cosa vuoi fare? - domandò Rita, incerta.

- Voglio vincere una scommessa. Ma se hai paura, non venire.

- Certo che vengo, - protestò Rita.

- Allora, sta' attenta: ti ricordi dell'astuto Ulisse?

- Vuoi che non mi ricordi di nostro padre?

- Stupida, parlo di Ulisse, quello vero. Ti ho raccontato la sua storia tante volte. Come fece per uscire dalla grotta di Polifemo?

- Si aggrappò sotto la pancia di una pecora. Oh... e tu pensi che noi?.. Guarda però che io sotto la pancia di una pecora non mi ci metto.

- Non ce ne sarà bisogno. Andiamo.

- Lasciamo un biglietto alla mamma?

La sora Cecilia, bloccata dall'allarme in casa di una malata, prima di scendere in cantina, era riuscita a telefonare ai suoi rampolli, per raccomandare loro di rifugiarsi sotto la protezione di una vicina. Lasciarle un biglietto, era come confessare che non le avevano obbedito.

- Torneremo a casa prima di lei, - disse Paolo. Rita non ne pareva molto convinta, ma seguì il fratello senza discutere. Il capo era lui, adesso. Lanciò un'occhiata a Zorro che continuava ad abbaiare alle pecore, prese le palette e uscì dietro a Paolo sulla scala.

Non c'era nessuno per fermarli, sul portone, nessuno sulla strada per ricacciarli al chiuso.

Paolo lasciò sfilare il gregge e gli si accodò, imitato dalla sorella. Il cane brontolò con sospetto, ma dovette rincorrere un agnello che non stava in fila. I pastori non si voltarono. Camminavano tranquillamente verso la collina, forse non si erano nemmeno accorti che quella non era una sera come le altre, che un reparto di pompieri presidiava il loro sentiero abituale, che in cima al Monte Cucco c'era qualcosa che stava facendo trattenere il respiro al mondo intero.

- Dove andate voi? - gridò ad un tratto un vigile, che aveva sentito alle proprie spalle il pesticciare del gregge.

- Buona sera, sor tenente. Che ci volete fare? Siamo pastori, andiamo dove vanno le pecore.

- Tornate indietro, indietro!

Anche gli altri vigili si erano voltati e scoppiarono a ridere bonariamente. Quello fu il loro errore, come spiegò più tardi Paolo a Rita. Perché le pecore non capivano gli scherzi. Esse capivano soltanto che a venti metri dal loro muso c'era la loro collina, il tranquillo recinto che le attendeva per la notte. Avrebbero obbedito ai pastori. Ma dei due, uno era un ragazzotto un po' tonto, l'altro era un po' sordo: prima che i vigili potessero fargli capire che era proibito salire sulla collina, le pecore, spaventate e testarde insieme, spingendosi, urtandosi, belando disperatamente, si aprirono un varco tra le file degli assedianti, in una nuvola di polvere.

- Presto, - ordinò Paolo a Rita, sottovoce, - fa' come me.

Approfittando della confusione, si gettò carponi nel gregge. Non ebbe altro da fare, perché al resto pensarono le pecore. Esse lo spinsero dall'altra parte della strada, lo spinsero su, su per la scarpata, lui e Rita, che dopo il primo attimo di paura aveva preso confidenza con quel modo di camminare, e si divertiva un mondo a restituire zuccate alle pecore, nei fianchi tiepidi e lanosi.

"Vediamo chi ha la capoccia più dura", pensava arrampicandosi a quattro gambe. I sassi e gli sterpi le graffiavano e pungevano le mani e le ginocchia, e qualche lagrima le scendeva per conto suo lungo le guance, ma essa non sentiva dolore.

- Di qua! - sentì che Paolo la chiamava. C'era, appena più in alto del recinto, il rudere di un muricciolo, e Paolo già vi si era acquattato, come dietro il riparo di una trincea. Quattro sassi appena, ma bastarono a nasconderli entrambi.

- Ora non ci possono più vedere, - disse Paolo. - Saliremo per quel canalone.

Il "canalone" era una crepa nel fianco della collina, scavata dalla pioggia o da una frana.

- Vuoi proprio andarci? - domandò Rita con un sussurro, guardando in su.

Venti metri sopra le loro teste nereggiava l'orlo della "cosa". Ora

che c'era tanto vicina, Rita non aveva più il coraggio di chiamarla dentro di sé la "torta": d'improvviso, era ridiventata un oggetto misterioso, la "Cosa", con una preoccupante maiuscola davanti.

- Se vuoi, aspettami qui.

Paolo era sicuro e deciso come Colombo nel momento di metter piede sul Nuovo Continente. Rita inghiottì la paura:

- Va bene, vengo.

Una breve e silenziosa arrampicata li portò a pochi passi dalla "Cosa". Visto da vicino il suo fianco aveva l'aspetto minaccioso di una inespugnabile muraglia.

- Andrò io per primo, - annunciò Paolo. - Quando ti farò un segnale sali su. Non ti spaventare se sentirai delle grida.

- O Dio, e se mi sparano?

- Su, su, non ti sparerà nessuno.

- Aspetta un momento. Prendi la paletta: se è una torta, ci fai un buco e ci nascondiamo lì dentro.

Paolo prese la paletta di malumore. Gli pareva, prendendola, di rinunciare alle sue convinzioni. Si sentiva anche un po' ridicolo, ad affrontare con una paletta da spiaggia i visitatori provenienti dallo spazio.

"Quelli, - pensava, - avranno come minimo il raggio mortale, il disintegratore, il diavolo a quattro".

Però prese la paletta. E fece bene, perché ad aspettarlo, in cima al Monte Cucco, non c'erano né marziani né venusiani pronti a schiacciarlo come una formica; e non c'era neanche un'astronave, almeno del genere che si poteva figurare Paolo, in base alla sua esperienza di film di fantascienza. C'era una torta, ecco.

Non c'era bisogno di sbatterci il naso per sentirne il profumo: anzi, i profumi, cento e cento e cento profumi diversi e inebrianti. Paolo affondò la paletta nella parete e in un momento ci scavò una nicchia abbastanza larga per accogliere lui e la sorella.

Rita, che tendeva l'orecchio in attesa del richiamo, si sentì invece piovere addosso grossi pezzi di marzapane e di pasta frolla, una cascatella di uvette dolci, un ruscelletto di rosolio. Per non perdere tempo, cominciò ad assaggiare quel che le veniva a tiro. Ed era tanto assorta nella sua merendina che Paolo dovette chiamarla tre volte per ottenere risposta.

- Vengo, vengo, - rispose a bocca piena.

E ben presto si accomodò a sua volta nella nicchia profumata. Paolo si affrettò a murarne l'ingresso con un blocco di cedro candito, lasciando solo una finestrella perché passassero l'aria e la luce.

- Sei convinto, adesso? - domandò Rita, tra un boccone e l'altro.

- Va bene, hai vinto la scommessa. E' una pizza. Ti pagherò.

- Certo, che pagherai. Le scommesse non si fanno mica per sprecare il fiato.

- Va bene, te l'ho detto. Ma adesso lasciami lavorare. Mettiti da questa parte, comincerò a scavare una galleria. Voglio esplorare tutta la torta. Non sono mica venuto fin quassù per mangiare, io.

- Ecco come sei, tu. Abbiamo almeno mezzo metro di cioccolato sotto i piedi, ci troviamo in una grotta di pastafrolla, più al sicuro di Pinocchio nel ventre del pescecane, e tu pensi a esplorare.

- Tu mangia pure con comodo. A scavare penso io.

- Be', - concluse Rita, - ti darò una mano. Per mangiare non mi occorrono tutt'e due.

Sotto i colpi delle palette la torta si apriva docilmente, come la giungla sotto il coltello dell'esploratore. I due fratelli attraversarono senza difficoltà diversi filoni di crema, di panna, di pasta mandorlata. Scavalcarono ruscelli di zabajone, affondarono fino al ginocchio in pozzanghere di sciroppo al ribes, illuminarono con la loro pila piccole grotte scavate nelle viscere della torta da correnti sotterranee di liquore, allo stesso modo che i fiumi del Carso, sprofondando sotto le montagne, ci scavano caverne e acquedotti naturali.

Di quando in quando, ciliege candite più grosse che paracarri sbarravano loro il passo. Paolo, che la furia della scoperta spingeva avanti come un motorino, si contentava di aggirarle: Rita invece se ne riempiva la bocca. Con una mano contribuiva distrattamente al progresso della galleria: con l'altra esplorava le pareti di marrons glacés, si portava alla bocca una noce farcita grossa come una zucca, faceva l'inventario delle strane pietre su cui camminava, che erano per lo più mandorle tostate e noccioline abbrustolite.

- Su, su, lavora, - la esortava di quando in quando Paolo. - No, non di là: scava in questa direzione, dobbiamo seguire il raggio se vogliamo arrivare al centro.

- Peccato. Sento qui a destra un freschetto... Ci dev'essere del gelato, in questa torta.

- Peccato che non abbiamo portato la bussola per orientarci.

- Cos'importa? Qui è torta dappertutto: a nord, a sud, a est e a dovest.

- Si dice ovest, non dovest. Te l'avrò insegnato dieci volte.

- Eh, lo so che sei bravo. Però la scommessa l'ho vinta io. Uhm... in questo punto hanno messo troppo liquore. Senti, non ci ubriacheremo mica? Ahi! Adesso piove... Fammi provare... Volevo ben dire: non è acqua, è marsala. Aiuto, si sprofonda! Ah, no, meno male. Stiamo camminando sui savoiardi. Sotto i piedi, a dire la verità, io preferisco i croccanti: sono più solidi.

Paolo non cessava un attimo di spalare. Senza aprire bocca catalogava mentalmente i materiali che venivano a contatto con la sua paletta: "Marmellata di lamponi... uva sultanina... crema... gelato di pistacchio..."

Improvvisamente si fermò e strinse il braccio a Rita in segno di allarme.

- Spegni la pila, - le ordinò in un soffio.

- Ci si vede lo stesso. Come mai?

- Zitta: guarda anche tu.

Nella parete di avanzamento la paletta aveva aperto un pertugio, dal quale usciva un tenue raggio di luce. Rita guardò... C'era una grotta, di là... E in mezzo alla grotta, seduto per terra, un uomo scriveva febbrilmente su alcuni fogli che teneva appoggiati alle ginocchia, alla luce di una torcia elettrica infilata in un arancio candito.

- Ma quello è Geppetto! - bisbigliò Rita.

- Sì, e tu sei la Fata dai capelli turchini... Non dire sciocchezze. Lasciami riflettere.

Trascorsero un paio di minuti, durante i quali Paolo e Rita si alternarono in osservazione davanti al pertugio.

- Hai pensato?

- Non ancora.

- Dimmi almeno cosa devi pensare, così posso pensare anch'io. Ad aspettare mi annoio tanto.

- Chiamiamolo pure "il signor Geppetto", tanto per dargli un nome, - rispose Paolo. - Ma chi è? Che ci fa qui dentro? Come c'è venuto?

- Non so. Forse ha fatto come noi. E poi, vedi, scrive: sarà uno scrittore. Un giornalista.

- Bene, ora hai qualcosa a cui pensare. Ma sta' zitta, prima che si accorga di noi.

Rita si chetò e cominciò a leccare la parete di gelato. Ma il silenzio scelse proprio quell'attimo per scoppiare come una bomba.

- E' Zorro! - esclamò Rita. - Ha fiutato le nostre tracce e ci ha seguiti.

- E ora ci rovina tutto, - disse Paolo. Anche lui, purtroppo, ad alta voce: l'eccitazione del momento gli aveva fatto dimenticare le regole della prudenza. Mentre Zorro si precipitava tra le loro gambe abbaiando festosamente, Paolo rimise l'occhio al pertugio e fremette: il misterioso "signor Geppetto" era balzato in piedi, allarmato, e tendeva l'orecchio.

- Buono, Zorro, - bisbigliò Paolo.

Il cane si accucciò, scodinzolando.

- Il "signor Geppetto" ci ha sentiti, - informò Paolo. - Fa il giro della sua grotta, orecchiando alle pareti...

- Mi sembra il momento di tagliare la corda.

- Aspetta. Voglio scoprire...

- Sì, così lui scopre noi, e siamo fritti.

- Zitta. E' qui.

Il misterioso abitatore della torta, esplorando le pareti della sua grotta, era giunto presso il pertugio scavato dalla paletta di Paolo qualche minuto prima. Paolo poté studiarselo da vicino. Era un uomo quasi vecchio, quasi calvo, quasi curvo: tutto un po' "quasi", tranne gli occhiali, che non erano "quasi" spessi, ma spessi del tutto, due lenti della grossezza di un dito, dietro le quali scintillavano due occhi neri, mobilissimi. Vestiva una lunga palandrana grigia, qualcosa fra il camice di un magazziniere e il grembiule di un droghiere. Dal colletto sbottonato e ciancicato gli usciva un brandello storto di cravatta.

- Scappiamo, Paolo.

Ma Paolo era come inchiodato al pertugio. Non se ne staccò nemmeno quando il "signor Geppetto" vi incollò a sua volta gli occhiali. Di qui e di là dalla parete (gelato di pistacchio, a quanto sappiamo) quattro occhi curiosi si fissarono nelle rispettive pupille. Paolo si sentì un brivido freddo corrergli la schiena, ma non si mosse. Il misterioso e certamente falso Geppetto non dovette provare nemmeno un briciolo di paura, perché gridò qualcosa con voce irritata: - Squak squok karapak pik!

Questi furono, all'incirca, i suoni che colpirono le orecchie di Paolo e di Rita. E quelle di Zorro che balzò sulle quattro zampe e riprese ad abbaiare.

- Brek brok karabrok puk! - gridava il vecchio. E mentre gridava cacciò le mani nel pertugio per allargarlo. Ne fece in pochi attimi un finestrino e vi si affacciò, continuando a gracidare nella sua lingua incomprensibile.

- Presto, scappiamo! - gridò Paolo. Fece qualche passo all'indietro, senza perdere di vista il volto inquadrato nella parete verdastra, illuminato dalla pila curiosa e tremante di Rita. E allora vide, o gli parve di vedere, la luce di un sorriso disegnarsi dietro, sotto e tutto intorno agli occhiali... Poi, via, a gambe, a quattro gambe, lui e Rita, a quattro zampe e una coda ritta per aria Zorro, via tutti e tre a rompicollo, per la lunga galleria, pesticciando affannosamente nello zabajone, nel rosolio, nelle paludi di marmellata, urtando nelle pareti di panna e di pasta frolla.

Ecco un chiarore, laggiù... E' notte, fuori, ma tutti i riflettori sono accesi e puntati sulla torta... Paolo riflette disperatamente, mentre allarga l'apertura per uscire... Poi getta la pila giù per la scarpata e grida:

- Prendi, Zorro.

Il cane non se lo fa dire: si getta abbaiando all'aperto, si lancia giù per la scarpata, per recuperare la pila, fedele al vecchio gioco cui Paolo e Rita l'hanno addestrato... Tutti i riflettori lo inseguono, sciabolando sulla collina. In basso scoppia una confusione infernale...

Ancora una volta le idee di Paolo hanno funzionato. I due fratelli si gettano giù, nella zona che i fari impazziti hanno lasciato al buio... rotolano tra i piedi dei vigili del fuoco, che non li hanno visti scendere e li ricacciano a urlacci:

- Indietro voi, dove andate?

- ...In salvo!

- O mamma, - esclamò ad un tratto Rita. - Ho perso una scarpa.

- Dove?

- Non so, credo nello scendere. Torno a riprenderla.

- Brava, così ti acchiappano e salta fuori tutta la storia.

- E la torta se la mangiano loro. Hai ragione, è meglio sacrificare la scarpa.

La mamma non era ancora rincasata. Arrivò una mezz'ora più tardi, quando Diomede, visto che i marziani non mostravano cattive intenzioni, permise agli abitanti del Trullo di uscire dalle cantine.

- Siete stati buoni? Avete avuto paura?

- Sì, mamma, - rispose Paolo alla prima domanda.

- No, mamma, - rispose Rita alla seconda.

- Bravi, - disse la sora Cecilia. - Ora vi preparo la cena.

"Aiuto", pensò Rita. Ma non disse nulla.

La scarpa di Cenerentola

Quando i riflettori, abbandonando Zorro al suo destino, tornarono a gettare una luce uniforme su tutta la collina, un pompiere notò una scarpa infantile, a cinque o sei metri dal suo naso, all'interno della zona proibita.

- Quella scarpa prima non c'era, - disse. - Ho tenuto d'occhio questo pezzo di terra per tutta la sera e ne ho contato i sassi uno per uno. Vi dico che quella scarpa un momento fa non c'era... E ora che ci penso, ho l'impressione di aver visto un'ombra scendere di lassù, mentre succedeva tutta quella confusione per uno stupido di cane...

- Porta la scarpa al comando e levati il pensiero, - gli suggerì un collega.

- Sicuro che ce la porto. E subito.

Diomede, ossia l'intero comando, accolse l'oggetto con qualche risatina. Il generale domandò ai presenti se per caso lo scopo dell'Operazione E.S. fosse quello di aprire un negozio di scarpe usate. I presenti, tra cui si distinsero per le risatelle più scientifiche il professor Terenzio e il professor Rossi, osservarono che la scarpina aveva la suola bucata in due punti: forse i marziani usavano portare scarpe simili in testa, a guisa di elmo, infilando le antenne nei due buchi.

Ma il vigile Meletti, detto l'astuto Ulisse, presente alla discussione, ebbe un'idea più brillante, anzi veramente astuta.

- Signori, - disse, - se permettono. I bambini, si sa, non conoscono il pericolo né la differenza tra il bene e il male. Chi ci assicura che il nemico, là, insomma, quelli dell'oggetto misterioso, non abbiano convinto qualche bambino, con un regaluccio per esempio, a raccogliere informazioni per conto loro?

- Venga alla scarpa, - lo ammonì il generale.

- Ecco, secondo me, se un bambino è stato veramente lassù, là dentro, e nello scappare ha perso la scarpa, c'è un modo di saperlo abbastanza facilmente.

- E quale?

- Provare la scarpa a tutti i bambini della borgata.

- Ma questa è la fiaba di Cenerentola, - rise il professor Terenzio.

- Anche nelle fiabe si può nascondere il vero, - commentò il professor Rossi, tanto per dargli torto.

- Va bene, - tagliò corto il generale. - Faccia pure la prova della scarpa. Se non altro, avrà la gratitudine di una madre di famiglia. Sarà sempre un'opera buona.

L'astuto Ulisse avvolse la scarpina in un foglio di giornale, legò il pacchetto con uno spago robusto, lo suggellò e lo depositò in un armadio della biblioteca scolastica, raccomandando a una sentinella di non perderlo d'occhio per tutta la notte: - Segreto militare, - disse, - non te lo far soffiare.

A casa, trovò i bambini a letto, già addormentati. Alla sora Cecilia fece un breve resoconto degli avvenimenti, tacendo la storia della scarpina, perché i segreti militari non si dicono nemmeno alla moglie.

La mattina seguente di buon'ora andò al comando, ritirò la scarpina e cominciò il pellegrinaggio di caseggiato in caseggiato, di scala in scala, di porta in porta.

- Toc, toc...

- Chi è?

- Aprite, sora Rosa. Sono il vigile Meletti. E' per un vostro figlio.

- Cos'ha combinato ancora quel disgraziato?

- Niente di male, sora Rosa. Ordine del comando. Gli debbo provare questa scarpa.

La sora Rosa (o la sora Cesira, o la sora Matilde, secondo i casi) apriva in ciabatte e vestaglia, reggendo in mano il bricco del latte, svegliava "quel disgraziato", e la prova cominciava.

- Ma sor Meletti, non vede? Questa sarà una scarpina del 32. Mio figlio porta il quaranta, guardi che "fette"...

- Gli ordini sono ordini...

Comparivano intere nidiate di bambini assonnati, padri che protestavano facendosi la barba: - Che, il Comune si mette a regalare scarpe spaiate? E pure col buco. Anzi, due.

- Pazienza, pazienza, ordine del comando.

Naturalmente furono trovati molti piedini adatti alla scarpina, e ogni volta il sor Meletti apriva l'interrogatorio.

- Dov'è l'altra?

- Ma quale altra? Mia figlia non ha mai avuto scarpe come queste.

- Dov'eri ieri sera alle dieci?

- Sor Melè, - rispondeva la madre per la figlia, - era andata a fare una capatina a Parigi in Francia. Era a letto, era! E ci ho fior di testimoni. Domandate al sor Gustavo qua di fronte, che ha passato la serata in casa nostra a guardare la televisione.

Il sor Gustavo confermava. Il pellegrinaggio dell'astuto Ulisse continuava.

- Eppure a me, - brontolava sotto i baffi il buon vigile, - a me questa scarpa non mi riesce nuova. Io l'ho già vista ai piedi di qualcuno. Ci giurerei proprio. Questa scarpa l'ho già veduta, com'è vero che ha due buchi. A proposito, che mi diceva mia moglie stamattina, di buchi? Ah, che Rita ha di nuovo le scarpe consumate. Quella ragazzina se le mangia, le suole, se le beve addirittura.

Di casa in casa il sor Meletti arrivò anche a casa sua. Bussò prima di tutto dalla portiera, che aveva una figlioletta di cinque o sei anni e che aveva anche un po' di ruggine col sor Meletti e con tutti i vigili urbani, perché un paio d'anni prima suo marito era stato multato per eccesso di velocità.

- Sora Matilde, è già alzata la vostra pupa?

- Che, le dovete fare la multa? - ribatté acida la sora Matilde.

- No, no, niente multe. Le cose stanno così e così.

E l'astuto Ulisse spiegò lo scopo dell'esperimento, mentre da tutti i pianerottoli donne e bambini seguivano la scena. C'era sempre da divertirsi, quando si scontravano il sor Meletti e la sora Matilde.

- Ah, così e così? - ridacchiò la portiera. - Secondo voi la pupa mia sarebbe una spia dei marziani?

- Io non ho detto questo.

- E già, non l'avete detto, ma io l'ho capito lo stesso.

- Insomma, gli ordini non li do io.

- Le multe sì, però.

- Io faccio il mio dovere, - esclamò indignato il sor Meletti.

- E allora avanti, Maria Grazia, prova la scarpina... Ti va larga, eh, tesoro? Su, torna a letto, spiuccia di mamma. E adesso la scarpina me la voglio provare io.

- Ma, sora Matilde, l'ordine riguarda solo i bambini.

- Ah, no, è troppo facile prendersela con le creature innocenti... Vediamo se ce la fate con me...

- Per carità, mi sfondate la scarpina!

- Io? Ma se sono leggera come una piuma. Peso solo centododici chili. Un giorno o l'altro metto su il baraccone della donna cannone e faccio più soldi a mostrarmi nelle fiere che a fare la serva a certa gente.

Una risata corse su e giù per le scale, chiamando sui pianerottoli anche i pochi inquilini che ancora non s'erano affacciati, tra cui la sora Cecilia, Paolo e Rita.

La sora Cecilia, vedendo il marito alle prese con la portiera, scese a precipizio, per dargli man forte. Paolo le tenne dietro, e Rita seguì Paolo, con un brutto presentimento. Era stata la prima, lei, a vedere che il centro della scena era una scarpa.

- Ora me la provo, - annunciò la sora Matilde a tutto il casamento.

E gettata una ciabatta infilò il suo piede di elefante nella scarpina.

- Il ditone ci va, - annunciò trionfalmente, - ora vedrete che ci vanno anche le altre dita.

La sora Cecilia gettò un urlo:

- Ferma, che fai?

- Faccio un esperimento, per ordine di tuo marito.

- E tu non vedi che è la scarpa di Rita? Che razza di stupidi scherzi state combinando?

Il sor Meletti rimase lì a bocca aperta, come se il fulmine l'avesse colpito.

La sora Matilde, invece, sbottò a ridere e rise tanto che fu per soffocare, e una vicina dovette correre a prenderle un bicchiere d'acqua.

- Insomma, mi vuoi spiegare cosa succede? - gridava la sora Cecilia, scrollando vigorosamente il sor Meletti per una spalla.

- Segreto militare, - balbettò finalmente l'astuto Ulisse.

- Dove hai trovato quella scarpa? E cos'è tutto questo teatro?

- Taci, non mi far parlare.

Si riscosse, finalmente, e guardandosi attorno con cipiglio professionale, esclamò: - Sgomberare, circolare, lo spettacolo è finito.

Il primo a obbedire, non visto, fu Paolo, che infilò il portone e se la diede a gambe, Rita tentò di imitarlo, ma il padre l'afferrò per un braccio.

- Vieni qua, tu, faremo i conti, in casa.

Rita, divincolandosi, si rifugiò presso la mamma che ancora non aveva capito nulla e continuava a protestare:

- Guarda, guarda quella cicciona come ha conciato la scarpina di Rituccia nostra. Poco ma sicuro, le ha dato di volta il cervello. Ma ride bene chi ride ultimo.

Un drammatico esperimento

Il sor Meletti perdette qualche minuto a mandar via gli ultimi curiosi, ragion per cui quando arrivò davanti alla porta di casa sua la trovò sbarrata col catenaccio interno.

- Apri, - gridò alla moglie, - in nome della legge.

- Ma quale legge? Cosa le vuoi fare, a questa povera bambina?

- Domanda piuttosto a lei cos'ha fatto. Domandale dove e come ha perso la scarpina. E fammi entrare, se non vuoi che i vicini sentano tutto.

Questo argomento convinse la sora Cecilia a levare il catenaccio e a socchiudere la porta. Prima di far entrare il marito, però, studiò a lungo la sua faccia. Era la faccia di tutti i giorni, forse un po' più preoccupata del solito, ma senza segni visibili di pazzia.

- Va bene, entra. E tu piantala di frignare!

Queste ultime parole erano rivolte a Rita che singhiozzava disperatamente.

- Nostra figlia è una spia, - esclamò il sor Meletti, buttandosi su una sedia. E agitando la scarpina che teneva in mano aggiunse: - Ne ho le prove.

- Quali prove? I buchi? Quelli provano soltanto che Rituccia ha bisogno di un paio di scarpe nuove.

- Tu non capisci.

- Avanti, sentiamo.

Il sor Meletti raccontò tutto ciò che si riferiva alla scarpina, dal suo ritrovamento in zona di operazioni, al sospetto che i marziani si servissero dei bambini per raccogliere informazioni, alle indagini casa per casa.

- Non c'è dubbio alcuno, - concluse, - nostra figlia lavora per i marziani.

- Ma non sono marziani! - sbottò Rita, asciugandosi le lacrime nella sottana della mamma.

- Ecco, vedi? - tuonò l'astuto Ulisse. - Sa chi sono. Dunque c'è stata, è stata lassù, li ha visti. E ha perso la scarpa uscendo dall'astronave.

- Ma non è un'astronave! - protestò Rita. - E' una torta.

La madre, cambiando rapidamente fronte, le mollò uno scapaccione.

- Te la do io la torta.

La sora Cecilia, aveva l'abitudine di darle prima di prometterle. Rita tornò a singhiozzare. Stavolta, però, piangeva di rabbia, perché non le volevano credere.

- E' una torta, una torta! - continuò a gridare tra i singhiozzi. - E ora ve la faccio vedere.

Corse sul balcone, seguita dai genitori, spostò un vaso di gerani e disse soltanto: - Eccola qui.

L'idea di nascondere l'avanzo della torta a quel modo era stata di Paolo. Egli l'aveva avvolta in un vecchio giornale, aveva legato il pacco con una cordicella e l'aveva appeso fuori del balcone. La sora Cecilia tirò la corda, con mille attenzioni, come se fosse la miccia di una bomba. Il pacco comparve, venne disfatto in un attimo, mostrò il suo contenuto.

- Cioccolato, - sentenziò la sora Cecilia, fidandosi del parere del suo naso, - dove l'hai preso?

- Chi te l'ha dato? - incalzò il sor Meletti.

- Non me l'ha dato nessuno. E' caduto dal cielo, è caduto dalla pizza, prima che si posasse sul Monte Cucco.

Un secondo scapaccione le provò che la mamma non credeva una parola della sua confessione.

- Vedi? - esclamò il sor Meletti. - Li difende. Inventa storie inverosimili per difendere quelli lassù. Sei convinta, adesso, che è una spia?

- Se è una spia non so, - disse la sora Cecilia. - Una bugiarda lo è di certo. Da sola, però, non avrebbe mai saputo inventarle così grosse. Dov'è Paolo?

Già, dov'era Paolo?

- Se l'è battuta, approfittando della confusione, - constatò il sor Meletti. - Ma pescherò anche lui. Intanto bisogna andare al comando.

- Al comando? Tu sei matto nella testa. Mia figlia al comando non ci viene.

- Rifletti, Cecilia. La patria è in pericolo, anzi, che dico? l'umanità intera è in pericolo! Non possiamo tener nascoste le informazioni di cui disponiamo.

- Ma come fa la patria a essere in pericolo per una pizza? - gridò Rita, pestando i piedi.

La madre le inflisse un terzo scapaccione e vi aggiunse un brusco:

- Taci, altrimenti te le suono. Facciamo così, - disse poi, rivolta al marito. - Tu vai al comando e racconti come stanno le cose. A me, mi sa tanto che questi ragazzini ci prendono in giro. Ma se il comando vuole parlare con Rita, venga qui e s'accomodi.

Il sor Meletti si provò a discutere l'ordine della sora Cecilia, senza troppa speranza. Sapeva bene che quando lei aveva deciso non era disposta a cambiare opinione. Dovette dunque rassegnarsi a tornare al comando con la scarpina e col pacco della torta.

Diomede (ossia, com'è noto, tutto un folto gruppo di personalità civili, militari e scientifiche) ascoltò il suo racconto con molto scetticismo.

- I bambini hanno la fantasia accesa, - borbottò il generale.

- Sono anche spiritosi, - aggiunse un colonnello.

- Questo però è veramente un pezzo di cioccolato, - mormorò l'astuto Ulisse. Egli era contento, si capisce, che Diomede non prendesse sua figlia per una spia; intanto, però, gli dispiaceva che Rita passasse per una bugiarda.

- Che cosa ne dice la scienza? - domandò il generale.

Il professor Rossi e il professor Terenzio si chinarono a fiutare il corpo del delitto.

- Niente impedisce di supporre che i marziani sappiano fabbricare il cioccolato, - disse il professor Rossi.

- Niente impedisce di supporre che i figli del nostro bravo vigile, qua, abbiano comprato il cioccolato in una pasticceria, - disse il professor Terenzio.

- Questo si può escludere, - disse il sor Meletti. - Venendo qui ho fatto il giro delle pasticcerie. Primo nessuno vende, al Trullo, cioccolato in blocchi così grossi. Secondo, i miei figli sono stati visti l'ultima volta in una pasticceria la settimana scorsa. Hanno comprato due gomme da masticare. Quel cioccolato lì non viene dal Trullo.

- Ma non è detto che venga dal cielo, come la manna, - ribatté il professor Terenzio.

- Vogliamo provarlo? - propose il professor Rossi.

- Calma, calma, - disse il professor Terenzio. - Facciamolo piuttosto analizzare da un chimico. Se è di provenienza oltreterrena, conterrà qualche elemento a noi sconosciuto.

- Dunque ha paura ad assaggiarlo, - concluse il professor Rossi. - Dunque anche lei pensa che...

Il professor Terenzio picchiò il pugno sul tavolo, impallidendo: - Io non ho paura di nulla. Io parlo nell'interesse della scienza.

- Nell'interesse della scienza, - riprese il professor Rossi, - ci sono stati medici coraggiosi che si sono iniettati le più terribili malattie.

- Questa è una sfida! - tuonò il professor Terenzio.

- Lo è, - disse il professor Rossi, impallidendo a sua volta. - Ora taglieremo due pezzetti di questo presunto cioccolato e li mangeremo, e vedremo se si tratta di cioccolato terrestre o di cioccolato spaziale.

Un brivido di emozione corse per la piccola assemblea.

- Signori, - si provò a dire il generale, - non vi sembra un'imprudenza? Non posso permettere che due eminenti scienziati si sacrifichino per...

- Sono stato sfidato! - esclamò dignitosamente il professor Terenzio.

- Mia figlia, - mormorò il sor Meletti, - dice che ne avrà mangiato un mezzo chilo, che è di ottima qualità e di facile digestione.

- Bando alle chiacchiere, - disse il professor Rossi. - Si proceda all'esperimento.

Un silenzio angoscioso seguì queste parole. Trattenendo il fiato i presenti osservarono i due scienziati che, pallidi come cadaveri, guardandosi fissamente negli occhi, si preparavano a inghiottire due minuscoli dadi della misteriosa materia.

- Generale, - disse il professor Rossi, spiccando solennemente le parole, - prenda nota di quanto potrà accadere da questo istante. Forse dal nostro esperimento dipende la salvezza dell'umanità. La presenza sul nostro pianeta di invasori spaziali, a mio giudizio, è un pericolo maggiore anche dello scoppio della bomba atomica. E' con piena coscienza di questo pericolo, in pieno possesso delle mie facoltà mentali che io...

Insomma, il professor Rossi fece un bel discorsetto, e la tirava tanto in lungo che i presenti cominciarono a domandarsi segretamente: - Lo manda giù o no?

Poi toccò al professor Terenzio prendere la parola. Egli parlò del sistema solare e del cosmo, nominò Dante, Galileo, Copernico e Newton, accennò di passaggio alla differenza che passa tra l'uomo delle caverne e il professor Einstein, insomma disse cose memorabili, che vennero tutte accuratamente registrate su un magnetofono, perché non ne andasse perduta una sillaba.

Ma di nuovo i presenti furono costretti a domandarsi:

- Mangiano o non mangiano?

Forse i due scienziati si aspettavano che il generale facesse a sua volta un discorsetto di circostanza, ma il generale rimase zitto.

I due scienziati si fissarono come due spadaccini al momento culminante di un duello all'ultimo sangue e si misero in bocca il cioccolato, appoggiandolo con eroica precauzione sulla punta della lingua.

Ritirarono la lingua.

Masticarono.

Deglutirono.

Rimasero lì immobili come due busti ai giardini pubblici, per qualche attimo. Poi una smorfia si disegnò sul volto del professor Rossi. Un'altra smorfia, come da uno specchio, le rispose dal volto del professor Terenzio.

- E' cattivo? - domandò il sor Meletti, senza il minimo senso della solennità del momento.

Tutti lo zittirono con indignazione.

- Cafone, - mormorò, a parte, il generale. Poi, rivolto ai due scienziati:

- Ebbene, signori? Siamo in attesa.

- Provo, - balbettò il professor Rossi, - un certo senso di soffocazione.

- Io soffoco del tutto... - emise il professor Terenzio.

- Forse... forse è... - disse il primo.

- Veleno! - finì il secondo.

- Presto! - ordinò il generale, - a me un'autoambulanza! Bisogna portarli d'urgenza al più vicino ospedale!

- Aiuto! - gridò il sor Meletti. - Rita! Rituccia mia! Paolo! Bisogna portare all'ospedale anche loro! Presto per carità!

Il professor Rossi e il professor Terenzio, ormai, si torcevano come in preda a terribili dolori, si slacciavano il colletto con mani febbrili, si aggrappavano al generale, al colonnello, a tutti i presenti.

- Ecco, - gridò qualcuno, - ecco quello che succede quando si ha paura di ricorrere al cannone!

Ma la confusione, nella stanza, era tale che non è possibile sapere con precisione chi sia stato l'autore della storica frase.

Il professor Zeta

Mentre le autoambulanze portavano all'ospedale, tra un impressionante ulular di sirene, i due scienziati che si lamentavano pietosamente e Rita che protestava, invece, di sentirsi benissimo, Paolo si aggirava inquieto e malinconico per i campi, dove si era rifugiato per evitare guai.

Che mattinata noiosa, era stata la sua... In una vecchia cava abbandonata aveva tentato di far passare il tempo dando la caccia alle lucertole. Ma quell'occupazione, che gli pareva tanto divertente quando gli capitava di salare la scuola, gli era sembrata noiosissima. Da mangiare non aveva trovato nulla, ma a dire la verità, dopo la scorpacciata del giorno prima, non ne sentiva nemmeno il bisogno. All'udire in lontananza le sirene, pensò che fosse mezzogiorno. I suoi passi, obbedendo meccanicamente a quel segnale, lo riportarono verso il Trullo. Intanto, però, non cessava di rigirarsi nella mente l'avventura vissuta nella torta.

"Abbiamo avuto troppa fretta di scappare, - si diceva, - quel misterioso signor Geppetto, o come diavolo si chiama, non aveva per niente l'aria minacciosa. E non aveva nemmeno l'aria di un marziano. Potrei giurare di averlo visto sorridere, nel momento in cui gli voltavo la schiena".

Attraversò le strade con un po' di batticuore, nel timore che lo stessero cercando. Un compagno di scuola chiamò da un cortile:

- Non ti sei fatto vedere in tutto il giorno. Che, eri malato?

- Sì, - rispose pronto, - ma adesso sono guarito.

E tra sé concluse: "Dunque nessuno sa nulla. Basta che non incontri papà".

Si ritrovò fra i pompieri di cui aveva attraversato lo sbarramento, la sera prima, per ben due volte.

"Non c'è due senza tre, - pensò.

- Ma stavolta non sarà tanto facile".

In cima alla collina la torta non dava segno di vita. Un pompiere, interrogato da Paolo, disse che secondo lui l'ordine di assalto poteva giungere da un momento all'altro.

- Prima, naturalmente, suonerà l'allarme. Tutti i civili dovranno ritirarsi.

- Che, volete fare la doccia ai marziani? - domandò Paolo, sornione.

- La doccia la faccio a te se non giri al largo, - rispose il pompiere.

In quel momento, con un festoso latrato, comparve da chissà dove il cane della famiglia Meletti.

- Zorro! - esclamò allegramente Paolo, accarezzandolo, - dove ti eri cacciato, eh, vagabondo?

Zorro scodinzolò beato.

- Vuoi tornare lassù, eh? - mormorava Paolo, grattandogli le orecchie. - Aspetta, ora vediamo come si fa.

L'idea gli venne quando lo sguardo gli cadde su un sasso che se ne stava lì, mezzo interrato, come se qualcuno ce l'avesse messo apposta. Paolo raccattò il sasso, sorridendo dentro di sé. Aspettò che il pompiere guardasse dall'altra parte e scagliò il sasso su per la collina, con tutta la sua forza. Senza esitare, obbedendo al vecchio gioco, Zorro si precipitò in direzione del sasso, per riportarlo al padrone. Ma non era questo, che Paolo voleva. Appena il cane ebbe passato, con un guizzo, lo sbarramento, Paolo si lanciò a rincorrerlo gridando: - Aiuto, aiuto! Il mio cane! Non voglio che lo prendano i marziani! Argo, Argo!

- Vieni qua, torna indietro! - gridavano i pompieri. - Torna indietro, stupido. Vuoi rischiare la vita per un cane? Ma guarda se non è matto quel bambino. Torna indietro!

Ma Paolo pareva non avere orecchie. E Zorro, che già stava tornando verso di lui col sasso in bocca, si voltò a sua volta e corse in su, abbaiando come se avesse capito di che gioco si trattava.

- Ragazzino, torna indietro! E' pericoloso! - gridavano i pompieri. Le loro grida avevano attirato in quel punto una piccola folla.

- E' il figlio del sor Meletti, - esclamò un bambino. - Guardate, c'è qualcuno lassù!

- Il marziano! Il marziano!

- Ha rapito Paolo, guardate! Se l'è portato dentro nell'astronave!

Paolo aveva visto all'ultimo momento brillare gli occhiali del misterioso signor Geppetto, all'ingresso della galleria che lui e Rita avevano scavato nella torta. La paura lo aveva fatto vacillare per un secondo.

"Ma se sono venuto apposta per sapere chi è!" rifletté furiosamente.

Comunque fu il misterioso personaggio a decidere per lui: sporse un braccio, afferrò Paolo per la giacchetta e lo tirò dentro la galleria, scalciando per tener lontano il cane che gli si era attaccato a una gamba.

- Quek querequek perebrok! - lo sentiva borbottare Paolo, nella sua strana lingua.

- Fermo, Zorro! Sta' buono, - ordinò Paolo. Qualcosa gli diceva che poteva fidarsi di quell'ometto e delle sue intenzioni.

- Buono? Buono? - borbottò il "signor Geppetto". - Ma questo è italiano. Siamo in Italia, allora? Fa' tacere quel cane, ragazzo, e parla tu.

- Buono, Zorro. Zitto, cuccia, là! Ooooh... Sì, signore, siamo in Italia. A Roma.

- A Roma! a Roma! - ripeté il "signor Geppetto". - Bontà del cielo!

- Perché, ha sbagliato indirizzo? - domandò Paolo.

- Indirizzo?

- Voglio dire che forse la torta doveva essere recapitata in un'altra città.

- Vedo che tu mi prendi per un pasticciere. No, ragazzo mio, non sono un pasticciere: sono soltanto un pasticcione.

- Però parla benissimo l'italiano.

- Quanto a questo, posso parlare una dozzina di lingue altrettanto bene che la mia.

- Il marziano? - arrischiò Paolo.

- Il marziano? - ripeté il "signor Geppetto". - Ah, capisco. Ora capisco tutto quello schieramento di forze, i cannoni, i missili... Già, già. Non poteva succedere diversamente. I marziani, sicuro. Ci sarà un allarme. Si è pensato a un'invasione di forze provenienti da un altro pianeta. Dio mio, è la rovina! Sono un uomo finito.

Tutto assorto nella sua disperazione, lasciò che Paolo si liberasse della sua stretta per sedersi su una grossa ciliegia candita che Zorro leccava accanitamente.

- Io mi chiamo Paolo, - disse il bambino. - Mia sorella si chiama Rita. Ieri sera era qui anche lei. Adesso non so dove l'abbiano portata.

- Paolo, - ripeté il "signor Geppetto". - Scusami se io non posso presentarmi a mia volta. Il mio nome è un segreto di Stato.

- Di quale Stato?

- Anche questo è un segreto. Non devi farmi domande, perché non potrei risponderti. Del resto, credo di aver perfino dimenticato il mio nome, tanto è segreto. Chiamami professor Zeta, se vuoi.

- Allora preferisco chiamarla professor Geppetto. E' stata Rita a pensare a questo nome.

- Chi è Geppetto?

- Come, non conosce la storia di Pinocchio?

Il professor Zeta dovette confessare che non ne aveva mai udito parlare. Paolo, senza perdere tempo, gli raccontò la storia del celebre burattino. Ma il professore non lo ascoltò a lungo.

- Che cos'è tutto questo, secondo te? - domandò al bambino, con un ampio gesto della mano.

- Una magnifica torta, professore, - rispose Paolo, - la più grande, la più straordinaria che mai si sia vista. Una torta volante, più grande di tutti gli oggetti volanti che abbiano mai attraversato gli spazi.

- Una torta. Pensavo di essere impazzito, quando me ne sono accorto. Credevo di avere delle allucinazioni al cioccolato, alla crema, al pistacchio, eccetera. Purtroppo è la triste verità: questa è una torta, nient'altro che una stupida torta.

- Stupida? Triste? Ma, professore, cosa va dicendo?

- Tu non puoi capire.

- Scusi, sa, ma il cioccolato lo capisco benissimo e le posso assicurare che è di prima qualità.

- Questo è vero. Non è nemmeno radioattivo.

- Come lo sa?

- Ho il contatore, di là, nella mia grotta. Il contatore Geiger. Sai che cos'è?

- Uno strumento per misurare la radioattività.

- Precisamente. E in tutta questa immensa, balordissima torta non c'è ombra di radioattività. Ho scavato in lungo e in largo, ho esplorato una ventina di raggi, la circonferenza, la superficie, il volume. Assolutamente nulla. E' questo che mi fa impazzire.

- Abbia pazienza. Non è meglio così? Se la torta era radioattiva non era commestibile.

- Ti ripeto che non puoi capire.

- Allora mi spieghi lei.

- Ti spiegherò quel che posso. Certi particolari, naturalmente, sono coperti dal segreto di Stato, e non ne farò cenno. Posso dirti, per cominciare, che io sono uno scienziato atomico.

- Terrestre?

- Terrestre, sì. Certamente, terrestre. Ma questo lo vedi da te.

Il più bell'errore del mondo

- Circa sei mesi fa, - cominciò a narrare il professor Zeta, - ebbi l'incarico dal mio governo di studiare da un punto di vista particolare il problema del fungo atomico. Lo sai cos'è un fungo atomico?

- Lo sanno anche i sassi. E' quel nuvolone mortale che si forma dopo l'esplosione di una bomba atomica. Giusto?

- Pressappoco. Ora, come tu sai, il fungo diventa preda dei venti, che lo sospingono in qua e in là...

- Avvelenando l'aria, avvelenando la pioggia e così via. Un bel sistema per distribuire dall'alto le principali malattie.

- Rifletti, però. Gran parte della nuvola atomica si disperde nell'atmosfera e i suoi effetti mortali vanno sprecati.

- Meno male!

- Come sarebbe a dire? Ragazzo mio, tu non hai una mentalità economica. Perché sprecare quelle preziose sostanze?

- Vorrà dire velenose.

- Velenose, appunto. Il mio governo ha pensato: se riusciamo a ottenere un fungo atomico dirigibile, lo possiamo far volare nell'atmosfera a nostro piacimento; esso girerà intorno al globo, come una piccola Luna, e noi potremo farlo cadere qua o là, poi richiamarlo per aria, dirigerlo su un altro obiettivo. Con una sola bomba si otterranno gli effetti di un intero magazzino atomico.

- Che bellezza, - esclamò Paolo.

- Che soddisfazione per quelli che, dopo aver ricevuto sulla testa la bomba atomica, si vedrebbero recapitare a domicilio anche il fungo. Ma sa, professore, che voi scienziati ne studiate proprio di buone?

- Si fa per risparmiare, - rispose il professore, serio serio.

- Scusi, ma non si risparmierebbe di più se le bombe atomiche non si fabbricassero nemmeno?

- Sono cose che tu non puoi capire. E' politica. Io non mi interesso di politica. Io sono soltanto uno scienziato. Anzi, ahimè, lo ero...

- Continui, professore. Lei dunque accettò quell'incarico dal suo governo.

- Sì, e mi misi subito al lavoro per progettare il fungo dirigibile. Non sto a dirti quanti esperimenti, quanto sudore...

- ...e quanti quattrini, - commentò Paolo.

- Insomma, un mese fa credetti di aver trovato la soluzione al mio problema. Passai i disegni alla fabbrica, sorvegliai personalmente tutti i preparativi, tutte le fasi della fabbricazione della bomba che doveva servire alla grande prova. Una bomba magnifica, te lo dico io.

- Magnifica?

- Ti dico, bellissima. La più bella bomba atomica che sia mai stata fabbricata. Materiali di prim'ordine, rifiniture eleganti, un congegno perfetto. Ricordo la cerimonia dell'inaugurazione... Bandiere, coppe di sciampagna, pasticcini. Una festa commovente. Il ministro non la finiva più di stringermi le mani. A un certo punto, per l'entusiasmo, lasciò perfino cadere un pasticcino nella bomba. Sai, uno di quei pasticcini alla crema e al cioccolato. Lì per lì, ci si fece sopra una bella risata. Non era successo nulla che potesse guastare i meccanismi della bomba. Almeno, così pensavo. Ora, ahimè, non sono più dello stesso parere. Finalmente, venne anche il giorno dell'esperimento. La bomba doveva essere sganciata da un aereo e scoppiare a dieci chilometri dal suolo, anzi, dal mare. Secondo il progetto, io stesso avrei sorvegliato dall'aereo il fungo atomico, lo avrei manovrato per una mezz'ora, quindi lo avrei diretto a tuffarsi in un punto prestabilito dell'oceano.

- Quale oceano?

- Eh, no, figliolo. Non posso dirtelo. Segreto di Stato.

- L'oceano Segreto non c'è, sulle carte geografiche.

- Lasciami finire. Tutto andò bene fino allo scoppio della bomba...

- Addio quattrini!

- Ordinai al pilota di raggiungere una certa distanza dal fungo atomico e mi accinsi alla parte più importante dell'esperimento. Ma

il fungo non si formò! La nuvola atomica si condensò rapidamente, assumendo la forma di un cilindro piuttosto piatto, che rotava con lentezza su se stesso. La cosa era abbastanza strana, ma il peggio fu quando mi accorsi che l'oggetto non rispondeva assolutamente ai congegni per la teleguida da me preparati. Tentai in cento modi, da distanze diverse, da diverse quote, di dirigerlo da una parte qualsiasi. Macché: non era dirigibile. Il pilota, nervosissimo, protestava che il carburante stava per finire, che dovevamo tornare alla base, se non volevamo precipitare. Ero troppo disperato per preoccuparmi di tanto poco. Se vuoi saperlo, non mi importava nulla di precipitare: volevo prima riuscire a dirigere il fungo.

- Vorrà dire il non-fungo.

- Il non-fungo, sì. Andò a finire che il carburante si esaurì. Dovemmo gettarci col paracadute. Il pilota, più pratico di me, manovrò il suo ombrellone in modo da cadere in mare, per farsi ripescare dalla Marina. Io, invece, finii a capofitto nel non-fungo. Se avessi preso la mira, non avrei potuto fare meglio: caddi infatti, come potei constatare in seguito, proprio nel centro dell'oggetto.

- E si fece un bernoccolo al cioccolato!

- Nessun bernoccolo. Piuttosto, senza volerlo, siccome avevo la bocca aperta, mi feci una scorpacciata di panna montata. Puoi immaginare come rimasi quando scoprii che tutti i miei studi e l'importantissimo esperimento ordinato dal mio governo si erano risolti, per un banale errore, in una torta, sia pure di proporzioni gigantesche.

- Come rimase?

- Avrei voluto fare un buco e buttarmi nell'oceano, ecco come rimasi.

- Che sciocchezza, scusi. Io mi sarei sentito l'uomo più fortunato del mondo. A lei non piacciono i dolci?

- Certo che mi piacciono. Li adoro. Anche i miei bambini li adorano.

- Ah, lei ha dei bambini.

- Ne ho due, uno più bello e più caro dell'altro.

- E fabbrica bombe...

- Ti prego, non torniamo su questo argomento. Ormai è dimostrato che io so soltanto fabbricare torte. Perché la colpa è certamente mia. Il pasticcino del ministro ha certamente contribuito a questo assurdo risultato. Ma se io non avessi sbagliato a fabbricare la bomba, neanche un milione di pasticcini avrebbero potuto provocare questa balorda reazione al cioccolato.

- Ma lei dovrebbe sentirsi orgoglioso di quello che ha fatto: lei è un benefattore dell'umanità.

- Non prendermi in giro.

- E perché non ha fatto quel famoso buco per buttarsi di sotto?

- Non lo so nemmeno io. I venti hanno portato la torta, la torta ha portato me. Da mangiare non me ne mancava. Purtroppo. Avevo della carta, con me, mi sono messo a rifare i miei calcoli per trovare l'errore. Ieri sera stavo per riuscirvi, quando siete arrivati voi due. Ho seguito la vostra galleria, mi sono piazzato là per tener d'occhio la situazione. Non sapevo che la torta avesse atterrato, e tanto meno che avesse scelto proprio Roma per l'atterraggio.

- Tutte le strade portano a Roma, - ricordò Paolo. - E adesso, che cosa ha intenzione di fare?

Il professor Zeta si alzò e prese a passeggiare su e giù per la galleria, senza badare alle pozzanghere di rosolio e di menta in cui ficcava i piedi.

- Il mio dovere è di distruggere questo oggetto, perché non rimanga traccia del mio infelice esperimento.

- Distruggere tutto questo ben di Dio? Ma professore, lei è matto. Qua c'è da mangiare dolce per un anno!

- Questo è escluso. Distruggerò la torta, anzi, la farò distruggere.

- E da chi?

- E' semplice: dalle forze che la stanno cingendo d'assedio. Farò in modo, prima di tutto, da confermare la loro opinione che questa sia un'astronave extraterrestre; poi farò vedere che i marziani stanno per passare all'attacco e attirerò sulla torta un bel fuoco concentrico. I lanciafiamme faranno il loro dovere.

- Mai non sia! Senza contare che morirebbe anche lei.

- Morirò, è necessario. Non sarà la prima volta che uno scienziato si sacrifica...

- Sarà la prima volta che uno scienziato morirà in una torta, invece di mangiarsela. Ma io glielo impedirò. Non solo, ma farò sapere a tutti che razza di genio si nasconde qua dentro: il nuovo Leonardo da Vinci, capace di trasformare le bombe atomiche in torte al cioccolato. Lei diventerà l'uomo più famoso della nostra epoca. Pensi, professore, su tutte le piazze del mondo, l'umanità riconoscente le innalzerà dei monumenti.

- Desidero un solo monumento: la tomba.

- Lei è pazzo, professore, ma pensi, pensi, com'è bella la vita, e com'è dolce la torta...

- Io penso soltanto che come scienziato atomico sono disonorato per sempre. E' inutile che tu insista, Paolo. Ho già deciso. La morte non mi fa paura. Piuttosto, aiutami a mettere in atto il mio progetto.

- Neanche per sogno!

- E invece mi aiuterai. Porterai al comando antitorta un mio messaggio, che dirà così: "Da bordo dell'astronave Marte Prima ai terrestri: avete mezz'ora di tempo per gettare le armi e per consegnarci in ostaggio mille bambini. In caso contrario, allo scadere del trentesimo minuto scateneremo una scarica nucleare che distruggerà Roma in un secondo. Firmato, il comandante..." Bisogna trovare un nome adatto. Be', facciamo... "il comandante Gor". Ti sembra un messaggio abbastanza minaccioso? Naturalmente, non accetteranno mai di consegnarmi mille bambini; sarebbero dei bei criminali! Non rimarrà loro che aprire il fuoco subito, prima che scada il mio ultimatum. E sarà la fine per la torta. Finis, in latino. Ecco, ora ti scrivo il messaggio...

E il professore cominciò senz'altro a vergare con mano tremante per l'eccitazione il testo dell'ultimatum.

Giunto alla frase che riguardava il numero degli ostaggi ebbe un'esitazione.

- Mille bambini... E se dicessi duemila? Meglio, meglio duemila. Faranno più presto a sparare e la mia agonia sarà più breve.

- Non sprechi il suo tempo, - gli disse Paolo con decisione. - Non penserà davvero che io porti quel pazzesco messaggio al comando?

- Sì che lo porterai.

- E invece no. Glielo dico chiaro e tondo: no e poi no.

- Ti butterò giù dalla torta con la forza.

Il professor Zeta disse queste parole con una strana espressione. Pareva, via, che stesse per scoppiare in lacrime.

Finì di scrivere, firmò col nome bizzarro che si era scelto, controfirmò inventando lì per lì dei caratteri incomprensibili.

- Questo saggio di scrittura marziana, - disse, - li convincerà che non c'è trucco.

Piegò il foglio e lo tese a Paolo.

- A te, obbedisci.

- Altrimenti?

- Altrimenti... te l'ho detto, ti butterò giù a calci.

- Perché non prova?

Il professor Zeta boccheggiò, fece mille smorfie, ma gli si leggeva ugualmente negli occhi che non sarebbe mai stato capace di prendere a calci nessuno.

- Non mi provocare, - piagnucolò.

- Sono un uomo buono, io.

- Un uomo buono che vuol far bombardare la torta perché nessuno possa mangiarne.

- Ti prego, Paolo, fa' come ti dico.

- No.

Il professor Zeta, nel calore della conversazione, fece un brusco movimento in avanti e afferrò Paolo per un braccio. Voleva solo pregarlo più caldamente. Ma aveva dimenticato la presenza di un testimone pericoloso. Pensando che Paolo fosse in pericolo, Zorro balzò su con un ringhio e addentò i polpacci del povero professore.

- Ahi! Aiuto!

- Fermo, Zorro. A cuccia. Visto, professore? Lei non può toccarmi, non può cacciarmi via. E fin che io resto qua la torta è salva, perché lei non vorrà far morire anche me. Almeno, lo spero.

- Se non avrò scelta, - disse cupamente il professor Zeta, - butterò il messaggio con un peso, e tu morrai qua dentro, vittima della tua ostinazione. Ma non voglio arrivare a tanto.

- E io non voglio che la torta vada distrutta.

- Squik, squok, karabrok, brek brak! - cominciò a urlare nella sua lingua lo scienziato.

- Se mi parla a quel modo, la capisco anche di meno, - osservò Paolo, tranquillo.

- Squok, squek, squik...

Il monologo del professor Zeta continuò per un pezzo. Egli appariva tanto disperato che Paolo cominciò a domandarsi se non stesse perdendo la ragione. Poi Zeta si calmò, riprese a parlare in italiano, ricominciò da capo, con infinita pazienza, a convincere Paolo a portare il messaggio.

- Lasciami morire nel mio errore, - lo pregava.

- Sarebbe il più grave errore della storia, - rispondeva Paolo.

Quanto durò quella strenua battaglia? Parecchie ore, pensiamo. E non è il caso di descriverne una per una le vicende, del resto puramente verbali.

Sappiamo che a un certo punto Zorro cominciò a dar segni di irrequietudine, a rizzare le orecchie, a mugolare sordamente, fin che non si tenne più, e si lanciò abbaiando fuori della torta.

- Zorro, dove vai? - gli gridò dietro Paolo. E si affacciò lui pure sulla soglia della galleria a guardar fuori. E quello che vide lo fece scoppiare a ridere d'un riso allegro, pazzo, sgangherato addirittura.

- La situazione ti diverte? - borbottò Zeta.

- Professore, quanti ostaggi voleva?

- Mille, duemila...

- Eccoli, stanno arrivando da soli, senza bisogno del messaggio. E sono assai più di duemila...

- Ma cosa vai dicendo?

- Guardi lei stesso, professore. Venga, venga a vedere. E voi, sotto ragazzi! Arrivate in tempo!

I bambini si capiscono

Dobbiamo tornare un momento indietro, per seguire l'autoambulanza che portava all'ospedale, facendosi largo nel traffico con l'ululato della sirena, il professor Rossi, il professor Terenzio e la piccola Rita. I due scienziati si lamentavano in continuazione:

- Ohi, ohi, che dolore! - ruggiva il primo.

- Ahi, ahi, che male! Chiamatemi un notaio, voglio fare testamento, - implorava il secondo.

Gli infermieri cercavano di calmarli con parole di incoraggiamento e borse di ghiaccio sullo stomaco: Rita non credeva ai suoi occhi.

- Ma che cos'hanno?

- Hanno assaggiato un pezzettino di quel finto cioccolato dei marziani.

- Finto? O siete matti voi o sono matti loro! Era cioccolato vero, verissimo. E non era per niente avvelenato, altrimenti a quest'ora io sarei bell'e morta. Ne avrò mangiato un chilo e non sono mai stata così bene.

- Zitta, tu, cosa vuoi mai capire?

- Capirò bene se la pancia mi fa male o no. Non bisogna mica essere professori per sapere dov'è la pancia.

- Insomma, sta' zitta. Non disturbare questi poverini, vedi pure quanto soffrono.

- Questo lo vedo. Fanno come Paolo quella volta che bevve la varechina per sbaglio.

Gli infermieri rinunciarono a discutere oltre con quella piccola pettegola. Del resto l'autoambulanza stava ormai correndo nei viali dell'ospedale. Una buona dozzina di medici circondava Rita, quando il caporeparto cominciò a visitarla.

- Che cosa ti senti?

- Niente.

- Qui ti fa male?

- No.

- E qui? E in questo punto? E in quest'altro?

- No. No. Non sento proprio nulla. Ma cosa dovrei sentire? Non ho bevuto la varechina, ho mangiato solo roba di prima qualità.

- Sta' buona, sta' buona. Vedrai che ora ti passa.

- Ma cosa mi deve passare? Vi dico che sto bene. E vi dico anche, se lo volete sapere, che quella cosa là sul Monte Cucco non è un'astronave, è una torta. Domandatelo a mio fratello, domandatelo al signor Geppetto.

- Chi sarebbe questo signor Geppetto?

- Non lo so, andateglielo a domandare, chi è. Sta dentro nella torta, proprio in mezzo, e se la mangerà tutta, beato lui.

Il caporeparto si volse agli altri medici, crollando tristemente il capo.

- I signori hanno udito? La poverina delira. La sua mente malata mescola l'immagine di quel dolce fatale e le avventure di Pinocchio in una tremenda confusione. Evidentemente il veleno ha cominciato ad agire sui centri nervosi. Speriamo di poter far qualcosa. Per cominciare, direi proprio che un'iniezione calmante è indispensabile.

- Assolutamente indispensabile, - risposero in coro i dodici dottori.

Rita scoppiò in singhiozzi e cominciò a chiamare la mamma, ma per quanto si dibattesse e divincolasse dovette subire l'iniezione. Quasi subito i singhiozzi si fecero più radi e ben presto Rita si addormentò, mentre un'infermiera le asciugava le lagrime.

Altri medici, intanto, visitavano il professor Rossi e il professor Terenzio. Li visitarono in lungo e in largo, dandosi il turno ad auscultare le loro casse toraciche e a battere coi martelletti sulle loro ginocchia, per provare i riflessi. A dire la verità, però, non riuscirono a trovare molto. Del resto sia il professor Rossi che il professor Terenzio, durante la visita, scoprirono con sorpresa di non potere indicare il punto preciso in cui avvertivano quei terribili dolori.

- Qui... No, qui non mi fa male... Forse qui... No, qui no. Forse in quest'altro punto... Macché. Strano, non mi fa male nemmeno lì.

Il professor Rossi era quasi mortificato di non sentire più il dolore. Il professor Terenzio non era meno confuso di lui:

- Non so come sia, ma non sento più niente, - confessò.

- Se non si trattasse di due famosi scienziati, - disse più tardi un medico ad un collega, - sarei quasi del parere che quel dolore se lo sono immaginato.

- Già, un caso di autosuggestione. In altre parole, una gran fifa...

Per prudenza, un'iniezione calmante venne fatta anche ai due illustri pazienti, che cominciarono quasi insieme a russare.

Rita si svegliò qualche ora più tardi e immediatamente richiuse gli occhi per non vedere tutti quei dottori che dovevano essere tornati per farle qualche altra diavoleria.

"Dottori in pigiama", rifletté, subito dopo, dubbiosa. Riaprì gli occhi per controllare: non erano dottori, ma bambini e bambine del vicino reparto, che avevano invaso la sua cameretta e ora la osservavano con curiosità.

- Chi siete? Cos'è successo?

- Niente, - disse la più grande delle bambine, dondolandosi nella sua vestaglia rossa. - Siamo malati anche noi. Siamo venuti a trovarti.

- Ah, grazie, - rispose Rita. Ma la bambina dalla vestaglia non aveva finito il suo discorsetto.

- Sai, - proseguì, - abbiamo sentito quello che gridavi, quando ti hanno portata qui.

- E' vero che al Trullo c'è una pizza dolce grande come una montagna? - intervenne con impazienza un biondino con un braccio al collo.

- E' vero sì. Ma i dottori non mi vogliono credere.

- Senti, ed è buona, quella pizza?

- Vorrei che poteste mangiarne quanta ne ho mangiata io. E' la migliore della terra di sicuro. Anzi, è una pizza spaziale. E' arrivata dal cielo proprio ieri.

- Che bellezza, - esclamò il biondino.

- Che peccato, - disse la bambina con la vestaglia rossa.

- Perché, peccato?

- Peccato che non possiamo assaggiarla.

- Già, - disse Rita, sospirando. E intanto pensava: "Ah, com'è facile intendersi fra bambini. Questi mica pensano che io stia delirando. Capiscono al volo che non racconto storie, che la torta è la pura verità".

- Mi dispiace davvero, - aggiunse. - Però, quando esco ve ne porto un bel pezzo.

- E quando esci? - domandò il biondino.

- Questo non lo so, ma spero presto.

- E come fai a sapere se ci sarà ancora la torta, quando uscirai? - domandò la bambina con la vestaglia rossa. Rita non seppe cosa rispondere a quella domanda terribile. In un momento si figurò che dolore sarebbe stato per lei arrivare al Trullo e sentirsi dire da Paolo che la torta non c'era più, che i soldati l'avevano distrutta o che un temporale l'aveva spazzata via.

I bambini, ansiosissimi, aspettavano sempre che Rita rispondesse e la guardavano tutti insieme, e in ogni sguardo Rita leggeva la stessa domanda e la stessa paura. Allora non seppe resistere. Balzò dal letto e si guardò intorno cercando i vestiti. Come se le avesse letto nel pensiero, la bambina con la vestaglia rossa disse: - I vestiti li tengono nascosti in un armadio, in un altro reparto.

- Non importa, - esclamò Rita.

- Andrò così.

- Ma la sai, la strada?

- No, - rispose, - domanderò.

- Brava, così ti riporteranno subito all'ospedale. Invece io so come arrivare al Trullo facendo il giro dei campi.

Era sempre la bambina con la vestaglia rossa che parlava. Ma allora, aveva già pensato a tutto, quella lì. Pareva davvero che avesse pensato a tutto.

- Sentite, - disse infatti, - io so anche come possiamo uscire dalla parte del giardino. Venite con me e fingete di giocare a nasconderella.

- Tutti? - domandò Rita, spalancando gli occhi.

- Sì, sì, veniamo tutti, - strillò il biondino, saltando per l'entusiasmo. - Non hai detto prima che la torta è tanto grande?

- Ce n'è per tutti i bambini di Roma! - affermò Rita, quasi offesa.

- Ma allora bisogna avvertirli, - gridò ancora il biondino.

- In corridoio c'è il telefono, - disse la bambina con la vestaglia rossa, - e io ho un gettone. Telefonerò a mio fratello, e gli dirò di telefonare ai suoi amici e alle sue amiche, e ognuno di loro dovrà fare un'altra telefonata, e quelli che riceveranno la telefonata dovranno avvertire altri bambini, con tutti i mezzi, anche a voce, per le strade, davanti alle scuole, nei cortili. Sei sicura che ce ne sarà abbastanza per tutti quanti?

- Te lo giuro, - protestò Rita, mettendosi una mano sul cuore.

- Perché non facciamo fare un annuncio alla radio? - propose candidamente il biondino. Tutti scoppiarono a ridere, e non stettero nemmeno a dirgli perché ridevano.

La bambina con la vestaglia rossa corse al telefono.

- Pronto, sono Lucrezia. Sei tu, Sandrino? Stammi bene a sentire. Anzi, prendi prima un foglietto e una matita perché ti debbo dettare degli appunti importanti. Ci sei?..

- Ma cosa fa? - domandò Rita.

- Perché ci mette tanto?

- Al solito, ha pescato una matita senza punta. Pronto, Sandrino? Cosa? Adesso non trova il temperamatite. Prendi il mio, sta nella mia cartella.

- Presto, presto per carità, - imploravano i bambini, impazienti. - Se arrivano le infermiere siamo fritti.

Finalmente Lucrezia riuscì a dettare a Sandrino le sue istruzioni. Dettava come una maestra, senza fermarsi, senza imbrogliarsi mai con le parole, come se ci avesse pensato a lungo e il piano fosse tutto chiaro nella sua testa. Che testa, quella Lucrezia!

Il telefono magico

Non so se avete presente la storia del pifferaio di Hammelin, che col suo piffero magico liberò la città dai topi, e poi non gli vollero dare la sua paga, e allora ricominciò a suonare il suo piffero, e tutti i bambini della città gli andarono dietro, anche quelli che erano ancora troppo piccoli per camminare a due gambe, e lo seguirono gatton gattoni.

Qualcosa del genere accadde quel giorno a Roma. La telefonata di Lucrezia a Sandrino fece da piffero magico. Anzi, fece meglio.

Supponiamo infatti che quel famoso pifferaio di Hammelin si fosse messo a suonare il suo piffero nel bel mezzo di piazza San Pietro. Chi l'avrebbe sentito? A mala pena i pochi bambini che si fossero trovati in quel momento a giocare intorno alle fontane o all'obelisco. Forse nemmeno loro, col fracasso che fanno le automobili. Un piffero non ha molte probabilità di farsi sentire, in una città moderna.

Poi il pifferaio, per raggiungere le orecchie di tutti i bambini di Roma, avrebbe dovuto fare il giro della città. Campa cavallo! Nemmeno a camminare due giorni di fila, e di buon passo, avrebbe potuto far sentire la sua canzone in tutti i rioni del centro, in tutti i quartieri della periferia, e in tutte le borgate, e in tutti i borghetti che circondano la capitale in ogni direzione, giungendo fin quasi ai colli, da una parte, fin quasi al mare dall'altra. I bambini avrebbero finito col perdere la pazienza e l'avrebbero mandato a quel paese, ad Hammelin, insomma, nel paese delle favole, dove il telefono non esiste.

Il telefono: ecco un piffero magico adatto per una città moderna.

In meno di mezz'ora i suoi squilli, moltiplicandosi a catena, portarono la notizia da Trastevere a Torpignattara, dal Testaccio a San Giovanni, dai Parioli al Quadraro:

"Al Trullo è caduta una torta spaziale grande quanto una montagna!"

Chi riceveva la telefonata si affrettava a fare il numero di un amico, e gli comunicava la notizia; poi si affacciava alla finestra ed avvertiva i compagni che giocavano in cortile; poi scendeva in strada e si incamminava con loro alla volta del Trullo, in tram, in autobus, in bicicletta, a piedi. Improvvisamente Roma sembrò invasa dai bambini. Li vedevi uscire a gruppi dai portoni, abbandonare la palla nelle mani del vigile urbano senza protestare e mettersi a correre, qualcuno con la merenda in mano, qualcuno con la cartella. Nelle scuole Francesco Crispi i maestri del turno pomeridiano videro le loro scolaresche balzare in piedi come un solo scolaro e dirigersi verso la porta: tutto per colpa (o per merito?) di un ragazzino di terza che, mentre andava al gabinetto, si era affacciato alla finestra, e di lì aveva ricevuto il messaggio dal figlio del barista di fronte, e si era affrettato a comunicarlo ai ragazzi che aveva incontrato nei corridoi, durante la sua passeggiatina igienica.

- Dove andate? Tornate ai vostri posti! Insomma, fermi là! Volete che vi castighi tutti?

I maestri gridavano, ma non ci fu niente da fare: la scuola si vuotò in un baleno, come per l'improvvisa fine dell'anno scolastico. Rimasero a mezzo gli svolgimenti dei temi, le soluzioni dei problemi, le risposte di storia e di geografia.

- Al Trullo! Al Trullo!

La gente si voltava, incuriosita. I vigili urbani si grattavano la testa sotto il casco, perplessi. Mamme affacciate a centinaia, a migliaia di finestre, gridavano migliaia di nomi:

- Tonino! Pietro! Maria! Gilda! Oretta! Dario! Albertina!

Macché: avrebbero potuto recitare in fila tutti i santi del calendario che nessuno si sarebbe voltato a rispondere.

Cinque bambini furono visti transitare a velocità moderata su un solo monopattino. Un ragazzo dei Parioli - che è il quartiere di lusso - tirò fuori il suo go-kart e suscitò una grande invidia, perché superava senza il minimo sforzo i meno fortunati che spingevano i loro tricicli, le loro automobiline a pedali, rosse come bolidi, o scivolavano rumorosamente sui pattini a rotelle.

- Al Trullo! Al Trullo!

Molte bambine correvano saltando la corda, un po' perché avevano l'illusione di correre più in fretta, un po' perché senza la loro corda non sarebbero andate né al Trullo né altrove.

- Che c'è? E' scoppiata la rivoluzione? - domandò un droghiere, affacciandosi sulla soglia del suo negozio. - Sarà il caso che abbassi la saracinesca?

Sette ragazzi di Campo de' Fiori si fecero prestare da un cenciaiolo un carrettino a mano, per fare il viaggio più comodi: a turno, due tiravano e cinque stavano sul carrettino, e di lassù gridavano a chi li voleva sentire:

- Al Trullo! Al Trullo!

Ci furono perfino degli audaci che scesero il Tevere in barca, da Ponte Milvio alla Magliana, attraversando tutta Roma: e di là si buttarono per i prati verso il Monte Cucco, in cima al quale la torta, illuminata dal sole del tramonto, aveva preso il colore di un budino alla fragola.

La telefonata magica, come potete immaginare, era arrivata anche al Trullo. Sicché i primi a precipitarsi ai piedi della torta furono i piccoli trullesi (o forse si dice trullini, non so; forse trullalleri).

Invano pompieri, vigili, agenti, soldati a piedi ed a cavallo, sottufficiali e ufficiali si sforzavano di tenerli lontani dalla linea dell'assedio.

- Vogliamo la torta! - gridavano i ragazzini. Ma più probabilmente gridavano in dialetto: - Volemo la pizza! Datece 'a pizza!

Rita e Lucrezia, intanto, avevano condotto fuori dell'ospedale i loro compagni: ma non senza aver promesso a quanti non potevano alzarsi dal letto che sarebbero tornate a portar loro un buon pezzo di torta.

Ci fu anche qualche piantuccio, si sa.

- Portate anche me! - implorava un bambino con la gamba ingessata. - Posso correre anche con una gamba sola!

- Bravo, - gli disse Lucrezia, - così ti rompi anche quella. Sta' buono, non ti dimenticheremo.

E via a correre, con la sua vestaglia rossa che la faceva assomigliare a una grossa farfalla. Correva, accanto a lei, il biondino con il braccio al collo, gridando:

- Che fortuna avere un braccio rotto! Che fortuna!

Un ortolano, vedendo passare quel gruppo di bambini e bambine in pigiama, in vestaglia, o addirittura in camicia da notte, esclamò:

- Guardate che il Carnevale è passato da un pezzo! E tu, dove vai? Vieni qui, birbaccione, torna indietro!

Queste ultime parole erano rivolte a suo figlio, che non aveva perso tempo a pensare al Carnevale, si era informato di quel che succedeva e aveva buttato la zappa per unirsi al gruppo.

- Misericordia! - esclamò il professor Zeta, affacciandosi accanto a Paolo all'apertura della galleria.

Mille, duemila, forse tremila bambini, rompendo e scompaginando lo schieramento degli assedianti, venivano su per la collina. Grida festose risuonavano per l'aria:

- Caricaaa!

- All'assalto!

- Arrivano i nostri!

- Sono perduto! - mormorò il professor Zeta, accasciandosi su un croccante. - Non potrò più far distruggere la torta.

- E io scommetto, - disse Paolo, - che la torta sarà distrutta lo stesso.

- Che cosa vuoi dire?

- Ma professore, apra gli occhi! Cosa crede che ne faranno i bambini della sua torta? Non vengono mica su per misurare la circonferenza o per trovare l'area di base. Tempo un'ora, e quassù

non resterà una crosta di cioccolato a pagarla un miliardo.

Il volto del professor Zeta si accese come una lampadina.

- Ma certo! La mangeranno! Non ne rimarrà una briciola. Evviva! Avanti, avanti, ragazzi. Avanti che ce n'è per tutti! Buon appetito alla compagnia! Come sono stato sciocco a non averci pensato prima.

- Eh, - disse Paolo, - qualche volta anche uno scienziato può fare delle sciocchezze.

Le prime file degli assalitori erano ormai a pochi passi, e non avevano certo bisogno degli inviti del professore: nei loro occhi si leggeva la ferma, entusiastica determinazione di distruggere il nemico e di non lasciarne candito su candito. Un attimo più tardi la torta venne attaccata da tutte le parti. Un plotone di guastatori si buttò a corpo morto nella galleria scavata da Paolo e Rita. Altri, saggiamente, cominciarono a mangiare la circonferenza.

L'altoparlante di Diomede tuonava intanto: - Bambini, attenzione! Non accettate regali dai marziani! Essi vi daranno dei dolci avvelenati: non mangiateli!

Ma chi stava a sentire le raccomandazioni?

- Lasciatene un po' anche per noi! - gridavano invece i nuovi arrivati, che ancora arrancavano su per la collina.

In breve la torta apparve bucherellata come una forma di groviera. Le gallerie e i camminamenti si incrociavano a decine. Il professor Zeta si aggirava raggiante, aiutava i più deboli a staccare il cioccolato dal pavimento e a rompere le pareti di croccanti, indicava i filoni del miglior gelato, alzava tra le braccia i più piccoli perché potessero raggiungere il soffitto di panna montata.

- E' lei il marziano? - gli domandavano i ragazzi.

- Sì, sono io. Sono un marziano. Mangiate e bevete, siete ospiti di Marte.

- Viva Marte! - gridavano i ragazzi, tra un boccone e l'altro.

Ce n'è e ce ne sarà per tutti

- Qui Dedalo chiama Diomede, qui Dedalo chiama Diomede. Passo.

- Qui Diomede. Siamo in ascolto. Passo.

- Signor generale, stanno succedendo cose dell'altro mondo. Passo.

- Che ne sapete voi dell'altro mondo? Ci siete già stato? Eravate con Dante Alighieri quando scese all'Inferno? Diteci quello che vedete. Passo.

- Signor generale, non riesco a credere ai miei occhi.

- Fate uno sforzo.

- Insomma, signor generale, i ragazzini si stanno mangiando l'oggetto misterioso pezzo per pezzo. Ecco perché non li sentivamo più gridare: hanno la bocca piena.

- Volete dire che il nemico spaziale sta distribuendo pasticcini?

- Signor generale, il nemico non si vede per niente. Si vedono solo bambini: e l'oggetto spaziale si vede sempre meno, lo stanno semplicemente facendo sparire.

- Cose dell'altro mondo!

- Vede che lo dice anche lei, signor generale?

La conversazione qui trascritta si svolgeva, verso le diciotto di quella famosa sera, tra l'ufficiale esploratore alla guida di un elicottero che sorvolava il Monte Cucco e il comando dell'Operazione E.S. (Emergenza Spaziale) situato, come già sapete, nell'ufficio del direttore delle scuole. Impotente a frenare l'assalto di migliaia di ragazzini, Diomede aveva fatto alzare in volo l'elicottero per tentare almeno di tenere sotto controllo la situazione.

Generali, colonnelli, comandanti dei pompieri e dei vigili urbani, ascoltando la relazione dell'aviatore, evitavano di guardarsi, per non doversi confessare con gli occhi che non sapevano che pesci pigliare.

In quel momento si precipitò nella stanza il vigile Meletti, detto "l'astuto Ulisse", affannato e balbettante.

- Ma cosa state dicendo? - tuonò il generale, che non capiva una parola. Il sor Meletti si mise una mano sul cuore, per imporsi la calma, e finalmente riuscì a pronunciare due parole di senso compiuto:

- Mia moglie... - disse, facendosi aria col berretto.

- Be'? Ha lasciato bruciare l'arrosto? Non vi ha attaccato i bottoni alla camicia? Cosa volete che c'importi di vostra moglie, in questo momento!

- Aspetti un momento che ripiglio fiato. Mia moglie è impazzita!

- Telefonate al manicomio, e lasciateci in pace.

- Signor generale, le dico che è impazzita! E' tutta matta. Si è messa in giro per i cortili, ha radunato un migliaio di donne. Dicono che vogliono andare lassù a riprendersi i loro figli... E poi...

- Ah, non è ancora tutto?

- Adesso viene il peggio, signor generale. L'ho sentita telefonare a sua sorella che sta a Trastevere, a sua cugina che sta a Monte Mario, alla sua comare che abita a...

- Sentite, non vorrete mica recitarci tutto l'elenco telefonico? Venite al fatto.

- Insomma, ha fatto sapere a mezza Roma che i ragazzini sono tutti qui. E ormai lo sa anche l'altra mezza Roma. E da tutti i quartieri stanno arrivando le mamme. Arrivano a battaglioni, signor generale! A reggimenti, a divisioni addirittura!

- Bravo, e ci avvertite soltanto adesso?

- Signor generale, è stato l'affare di due minuti. Mia moglie, quando ci si mette, è un autentico pericolo pubblico...

- Qui Dedalo chiama Diomede. Passo.

- Qui Diomede. Che succede ancora? Passo.

- Le donne, signor generale. Hanno sfondato gli sbarramenti. Stanno dando l'assalto alla collina da tutte le parti. Sono comparse all'improvviso, come furie scatenate. Vanno su di corsa come bersaglieri, chiamando per nome i loro figli. Passo.

- C'era da aspettarselo, - commentò qualcuno, nella stanza. - Il nemico ci ha legato le mani, impedendoci ogni mossa. Quando ha cominciato ad allettare i bambini, sapeva quel che si faceva. Ora ha scatenato le madri. E così, senza aver sparato nemmeno un petardo ci

mette in ginocchio. Avremmo dovuto bombardare l'oggetto misterioso fin dal primo minuto, ecco quel che avremmo dovuto fare.

- Andiamo a vedere, - disse il generale, secco secco.

Si mossero tutti insieme, come se avessero aspettato soltanto il segnale.

- Voi no, - disse il comandante dei vigili al sor Meletti, - voi siete agli arresti. Così imparerete a sposare un pericolo pubblico.

- Ma come? Proprio io che sono corso a dare l'allarme? E poi, ci ho anch'io due figli, lassù. Avrò il diritto di...

- Siete agli arresti, e basta. E ringraziate il cielo che almeno uno dei vostri figli è in salvo, all'ospedale.

Ma Rita, in quel momento, non era all'ospedale, era in Paradiso. Rosicchiando beata un pezzo di torrone grosso come un sofà, essa riceveva le occhiate di ringraziamento che le lanciavano Lucrezia, il biondino con il braccio al collo e gli altri amici dell'ospedale. Di parlare non aveva tempo nessuno. Ma gli sguardi dicevano abbastanza. Si tenevano tutti uniti, in quella gran confusione, mangiando tranquillamente le pareti del buco in cui erano capitati, e chi scopriva una specialità di gelato, o un deposito di frutta candita lo indicava agli altri con un gesto, senza smettere di mangiare.

La confusione si fece indescrivibile quando arrivarono le mamme, urlanti e scapigliate, come se dovessero salvare i loro figli da un incendio o dal terremoto.

- Carletto! Roberto! Pinuccia! Angela! Andrea!

Strilli, richiami, esclamazioni disperate. E poi, plaff, plaff, cominciarono a volare i primi scapaccioni, via via che una mamma riconosceva il suo rampollo, coperto di crema dalla testa ai piedi.

La sora Cecilia, che andava in cerca di Paolo, capitò invece su Rita e se la strinse al petto così forte che si sentirono scricchiolare le ossa.

- Figlia mia, bellezza mia! Ma tu non eri all'ospedale?

- Sì che c'ero, guarda, - rispose Rita, additando i pigiama, le vestaglie e le camicie da notte macchiate di cioccolata e di zabajone che la circondavano.

- Buongiorno, signora, - disse educatamente Lucrezia. - Vuole un po' di torta?

- Mangia, mamma, - la esortò anche Rita. - Ti giuro che non è avvelenata. Ti ho detto mai le bugie, io?

La sora Cecilia, con qualche esitazione, annusò il pezzo di torta che le veniva offerto, e siccome era una buona massaia, e di dolci se ne intendeva, non poté fare a meno di lodare il profumo. Dopo l'approvazione dell'olfatto e della vista, venne quella del gusto.

- Toh, ma è proprio al bacio. Chi l'avrà fatta?

Insomma, anche la sora Cecilia cominciò a sgranocchiare di gusto... E lo stesso facevano ormai, tutt'intorno, migliaia di madri, tra gli applausi dei figlioletti che avevano subito dimenticato, come al solito, gli scapaccioni.

- E Paolo? Dov'è Paolo? - domandò la sora Cecilia.

Ecco anche Paolo. Era forse il solo che non mangiava. Sazio e felice si aggirava per la torta, dando la mano al professor Zeta.

- Mamma!

- Paolo, gioia mia!

- Questo è il professore che ha fatto la torta.

- Buon appetito, signora.

- Complimenti, professore, complimenti davvero. La sua torta è un capolavoro.

Il professor Zeta cominciava ormai anche lui a pensare la stessa cosa. La visione di quelle migliaia di bambini e di mamme che merendavano beatamente, all'ultima luce del giorno, gli metteva le lagrime agli occhi. Nessun esperimento riuscito gli aveva dato la felicità che gli stava procurando quell'esperimento sbagliato. E' proprio vero che qualche volta sbagliando si impara.

Calava lentamente la sera. Già un gruppetto, un altro, un altro ancora, si avviavano verso la discesa. Quasi tutti portavano grossi pezzi di torta sotto il braccio: le donne avevano pensato al marito, i bambini ai nonni, ai cani, ai gatti, ai canarini di casa. La torta non aveva più forma, ormai. La sua circonferenza si era rapidamente ritirata verso il centro, poi anche dal centro il vuoto si era fatto largo. Restavano qua e là isolotti di cioccolata, mucchietti di marzapane, laghetti di liquore.

- Prendete, prendete, - raccomandava il professor Zeta, - portate via tutto, non fatemi torto.

Ed ecco che ora venivano su dalla collina i soldati, i pompieri, i vigili urbani, i poliziotti, a prendersi la loro parte, dopo che le donne avevano mostrato e fatto assaggiare loro il tesoro che si portavano a casa.

- Avanti figlioli, - gridava il professor Zeta, - avanti c'è torta! Laggiù ne sono rimasti dei buoni quintali! Avanti, signor generale, prego, s'accomodi. Le spiegherò tutto dopo, adesso pensi alla sua signora e ai suoi bambini.

Ma questa raccomandazione era superflua: la signora e i bambini del generale si trovavano già sul posto da quel dì, e l'incontro col marito e padre fu dei più festosi.

Insomma, ce ne fu per tutti, tranne che per il professor Rossi e il professor Terenzio, che stavano all'ospedale a curarsi la paura.

Ce ne fu un grosso pezzo anche per il sor Meletti, quando la sora Cecilia, Rita e Paolo andarono a liberarlo.

Ce ne fu un pezzetto anche per me, che arrivai per ultimo, in tempo però per farmi raccontare per filo e per segno com'erano andate le cose.

E ce ne sarà per tutti, un giorno o l'altro, quando si faranno le torte al posto delle bombe.